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Stile Over

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Certo, non gradivo trovarle nel panino, ma una volta finito di mangiare, le infinite varietà di formiche che popolavano la pineta di Castelfusano - piccole, grandi, nere, rosse o bicolori, aggressive o industriose - mi offrivano una gradevole distrazione fino all’ora di andare via. Mi bastava osservarle, magari disturbarle mettendo qualche ostacolo sul loro cammino o vedere come si comportavano con le briciole o i pezzetti di cibo che non mancavo mai di mettere da parte per loro. Senza formiche, in fondo, il picnic sarebbe stato assai meno divertente…

PERSICO & TROTA

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Ricordi dell’autore ambientati a Osteno, sul versante italiano del lago di Lugano, assieme all’amico Massimo: le avventure in quella particolare natura sono e rimarranno sempre lì, in un angolo del cervello

Di Marco Vittorio Ranzoni – giornalista

Dico una cosa scontata, per chi leggerà queste righe, ma felicità può essere anche aprire un libro e trovarsi subito dentro a una storia che sa di buono.

Il tutto va anche inquadrato: primavera iniziata, che permette di stare in terrazzo con un sigaro Toscano, un pomeriggio da pensionato da riempire e una spy-story che son sicuro mi piacerà . Del libro parlerò dopo : iniziato un mese fa senza finirlo, solo una decina di pagine e l’avevo mollato . Non che fosse scritto male, anzi, ma va così, ci sono periodi in cui leggo e altri no . Ma adesso mi ha “agganciato bene”, poche pagine ancora e…anzi, no, interrompo la lettura e fisso un paio di cose che se no scappano e non mi tornan più.

Ho già detto che la felicità per me è fatta di momenti, io non sono una persona solare, tendo molto alla malinconia, che non è mai infelicità vera, ma una melassa dolceamara che mi avvolge

Ho un amico che vedo poco. Anzi, che non vedo mai, ma al quale mi sento costantemente legato e che penso spesso. E falla, una telefonata ogni tanto, cosa ti costa ? Ma non serve, mi dico per mascherare la pigrizia, tanto basta un attimo ed è come se fossimo stati assieme sempre. Con lui ho trascorso molti di quegli attimi che dicevo e che compongono quel quadro di cose che val la pena di non dimenticare.

Il mio amico, che chiamerò Massimo (si chiama Massimo) è un vero “laghée”, uno nato cresciuto e vissuto sul lago che non lascerebbe per niente al mondo. Siamo a Osteno, paese sul versante italiano del lago di Lugano, terra di contrabbandieri, pescatori, tipi originali e lavoratori frontalieri . Lugano è lì, non si vede ma è quasi di fronte. La strada finisce vicino all’attracco del battello con una ripida salita che porta alle ultime case, poi solo boschi e roccia a strapiombo e poco più in là ancora il confine svizzero. Ci ho passato le vacanze per anni, in quegli anni che ti segnano perché da bambino ti sembra di diventare adulto a strappi .

Di qualche anno più grande, aveva gioco facile per diventare un mito: pescatore, cacciatore, atleta non da competizioni ma che eccelle in tutto: pallacanestro, calcio, tennis (non aveva mai giocato in vita sua, gli dico: proviamo? Dopo dieci minuti mi stracciava da fondo campo con colpi tesi, cinque centimetri sopra la rete. Un nervoso…), camminatore di montagna e umano recipiente di saggezza innata.

Ma come sempre divago. Lo spunto mi viene dal libro, ambientato proprio in quel minuscolo paesino del Ceresio, quando descrive un episodio di pesca e lo descrive molto bene, tanto che mi ha sbloccato un ricordo vivissimo. Anzi due , che il terzo lo terrò per un’altra volta.

Il mio amico aveva una barca di legno, bellissima: dura da avviare perché pesante, ma poi filava veloce e diritta; andava per persici e ce n’erano davvero tanti e grossi, allora. La pesca con la tirlindana si fa costeggiando la riva con un filo trainato dalla barca sotto la spinta costante dei remi, ma è molto difficile farla bene. Bisogna conoscere il fondale a menadito per insidiare le prede nei punti giusti e tenere la lenza sempre in tiro per non lasciare l’esca sul fondo, incagliata a un masso o a qualche vecchio rottame sommerso. Dopo aver provato a remare un po’ e perso due o tre montature di pesca senza che ciò turbasse la calma olimpica di Massimo, avevo capito che mi si addiceva di più il ruolo (peraltro superfluo, lui pescava benissimo da solo) di recuperatore di lenza: meglio lasciargli i remi. Il ricordo della sua remata calma, il suono della pala del remo che entra in acqua senza spruzzi e il leggero cigolio degli scalmi sono ancora in un angolo del mio cervello, posso richiamarli in ogni momento e sono un antistress che uso spesso.

Procedeva zigzagando, a schivare ostacoli che non vedeva, ma che conosceva bene. Tornammo con la barca piena di persici, enormi come non ne vedo più da anni , con la pinna dorsale piantata su una grande gobba.

Se non avete mai provato l’emozione di avere tra le dita una lenza con attaccato un bel pesce, avete perso qualcosa. Fa molto “il vecchio e il mare”, lo so, ma tant’è. Ore di felicità, dunque.

Sempre a Osteno c’è un orrido molto bello, che fino alla metà del secolo scorso era meta delle scampagnate dei milanesi : una guida ti portava con una piccola barca a remi nei meandri del lungo budello dove scarsa luce arrivava dall’alto. Nei primi anni ’70 era ormai da tempo caduto in disuso e l’accesso vietato.

Ma le trote nel torrente Telo c’erano, eccome, e il mio amico mi portò verso un’altra avventura. L’idea era di scavalcare l’alto cancello di recinzione con un piccolo canotto, percorrere l’orrido fin dove si poteva e pescare con la canna corta e il cucchiaino. Il mezzo gonfiabile, poco più di un canottino giocattolo giallo e blu, venne fornito - a sua insaputa - da mia cugina Anna, ma issandolo sulle punte in ferro arrugginito del cancello si squarciò subito sgonfiandosi in un attimo. Anche senza mezzo da sbarco percorremmo tutto l’orrido costeggiando la parete di roccia umida, abbarbicati ai pochi appigli delle pareti scivolose e superando passaggi che a un goffo milanese in vacanza apparivano di sesto grado, con gli stivali a tutta coscia e la canna tra i denti. Se ci ripenso capisco perché la mortalità per incidenti tra i giovani è molto più alta nei maschi. Ma catturammo una trota da leggenda, che al peso, sulla bilancia dell’amico macellaio, segnò un chilo e mezzo e ci diede gloria eterna .

E quella giornata fu di pura felicità. Non per la cugina, che ci rimase male, quando volle usare il canotto e lo trovò squarciato, ma si sa: nelle grandi imprese a volte si sacrificano degli innocenti.

Adesso mollo qui e torno al libro, che si preannuncia pieno di ricordi sovrapponibili ai miei (non tutti, per fortuna: nel romanzo ci sono un po’ di omicidi). Mi aspetto quindi altra felicità.

Se vi capita e soprattutto se conoscete quei posti, leggetelo, il libro: “La casa dell’inglese”, molto ben scritto da Fabio Pedrazzi (che stranamente non conosco, ma colmerò presto la lacuna) per i tipi di PlaceBook.

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