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Il contachilometri, soprattutto i primi tempi, girava a manetta . Ogni fine settimana scappavamo dalla gente: per vedere l’alba a Esino Lario, camminare in riva al lago a Colico, considerare che sul Sasso Remenno l’ambiente era affollato, meglio cambiare meta e, guidati dal sentore del tartufo, fermarci lungo un pendio, nelle Langhe, seduti tra fili d’erba e coccinelle, poco lontano dalla casa natale di Cesare Pavese; non importa se il sole è sparito e pioviggina, è autunno, e il risotto giallo si può preparare al momento mentre Pedro corteggia una femmina nera, arrivata sullo spiazzo di Calamandrana, un balcone naturale affacciato sulle colline. Con i primi tepori, il passo si allungava più volentieri verso il mare: Genova per noi, ma anche più giù in cerca della Maremma, per un puccio nelle acque di Saturnia: l’acre odore di diavolo ha impregnato per mesi ogni angolo, fino all’assuefazione di ogni naso. Sull’altra sponda, dove la luce dell’est è più luce che altrove, si andava con percorsi a pettine, dentro e fuori dai colli che il guardo escludono, fino al mare, per lasciar correre Pedro sulla sabbia e mettere tutte le zampe sotto un tavolo di qualche ristorantino “piedi in acqua”. Dormivamo lungo la litoranea la notte del terremoto all’Aquila. Il sobbalzo anomalo, ripetuto, del camper ci ha svegliato, mentre Pedro annusava l’aria. Forse era già all’erta, non so.
Il Rodano in piena aveva allagato Arles in una notte di pioggia torrenziale, passata al riparo della tettoia di un distributore di benzina: saltava la tappa in quella città, la Camargue si è vista di passaggio, il mare era in tempesta a Saintes Marie de la Mer, dove Pedro guardava fitti stormi di gabbiani, incuriosito dai loro voli tra gli spruzzi, incapace forse di decifrare i loro linguaggi.
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