Gtk 5, Rivista di Psicoterapia

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dicembre 2014/05

Istituto di Gestalt Therapy Kairos

05 psicopatologia

ISSN 2039-5337

RIVISTA DI PSICOTERAPIA



Istituto Gestalt Therapy hcc Kairos Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt

In un quarto di secolo di attività l’Istituto ha contribuito in modo significativo alla storia e allo sviluppo della Psicoterapia della Gestalt, formando un migliaio circa di psicoterapeuti e intrecciando, con numerosi Enti ed Organismi sia nazionali che internazionali, molteplici e proficui rapporti di collaborazione e affiliazione volti allo scambio scientifico e alla ricerca nell’ambito specifico della psicoterapia e delle relazioni di cura. Sin dalle origini, l’Istituto è stato in contatto con i fondatori della Psicoterapia della Gestalt allora viventi - Isadore From, Jim Simkin - e ha avuto cura di intraprendere scambi didattici e scientifici con gli esponenti più illustri della seconda generazione di terapeuti della Gestalt - E. Polster, M. Polster, S.M. Nevis, Ed Nevis, R. Kitzler e altri - impegnandosi in progetti di ricerca internazionali sulla teoria e la clinica della Psicoterapia della Gestalt. L'istituto ha intessuto scambi didattici e scientifici con i più prestigiosi Istituti di Terapia della Gestalt italiani ed esteri e con le più accreditate associazioni di Gestalt Therapy nel mondo, con cui mantiene rapporti di collaborazione. Nel 2001 l’Istituto ha avviato una collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore per l’istituzione di Master di secondo livello, ad oggi 16 edizioni.

L’ISTITUTO ORGANIZZA ■ Master Universitari di secondo livello in "Percorsi di prevenzione e di cura della sessualità. La Gestalt Therapy e le relazioni interpersonali" in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Medicina e Chirurgia di Roma. ■ Master Universitari di secondo livello in “Mediazione familiare” in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Psicologia di Milano ■ Corsi ECM Educazione Continua in Medicina AFFILIAZIONI EAGT (European Association for Gestalt Therapy), NYIGT (New York Institute for Gestalt Therapy), SIPG (Società Italiana di Psicoterapia della Gestalt), FISIG (Federazione Italiana Scuole e Istituti di Gestalt), CNSP (Coordinamento Nazionale Scuole Riconosciute), FIAP (Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia). WEB www.gestaltherapy.it BLOG www.gestaltgtk.blogspot.it FORUM www.abusosessuale.forumattivo.it www.gestaltherapykairos.forumfree.it SEDI RICONOSCIUTE DAL MIUR Sicilia Ragusa / Lazio Roma / Veneto Venezia D.M. 9.5.94, D.M. 7.12.01 e D.M. 24.10.08 DIREZIONE DELLA SCUOLA E COMITATO SCIENTIFICO Giovanni Salonia Responsabile Scientifico Valeria Conte Responsabile Didattico Erminio Gius Membro del Comitato Scientifico


RIVISTA QUADRIMESTRALE ON LINE GESTALT THERAPY KAIROS Rivista di Psicoterapia Direttore Scientifico Giovanni Salonia Direttore Responsabile Orazio Mezzio Caporedattori Laura Leggio Rosaria Lisi Vice caporedattori Stefania Antoci Emiliano Strino Ufficio Legale Silvia Distefano Comitato scientifico Angela Ales Bello Vittoria Ardino Paola Argentino Eugenio Borgna Vincenzo Cappelletti Piero Cavaleri Valeria Conte Ken Evans Sean Gaffney Erminio Gius Bin Kimura Aluette Merenda Rosa Grazia Romano Antonio Sichera Christine Stevens Editing e correzione bozze Sergio Russo Progetto grafico Marco Lentini Impaginazione Paolo Pluchino Riproduzioni opere d’arte Gianluca Capozzi Stampato da Gruppo Parentesi S.r.l.

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I testi di GTK Rivista di Psicoterapia sono sottoposti ad un sistema di double blind peer-review. GESTALT THERAPY KAIROS Rivista di Psicoterapia Indirizzo per la corrispondenza: GESTALT THERAPY KAIROS Rivista di Psicoterapia Via Virgilio, n°10 97100 Ragusa Sicilia Italia Richieste: Editoriali +39 0932 682109 Abbonamenti +39 0932 682109 FAX +39 0932 682227 Email: redazione.gtk@gestaltherapy.it Website: www.gestaltherapy.it

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I was in the kitchen


INDICE

INDICE Editoriale................................................................................... pag. 7 In questo numero............................................................... pag. 11 Ricerca........................................................................................ pag. 17 Gestalt animal assisted psychotherapy: incontri eterospecifici in psicoterapia Aluette Merenda Intersezioni. La terapia della Gestalt incontra l’etnopsichiatria Michela Gecele Arte e psicoterapia........................................................... pag. 69 Poesie sul femminile Chiara Gatti Nuove applicazioni cliniche........................................ pag. 75 Da Geppetto a Pigmalione: il maschile come presenza che (si) trasforma Claudia Angelini Con te non ho paura. Per una rilettura del testo «Attacchi di panico e Postmodernità» Annalisa Castrechini L’elaborazione del lutto in psicoterapia della Gestalt Nadia Iannella Società e psicoterapia..................................................... pag.125 Now moment o finally contact? Incontri e confronti con D. Stern, amico e maestro Giovanni Salonia GTK dissemination............................................................ pag.131 Report VI CONVEGNO F.I.A.P. L’emergere del Sé in psicoterapia. Neuroscienze, psicopatologia e fenomenologia del Sé 2-5 Ottobre 2014 Riva del Garda (TN) Grace Maiorana Letture......................................................................................... pag.145 Aluette Merenda, Giovanni Salonia

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EDITORIALE

EDITORIALE GTK giunge alla sua quinta tappa come un albero ormai capace, dopo la concentrazione iniziale dell’energia e della linfa vitale, di portare spontaneamente frutti vari e colorati. Così speriamo appaia ai nostri lettori questo numero della rivista, che lascia spazio a contributi di tema e intento fra di loro diversi, ma tenuti saldamente assieme da un’epistemologia, o meglio da un pensiero della relazione intimamente gestaltico. Se con ‘epistemologia’ si esprime infatti un quadro di riferimento teorico in ambito scientifico, la parola ‘pensiero’ dice, in senso heideggeriano, l’attività fondamentale dell’esistenza, germinata dal cuore (quello che Heidegger in alto-tedesco chiamava Gedanc) e non dalla mente, generata dal corpo nella sua costitutiva connessione con il mondo e non dall’astrattezza di una costruzione concettuale soggettiva. Dire ‘pensiero gestaltico’ significa allora indicare il valore materiale, sostanziale, vorremmo dire ‘carnale’ di un ‘esserci tra gli altri’ e ‘tra le cose’ che nel suo stesso farsi – noi lo chiamiamo ‘contatto’ – è intrinsecamente creatore di pensiero, e cioè di gratitudine e di memoria. Questo pensare incarnato è l’impalcatura che regge i testi qui raccolti, frutto spesso della ricerca di studiosi nati da una nuova generazione di gestaltisti, a partire – e non è un caso – da un contribuito di Aluette Merenda dedicato alla relazione tra gli uomini e gli animali letta sul versante curativo, perché il mondo, nella sua integralità vivente, che comprende a buon diritto le piante e gli animali, è lo spazio in cui veniamo accolti e guariti. Sulla stessa linea d’onda, di una radicalità del ‘tra-esserci’ gestaltico, possono essere letti sia il testo di Michela Gecele, che apre le porte ad una forma nucleare di etnopsichiatria gestaltica, cosa in sé profondamente coerente con l’impianto di Gestalt Therapy e con la necessità di fare i conti con tutta l’ampiezza del campo, senza scappatoie o sotterfugi, senza negazioni dell’alterità culturalmente più difficile e lontana; e quello di Claudia Angelini, che porta in primo piano una riconsiderazione del maschile e del suo possibile rinnovato potere, nel contesto postmoderno, legato al dialogo e non più alla forza. Sono questioni, ci fa piacere notarlo, che

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– al di là del giudizio specifico su ognuno dei saggi in questione – proiettano la nostra rivista nell’attualità più ardente, abitata dai corpi e dalle anime di tante donne e tanti uomini sradicati, oltraggiati e spesso abbandonati ad un destino terribile, come anche dalle relazioni complesse, difficili, e molto spesso violente per mancanza di contatto e di alfabetizzazione emotiva, che rappresentano l’odierna drammatica frontiera del rapporto tra il maschile e il femminile. Per questo, c’è bisogno di modelli terapeutici plastici e innovativi: è la linea su cui si muovono il preciso saggio di Annalisa Castrechini sul panico nel postmoderno, la rilettura gestaltica dell’elaborazione del lutto proposta da Nadia Iannella, nonché l’apertura alle nuove sfide raccontata da Grace Maiorana nel suo report sul Convegno FIAP 2014 con cui si inaugura la sezione ‘GTK dissemination’. Oltre alle consuete recensioni, tre piccole perle segnano il numero 5 di GTK: la punteggiatura estetica di Gianluca Capozzi, la sensibilità e la raffinatezza delle liriche al femminile di Chiara Gatti e il ri-cordo di Daniel Stern, maestro dell’osservazione partecipe e pensante del mondo dei bambini, da cui la terapia è sempre chiamata a ricominciare per non perdersi, per rimanere capace di novità, di creatività, di autentico contatto. Ragusa, 13 Dicembre 2014

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PUBBLICAZIONI PSICOPATOLOGIA E NUOVE PRASSI CLINICHE

Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di Psicopatologia Gestaltica Autori: Giovanni Salonia, Valeria Conte, Paola Argentino Come comprendere la follia propria ed altrui? Dove cercare il motivo originario dell’umano smarrirsi? La Gestalt Therapy propone quale cifra ermeneutica di ogni esistere, nella pienezza e nello smarrimento, l’intenzionalità di contatto, ovvero l’insopprimibile bisogno di raggiungere e di sentirsi raggiunti dall’altro. I fallimenti di questa intenzionalità – inscritta e vibrante nei vissuti corporei relazionali – generano il disagio psichico nelle sue varie forme. Su questo Grundkonzept si costruisce e articola la Psicopatologia della Gestalt Therapy nei suoi vari capitoli: eziologia, diagnosi, terapia. Grazie ad una lunga esperienza di clinica, di formazione e di ricerca, gli Autori di Devo sapere subito se sono vivo presentano alcune forme di disagio psichico, coniugando, in un genere letterario immediato e toccante, la lettura del disturbo e l’intervento relazionale. Ne viene fuori un nuovo modo di guardare alla sofferenza psichica e di curarla, ma anche una diversa epistemologia della scienza e dell’esperienza terapeutica. ISBN: 978-88-6124-432-0 Pagine: 292

La Luna è fatta di Formaggio. Terapeuti gestaltisti traducono il linguaggio borderline G. Salonia (ed.)

Incontri terapeutici a quattro zampe. Gestalt Therapy e prospettiva di zooantropologia clinica Aluette Merenda (ed.)

Se un paziente dice al terapeuta: «la luna è fatta di formaggio», e il terapeuta risponde: «la luna e il formaggio sono gialli entrambi», stiamo ascoltando le parole di una rivoluzione ermeneutica e clinica. A darle inizio è stato, molti anni fa, uno dei più acuti terapeuti della Gestalt, Isadore From, quando intuì come i pazienti che usano un linguaggio borderline – perché il linguaggio è la dimora del contatto – non attendano dal terapeuta una definizione, un’interpretazione o, peggio ancora, una correzione della loro esperienza, bensì solo una rispettosa, illuminante ‘traduzione’. Tradurre vuol dire riconoscere e accogliere la diversità e la dignità dell’altro. L’intuizione di allora, approfondita a livello teorico e sperimentata in lunghi anni di pratica, è diventata un preciso, innovativo modello di cura – la traduzione gestaltica del linguaggio borderline – che viene presentato a livello di paradigmi e di verbatim. Nel serrato, concreto e critico dialogo con gli altri approcci (da Gabbard a Kernberg, dall’empatia alla mentalizzazione), emerge la novitas del modello elaborato dall’Istituto di Gestalt Therapy GTK. Il ‘giallo’ di From che connette luna e formaggio connette anche terapeuta e paziente nella loro umile e ostinata ricerca di verità nel e del contatto.

Il volume si propone di delineare il valore terapeutico degli animali d’affezione nei diversi contesti di cura, tracciandone risvolti psicoeducativi e finalità terapeutiche. Il focus si orienta verso ambiti di studio e questioni metodologiche che abbracciano l’approccio zooantropologico e la medicina veterinaria, la zooantropologia clinica e la psichiatria, l’educazione cinofila nelle famiglie attuali – con particolare riferimento ai principi della psicologia canina e alla Gestalt Animal Assisted Psycho-therapy (GAAP) –, coinvolgendo il cane, l’asino ed il cavallo come figure mediatrici della competenza emotiva dell’adulto e del bambino. La zooantropologia clinica viene pertanto a delinearsi quale sfondo di riferimento per ogni percorso teorico e clinico mirato a dare centralità all’incontro con l’altro nella sua radice che è l’intercorporeità, il sentire animale. Il volume è rivolto agli operatori dei vari ambiti disciplinari, agli studenti delle lauree triennali e specialistiche delle Scuole delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale, di Medicina veterinaria e Medicina e Chirurgia, nonché ad ogni terapeuta e ad ogni persona capace di comprendere la condizione umana.

Tra. Per una fenomenologia dell’incontro Autore: Bin Kimura Viviamo ogni giorno trasportati dall’onda inarrestabile del quotidiano. Eppure il nostro organismo è costantemente in contatto con un fondamento della vita che ci supera e ci sostiene, mentre appare al contempo strutturalmente aperto al mondo in cui accade per noi e per tutti il gioco dell’esistenza. In Gestalt Therapy il principio vitale che regge e armonizza le dinamiche dell’esserci si chiama Sé, l’istanza che esprime il nostro essere collocati al confine dell’esperienza, lì dove siamo protesi verso l’altro e incontriamo l’ambiente che ci sollecita e ci nutre. Da questo punto di vista, Tra di Bin Kimura, uno dei più noti e influenti psichiatri giapponesi, può a buon diritto essere considerato come un vero e proprio trattato di fenomenologia gestaltica, dove, con un linguaggio rigoroso e concettualmente controllato, si racconta la manifestazione del Sé nella concretezza del contatto intersoggettivo e intrapersonale. ISBN: 978-88-6124-300-2 Pagine: 160

ISBN: 978-88-6124-545-7 Pagine: 152

ISBN: 978-88-6124-495-5 Pagine: 176

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SICILIA-LAZIO-VENETO

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IN QUESTO NUMERO

IN QUESTO NUMERO

Aluette Merenda pag. 17 Psicologa, psicoterapeuta della Gestalt. Ricercatore universitario in Psicologia dinamica presso la Scuola delle Scienze umane e del patrimonio culturale dell’Università degli Studi di Palermo, è docente per supplenza di Psicodinamica dello sviluppo e delle relazioni familiari per i Corsi di Laurea in Scienze e Tecniche psicologiche, Educazione di comunità e Scienze del servizio sociale. Attualmente svolge attività clinica e, in qualità di didatta invitata, fa parte dello staff della Scuola di specializzazione in Psicoterapia della Gestalt presso le sedi di Palermo e Ragusa. I suoi principali ambiti di studio sono circoscritti al paradigma degli attaccamenti multipli, alle relazioni familiari multiproblematiche e agli Young Offenders. Più recentemente, le sue aree di ricerca si orientano allo studio delle nuove tipologie familiari e dei contesti di cura attraverso la prospettiva della Zooantropologia clinica. Michela Gecele pag. 35 Michela Gecele, nata a Torino il 1/10/1965, psichiatra, psicoterapeuta della Gestalt, supervisore e docente nei corsi quadriennali di formazione alla psicoterapia, riconosciuti dal MIUR, dell’Istituto di Gestalt HCC Italy e dell’Istituto di Gestalt hcc Kairos. È membro del Human Rights and Social Responsibility Committee of the EAGT (European Association for Gestalt Therapy). Lavora da anni nei servizi pubblici di salute mentale e per tre anni ha coordinato un servizio di supporto e prevenzione, in ambito psicologico e psichiatrico, per immigrati. Ha pubblicato numerosi articoli, capitoli e libri nell’ambito della psicoterapia, psichiatria e interculturalità. Nel 2014 ha pubblicato, con la casa editrice Forme Libere, i suoi due primi romanzi gialli, I fiumi sotto la città e La spiaggia dei ricordi morti. Chiara Gatti pag. 69 Nata a Ravenna ma attualmente residente a Cesena (FC), ha conseguito una formazione umanistica presso il liceo Classico Dante Alighieri di Ravenna e l’Università degli Studi di Bolo-

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gna (Facoltà di Lettere e Filosofia). Formatrice e mediatrice sociale ha svolto attività didattica nello sviluppo di vari progetti educativi. Socia volontaria di una cooperativa sociale ha rivestito inoltre per anni il ruolo di responsabile di redazione di una rivista di settore in campo francescano. Studi approfonditi ed interesse spiccato nei confronti del mondo classico, unitamente ad una sensibilità cristiana e francescana, caratterizzano la sua attività professionale e di volontariato fornendo, laddove possibile, un ulteriore arricchimento al proprio lavoro formativo. L’amore per la poesia, sempre coltivato negli anni, è sfociato soprattutto negli ultimi tempi in una intensa produzione poetica inedita, volta ad una profonda rilettura psichica e spirituale del proprio mondo interiore. Claudia Angelini pag. 75 Psicologa, psicoterapeuta, formata in Psicoterapia della Gestalt presso l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos, sede di Roma. Ha prestato servizio per diversi anni nell’Esercito Italiano, in qualità di Ufficiale psicologo, occupandosi di formazione esperienziale (metodologia dell’outdoor training), didattica, consulenza, selezione. Attualmente svolge l’attività di psicoterapeuta a Torino, Asti e in provincia di Alessandria. Annalisa Castrechini pag. 99 Psicologa clinica, si è formata presso l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos in cui è allieva-didatta al II anno. È Ufficiale Psicologa dell’E.I. e presta servizio nel Nucleo di Osservazione Scientifica della Personalità del Carcere Militare di Santa Maria C.V. (CE). Si è formata in psicodiagnosi, psicologia giuridica e sta conseguendo il Master in Scienze Criminologiche presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Svolge attività clinica individuale, di coppia e familiare. È relatrice in numerose conferenze e corsi di formazione. Collabora con il Centro di Psicologia Umanistica ed Analisi Fenomenologico-Esistenziale di M.F. Pacitto, ove si è formata nel metodo del Gruppo di Incontro. Nadia Iannella pag. 113 Psicologa e psicoterapeuta della Gestalt. Vive e lavora a Roma. Il contributo pubblicato nel presente numero ha vinto il concorso S.I.P.G. “L’Articolo gestaltico” (2011), pubblicato in Francesetti

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G., Ammirata M., Riccamboni S., Sgadari N., Spagnuolo Lobb M., (2014), Il dolore e la bellezza. Atti del III Convegno della Società Italiana Psicoterapia Gestalt, Franco Angeli. Giovanni Salonia pag. 125 Psicologo, psicoterapeuta, già docente di Psicologia Sociale presso l’Università LUMSA di Palermo. Insegna presso l’Università Pontificia Antonianum di Roma. Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt dell’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos (Venezia, Roma, Ragusa) e dei master di II livello cogestiti con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Didatta conosciuto a livello internazionale e professore invitato presso numerose università italiane ed estere, è stato Presidente della FISIG (Federazione Italiana Scuole di Gestalt). Ha scritto, oltre a numerosi articoli pubblicati in riviste estere e nazionali, Comunicazione Interpersonale (con H. Franta), Kairòs, Odòs, Sulla felicità e dintorni, e, come coautore, Devo sapere subito se sono vivo e La luna è fatta di formaggio, che trattano sia tematiche antropologiche che cliniche. Ha fondato e diretto la rivista Quaderni di Gestalt (19852002) e dal 2008 è direttore scientifico di GTK Rivista on line di Psicoterapia. Grace Maiorana pag. 131 Psicologa, psicoterapeuta, laureata presso l’Università di Urbino, formata in Psicoterapia della Gestalt presso l’Istituto di Gestalt H.C.C. Ha svolto il percorso di didatta in formazione e supervisore clinico presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia dell’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos. Lavora come psicologa presso una comunità per adolescenti e coordina un centro di aggregazione giovanile. Ambiti di interesse professionale sono le problematiche adolescenziali con riferimento all’area del penale minorile, la neuropsicologia clinica e la riabilitazione metacognitiva (Applicatore Programma Arricchimento Strumentale 1°-2° livello – metodo Feuerstein). Docente in Master biennali di Counseling PsicoPedagogico ad orientamento gestaltico, svolge attività clinica da libero professionista e attività di ricerca presso l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos, sede di Ragusa.

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Gianluca Capozzi Studia all’accademia di Belle Arti di Firenze. Tra il 1995 e il 1996 conduce gli studi alla Facoltà di Belle Arti di Granada, Spagna. Capozzi affronta con passione l’arte contemporanea, visitando gallerie e musei e si interessa del pensiero orientale. Nel 1999 inizia ad esporre in varie gallerie e fiere d’arte contemporanea. Tra le mostre personali più importanti: 2014 Maleventum c. Raul Zamudio, GiaMaArt studio, Vitulano (BN), Italy; 2013 The Passenger c. Raul Zamudio, Bulart Gallery, Varna, Bulgaria; 2012 Brownian Motion with Gordon Cheung, c. Francesca Referza, Velan Art Center, Turin, Italy; 2011 Noisy c. Antonella Palladino, Paolo Erbetta Arte Contemporanea, Foggia, Italy; 2010 Multipath fading c. Pier Luigi Tazzi, Warehouse gallery, Teramo, Italy; 2009 Frame Store c. Alberto Mugnaini, Artra gallery, Milan, Italy; 2007 Travel report c. Alberto Mugnaini, Artra gallery, Milan, Italy; 2005 Enjov the time Studio Nuova Figurazione, Ragusa, Italy.

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After


RICERCA

GESTALT ANIMAL ASSISTED PSYCHOTHERAPY: INCONTRI ETEROSPECIFICI IN PSICOTERAPIA Aluette Merenda «No matter how we theorize about impulses, drives, etc., it is always to such an interacting field that we are referring and not to an isolated animal»1.

1. Introduzione alla Psicologia animale comparata e alla ricerca della Zooantropologia clinica La psicologia animale comparata, quale branca dell’Etologia, nasce dal presupposto che ci sia una possibilità di comparazione dell’attività psichica interspecifica. Partendo dallo studio della capacità naturale degli animali ad apprendere, essa analizza le comparazioni psicologiche nelle specie animali. La sua metodologia comparativa consente inoltre un confronto tra il comportamento, l’istinto e la dinamica delle emozioni delle diverse specie animali, incluso l’uomo. Attualmente l’attenzione della comunità scientifica è rivolta soprattutto alla psicologia della relazione uomo-animale, quale disciplina nell’ambito delle scienze psicologiche che interessa diversi settori dell’agire psichico. Lo studio di tale relazione si orienta rispetto alle numerose variabili che la influenzano attraverso la prospettiva zooantropologica, quale modello di ricerca che individua motivazioni ed aspettative che la guidano e valorizza i benefici conseguiti da entrambi i soggetti. La Zooantropologia studia infatti quei «fattori che guidano l’uomo nell’interazione con le altre specie ed in particolare le pulsioni verso l’alterità animale, i piani e i significati della relazione interspecifica, le dimensioni comunicative che si vengono ad istaurare in tale rapporto, le conseguenze obiettivamente costatabili sulla formazione e sull’equilibrio psicologico dell’uomo»2.

1 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma, 228. 2 R. Marchesini (2005), Fondamenti di zooantropologia. Zooantropologia applicata, Alberto Perdisa, Bologna, 69.

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Il suo obiettivo è in altri termini rendere più comprensibile il nostro rapporto con l’alterità animale, epurandolo da paure, pregiudizi, proiezioni errate, aspettative improprie, manie e conseguentemente migliorandolo. Tale rapporto viene altresì configurato entro una prospettiva che guarda al processo affiliativo tra l’uomo e l’animale da compagnia (pet o animale domestico da accarezzare), in cui il pet viene affiliato al gruppo familiare, alla sfera affettiva e ad un modello d’investimento relazionale strutturato tra il proprietario (pet owner) ed il pet stesso. L’analisi zooantropologica si orienta verso la cosiddetta PetOwnership (PO): una relazione che va oltre il concetto di animale inteso come oggetto o bene posseduto e privilegia invece la dimensione della tutela, della responsabilità e della cura, afferendo alla sfera del Sé e dell’intimità affettiva. La relazione PO si caratterizza per l’intimità e la continuità del rapporto, nel quale l’owner non si limita ad usare il pet nelle sue caratteristiche di utilizzo, bensì si preoccupa di costruire corrispondenze profonde che attengono alla sfera dell’intersoggettività. Considerando come fondamentale l’attività di integrazione insita nella relazione uomo-animale, la Zooantropologia evita la strumentalizzazione e l’antropomorfizzazione dell’animale, considerato soggetto e non oggetto, partner di relazione o co-terapeuta. Da tali presupposti si rintracciano le arricchenti connessioni con l’ambito della Zooantropologia clinica. L’attribuzione di alterità implica infatti un ruolo dialogico con l’eterospecifico, i cui obiettivi consistono nel favorire l’incontro e l’affiliazione relazionale attraverso un potenziamento delle tendenze o capacità sociali e relazionali dell’animale, costruire una coppia o un gruppo di affiliazione (pet-ownership), mettere l’animale nelle migliori condizioni per relazionarsi all’ambiente umano e per integrarsi con il partner umano, favorire nell’uomo le tendenze e le capacità di interrelarsi ed integrarsi con il pet. L’animale, ovvero, non più reificato o antropomorfizzato, è inteso come un partner il cui valore sta proprio nel potenziale della sua diversità. La riconsiderazione della partnership con l’animale diventa punto focale della ricerca zooantropologica, partendo pro-

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L’analisi zooantropologica si orienta verso la cosiddetta Pet-Ownership (PO): una relazione che privilegia la dimensione della tutela, della responsabilità e della cura


Le caratteristiche di similitudine tra il legame cane-padrone e tra il bambino e la propria figura di attaccamento ci conducono agli studi sulla relazione di attaccamento sociale

prio dalla specificità del referente animale e sfuggendo dalla pericolosa dicotomia oggetto-persona e dalla trappola della zooantropomorfizzazione3. Considerando lo sfondo dei modelli evolutivi, il valore di tale partnership può inoltre riscontrarsi nella propensione di tutti i mammiferi a vivere relazioni sociali, distinguendo fra amici ed estranei. Le caratteristiche di similitudine tra il legame canepadrone e tra il bambino e la propria figura di attaccamento ci conducono agli studi sulla relazione di attaccamento sociale. Gli studi di Wilson4 e più recentemente di Grandin e Johnson5 e di Grandgeorge6 evidenziano una relazione di attaccamento cane-padrone, intesa come un legame affettivo durevole tra l’animale, che ha bisogno di essere curato e protetto, e l’uomo, che svolge la funzione di caregiver. Secondo tali studi comparativi, una serie di comportamenti, quali la ricerca di vicinanza e di contatto in assenza del padrone (espressa seguendo, graffiando, saltando sulla porta, rimanendo orientato verso la porta o verso la sedia vuota su cui era seduto il padrone), individuerebbe infatti una forte similitudine tra l’attaccamento bambino-caregiver e cane-padrone. Ad esempio, i cani posti in una situazione standardizzata7 esplorano fiduciosamente

3 Cfr. Ivi. 4 Cfr. C.C. Wilson (1998), A conceptual framework for humananimal interaction research, in C.C. Wilson, D.C. Turner (edd.), Companion Animals in Human Health, Sage, Thousand Oaks. 5 Cfr. T. Grandin, C. Johnson (2007) (ed. or. 2005), La macchina degli abbracci. Parlare con gli animali, Adelphi, Milano. 6 Cfr. M. Grandgeorge, M. Deleau, E. Lemonnier, S. Tordjman, M. Hausberger (2012), Children with autism encounter an unfamiliar pet: application of the strange animal situation test, in «Interaction Studies» 6, 13, 165-188. 7 Per analizzare il comportamento dei cani viene utilizzata una versione della Strange Situation Procedure (Ainsworth et alii, 1978) adattata alle coppie cane-padrone e denominata Strange Animal Situation Test. Tale versione si compone di 7 episodi (invece che da 8 come in quella genitori-bambini): inizia con il proprietario seduto su una sedia che ignora il proprio cane. Dopo pochi minuti, uno sconosciuto entra nella stanza e, ignorando l’animale, parla al padrone. Lo sconosciuto tenta di giocare con il cane, il padrone esce dalla stanza. Lo sconosciuto continua a coinvolgere il cane in un gioco, poi esce dalla stanza, lasciando solo l’animale. Il padrone rientra, saluta il cane e ricomincia a ignorarlo. Lo sconosciuto rientra, saluta il cane e poi lo ignora. Infine, il

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l’ambiente estraneo quando il padrone rimane con loro e poi si fermano in sua assenza, fino ad aspettarne il ritorno, analogamente ai bambini posti nella stessa situazione.

2. Gestalt Animal Assisted Psychotherapy (GAAP): l’incontro terapeutico nel qui e ora del lavoro clinico con gli animali La valenza terapeutica del rapporto con gli animali può svelarsi entro una cornice che inquadra la relazione dell’organismo con il proprio ambiente socio-culturale, animale e fisico8. Un cane ad esempio può essere un ‘oggetto transizionale’ che genera sicurezza, alleviando le nostre angosce nelle situazioni di separazione e solitudine; può rafforzare il senso della realtà, aiutandoci a vivere il mondo esterno come tale e a farci sentire parte dell’ambiente, con una chiara consapevolezza dei confini del nostro Io. Sperimentare tale rapporto, inoltre, apre al mondo emotivo, consentendoci di dare ascolto ai nostri vissuti emotivi ed altresì ai bisogni degli altri. Non sempre tuttavia si è in grado di restare coinvolti da un punto di vista emotivo ed affettivo nel rapporto con gli animali: alcune persone risultano come sorde ad esso, tendendo a razionalizzare gli aspetti emotivi, oppure rimanendo chiuse nella propria vita istintuale, mostrando difficoltà ad entrare in relazione con gli animali9. L’approccio della Gestalt Animal Assisted Psychotherapy (GAAP) ha come sfondo i principi della Gestalt Therapy. Si orienta pertanto su una prospettiva di co-creazione che valorizza la dimensione relazionale10.

padrone lascia la stanza una seconda volta. Tale procedura, ad eccezione dell’episodio in cui il cane viene lasciato da solo nella stanza con qualche oggetto o indumento che appartengono al padrone e all’osservatore estraneo, viene analizzata con gli stessi criteri usati per lo studio dell’attaccamento infantile. 8 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma, 228. 9 Cfr. F. Walsh (2008) (ed. or. 1998), La resilienza familiare, Raffaello Cortina, Milano. 10 Cfr. V. Lac, R. Walton(2012), Companion animals as assistant

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L’approccio della Gestalt Animal Assisted Psychotherapy ha come sfondo i principi della Gestalt Therapy


L’animal assistant attiva la possibilità di un insight rispetto alla qualità e alla natura del contatto in quel determinato momento presente e dentro una relazione

La comunicazione intercorporea, attiva profondi cambiamenti fino alla guarigione

Nella GT è «l’esperienza del momento presente nel contatto relazionale a rendere rilevabile la verità di noi stessi e la nostra esistenza in relazione agli altri e alle cose»11. Solitamente, si fa riferimento al contesto degli esseri umani in relazione tra loro, in settings individuali o di gruppo. La GAAP offre invece un’opportunità di incontro tra il paziente, l’animale ed il terapeuta, dove l’animal assistant attiva la possibilità di un insight rispetto alla qualità e alla natura del contatto in quel determinato momento presente e dentro una relazione: «the process of relating to a companion animal brings about the ‘natural integration of mind and body, thought and feeling, spontaneity and deliberateness of organismic self-regulation’, thus deepening the client’s awareness of their contact styles, choices, and responsibilities within the context of a relationship»12. Nell’esperienza della GAAP è attraverso il processo non verbale e corporeo attivato dagli animali che è possibile fare emergere momenti di contatto, intimi ed autentici. La comunicazione intercorporea, circoscritta nella GAAP e nella relazione paziente-animale-terapeuta, attiva profondi cambiamenti fino alla guarigione. I concetti chiave della GT del qui e ora, dell’esperienza, dell’intercorporeo, nonché la sua cornice teorica basata sui principi della fenomenologia e della teoria del campo, vengono in altri termini portati in superficie ed agiti nel setting terapeutico in cui sono presenti gli animali da compagnia. Introdurre un pet all’interno del setting e del processo terapeutico è di per sé un esperimento. D’altronde, la creatività e la sperimentazione sono gli elementi fondamentali della terapia della Gestalt in cui «l’esperimento è un modo di pensare ad alta voce, una concretizzazione della propria immaginazione, in un’avventura creativa»13. L’anima-

therapists: embodying our animal selves, in British Gestalt Journal 21, 1, 32-39. 11 J. Latner (1992), The Theory of Gestalt Therapy, in E. Nevis (ed.), Gestalt Therapy perspectives and applications, Gestalt Institute of Cleveland (GIC) Press, Cleveland, 13. 12 G. Yontef (1993), Awareness, dialogue and process: essays on Gestalt Therapy, Gestalt Journal Publications, Highland, 13. 13 J. Zinker(1978), Creative Process in Gestalt Therapy, First Vintage Books, New York, 127.

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le potrà infatti fornire nuovi ed improvvisi percorsi che, se non verranno esplorati dal terapeuta e dal paziente, non potranno risultare evidenti. La GAAP consente tale possibilità e ne sostiene lo spirito, considerando ogni momento di contatto tra il pet ed il paziente come un esperimento, in cui entrambi possono co-creare una relazione; in cui il paziente può co-creare momenti di intimità o distanza; un’unità base, infine, per proiettare, retroflettere e deflettere i propri vissuti, momento dopo momento. Partendo dalla metodologia della GT, l’approccio fenomenologico consente una dettagliata descrizione di ciò che emerge nel campo attraverso l’attivazione di tutti i canali sensoriali del terapeuta, che si astiene dall’interpretare l’esperienza che avviene con il proprio paziente (né tanto meno le risposte spontanee del proprio animal assistant), consentendo a quest’ultimo di dare un proprio significato alle interazioni con l’animale. I nostri animali da compagnia risultano peraltro eccellenti ‘modelli di ruolo’ nell’approccio fenomenologico, essendo particolarmente capaci di entrare costantemente in sintonia con il nostro respiro, la nostra energia, i nostri movimenti. In realtà, noi umani non siamo in grado di nascondere i nostri vissuti ai nostri animali, poiché essi riescono a percepire il nostro autentico stato d’animo; sono in grado di percepire (annusare) tramite l’olfatto se siamo impauriti, arrabbiati o contenti e quindi, come affermano McCormick e McCormick: «noi dobbiamo basare le nostre interazioni convenendo con onestà, mutuo rispetto e compassione. Se non lo facciamo, loro se ne accorgeranno e risponderanno di conseguenza»14. Partendo da tali presupposti, diventa possibile comprendere come gli animali siano in grado di fornire feedback immediati al paziente ed al terapeuta rispetto alle loro autentiche risposte del qui e ora del loro interagire. Questo consente una chiarezza della relazione che non sarebbe in altro modo accessibile. La creatività che gli animali portano nell’incontro terapeutico permette infatti alla seduta di diventare una «serie di piccole situazioni esperienziali che sono organicamente intrecciate tra

14 A. McCormick, M. McCormick (1997), Horse sense and the human heart, Health Communications, Deerfield Beach, 23.

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I nostri animali da compagnia sono capaci di entrare costantemente in sintonia con il nostro respiro, la nostra energia, i nostri movimenti


Gli animali istintivamente operano partendo da una posizione relazionale autentica, che favorisce l’incontro terapeutico e che consente, il verificarsi del contatto pieno

loro, in cui ogni evento svolge una particolare funzione per il cliente e contiene una potenziale sorpresa, una scoperta del tutto inaspettata da parte di entrambi, paziente e terapeuta»15. Hycner e Jacobs16 sostengono che gli animali istintivamente operino partendo da una posizione relazionale autentica, che favorisce l’incontro terapeutico attraverso un atteggiamento di inclusione, presenza, impegno nella relazione e conferma dell’esperienza del paziente e che consente, non in ultimo, il verificarsi del contatto pieno. Il contatto pieno in questo contesto può essere visto come «un processo non verbale co-creato, di unione e vicinanza tra la persona e l’animale»17. Di seguito si riportano due vignette cliniche18 che mettono in luce in modo inequivocabile la valenza terapeutica degli animali ed in particolare dei cani. In entrambe le vignette s’individua nel sistema di mediazione uomo-animale un processo di interscambio, basato sul valore di un ‘tra’ che consente gli incontri eterospecifici terapeutici.

3. Non mi farai più del male! Amelia ha 32 anni, è affetta da idrocefalia e da epilessia fin dalla nascita e presenta una sindrome schizofrenica con deliri paranoidei, associata ad un disturbo del comportamento alimentare di tipo anoressico, patologie che la famiglia ha sempre ignorato e mai del tutto considerate come disturbi mentali. Nelle sedute che condividiamo, Fey (la mia Rottweiler) è sempre presente nella stanza. È Amelia a richiederne la presenza, mentre Fey rimane sdraiata sotto la sua sedia, pronta ad intervenire (con una leccata o semplicemente porgendole la testa per essere accarezzata) nei momenti di sconforto.

15 J. Zinker (1978), Creative Process in Gestalt Therapy, cit., 127. 16 Cfr. R.A. Hycner, L. Jacobs (1995), The Healing Relationship in Gestalt Therapy, The Gestalt Journal Press, Gouldsboro. 17 B.J. King (2010), Being with Animals: why we are obsessed with the furry, scaly, feathered creatures who populate our world, Doubleday, New York, 101. 18 Le due vignette cliniche sono riportate in A. Merenda (ed.) (2014), Incontri terapeutici a quattro zampe. Gestalt Therapy e prospettive di zooantropologia clinica, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani.

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In una seduta particolarmente intensa, in cui avevo scelto di convocare la famiglia dopo la morte del padre avvenuta alcuni mesi prima e con il malessere di Amelia acuito (erano tornati i deliri, il rifiuto del cibo), Amelia entra nella stanza di terapia da sola. In realtà, scopro che la madre è rimasta in sala d’attesa, le due sorelle decidono di non venire, mentre il fratello arriverà in ritardo, bussando violentemente alla porta dello studio (una porta a vetri). In quel momento Fey, addestrata alla mia difesa personale, abbaia ed assume la sua posizione di difesa-attacco (ovvero, si interpone di solito tra me ed il presunto pericolo abbaiando e ringhiando ed è necessario che io la tenga dal collare); questa volta invece abbaia andando inequivocabilmente verso la porta e tornando da Amelia e ripetendo tale movimento per più volte in modo molto veloce. Mentre io apro la porta, è Amelia a tenere dal collare Fey, che continua ad abbaiare in modo molto agitato. Il fratello di Amelia mi chiede di potere parlare solo con me, io gli dico che essendo quella una seduta di terapia familiare poteva accomodarsi con me ed Amelia. Fey però non gli consente assolutamente di entrare. Amelia, stretta a Fey, trovando la forza ed il coraggio che in tanti anni forse le sono mancati, gli urla di uscire fuori immediatamente e di non provare a picchiarla quando lei tornerà a casa più tardi, perché avrebbe portato Fey con sé e lo avrebbe denunciato per maltrattamento e violenza domestica. In quella circostanza, vengo dunque a conoscenza di un orribile segreto familiare: Amelia viene ripetutamente presa a pugni e a schiaffi dal fratello maggiore, che usa questi rimedi per calmarla quando affiorano le sue paure ed i suoi deliri. Dopo quella seduta, sostenuta da me e da Fey che continua a starle al proprio fianco, Amelia chiederà di essere ospitata in una casa famiglia, dove si trasferirà in breve tempo e dove finalmente troverà un po’ di pace. Se il paziente è sostenuto dal corpo e dalla relazione con il terapeuta riesce a contenere la propria eccitazione ed a controllare la propria energia. In pratica, il cane nelle sue funzioni di sostegno protettivo ha dato ad Amelia la certezza di potersi fidare ed il permesso di potere osare.

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Se il paziente è sostenuto dal corpo e dalla relazione con il terapeuta riesce a contenere la propria eccitazione ed a controllare la propria energia


4. Puoi fare entrare il tuo cane nella stanza?

Da quell’incontro relazionale, imprevisto ma propizio, il setting comincia a svelarsi nelle sue caratteristiche, attivando un processo terapeutico ed assumendo le funzioni di una coterapia unica nella sua efficacia

Lucy viene nel mio studio all’età di 16 anni, su richiesta della famiglia: prima di addormentarsi deve portarsi il dito in bocca, ciucciarlo per tutta la notte e contemporaneamente iniziare a tirarsi i capelli, fino a strapparli. Dopo alcune settimane di terapia, in cui emerge inizialmente anche una fobia verso le piume dei volatili (dei piccioni, in particolare), l’atteggiamento di chiusura ed il vissuto di costrizione nei confronti della sua famiglia (e certamente anche verso di me) sembrano non trovare tregua in Lucy. Le nostre sedute proseguono ma sono caratterizzate da lunghi momenti di silenzio, in apparenza privi di significato, da interruzioni repentine con le quali Lucy chiede di finire prima del previsto l’incontro, da improvvisi impegni di doposcuola che le consentono di rinviare gli appuntamenti di settimana in settimana. Per un paio di mesi è questo il clima che caratterizza i nostri incontri. Fino al giorno in cui, dal vetro della porta della stanza del mio studio − involontariamente − Lucy e Fey s’intravedono. Sin da cucciola − già a 2 mesi d’età − mi accompagna nella vita ‘affettiva’ e anche professionale. Durante le sedute, Fey decide di rimanere libera in una parte dello studio o, come nel caso sopradescritto, di entrare con me nella stanza di terapia. Per la prima volta, Lucy si rivolge a me con una richiesta: «Per favore, puoi fare entrare il tuo cane nella stanza?». Da quell’incontro relazionale, imprevisto ma propizio, il setting comincia a svelarsi nelle sue caratteristiche, attivando un processo terapeutico ed assumendo le funzioni di una co-terapia unica nella sua efficacia. Innanzitutto la natura molossoide di Fey (i molossi, famiglia di razze canine, sono contraddistinti da un carattere sensibile e deciso, da una particolare robustezza fisica ed un forte attaccamento al padrone: i molossi si distinguono infatti per il bisogno di uno stretto contatto fisico con il proprio petowner e compagno di vita), la porta a richiedere costantemente un contatto corporeo, anche semplicemente ponendo la zampa sul piede di Lucy o appoggiandole il muso sulle gambe. Questo attiva un contesto di ‘co-creazione’ attraverso il graduale, reciproco, contatto corporeo, con mani-

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polazioni ed attività esplorative, fino a giungere a sbloccare la spontaneità e l’intenzionalità di contatto di Lucy. In termini psicodinamici, Fey aiuta Lucy − seduta dopo seduta − ad esplicitare i suoi vissuti emotivi e corporei: innanzitutto, la sua tristezza, che emerge e si esprime attraverso le lacrime prontamente asciugate dalla lingua di Fey; ma anche la sua rabbia, che inizia a canalizzarsi in un’energia manipolativa verso l’ambiente, attraverso ripetute attività di ‘tira e molla’ con il manicotto (il gioco del manicotto costituisce un’attività ludica che consente di aumentare l’istinto predatorio del cane. Attraverso questo oggetto, inoltre, solitamente composto da una tela di iuta, si attiva il gioco del ‘tiro alla fune’ che, come momento di distensione e di destressamento, consente al cane e al padrone di rafforzare la loro intesa). Gradualmente la solitudine di Lucy, stimolata dai puntuali ed ‘esatti’ richiami effettuati da Fey, tramite la sua zampa, lascia posto alla presenza e al calore, alla spontaneità e alla leggerezza. Come unica mediatrice, mi sento un’osservatrice in una corsia preferenziale ma allo stesso tempo inizio anche io a rendere attivo un setting di co-terapia, già avviato dalla mia co-partner. Il processo terapeutico si snoda e consente innanzitutto al non detto di diventare detto, rendendo esplicito il significato relazionale dei vissuti di Lucy, nei confronti di chi, finora, non è stato un caregiver adeguato nel suo ambiente primario. Mediante la dimensione dell’intercorporeità19, che guarda all’incontro dei corpi come il luogo in cui vive l’identità relazionale, si apre un lavoro sulla consapevolezza tra i nostri corpi, nel setting di co-terapia. Dal punto di vista metodologico, ad esempio, avvicinare (nella fantasia) l’oggetto fobico al paziente ha lo scopo di far prendere consapevolezza del vissuto corporeo e relazionale che l’oggetto stesso evoca. Il passaggio dall’oggetto fobico al vis-

19 Sul concetto di intercorporeità in GT si rinvia a G. Salonia (2013), Edipo dopo Freud. Gestalt Therapy e teorie evolutive. Il Pozzo di Giacobbe, Trapani; M. Merleau-Ponty (1979), Il corpo vissuto, a cura di F. Fergnani, Il Saggiatore, Milano; G. Salonia (2010), L’anxiety come interruzione nella Gestalt Therapy, in L.D. Regazzo (ed.), Ansia, che fare? Prevenzione, farmacoterapia e psicoterapia, CLEUP, Padova, 233-254.

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I pensieri disfunzionali, originati da un’interruzione di un processo respiratorio nel suo senso corporeo-relazionale, diventano adesso pensieri liberi dai vissuti di paura

suto permette in altri termini al corpo del paziente − sostenuto dal corpo e dalla relazione del terapeuta − di consapevolizzare e riuscire a contenere l’eccitazione e l’energia che evita. In particolare, con gli adolescenti si rivela molto utile la metafora dell’accostamento all’oggetto fobico con una ‘bacchetta magica’, metafora della forza e del potere che l’Organismo sperimenta con difficoltà20. Analogamente, quando chiedo a Lucy di immaginarsi in presenza del suo oggetto fobico (i piccioni con le loro piume), usando la bacchetta magica e scegliendo qualcuno nella sua vita attuale che possa starle vicino per darle sostegno, lei non esita a ricorrere a Fey! La chiama a sé ed inizia a lasciarsi andare, sperimentando la sensazione di ricevere calore, nel e dal suo corpo. Gradualmente, si ripristina la fiducia di base attraverso un fidarsi corporeo − tra Lucy e Fey − e un dare significato relazionale all’esperienza, in un ambiente triadico in cui Lucy è l’elemento terzo che attiva un coppia co-genitoriale (o co-terapeutica, formata da me e Fey). Riguardo alle fobie di animali (come fobie monotematiche), secondo la prospettiva della GT, può inoltre risultare funzionale chiedere alla persona di identificarsi con l’animale di cui si ha paura, compiendone i gesti tipici, poiché spesso, proprio nella descrizione dell’oggetto fobico, il paziente esprime i vissuti di cui ha paura: «la fobia è fobia di ciò che non faccio, non esprimo»21. In realtà, infatti, Lucy non ha di per sé paura dei piccioni ma delle sensazioni provocate dal loro sbattere le ali e dallo sfregamento (descritto come irritante e disgustoso) delle loro piume su di lei. Assecondando questa modalità, Lucy inizia a muovere le braccia, quasi imitando il battere delle ali, in un volo che le dà respiro e la prepara a lasciarsi andare al fluire delle sue emozioni incompiute e non adeguatamente sostenute dall’ambiente primario. I pensieri disfunzionali, originati da un’interruzione di un processo respiratorio nel suo senso corporeo-relazionale, diventano adesso pensieri liberi dai vissuti di paura.

20 Cfr. G. Salonia (2011), L’angoscia dell’agire tra eccitazione e trasgressione. La Gestalt Therapy e gli stili relazionali fobico-ossessivo-compulsivi, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 1, 19-57. 21 Ivi, 47.

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Rispetto invece alla modalità (di tipo ossessivo-compulsiva) del succhiare il dito prima di addormentarsi, il setting rievoca il ricordo della paura non contenuta dall’ambiente primario e anzi trasformata in terrore. Per Perls i pensieri ossessivi rappresentano proprio un succhiotto che «permette lo scarico di una certa dose di aggressività, ma non produce nessun cambiamento nel bambino, cioè non lo nutre»22. Proprio mediante tali pensieri e modalità, disfunzionali e dolorose, Lucy ha potuto prendersi cura di se stessa con una forma di attaccamento (a se stessa) che evita il rischio di un cambiamento nelle relazioni, bloccando la paura della separazione che è nel suo sfondo ed esercitando un eccessivo controllo della sua aggressività, vissuta come un’energia emozionale che la terrorizza. L’assenza o l’interruzione di cura da parte delle figure genitoriali sembra avere generato una difficoltà nel controllo spontaneo dei propri vissuti: dopo avere ricevuto il primo sostegno, Lucy, da primogenita, è stata infatti ‘messa da parte’ dalla nascita della sorella, avvenuta quando lei compiva il terzo anno di età. Come se, successivamente a quell’evento, le sia mancato quel sostegno specifico nel lasciarsi andare fino in fondo al fluire delle sue emozioni. E, come afferma Salonia, «l’assenza di sostegno, se non trova soluzione, lascia il posto ad un’angoscia di morte (morte propria, ma anche morte delle persone care indispensabili), che travolge»23. La paura di fondo di Lucy è proprio quella di separarsi e di avere emozioni proprie, con il rischio di essere messa da parte, ancora una volta. Il vissuto corporeo-relazionale che Lucy tiene segreto è il terrore: il terrore di sentire l’energia attivata nel corpo, dell’azione che porta all’emozione, di separarsi e trasgredire. Dare sostegno al suo corpo impaurito (come riaprire la possibilità di una respirazione che scorre spontanea verso il compimento dell’intenzionalità di relazione) è stato allora innanzitutto il primo passo co-terapeutico. Attraverso il lavoro corporeo si è attivato un percorso di consapevolezza come capacità

22 F. Perls (1995) (ed. or. 1942), L’io, la fame e l’aggressività, Franco Angeli, Milano, 146-147. 23 G. Salonia (2011), L’angoscia dell’agire tra eccitazione e trasgressione, cit., 36.

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La paura di fondo di Lucy è proprio quella di separarsi e di avere emozioni proprie, con il rischio di essere messa da parte, ancora una volta


Il suo schema corporeo, prima quasi rimpicciolito, si apre alla novità, ad un nuovo corpo che le consente il ‘lasciarsi andare con’, toccando un corpo adesso vissuto

di identificarsi con un’intenzione non chiara e non espressa. Il gesto di strapparsi i capelli, simile ad una compulsione di contenimento, pare rivelare l’intensificarsi della paura di non sapere controllare un’intenzione. In tal senso, l’azione compulsiva di Lucy blocca la sua spontaneità e ha la funzione di accrescere il controllo su quelle emozioni percepite come distruttive. Quando chiedo a Lucy di ripetere il gesto di tirare i capelli, che automaticamente attiva quello di mettere il dito in bocca, la sua tensione muscolare ed il suo sguardo impaurito che cerca conforto lasciano spazio ad un gemito che Fey immediatamente avverte e contiene, poggiando il muso sulla bocca di Lucy fino a toglierle la mano dalla testa, già serrata ai capelli. Rimanendo alle sue spalle, Fey inizia inoltre a leccarle le lacrime, che lentamente stanno scivolando sul viso di Lucy, e a mitigarne i singhiozzi. Dopo un lungo abbraccio (adesso nella triade), finalmente il corpo di Lucy sente la propria energia, iniziando a fidarsi dell’ambiente sperimentato in seduta, non tentando più di tenerla sotto controllo. Il suo schema corporeo, prima quasi rimpicciolito, si apre alla novità, ad un nuovo corpo che le consente il ‘lasciarsi andare con’, toccando un corpo adesso vissuto. Secondo la prospettiva della GT risulta importante distinguere il corpo ‘visto’ da quello ‘vissuto’: mentre il primo rientra nel criterio valutativo, per cui il corpo viene immaginato in base a ciò che si vede (ad esempio: la mia mano non mi piace perché è grande!) o in base alla sua funzionalità (ad esempio: un corpo che danza immaginato in funzione del movimento), il corpo vissuto (o abitato) fa invece riferimento ad un aspetto puramente fenomenologico, in cui il concetto di bellezza è legato al modo di percepire il proprio corpo (ad esempio: sento la mia mano morbida; se ho questa percezione della mano, la vedo e so anche come si muove)24.

24 Per ulteriori approfondimenti si rinvia a G. Salonia (2008), La psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero, Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano.

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5. Riflessioni conclusive Le riflessioni conclusive su tale approccio implicano innanzitutto delle considerazioni etiche che riguardano le terapie assistite con gli animali. La GAAP viene condotta con i propri animali da compagnia, valutando i rischi del loro inserimento e selezionandoli rispetto ai bisogni e alle aspettative dei pazienti. La sua applicazione presuppone pertanto che il terapeuta abbia le competenze specifiche per lavorare con il proprio animale, sapendone riconoscere le caratteristiche comportamentali, il temperamento, il livello di training, la forza fisica e la capacità di tollerare anche quegli umani che non hanno alcuna esperienza con gli animali25. Come afferma Bond26, è basilare riconoscere il valore terapeutico di ogni intervento ed avendo la GAAP un approccio prevalentemente corporeo è altresì importante avere chiaro il proprio processo corporeo27, nonché quello del paziente. Ulteriori considerazioni etiche riguardano la salvaguardia ed il benessere degli animali: il loro benessere, sia psichico che fisico, rappresenta infatti l’elemento essenziale del processo terapeutico della GAAP. L’impatto del lavoro terapeutico sugli animali non va mai sottovalutato. Per evitare potenziali traumi e per smaltire gli effetti della seduta è importante fare riposare l’animal assistant tra una seduta e l’altra (ad esempio portandolo a fare una lunga passeggiata) e non prolungare i tempi degli incontri. Si sceglie di concludere questo contributo riportando le parole di Tessa (una paziente che ha potuto affrontare il proprio trauma attraverso la mediazione di Carlomio, un Pastore Maremmano): «Ti dico una cosa: Carlomio non è un cane. Non è un cane che protegge le pecore, come dici tu. Per me è un grande terapeuta, più grande del dottor Freud!».

25 Cfr. GEIR (2011), Code of Ethics, Gestalt Equine Institute of the Rockies, Golden. 26 Cfr. T. Bond (1993), Standards and ethics for counselling in action, Sage Publications, London 1993. 27 Cfr. J.I. Kepner (1987), Body process: a gestalt approach to working with the body in psychotherapy, Gestalt Institute of Cleveland Press, Cleveland.

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Ti dico una cosa: Carlomio non è un cane. Non è un cane che protegge le pecore, come dici tu. Per me è un grande terapeuta, più grande del dottor Freud!


BIBLIOGRAFIA

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Yontef G.(1993), Awareness, dialogue and process: essays on Gestalt Therapy, Gestalt Journal Publications, Highland. Walsh F. (2008) (ed. or. 1998), La resilienza familiare, Raffaello Cortina, Milano. Wilson C.C. (1998), A conceptual framework for human-animal interaction research, in Wilson C.C., Turner D.C. (edd.), Companion Animals in Human Health, Sage, Thousand Oaks. Zinker J. (1978), Creative process in Gestalt Therapy, First Vintage Books, New York.

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Abstract Obiettivo del presente lavoro è delineare un approccio di studio e di ricerca che individua nel sistema di mediazione uomo-animale un processo di interscambio basato sul valore della relazione eterospecifica. Partendo dai presupposti della Zooantropologia clinica – disciplina che studia l’interazione uomo-animale dando valore alla dimensione relazionale ed evitando applicazioni antropocentriche – integrati al modello della Gestalt Animal Assisted Psychotherapy (GAAP) si configura un approccio focalizzato sul ‘tra’ di ogni incontro eterospecifico, tentando di rilevarne i significativi risvolti clinici.

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Kennedy (particolare)


RICERCA

INTERSEZIONI. LA TERAPIA DELLA GESTALT INCONTRA L’ETNOPSICHIATRIA Michela Gecele Introduzione

Per avere un approccio interculturale, la psicoterapia della Gestalt deve confrontarsi non solo con i mondi degli ‘stranieri’, ma anche con chi quei mondi li ha osservati e studiati

Definiamo l’etnopsichiatria come una modalità per interrogare gruppi, società e culture sui loro meccanismi di definizione e costruzione della malattia e sulle forme di cura

Intercultura, etnopsichiatria, alterità, relazione, campo, contesto, contatto, politica? Di cosa parliamo in questo scritto? Di psicoterapia della Gestalt, che tutto questo interseca, presuppone, implica, forma. Quanto deve essere diverso l’altro per essere altro? E quanto questa variabile, imprevedibile differenza sfida e mette in crisi il nostro essere terapeuti? Di che strumenti abbiamo bisogno per capire un immigrato, o per decifrare quanto avviene in un altro continente? Ci è sufficiente essere umanamente empatici? O, viceversa, arrivando all’estremo opposto, dobbiamo imparare tutto su ogni specificità culturale? Per avere un approccio interculturale, la psicoterapia della Gestalt, che già ne ha tutte le potenzialità, deve confrontarsi non solo con i mondi degli ‘stranieri’, ma anche con chi quei mondi li ha osservati e studiati. Mille sono i rivoli nel lavoro interculturale, ma un confronto per noi primario è quello con etnopsichiatria ed etnopsicologia, come con l’antropologia culturale. Attualmente, definiamo l’etnopsichiatria principalmente come una modalità per interrogare gruppi, società e culture sui loro meccanismi di definizione e costruzione della malattia e sulle forme di cura1. Per conoscere gli altri, quindi, ma anche per imparare da loro. Possiamo anche aggiungere che un effetto collaterale è imparare di più su di noi. Le origini dell’etnopsichiatria sono discutibili e discusse. E forse è un bene che sia impura e che nella sua storia si porti dietro anche macchie del periodo coloniale. A noi interessano le sue

1 Cfr. P. Coppo (1996), Etnopsichiatria, Il Saggiatore, Milano; R. Beneduce (1998), Frontiere dell’identità e della memoria, Franco Angeli, Milano; Id. (2007), Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura, Carocci, Roma.

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risorse, ma anche i suoi errori, che sono comunque espressione di un contesto e di un periodo storico. Parlare di questi temi è un continuo gioco di specchi, di metalivelli che ricadono sull’esperienza. Come il Sé, la cultura è un processo. È il continuo incontro con il diverso, e poi la sua trasformazione e assimilazione. È sfondo ed è figura; è plasmata dalla storia, dalle esperienze di vita, dalla memoria. È importante conoscerla, conoscere il nostro sfondo, cercare di trasformarne gli introietti attraverso un processo di assimilazione, scegliere cosa accettare e cosa rifiutare, capire cosa è difficile lasciare, perché troppo intrinseco alla nostra storia. La cultura viene creata in ogni incontro, rinegoziata e ridefinita in ogni ciclo di contatto in cui siano coinvolte almeno due persone che abbiano differenti sfondi culturali − e quale incontro non corrisponde a questa definizione! È creata al confine, ai confini, nelle periferie. Parlando di culture non ci riferiamo solo a coordinate spaziali, ma anche a processi temporali, come sempre quando sono implicate le dinamiche relazionali. Ci colleghiamo alla storia, e quindi a stratificazioni di significati, dinamiche di potere, codificazioni di testi culturali, di visioni di sé e dell’altro. Possiamo però anche dire, in apparente contraddizione, che la cultura è la fotografia di un istante, e che parlandone facciamo riferimento a qualcosa che non esiste più. Ci troviamo già in uno degli istanti successivi, in cui gli infiniti elementi in gioco hanno assunto una forma diversa, come in un caleidoscopio, le cui possibili immagini sono infinite. Nello studio di una cultura emerge più facilmente l’aspetto di insieme e meno i dissensi e le peculiarità individuali. Il dissenso è, però, interno a ogni cultura, come polarità emergente o nascosta, anche se noi spesso non consideriamo che in società altre esiste l’individualismo. Cultura è sia categoria emozionale − modo di esprimere l’affettività dell’incontro e il pensiero su di esso − sia sistema, che contiene e ingloba anche l’autocritica. Ed è questa dualità ad interessarci. In questa cerniera ci inseriamo. Non esiste un significato unico e condiviso del termine cultura; ma sappiamo che l’uomo è un essere più culturale che naturale. Vediamo infatti che dove la cultura si dissolve, l’uomo resta

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Come il Sé, la cultura è un processo. È il continuo incontro con il diverso, e poi la sua trasformazione e assimilazione. È sfondo ed è figura; è plasmata dalla storia, dalle esperienze di vita, dalla memoria

La cultura viene creata in ogni incontro, rinegoziata e ridefinita in ogni ciclo di contatto


Cultura è sia Es sia Personalità. Se si rompe, si perde, si frammenta, l’Io si disorienta

L’attenzione della psicoterapia della Gestalt agli sfondi è una chiave importante per l’attenzione all’intercultura

Mille sfondi diventano sfondo in una relazione!

nudo2. Cultura è sia Es sia Personalità. Se si rompe, si perde, fsi rammenta, l’Io si disorienta. Partiamo da qui, per affrontare la diversità come già sappiamo fare, con una visione fenomenologica che si sposa con la consapevolezza esperienziale del campo, dei fenomeni al confine di contatto, della novità e della crescita. E, nel procedere, continuiamo a identificare due polarità, continuamente intersecantesi: quella sociale-politica e quella fenomenologica-relazionale. Iniziamo ad individuare anche dei fili rossi da dipanare lungo questo piccolo percorso. Quelli dell’esperienza migratoria, dell’alterità/novità, di un’attenzione ‘clinica’ all’altro e all’immigrato. Quest’ultimo filo poi si sdoppierà, definendo uno sguardo anche su noi stessi. Un ‘altro’ che, a specchio, diventiamo noi stessi. Con queste tematiche, il pre-contatto deve essere lungo, per evitare facili scorciatoie, che porterebbero a vedere l’altro come oggetto di osservazione e non come affine compagno in umanità. Per questo, solo alla fine approderemo a qualche piccola indicazione clinica, che ci può orientare specificamente nel lavoro con gli immigrati, per poi guardare lo specchio, guardare noi stessi. L’attenzione della psicoterapia della Gestalt agli sfondi è una chiave importante per l’attenzione all’intercultura. Uno sfondo non è mai statico, ma nutriente nella misura in cui è ricco e in evoluzione. Attenzione alla complessità e alla stratificazione del presente, quindi. Consapevolezza che nel qui e ora della relazione, che è il contatto, si toccano, avvengono e si modificano storie e mondi. Mille sfondi diventano sfondo in una relazione. Ricordiamoci di questo quando, nel paragrafo sulla clinica, leggeremo un esempio portato dall’etnopsichiatra Tobie Nathan. La psicoterapia della Gestalt ci parla sia dell’appartenenza sia del ritorno ai confini, della pienezza dell’incontro, come della nitidezza di ruoli e storie. Splendida chiave di lettura per tutte le vicende umane, che sempre sono culturali e interculturali.

2 Cfr. F. Remotti (2013), Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, Roma-Bari.

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1. Contesti, società, politica L’altro, il nuovo, il diverso, mette in discussione a tutti i livelli, dalla relazione duale ai processi sociali più ampi. Mette in discussione i presupposti che diamo per scontati nel nostro quotidiano procedere, l’ordine sociale che ogni società si dà. Cos’è l’ordine sociale, la struttura di una società? È il risultato di tagli ed esclusioni. Tagli di possibilità, di modalità relazionali, sociali, del pensare e del sentire. Ma è anche guida, suggerimento, codificazione. Per evitare il caos delle molteplici possibilità o del nulla umano, per avere dei punti fermi che consentano la vita. «Le culture proteggono dall’uniformità e, contemporaneamente, proteggono dal caos. Sono implicate le coordinate valoriali, i modi di leggere, costruire e dare senso alle esperienze e alle fasi della vita, i meccanismi che proteggono dal vuoto del tempo non strutturato e limitano le possibilità che questo vuoto risucchi il singolo. Le società e le culture sono fonti e depositarie di molti introietti, che comprendono norme, valori, definizioni dei rapporti sociali. Possono, però, prevedere, al loro interno, anche lo scioglimento temporaneo di questo impianto strutturale»3. La prospettiva etnopsichiatrica, con il suo interrogare gruppi e società, parte da un livello macro, da una dimensione politica, andando solo successivamente a un livello relazionale e personale. Per noi questo stesso processo può essere bidirezionale. Sappiamo che nella psicoterapia della Gestalt l’attenzione al contesto è sempre stata presente, fin dalle origini. La consapevolezza si configura non solo come consapevolezza della relazione ma come consapevolezza del campo allargato. Il rapporto con la novità non determina solo la crescita al confine di contatto duale, ma riguarda tutta la società, le società,

3 M. Gecele (2011), Fenomenologia e clinica dell’esperienza maniacale, in Francesetti G., Gecele M. (edd.), L’altro irraggiungibile. La psicoterapia della Gestalt con le esperienze depressive, Franco Angeli, Milano, 209.

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L’altro, il nuovo, il diverso, mette in discussione a tutti i livelli, dalla relazione duale ai processi sociali più ampi


Dalle sue origini, l’etnopsichiatria è un’intersezione fra discipline, prima di tutto l’antropologia culturale e la psichiatria

Con l’etnopsichiatria ci troviamo davanti a un’intersezione di saperi, di discipline sociali, nella continua relativizzazione di saperi e discipline sempre più ‘deboli’ e per questo sempre più interessanti

l’essere messi in discussione da chi arriva da fuori ed è esterno ed estraneo. Dalle sue origini, l’etnopsichiatria è un’intersezione fra discipline, prima di tutto l’antropologia culturale e la psichiatria. Troviamo poi il suo punto chiave e critico nel rapporto con le ideologie e con la politica: nel periodo coloniale in un modo, nel tempo e oggi in altri. Per il colonialismo, la cultura era un sistema chiuso, e la psichiatria transculturale, quanto meno attraverso alcuni suoi esponenti, aveva sposato quell’idea cristallizzata e razzista, ne era anzi stata alimentata4. Nata proprio da un bisogno di giustificazione scientifica da parte dei dominatori, da un bisogno di ulteriori strumenti per distanziare l’altro e per renderlo intellegibile, semplificato, malleabile. Esemplificativa di questo è la questione dei test psicologici e l’esperienza fallimentare del loro utilizzo con persone di altre culture e contesti. Persone in una situazione di sudditanza materiale e psicologica, che non ne condividevano premesse, senso e immaginario. Arrivando fino alla critica di Frantz Fanon5, per cui il mondo immaginario può essere esplorato solo se il mondo reale ci appartiene6. Con l’etnopsichiatria, più che di fronte a una disciplina ci troviamo davanti a un’intersezione di saperi, di discipline sociali, nella continua relativizzazione di saperi e discipline sempre più ‘deboli’ e per questo sempre più interessanti. D’altra parte, è proprio in questa intersezione che è più facile oggi trovare risposte per le questioni intorno all’uomo, o almeno porre buone domande. Gli aspetti politici e ideologici, così espliciti e palesi nell’etnopsichiatria e nella sua storia, tolgono a noi terapeuti, a noi gestaltisti, una sorta di possibile ingenuità, ci riportano al peso di una storia di potere fra l’Occidente e ‘gli altri’, gio-

4 Cfr. R. Beneduce (2007), Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura, cit. 5 Cfr. F. Fanon (1996), Pelle nera maschere bianche. Il nero e l’altro, Marco Tropea, Milano. 6 Interessante ed esemplificativa, a questo proposito (anche se in uno scenario diverso), è la scena del film Nuovo mondo (del regista Emanuele Crialese), in cui neo-emigrati verso gli Stati Uniti devono sottoporsi a test psicologici per potere entrare nel paese. L’occhio del regista capovolge il punto di vista e a risultare inadeguati e ridicoli non sono gli esaminati, ma gli esaminatori.

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cata anche con i nostri strumenti, quelli della diagnosi e della cura. Sapere questo ci dà anche ulteriori elementi clinici e di riflessione nel confronto con altri sistemi psicologici. Dobbiamo cioè, se non schierarci in un’anacronistica visione esclusivamente ideologica, almeno non dare per scontati i nostri strumenti, ‘masticando’ il nostro sapere e la relativa visione del mondo. Riflettere sui sistemi di cura è anche riflettere sulla produzione del consenso politico e sociale, su come questo plasmi le forme del disagio; è interrogarsi sul come l’etnopsichiatria sia una disciplina di confine, un metodo, più che un insieme di conoscenze. La psichiatria e la psicologia diventano così discipline caratterizzate da una strategia critica e autoriflessiva, rivolta a indagare ciò che c’è ‘dietro’, prima, dopo e durante la malattia, cioè le matrici sociali e politiche del malessere e della cura, l’ideologia dei dispositivi terapeutici e delle nostre categorie psichiatriche, il loro grado di applicabilità ad altre società7. Tobie Nathan8 ci provoca nel suo dire che, imparando da altri sistemi diagnostici e terapeutici, dovremmo mettere al centro dell’analisi il guaritore/terapeuta. È lui(noi) a dover rispondere delle proprie scelte e competenze, non il malato/ sofferente, che dovrebbe invece rimanere parte di una società, che, in toto, interroga e valuta l’operato dell’esperto. Un tema utile e importante da percorrere nel confronto con l’etnopsichiatria e con la psicologia interculturale è quindi quello della diagnosi. Partendo dalle nostre riflessioni sulla diagnosi e sul contesto possiamo, come gestaltisti, aprirci alle questioni poste dall’etnopsichiatria, possiamo capirle. Perché utilizzano linguaggi che non ci sono poi così estranei e che hanno presupposti non lontani dai nostri. Si fondano, infatti, sulla piena legittimità e parità dell’altro, dell’interlocutore, del paziente; sul riconoscerlo nelle sue competenze e nel suo essere all’interno di dinamiche relazionali e sociali; sull’essere consapevoli di quanto il nostro ruolo contribuisca a determinare il campo terapeutico. Tutto questo è sicuramente molto lontano dal fascino e dal desiderio (nostri) di imbatterci

7 Cfr. F. Fanon (1996), Pelle nera maschere bianche. Il nero e l’altro, cit. 8 Cfr. T. Nathan, I. Stengers (1996), Medici e stregoni, Bollati Boringhieri, Torino.

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Riflettere sui sistemi di cura è interrogarsi sul come l’etnopsichiatria sia una disciplina di confine, un metodo, più che un insieme di conoscenze

Un tema utile e importante da percorrere nel confronto con l’etnopsichiatria e con la psicologia interculturale è quindi quello della diagnosi


La questione della diagnosi interseca in pieno tutti i rapporti fra psichiatria, etnopsichiatria, psicoterapia, società

Etnopsichiatria e antropologia culturale ci dicono che molteplici forme di classificazione si intersecano in altri sistemi di cura

in malattie esotiche. Non questa è l’etnopsichatria. Nessun manuale di curiosità psicopatologiche. Anzi, al contrario, un insieme di strumenti critici, atti anche a leggere i tentativi di ‘psichiatria dell’esotico’ più volte realizzati nella storia della psichiatria occidentale. Un modo fecondo per affrontare la questione diagnostica in psicoterapia della Gestalt è quello di considerare che la diagnosi può essere intrinseca o estrinseca9. Interna al processo relazionale, orientamento della funzione-Io della relazione, che emerge passo passo grazie al sostegno della funzione-Personalità. Oppure Gestalt fissa, derivata da definizioni esterne, utilizzabile all’interno della relazione terapeutica per oggettivare l’altro o, viceversa, per condividere e modificare un sapere. La questione della diagnosi interseca in pieno tutti i rapporti fra psichiatria, etnopsichiatria, psicoterapia, società. Anche se affrontiamo l’approccio diagnostico con una visione critica, peraltro prevista e inglobata nel sistema sociale, l’autoreferenzialità culturale ci fa, infatti, correre dei rischi. Sappiamo, teoricamente e genericamente, che la psicopatologia è esposta alla visione politica; ma non sempre è facile tenerne conto come sfondo di ogni esperienza terapeutica. Interrogarci su come vedere e curare chi è ‘più diverso’ da noi, ci può aiutare ad ampliare la nostra consapevolezza in questo ambito. Inoltre, etnopsichiatria e antropologia culturale ci dicono che molteplici forme di classificazione si intersecano in altri sistemi di cura10. Da questa molteplicità emerge in modo evidente

9 G. Francesetti, M. Gecele (2009), A Gestalt Therapy Perspective on Psychopathology and Diagnosis, in «British Gestalt Journal», 18, 2. 10 Stiamo facendo riferimento a sistemi di cura tradizionali, non intendendo con ‘tradizione’ la chiusura alle interazioni né la staticità, ma la possibilità dialogica anche con altri sistemi. Possibilità dialogica che può, a volte, essere resa difficile là dove i rapporti di forza sono stati o sono troppo sbilanciati. Un rischio fortissimo nel parlare di tradizioni altrui è quello di fare del folklore etnico. Decidiamo di correre questo rischio, forte e rilevante, solo per sottolineare la complessità delle forme di umanità. Oltre e più che avere un valore etnografico, gli esempi che riportiamo nel corso del testo sono testimonianze di percorsi storici altrui. Parleremo addirittura di cannibalismo, sperando non di favorire pregiudizi, ma di attivare fruttuose modalità di pensiero.

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quanto le diagnosi siano ‘invenzioni’ culturali, frutto di negoziazioni fra malato, guaritore e gruppo sociale, più o meno consolidate e codificate o rinnovantesi ad ogni consultazione. Corriamo sempre il rischio di non riuscire a riconoscere la natura politica, sociale e culturale delle nostre categorie diagnostiche, di non vedere quanto queste, a loro volta, favoriscano e definiscano dei modelli di malattia, oltre a costruire l’espressione e la lettura sociale di emozioni, conflitti e malesseri. Se lo psichiatra/psicoterapeuta accetta acriticamente i valori dominanti, se, più o meno inconsapevolmente, vi si identifica, perde una parte delle sue possibilità terapeutiche.

2. Esperienze11 Ma cos’è la novità, il nuovo? Questo concetto, questa esperienza così basilare in psicoterapia della Gestalt, fondamento della relazione e della vita. Con un gioco di parole, possiamo dire che la risposta non è scontata; non è detto che la novità sia vista e riconosciuta come tale. Il diverso, addirittura l’opposto di ciò che ci è familiare possono essere il luogo dell’utopia, di ciò che è idealizzato o demonizzato. E in questo senso sono già parte di una narrazione conosciuta, di processi assimilati o introiettati. Viceversa, vera novità può essere un’esperienza non messa a fuoco, un punto di vista diverso, che fa ridefinire i percorsi precedenti. Un incontro, una relazione, una situazione, oltre ad essere una novità in sé, possono determinare questa più ampia ristrutturazione, o dare il sostegno perché essa sia possibile. L’analisi dei percorsi migratori e l’attenzione allo straniero ci permettono di esplorare nuovi rischi e nuove opportunità nel rapporto con ciò che è nuovo e diverso. Assimilare la novità ha una valenza trasformativa e imprevedibile; non si tratta di aggiungere un’informazione, leggendola secondo schemi precedenti, ma di diventare altri, pur nella continuità. In un’ottica relazionale, la novità non è solo qualcosa di esterno, in cui ci si imbatte; ma è anche ciò che si produce, che si realizza nell’incontro.

11 Gran parte di questo paragrafo e di quello intitolato “Lingua, mediazione e complessità” saranno inseriti nella monografia Gli sfondi dell’alterità (M. Gecele), di prossima pubblicazione.

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Assimilare la novità ha una valenza trasformativa e imprevedibile; non si tratta di aggiungere un’informazione, leggendola secondo schemi precedenti, ma di diventare altri, pur nella continuità


In ogni processo migratorio è particolarmente forte il bisogno di sostegno

Qualsiasi stimolo, incontro, esperienza, nozione può essere trasformativo12, se c’è la possibilità di coglierlo e di confrontarlo con le esperienze passate, con quello che siamo diventati; se il Sé, al confine di contatto, agisce spontaneamente, ma all’interno di coordinate date da ruoli, memoria, storia, responsabilità. La novità, se è davvero tale, provoca, sollecita cambiamenti, è scomoda; può, quindi, destare desiderio, ma anche timore. Soffermiamoci su questa combinazione di desiderio e timore. Spesso, quella che viene definita e descritta come aspirazione al cambiamento e alla novità, è tale solo all’interno di parametri, coordinate e condizioni, che si desidera, o si ritiene necessario, mantenere tali; la spinta all’avventura non considera la perdita di ground che questa potrebbe comportare; l’interesse per l’esotico non contempla la possibilità di perdere riferimenti basilari. Per esemplificare, pensiamo a quanto sia ambigua l’espressione del desiderio che un’altra persona – di solito il partner – cambi. Spesso, la richiesta implicita è che l’altro aderisca di più a ciò che desideriamo da lui; non quella di dispiegare in pieno la possibilità di essere differente da noi, quindi ostacolo, limite, ferita, per dare origine a una fecondità non prevedibile a priori. E quando ci ‘innamoriamo’ di alterità molto differenti – non solo di un partner, ma anche dell’esotismo di persone e popoli provenienti da lontano – solitamente cerchiamo un compimento, e non un cambiamento. Chi emigra spesso parte per contingenti e concreti motivi economici e sociali e desidera quindi un cambiamento di status. Può partire anche perché si sente costretto e limitato all’interno del proprio mondo consueto; perché è, o si sente, tagliato fuori da possibilità e prospettive. In ogni caso, in un processo migratorio è particolarmente forte il bisogno di sostegno. Anche perché il paese immaginato e atteso non coincide mai con quello in cui ci si viene poi a trovare; spesso anche secondo parametri ed elementi oggettivi, ma sempre, sicuramente, rispetto al sentirsi parte, ai legami, alle relazi-

12 Cfr. M. Spagnuolo Lobb (2007), La relazione terapeutica nell’approccio gestaltico, in P. Petrini, A. Zucconi (edd.), La relazione che cura (con introduzione di N. Dazzi, presentazione di A. Siracusano), Alpes Italia, Roma, 527-536.

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oni, al senso di connessione con l’ambiente. La decisione di partire, di emigrare, trasforma il fluire del tempo, almeno quanto modifica lo spazio. E sappiamo che tempo e relazione sono correlati13. La decisione di emigrare determina un cambiamento nel modo di vivere le relazioni e le appartenenze; per questo modifica il tempo. Prima della partenza, se il progetto migratorio è condiviso, se ha un valore collettivo, o se, comunque, fornisce una spinta e un sostegno forte, il tempo si coarta, si annulla, in modo simile a quanto avviene nelle fasi maniacali del disturbo dell’umore. Quando si giunge nel paese nuovo, invece, soprattutto se manca il sostegno per fronteggiare la troppa novità e le perdite subite, il rischio è che il tempo si dilati e che lo spazio diventi estraneo al corpo, in modo paragonabile a quanto avviene nell’esperienza depressiva. Questi passaggi si ritrovano in molti racconti di esperienze migratorie, indicando un’incrinatura nella coesistenza di senso ed esperienza. Chi emigra può facilmente sentire la mancanza di un sostegno di base e del senso di legittimità nell’abitare il mondo, nel farne parte. Un senso dato dal potere interagire, intenzionalmente ed efficacemente, con l’ambiente. Insieme a cose che, forse, desiderava cambiare, perde anche delle certezze, facenti parte di quel ground scontato − corporeo, verbale, relazionale − che permette di dare continuità all’esperienza e di confrontarsi con la novità. Ruoli e memorie possono perdere di significato in un contesto migratorio e, almeno apparentemente, dissolversi, oppure irrigidirsi. Si può verificare un vero e proprio crollo rispetto al modo di dare senso e strutturare la propria vita.

3. Formazione Formarsi agli aspetti inter-trans-culturali di ogni relazione significa soprattutto esercitarsi a decentrare il nostro punto di vista. Una delle modalità per farlo, per fare davvero esperienza della pluralità di visioni possibili, è quella di riflettere su come gli

13 Cfr. G. Salonia (2011), Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani.

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Chi emigra può facilmente sentire la mancanza di un sostegno di base e del senso di legittimità nell’abitare il mondo, nel farne parte

Formarsi agli aspetti inter-transculturali di ogni relazione significa soprattutto esercitarsi a decentrare il nostro punto di vista


altri ci vedono. Esistono molti testi, ricerche e studi, che stimolano e raccontano lo sguardo dell’altro su di noi14. 14 Cfr. AA.VV. (1995), Le voci dell’arcobaleno, a cura di R. Sangiorgi, Fara, Sant’Arcangelo di Romagna; Arcisolidarietà (1994), Nato in Senegal, immigrato in Italia, Ambiente, Milano. I riferimenti bibliografici citati sono due esempi fra i tanti. Si consiglia al lettore di esplorare, come percorso di auto-formazione, la varietà e la molteplicità dei testi con questa impostazione. Portiamo qui come esempio un piccolo esercizio. Negli anni ’50 Horace Miner, antropologo statunitense, studiò e descrisse una popolazione chiamata, italianizzando il nome, INACIREMA (nella versione in lingua inglese il nome è NACIREMA). Trattandosi di un gruppo interessante per la nostra discussione, ne leggiamo la descrizione: “All’intero sistema sembra essere sottintesa la credenza di fondo che il corpo umano è brutto e tende naturalmente alla debolezza e alla malattia. Imprigionato nel corpo, l’uomo ha soltanto la speranza di prevenire tali tendenze ricorrendo alla potente influenza dei riti e delle cerimonie. Ogni famiglia dispone di uno o più sacrari destinati a questo scopo. Il punto focale del sacrario è una cassa o tabernacolo inserito nel muro. Nel tabernacolo sono conservati molti filtri e pozioni magiche, senza i quali gli indigeni credono di non poter vivere. Questi preparati sono forniti da una serie di soggetti specializzati. I più potenti tra loro sono gli stregoni, le cui prestazioni devono essere ripagate con doni di valore. Gli stregoni, però, non preparano in prima persona le pozioni curative destinate ai clienti, ma decidono gli ingredienti da usare e li mettono per iscritto in una lingua antica e segreta. Così la prescrizione risulta comprensibile soltanto agli stregoni e agli erboristi che, in cambio di altri doni, preparano la pozione richiesta. Gli Inacirema provano un orrore e un’attrazione quasi patologici per la bocca, le cui condizioni avrebbero un’influenza soprannaturale su tutti i rapporti sociali. Gli indigeni credono che, se non fosse per i rituali riservati alla bocca, i denti cadrebbero, le gengive sanguinerebbero, le mandibole finirebbero per rattrappirsi ed essi verrebbero abbandonati dai propri amici e respinti dai propri amanti. Essi credono anche che esista uno stretto rapporto tra caratteristiche orali ed etiche. Esiste ad esempio un’abluzione rituale della bocca prevista per i bambini che ha lo scopo di rafforzare la loro fibra morale. Tra i rituali fisici quotidiani che tutti eseguono ce n’è uno riservato alla bocca. Sebbene questo popolo sia così puntiglioso nella cura della bocca, il rito comporta una pratica che appare rivoltante allo straniero non iniziato. Mi è stato riferito che il rituale in questione consiste nell’introdurre in bocca un piccolo ciuffo di setole di maiale con l’aggiunta di certe polveri magiche e poi nell’ agitarlo seguendo una serie altamente formalizzata di gesti” (H. Miner (1956), Body Ritual among the Nacirema, in «American Anthropologist», 6, 503-504).

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In questo stesso scritto, soprattutto nei capitoli sulla clinica, sollecitiamo e solleciteremo il gioco del ribaltamento. L’obbiettivo è quello di formarci alla varietà e complessità degli sfondi, delle forme dell’umano. Ricordiamo anche che i pregiudizi positivi non ostacolano la lucidità dello sguardo e la spontaneità meno di quelli negativi. Sono l’altra faccia della reificazione dell’altro. Spesso le dichiarazioni di tolleranza, il relativismo culturale, le auto-definizioni di apertura eludono la consapevolezza di quanto ogni forma di pregiudizio possa bloccare l’esperienza reale dell’altro, e quindi l’incontro. Naturalmente, questo non si verifica solo di fronte allo straniero, ma, più in generale, in ogni esperienza relazionale. Per formarci alla differenza e all’interculturalità, è quindi importante anche esplorare l’esperienza quotidiana di ognuno di noi, ripercorrere pezzi di vita e assimilarli. Partire, in un lavoro sull’interculturalità, dalle esperienze personali, significa concentrarsi sulle Gestalt aperte, su tutto ciò che non è stato assimilato, forse per la presenza di poco sostegno, sulle piccole e grandi cose della vita, su scelte, viaggi, spostamenti, cambiamenti. Si tratta di un lavoro sulla consapevolezza, di un accompagnamento nel riavvicinarsi a ciò che non si è visto, a cui si è prestata poca attenzione; un accompagnamento nel raccontare e rivisitare la propria esperienza. Si tratta di entrare, con il microscopio e al rallentatore (come la formazione in psicoterapia della Gestalt ci consente di fare), nei piccoli passaggi della vita quotidiana, nei continui momenti di distacco, rottura, avvicinamento, incontro. Si tratta anche di rendere espliciti e condivisi i percorsi che incessantemente ci fanno crescere, insieme ai luoghi e ai contesti per noi significativi, anche quelli apparentemente dispersi nel tempo e nella memoria.

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Di quale popolazione potrebbe trattarsi? Quanto lontana o quanto vicina a noi? Ci ricorda altri gruppi che conosciamo? In quale parte del mondo vivono, o vivevano, gli Inacirema? Proviamo a pensarci e poi prendiamoci una pausa. Infine, leggiamo al contrario la parola ‘Inacirema’ (Naturalmente si può ripetere l’esercizio con un’osservazione degli INAILATI da parte degli stranieri).

Partire, in un lavoro sull’interculturalità, dalle esperienze personali, significa concentrarsi sulle Gestalt aperte

Si tratta di un accompagnamento nel raccontare e rivisitare la propria esperienza


4. Lingua, mediazione e complessità

Ogni lingua è, connessa con il respiro, e nella psicoterapia della Gestalt la relazione terapeutica è attenta a ripristinare le potenzialità di questa funzione vitale

La lingua trae origine dal corpo, ne fa parte, ma è anche collocata ‘tra’ l’Organismo e l’Ambiente

La lingua non consiste semplicemente nel contenuto che veicola, non è solo razionale grammatica. I silenzi, le pause, il ritmo, l’intonazione fanno parte di una lingua. La comunicazione non riguarda solo la figura. Pur in presenza di barriere linguistiche, anche senza traduzione, comunichiamo e comprendiamo qualcosa. Il suono stesso della voce umana produce effetti fisici e corporei. Vibrazioni, movimenti dei parametro vitali. Ogni lingua è, prima di tutto, una lingua umana, ed entra in risonanza con tutti noi. È connessa con il respiro, e nella psicoterapia della Gestalt la relazione terapeutica è attenta a ripristinare le potenzialità di questa funzione vitale, che dà sostegno all’esperienza attraverso il continuo scambio con l’esterno. La lingua trae origine dal corpo, ne fa parte, ma è anche collocata ‘tra’ l’Organismo e l’Ambiente; ha un senso e una direzione perché c’è un interlocutore che la precede, un ‘altro da me’ da raggiungere, o che mi vuole raggiungere, in un tentativo infinito e mai esaustivo. Lo ‘straniero’ − chi abita un’altra lingua − può favorire la pausa, il fermarsi ad ascoltare la propria voce e quella altrui; ogni vocabolo viene così aperto e scardinato. Il parlare, l’abitare una lingua, anche la propria lingua, può essere scollato dalla vita e limitare le potenzialità di contatto, assimilazione, crescita. Entrando in una nuova lingua, oltre al rischio di utilizzare concetti vuoti di esperienza, c’è anche la possibilità di riappropriarsi di una maggiore spontaneità e flessibilità. Di ricominciare da capo, connettendo singole parole, e intere frasi, all’esperienza. Una possibilità che si apre soprattutto là dove sia presente una spinta relazionale, un interesse ad entrare a far parte di un nuovo contesto, anche linguistico. Si tratta comunque sempre di un processo determinato dall’incontro fra la storia personale e occasioni e limiti del ‘qui e ora’. Per un immigrato, per un viandante che non abita la terra legata alla sua lingua madre, ogni atto linguistico racchiude un’ambivalenza. Imparare o no una nuova lingua, da utilizzare per esprimere concetti, pensieri, sentimenti, emozioni; coltivare o no la memoria di suoni antichi. Molti aspetti concorrono a definire la scelta − o il vincolo – di utilizzare o abbandonare la propria lingua d’origine.

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Per affrontare sfondi multipli e complessi, favorendo la loro possibilità di essere fecondi, i processi di traduzione sono importanti, sono una specifica e complessa modalità di adattamento creativo. Tradurre significa precedere la figura della frase, connettendosi con lo sfondo da cui questa emerge. La traduzione precede la lingua; proviene dallo sfondo e lo trasforma, senza fissarlo in modo troppo rigido. È il contrario del fondamentalismo, che irrigidisce la figura, dimenticando lo sfondo. Molti sono i rapporti fra lingua, traduzione e potere. Una lingua si può scegliere, dimenticare, modificare, combattere, rifiutare, amare. E questo vale anche per tutti gli altri, intimissimi, aspetti culturali del sé. Vedremo nel prossimo paragrafo come non sia scontato che una persona voglia tenere sempre con sé, o rendere espliciti, i propri mattoni culturali, assiomi introiettati o esperienze assimilate che siano. Proprio come per la lingua. Traduzione e mediazione devono tenere conto di questo. La funzione del mediatore culturale è quella di tradurre, non una lingua ma la complessità dei percorsi culturali. Di tradurli, esplicitarli, renderli vivi. Crearli. Il mediatore non solo transita fra due persone e mondi, ma agisce su entrambi. La mediazione contemporaneamente complessifica e semplifica il discorso. Esplicita che in ogni incontro c’è sempre un terzo, un elemento altro; ma opera per trovare dei punti di incontro. La traduzione e la mediazione riguardano gli sfondi, a volte lasciandoli impliciti, a volte facendoli diventare figura. Anche noi terapeuti costituiamo spesso un dispositivo di mediazione, fra persone e mondi. Ogni fenomeno relazionale è, in un certo senso, una traduzione, che sottolinea e contemporaneamente, ‘risolve’ il problema degli sfondi, indicando l’esistenza di una differenza insopprimibile, la necessità di fare un percorso per comunicare, per avvicinarsi. Un obiettivo contemporaneamente irraggiungibile e necessario.

5. La clinica Partiamo dalle nostre diagnosi. Da una sola diagnosi. Da una forma di sofferenza, quella psicotica o pseudo-tale, che scegliamo qui di affrontare come esempio. Significativo so-

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La traduzione precede la lingua; proviene dallo sfondo e lo trasforma, senza fissarlo in modo troppo rigido

La funzione del mediatore culturale è quella di tradurre, non una lingua ma la complessità dei percorsi culturali

Anche noi terapeuti costituiamo spesso un dispositivo di mediazione, fra persone e mondi


Spesso, quando ci troviamo di fronte a persone che hanno attraversato un’esperienza migratoria, una diagnosi di psicosi basata su elementi descrittivi (qual è quella presente nei DSM) è fuorviante

Spesso, nelle esperienze pseudopsicotiche degli immigrati, il punto critico non è, come avviene nelle psicosi, quello della non differenziazione fra figura e sfondo, ma quello di una frammentazione dello sfondo

prattutto per suggerire come, quando incontriamo persone provenienti da esperienze migratorie, la complessità, sempre presente nel fare diagnosi, si amplifichi. Spesso, quando ci troviamo di fronte a persone che hanno attraversato un’esperienza migratoria, una diagnosi di psicosi basata su elementi descrittivi (qual è quella presente nei DSM) è fuorviante. Non ci dà strumenti sufficienti per capire il malessere. Rischiamo di perdere l’orientamento, di perderci nei meandri che tentano di differenziare una psicosi reattiva breve e un disturbo post traumatico acuto. Che tentano di differenziarli fra loro e di coglierne l’eventuale passaggio verso sequele più durature o cronicizzanti. Sono necessari altri linguaggi, più vicini all’ambito fenomenologico, per avvicinarci a queste esperienze di sofferenza, per provare a leggerle e a farle risuonare in noi, per curarle. Fra questi linguaggi, anche quello della psicoterapia della Gestalt. Spesso, nelle esperienze pseudo-psicotiche degli immigrati, il punto critico non è, come avviene nelle psicosi, quello della non differenziazione fra figura e sfondo, ma quello di una frammentazione dello sfondo, analogamente a quanto si verifica in seguito ad eventi traumatici. Una frammentazione che, molte volte, è temporanea. Sono infatti frequenti gli episodi che si risolvono velocemente e senza sequele15. Fra gli esempi16, possiamo pensare alle psicosi acutissime di più di una donna nigeriana. Intrappolate, mente corpo e anima, nella rete della prostituzione. Con parti, non del solo sfondo, ma anche della loro figura di persona, che si frantumano. Colpite dai punteruoli degli introietti sociali, familiari, religiosi. Inaccettabile un corpo che diventa merce, e quindi cosa, e quindi estraneo. Come estranea diventa la propria stessa esperienza, mentre il male si colloca in toto all’esterno. Un processo favorito da esperienze culturali antiche e nuove. Dal-

15 Naturalmente, stiamo facendo qui riferimento alle sintomatologie di tipo psicotico che compaiono, spesso improvvisamente, nel paese ospite, senza precedenti nel passato. 16 Gli esempi qui riportati (come quelli successivi nella citazione da Vacchiano) derivano dall’esperienza del Centro Frantz Fanon di Torino (centro clinico, di formazione e supervisione, in ambito etnopsichiatrico ed etnopsicologico).

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la stregoneria, quale possibile modalità interpretativa del malessere, e da forme religiose portate dalla recente diffusione di chiese pentecostali e movimenti carismatici. Gli altri, una persona o un gruppo, arrivano così a impersonare il male e il diavolo, in un sincretismo culturale sintomatologico che può risultare tanto affascinante sul piano scientifico quanto doloroso sul piano umano. Psicosi reattiva breve? Disturbo traumatico acuto? Schizofrenia? L’evolversi dell’esperienza dipende anche dalla nostra lettura, azione, presenza. Ricordiamo poi il delirio di tentato veneficio di un giovane marocchino, la cui moglie era rimasta in Marocco, che attribuiva una moltitudine di sintomi psichici e fisici − evanescenti per noi (vedi poco oltre la citazione da Vacchiano), ma solidi per lui − a un presunto avvelenamento. Dovuto a un caffè e alla donna che l’aveva preparato. Facile qui leggere il meccanismo psicopatologico. Senza essere neo-freudiani, intravediamo il pericolo dato da una seduzione neanche immaginata fino in fondo, dalla possibilità di sentire i propri impulsi sessuali. Una donna che insieme al caffè sembra offrire anche se stessa, distruggendo lo sforzo continuo di fedeltà, prima di tutto a un’immagine di sé. I pregiudizi culturali qui ci aiutano. E ricordiamo così che questa è la funzione dei pregiudizi: aiutarci quando ci serve un orientamento di base, per essere poi abbandonati quando l’esperienza ci porta altrove. In che modo ci aiutano? In questo caso, ad immaginare un nordafricano più vulnerabile di noi in un rapporto paritario con il femminile. Facciamoci allora guidare da questo pregiudizio. Poi, subito dopo, pensiamo che il disagio di fronte a una donna potrebbe non essere così diverso per un ‘occidentale’, differenziandosi forse solo per una minore ingenuità. Ma vediamo già che mille pensieri, opinioni, teorie potrebbero controbattere ognuna delle frasi appena scritte. E proprio questa analisi, potenzialmente, questa sì, infinita, che continua ad andare dal sociale al personale (del paziente) e di nuovo dal personale (del terapeuta) al sociale, in un’incessante ermeneutica di esperienze e chiavi di lettura, è etnopsichiatria o etnopsicologia, o quello che di essa vogliamo prendere come terapeuti della Gestalt. Torniamo all’ipotesi del trauma. Dei traumi, che bloccano l’incessante mutare ed evolversi degli sfondi. Cristallizzano lo sfondo, come avviene con l’acqua quando solidifica in ghiac-

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Questa è la funzione dei pregiudizi: aiutarci quando ci serve un orientamento di base, per essere poi abbandonati quando l’esperienza ci porta altrove


Anche quando non si verificano eventi traumatici specifici, l’esperienza stessa dell’emigrazione determina una cesura più o meno netta e duratura dal passato

cio. E, come il ghiaccio in una bottiglia, lo sfondo rischia di frammentarsi in mille pezzi. Questo frequentemente corrisponde a quanto avviene nelle pseudo-psicosi degli immigrati. Anche là dove troviamo una non differenziazione dallo sfondo, un problema di confine fra la persona e il mondo, avvicinandoci di più a una fenomenologia affine a quella degli episodi psicotici, vediamo chiaramente le differenze. Quando il mondo non è il nostro mondo, o, meglio, nel caso di sintomi psicotici fra gli immigrati, quando il mondo non è il suo/loro mondo, separarsi da esso è più difficile. Un mondo estraneo è anche un mondo incombente e pervasivo, che ci invade in ogni gesto banale e quotidiano. Gesto che pensavamo nostro e che è invece impastato di una storia sociale e culturale. Se camminiamo per strada e non sentiamo che questo gesto è legittimato, se la nostra presenza in un luogo non è armonica con l’ambiente, tutto quell’ambiente ci collassa addosso, mentre camminiamo. Ne sentiamo il peso. E il corpo stesso diventa pesante, o, viceversa, non esiste più. La funzione personalità nel trauma non è preparata, non è in grado, di dare sostegno. La funzione personalità comprende anche una previsione di continuità per il futuro; mentre nel trauma c’è una cesura, una separazione da ciò che precede, dalle narrazioni e dai ruoli. Da qua derivano la difficoltà a costruire un senso di ciò che accade e i sensi di colpa e la necessità di dovere rinarrare continuamente cos’è avvenuto. D’altra parte, anche quando non si verificano eventi traumatici specifici, l’esperienza stessa dell’emigrazione determina una cesura più o meno netta e duratura dal passato. Come conseguenza di uno sbilanciamento fra la portata dell’esperienza – della novità, dello sforzo necessario per affrontarla – e il sostegno presente, può mancare la legittimazione per modi di sentire, abitudini, categorie di pensiero, per uno specifico modo di essere corpo e persona. Cosa fare di fronte a un paziente immigrato, che attraversa o ha attraversato una sintomatologia che corrisponde ai criteri descrittivi per la psicosi? Cosa fare di fronte a una persona immigrata che, più genericamente, soffre? Abbiamo visto nel paragrafo sulle esperienze come il passaggio migratorio possa modificare il tempo e lo spazio. Come modifichi le relazioni, la presenza al confine di contatto. E il

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corpo. Un corpo che può diventare più leggero o pesante, vulnerabile o desensibilizzato, estraneo o padrone quasi assoluto. Approfondiamo, anche a partire dalla nostra esperienza, queste reazioni. Immaginiamo di incontrare corpi/persone, che hanno una decodificazione relazionale diversa di modi di sentire o sintomi e che vivono un sovrapposto spaesamento, portato dal cambiamento di esperienza, tempo, spazio, relazioni dato dall’emigrazione. Ricordiamo sempre che i sintomi sono anche un linguaggio, e che hanno una codificazione culturale, oltre ad essere forme di adattamento creativo. A volte, possiamo anche coglierne la valenza ‘politica’. Frantz Fanon17, nel periodo coloniale, arriva a parlare di corpi misteriosi (quelli dei colonizzati), che oppongono aree di opacità e resistenza sotto la maschera di sintomi ambigui. Un’indecifrabilità del corpo, quindi, che diventa forma di resistenza contro un potere e una scienza che si arrogano il diritto di comprendere tutto. Nell’oggi, possiamo fare riferimento a quanto ci dice Vacchiano, su un corpo prima di tutto sociale. La sofferenza non è e non può essere un fatto privato. Come ha sottolineato Marc Augé, il malessere è ‘il più individuale e contemporaneamente il più sociale degli eventi’18. (…) Da questa osservazione consegue che quando ci ammaliamo il primo gesto che mettiamo in atto non è già un comportamento di ricerca della cura (health seeking behaviour), ma un processo di significazione: noi ci “rappresentiamo” il nostro malessere secondo un abbozzo di codice. Questo codice nasce dall’interazione fra noi (i nostri valori, le nostre credenze e le nostre rappresentazioni) e gli altri (i valori, le credenze,

17 Cfr. F. Fanon (1996), Pelle nera maschere bianche. Il nero e l’altro, cit. 18 Cfr. M. Augé M. (1986), Ordine biologico, ordine sociale. La malattia, forma elementare dell’avvenimento, in M. Augé, C. Erzlich (edd.), Il senso del male. Antropologia, storia e sociologia della malattia, Il Saggiatore, Milano, 33-85.

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Ricordiamo sempre che i sintomi sono anche un linguaggio, e che hanno una codificazione culturale, oltre ad essere forme di adattamento creativo


Di fronte all’esigenza di una spiegazione, l’impotenza delle interpretazioni mediche viene spesso vissuta dagli immigrati con sconforto

le rappresentazioni presenti in uno spazio sociale). (…) L’enunciato di tale rappresentazione potrebbe essere: “ho preso freddo”, “mi sono troppo agitato”, “sono influenzato”, “ho un calo di pressione”, “qualcuno mi vuole punire”, “mi hanno fatto il malocchio”, o qualunque altra definizione utile che, per esperienza o consuetudine, io sarò abituato ad utilizzare in situazioni simili (o perché l’ho visto fare da altri, o perché altri l’hanno in precedenza applicata su di me). È solo dopo, e in conseguenza di tale enunciato, che io saprò a chi mi devo rivolgere per una risposta, questa volta professionale, al mio malessere. (…) Se il linguaggio che parliamo è lo strumento che, attraverso le sue formule, le sue metafore, le sue regole, ci permette di costruire l’esperienza delle cose, allora dire che il sintomo ha valore comunicativo significa anche riconoscere che non solo il modo di esprimere il dolore, ma anche il modo di viverlo su di sé, di “sentirlo”, sarà quanto meno legato a questa costruzione. (…) Da un lato i loro19 sintomi certo sfidano il sistema di causazione della malattia delle scienze mediche, ma dall’altro mettono contemporaneamente in crisi quelle corrispondenze che la stessa antropologia ha sempre immaginato, forse in modo talvolta rigido, fra corpo e cultura. Si tratta di sintomi “strani”, “insoliti”, “curiosi”, che gli immigrati portano sistematicamente sulla scena della cura: batticuori, pruriti, pizzicori, morsi sotto la pelle, formicolii e ronzii, paralisi, bruciori e gonfiori, cadute ed assenze, amnesie e agnosie. Sono manifestazioni che solo raramente i medici riescono a distinguere dai quadri nosografici a loro familiari e non di rado queste manifestazioni vengono scambiate con disturbi per i quali le evidenze cliniche si negano ripetutamente. Di fronte all’esigenza di una spiegazione, l’impotenza delle interpretazioni mediche viene spesso vissuta dagli immigrati con sconforto: “i nostri medici già avrebbero

19 Degli immigrati.

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capito” diceva una donna nigeriana a proposito dei vermi che sentiva muovere sotto la pelle. Ad offrire una possibilità di significazione non è dunque un giudizio diagnostico, incerto e vissuto talvolta con sospetto, ma la possibilità di costruire un’interpretazione più vicina, più affine, più familiare, che si attui in modo condiviso e negoziale (come in modo negoziale gli stessi sintomi si istituiscono), che da un lato sappia tener conto delle rappresentazioni della persona, delle eziologie tradizionali e delle forme culturali del soffrire, e che dall’altro sappia interrogare queste stesse forme per leggervi le modalità individuali di patteggiare un corpo in tensione sia con le opzioni della tradizione che con quelle della modernità. E questo a maggior ragione in quanto il linguaggio della sofferenza non è solo appreso, ma continuamente generato e rigenerato nelle relazioni costitutive fra corpo, dolore e società20. Fondamentale il sostegno a ogni specifico modo di essere corpo. Sostegno affinché il corpo torni ad essere riconosciuto in una relazione, quindi in più relazioni, e nella società. E, contemporaneamente, inscindibile il sostegno alla narrazione, alla funzione-Personalità, al ricucire insieme pezzi di esperienze troppo diverse per un solo individuo. Pezzi da tenere, tutti, all’interno di una relazione. Perché potersi raccontare, avere ascolto, contenimento e sostegno, per narrazioni dolorose o positive, conosciute o ignote, è la ‘cura’ più importante per gli immigrati (come per ogni essere umano). Una cura, però, non sempre realizzabile. Non sempre il sostegno della relazione è sufficiente a fare ripercorrere dolori e ferite vitali. Non sempre tutte le faticose potenzialità, le aperture dell’essere in transito fra mondi diversi, riescono a fiorire, colmando un fecondo, ma terrifico, vuoto al confine di contatto. Possiamo, allora, aiutare la persona, rendendo più ‘pesante’ e definito il confine di contatto. Aiutarla a costruire delle chiavi

20 F. Vacchiano (2002), Mente, natura, cultura: il corpo come luogo di possibile incontro, in M. Gecele (ed.), Fra saperi ed esperienza, Il Leone Verde, Torino, 103-106.

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Fondamentale il sostegno affinché il corpo torni ad essere riconosciuto in una relazione, quindi in più relazioni, e nella società. E, contemporaneamente, inscindibile il sostegno alla narrazione, alla funzionePersonalità


Gli immigrati, e in generale gli esseri umani, hanno il diritto a essere visti e accolti nelle loro specificità culturali, nel loro essere intreccio di appartenenze. Ma hanno anche il diritto a incontrarci in una ‘modalità semplificata’, a rifiutare parti del Sé, a lasciarle nello sfondo senza attraversarle

È importante accettare che l’altro faccia ciò che vuole e che può della sua cultura

di lettura, dei modi di essere e pensare utili per stare ‘qui’. Aiutarla, perché no, ad assemblare dei piccoli, utili introietti, come ancoraggio alla quotidianità, se e quando non è possibile ricucire parti di vita, rimettendo tutto in discussione: corpo, ruoli, narrazioni, mondo. Dobbiamo sempre ricordare che gli immigrati, e in generale gli esseri umani, hanno, sì, il diritto a essere visti e accolti nelle loro specificità culturali, nel loro essere intreccio di appartenenze. Ma hanno anche il diritto a incontrarci in una ‘modalità semplificata’, a rifiutare parti del Sé, a lasciarle nello sfondo senza attraversarle. Come abbiamo accennato nel paragrafo su lingua e mediazione, c’è chi si illumina potendo finalmente parlare nella propria lingua; ma c’è chi si vergogna nel farlo, chi sceglie di entrare nella lingua madre per esprimere alcuni contenuti e non altri, chi ha preferito dimenticarla. Per adattarsi al nuovo contesto, per essere adeguato, ma anche per evitare sofferenze antiche. E tutto questo vale anche per gli altri aspetti delle culture vissute. Non tutti i nordafricani desiderano che vengano chiamati in causa i Jinn nella decifrazione del loro malessere; ma c’è chi si sente capito e avvicinato da una lettura così specifica. La cosa più difficile per noi è proprio questo essere aperti a tutte le possibilità e modalità di incontro. Mantenendo questo esempio, forse dovremmo acquisire i Jinn nel nostro sfondo, in modo implicito, senza necessità di esplicitarne il contenuto. Stare nella relazione, soprattutto terapeutica, significa cogliere tutte le continue sfumature, ambivalenze, negoziazioni, che, d’altra parte, noi stessi contribuiamo fortemente a delineare. Molto dipende anche da cosa noi portiamo al confine di contatto, da come abbiamo creativamente assimilato la nostra cultura, che è poi la nostra vita. Esiste un continuo gioco di pregiudizi, aspettative, richieste più o meno esplicite, fra noi e gli altri. L’immigrato è l’uomo qualunque del ventesimo secolo, ci dice Hanif Kureishi21 ed è legittimo proprio il suo volere essere qualunque, e quindi come noi. Dobbiamo accogliere ed essere preparati anche a questo. È importante accettare che l’altro faccia ciò che vuole e che può della sua cultura: sia con spon-

21 Cfr. H. Kureishi (2001), Il Buddha delle periferie, Bompiani, Milano.

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taneità, sia con le eventuali cicatrici, evitamenti, blocchi, fissità. Immaginiamo di fare una sorta di danza fra queste due modalità. Qui, ma forse sempre in terapia. Riflettere sugli immigrati rende esplicito il gioco fra il volere essere riconosciuti come diversi e il volere essere uguali. O almeno simili. Ambivalenze e dubbi rispetto a scelte, appartenenze e legami sono caratteristici dei processi migratori e di tutta la condizione umana. Lavorare con gli immigrati ci serve a lavorare con tutti. Una formazione in etnopsicologia non è tanto, o solo, conoscere la cultura dell’altro, ma è formarci sul nostro modo di fronteggiare, prima di tutto, la nostra cultura, parte intima e imprescindibile di noi stessi. La cultura non si acquisisce ‘naturalmente’, come ci ha insegnato una lettura attenta dei riti di passaggio22, e come continuano a insegnarci autori contemporanei, che parlano di un’incessante negoziazione da parte di individui e gruppi sociali con la/e propria/e cultura/e23.

Una formazione in etnopsicologia è formarci sul nostro modo di fronteggiare, prima di tutto, la nostra cultura

6. Etnopsichiatria come metodo. Clinica due. E così, guardando gli altri, altri sistemi di diagnosi e di cura, altre, o simili, forme di malessere, stiamo tornando, in modo circolare, a noi. Per riflettere sul ruolo sociale del nostro lavoro, sul nostro essere parte di un sistema sociale. A volte, la direzione della terapia ci porta verso un sostegno all’adattamento; altre volte, ci porta a dare un contributo allo scompaginare, al costruire un nuovo percorso, equilibrio, crescita. Il ‘malato’ rappresenta un pezzo importante di una cultura, ma nelle nostre società rischia di esserne isolato. Noi – non noi gestaltisti, ma noi psichiatri, terapeuti, psicologi ‘occidentali’ – abbiamo in mano una sorta di bisturi (la diagnosi), che può sepa-

22 Cfr. V. Turner (1992) (ed. or. 1976), La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndembu, Morcelliana, Brescia. 23 Cfr. J. Amselle, E. Bokolo (1985), L’invenzione dell’etnia, Meltemi, Roma; U. Fabietti (1995), L’identità etnica: storia e critica di un concetto equivoco, NIS, Roma; F. Remotti (1996), Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari; U. Hannerz (1998), La complessità culturale: l’organizzazione sociale del significato, Il Mulino, Bologna.

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Noi – non noi gestaltisti, ma noi psichiatri, terapeuti, psicologi ‘occidentali’ – abbiamo in mano una sorta di bisturi (la diagnosi), che può separare il malato, lasciarlo fuori, espellerlo


La separazione malato-società impoverisce la nostra complessità

rare il malato, lasciarlo fuori, espellerlo. Là dove vediamo che in altri sistemi di cura lo sforzo è quello di connettere, di ristabilire legami fra la persona e il contesto, fra persone e mondi diversi. Spesso un sintomo è l’occasione per innescare un processo di cura delle relazioni e delle connessioni di un intero gruppo24. La separazione malato-società impoverisce la nostra complessità; ci impedisce di usare la follia come una delle chiavi di lettura della società, come ricchezza. Ripensiamo a Foucault25. La formazione ci protegge un po’ da questi rischi; ma se non conosciamo processi e analisi, rischiamo di essere ingenui e di riproporre un problema, invece di contribuire a risolverlo, rendendo i nostri paziente sovversivi o adattati, buttando su di loro complessità e ambivalenze, invece di assumerle. Oppure semplificando troppo, come ci ammonisce Nathan in questo esempio clinico: Una donna sviene! Consideriamo anzitutto la soluzione offerta dalle società come la nostra, le società a universo unico. Penseremo certamente che questa donna soffre di un disturbo appartenente al mondo conoscibile; diciamo, per semplificare, l’isteria. La riterremo invasa da pulsioni sessuali di cui lei (solo lei?) non è cosciente. (…) Fermiamoci a riflettere un momento: lo sguardo che posiamo su questa donna fa di lei un personaggio semplificato (“regredito”); si potrà compatirla (“soffre!”), farle la predica (“sei infantile”), (…) guidarla, per senso morale. (…) Per trattare lo stesso fenomeno, lo svenimento di una donna, la soluzione proposta immancabilmente dalle società a universi multipli consiste nel postulare che uno spirito si è impadronito di lei. Perciò diventa logicamente indispensabile ricorrere a “colui che riconosce gli spiriti”. (…) Questa donna diventerà necessariamente l’informatrice inconsapevole su un mondo invisibile che è bene conoscere. Personaggio ambiguo, potenzialmente multiplo, si potrà prenderla in giro (è comunque una persona un po’ strana, non è

24 E.E. Evans Pritchard (2002), Stregoneria, oracoli e magi tra gli Azande, Raffaello Cortina, Torino. 25 M. Foucault (2008) (ed. or. 1973), Storia della follia nell’età classica, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano.

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vero?), temerla (è anche una specie di “strega”), invidiarla, (è un’eletta), interrogarla (interpreta ciò che è nascosto, poiché partecipa della natura di due mondi). Dunque, appena si manifesta, il disturbo è utile all’intero gruppo per rendere complesso il mondo e per informarsi sui suoi “invisibili”26. Se compariamo questo approccio diagnostico-terapeutico alle riflessioni interne alla psicoterapia della Gestalt sulle diagnosi e le classificazioni delle forme di malessere27, troveremo sicuramente dei punti in comune e degli elementi per ulteriori riflessioni. Siamo così quasi pronti per porci una domanda importante. Infine, ci sono o no patologie proprie ad alcune aree e culture? Ogni società definisce e codifica forme di sofferenza relazionale e psicologica, leggendo alcuni modi di pensare, di sentire, di comportarsi e di entrare in relazione come patologici28. Inoltre, il contesto sociale contagia l’individuo con le sue difficoltà e i suoi limiti29. E allora? Di quali malattie vogliamo parlare? Di Amok? Latah? Koro30? No, introduciamo una tematica ancora più esotica. Esotica per gli altri. I disturbi di personalità. I disturbi di personalità sono espressione – quasi una cristallizzazione – del nostro contesto culturale, una sorta di invenzione del nostro tempo. Questo nonostante nei secoli scorsi illustri antesignani si siano interrogati sullo sconcertante puzzle che vede

26 T. Nathan, I. Stengers (1996), Medici e stregoni, cit., 18-19. 27 Vedi bibliografia del seguente articolo: G. Francesetti, M. Gecele (2009), A Gestalt Therapy Perspective on Psychopathology and Diagnosis, in «British Gestalt Journal», 18, 2. 28 Cfr. R. Benedict (2006) (ed. or. 1934), Patterns of Culture, Mariner Books, Boston. 29 Cfr. M. Gecele (in pubblicazione), Introduzione ai disturbi di personalità. Considerazioni diagnostiche e sociali, in G. Francesetti, M. Gecele, J. Roubal (edd.), La psicoterapia della Gestalt nella pratica clinica. Dalla psicopatologia all’estetica del contatto, Franco Angeli, Milano. 30 Si lascia qui al lettore la libertà e la possibilità di cercare informazioni su questi quadri clinici dal nome esotico e di avvicinarsi così alle polemiche relative alle Culture-bound Syndromes, con la speranza che il percorso dato da questo testo sia di aiuto nell’accostarsi a una tematica così complessa.

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Ogni società definisce e codifica forme di sofferenza relazionale e psicologica, leggendo alcuni modi di pensare, di sentire, di comportarsi e di entrare in relazione come patologici


Il concetto di disturbo etnico indica una specifica modalità psicopatologica, correlata alle caratteristiche di una popolazione

intrecciarsi ‘carattere’, ‘personalità’ e ‘patologia’. Potremmo anche dire che i disturbi di personalità sono il disturbo etnico del nostro orizzonte sociale, secondo la definizione di Devereux31. Il concetto di disturbo etnico indica una specifica modalità psicopatologica, correlata alle caratteristiche di una popolazione. Nell’accezione di Devereux, il termine etnico non definisce un gruppo culturale fortemente omogeneo, ma indica semplicemente qualcosa che riguarda una specifica cultura. In quanto espressioni delle specifiche tensioni psicologiche, dei conflitti e delle contraddizioni di un contesto, le forme di malessere così definite sono connesse intimamente con i valori culturali prevalenti. Uno stesso disturbo può essere etnico in un contesto e idiosincratico (più legato alla storia personale), in un altro. Come dire che un disturbo può essere molto diffuso in un contesto culturale e raro in un altro. Queste le principali caratteristiche di un disturbo etnico: -‑– Il disturbo si verifica frequentemente all’interno di una specifico contesto culturale. -‑– Si esprime con diversi gradi di gravità e anche in forme subcliniche, che definiscono così un continuum tra comportamenti ritenuti normali in quel contesto culturale, da una parte, e vera e propria psicopatologia, dall’altra. ‑– I conflitti sottostanti i sintomi sono centrali e pervasivi nella cultura, arrivando ad assumere in alcune persone, intensità tale da precipitare in sintomi.

31 George Devereux – autore fondamentale nell’ambito dell’etnopsichiatria e dell’etnopsicoanalisi – considera il conflitto come determinante in ogni manifestazione psicopatologica, etnica o idiosincratica. Secondo l’autore, il conflitto alla base di nevrosi o psicosi etniche si differenzia da quello che sottende i disturbi idiosincratici in quanto non è specifico del soggetto portatore dei sintomi. Quest’ultimo vive in modo più forte e violento un conflitto che tocca la maggior parte degli individui – normali – appartenenti allo stesso contesto culturale. Il paziente è come gli altri, ma lo è in misura maggiore degli altri. Inoltre, i sintomi stessi non sono creati dal paziente, ma gli sono forniti, pre-confezionati, dall’ambiente. In una sorta di doppio messaggio, il contesto culturale gli dice di non essere folle – e quindi diverso – o di essere, quanto meno, folle in un modo accettabile e conveniente. Il malato risulta così essere, contemporaneamente, ai margini e al centro del proprio contesto culturale. Cfr. G. Devereux (2007), Saggi di etnopsichiatria generale, Armando, Roma.

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‑– La sintomatologia che caratterizza il disturbo è la via finale comune per l’espressione di uno spettro ampio di problematiche psicopatologiche diverse, una modalità pre-formata di essere ‘folli’, che l’individuo assume per manifestare malesseri non omogenei. ‑– Manifestare il disturbo è un modo di essere contemporaneamente devianti e iperadattati a un ambiente culturale. ‑– I sintomi affermano e negano, simultaneamente, norme e valori culturali più o meno esplicitamente adottati da una società; la società risponde quindi in modo ambivalente, sia punendo sia ricompensando gli individui con questi sintomi. Il concetto di disturbo etnico ci aiuta a capire meglio una società attraverso le sue malattie, intese come estremizzazioni di sue proprie caratteristiche. Andiamo ancora oltre e utilizziamo gli strumenti etnopsichiatrici per parlare di forme letterarie che scaturiscono dal rapporto tra cultura e modi di essere, più o meno creativi, adattati, fonte di sofferenza o di energia. Forme letterarie che originano dalla cultura e che poi la riflettono, la modificano, riplasmando le persone, che a loro volta producono la letteratura e la cultura. Scegliamo i vampiri, una sorta di mito, metafora, paura, fascinazione, che apre a complessità e intersezioni: fra rischi, potenzialità, limiti; fra società e psicopatologia, nel loro reciproco influenzarsi, nelle letture che ne determinano i rispecchiamenti. Chiudiamo così questo scritto con qualche suggestione letterario-antropologica, che ci può aiutare a leggere malesseri e risorse del nostro mondo. È un gioco, a cui ci possiamo abbandonare senza prenderci troppo sul serio, ma costruendo sfondi e complessità. Giocare con figure letterarie, miti, costruzioni fantastiche proprie ed altrui può aiutarci ad allargare lo sfondo intorno a una patologia. Non siamo in una dimensione sociologica, quella che ha prodotto, ad esempio, il concetto di società narcisistica; ma in una dimensione etnografico-antropologica, ancora più complessa. Leggiamo l’esempio del vampiro come una sorta di ipertesto: una modalità di lettura, scrittura, apprendimento non lineare, che consente di decidere quali collegamenti seguire, quale percorso di lettura scegliere. Anche il sapere dell’etnopsichatria può essere da noi fruito come un ipertesto, con collegamenti che seguono associazioni di idee, senso e

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Il concetto di disturbo etnico ci aiuta a capire meglio una società attraverso le sue malattie, intese come estremizzazioni di sue proprie caratteristiche

Leggiamo l’esempio del vampiro come una sorta di ipertesto: una modalità di lettura, scrittura, apprendimento non lineare, che consente di decidere quali collegamenti seguire, quale percorso di lettura scegliere


Possiamo vedere i vampiri come metafora sia dell’incontro con lo straniero sia di un disturbo etnico

utilità. In questo modo, l’analisi diventa anche soluzione, prospettiva, apertura. Dracula nasce letterariamente a partire da floride narrazioni popolari. Nasce come figura al confine fra realtà e letteratura, come straniero, diavolo o drago, che minaccia di appropriarsi della nostra energia vitale. Nessuno scambio, nessuna crescita, il nostro ruolo è solo passivo. Dracula come straniero, quintessenza del nord barbaro per i popoli mediterranei (anche se nel libro di Stoker è la vecchia Inghilterra ad essere minacciata), quel nord dominato o minacciato da popolazioni celtiche, turche, unne, ugro-finniche, germaniche, slave, che fa paura soprattutto se non ci mettiamo in discussione e se non cambiamo insieme ai nostri invasori. Possiamo vedere i vampiri come metafora sia dell’incontro con lo straniero sia di un disturbo etnico. Se ripercorriamo i punti che definiscono questi disturbi, infatti, pur sapendo che stiamo compiendo un azzardo metodologico, troveremo analogie e spunti interessanti. Recentemente, si sta sviluppando una letteratura, in ambito psicologico, ma ben accolta anche da gruppi interessati all’esoterismo, che parla di «vampiri emozionali»32. La classificazione di questi vampiri riproduce parzialmente quella dei disturbi di personalità o ridefinisce situazioni relazionali problematiche, caratterizzate da perdita di energia. Il vampiro ci succhia il sangue, ci succhia l’energia. Questo, almeno come metafora, si può estendere a molte relazioni. Perché succhiano energia i vampiri emozionali? In che modo? Con il nostro linguaggio, gestaltico, potremmo dire che al confine di contatto sono carenti presenza ed energia. L’energia disponibile viene assorbita, quasi ‘rapinata’, senza assimilazione. Ne serve così una quantità sempre maggiore. È un processo a perdere. Dalla relazione, dal processo di contatto, qualcuno, qualcosa, rischia di uscire prosciugato. Vampiri come figura della nostra alterità? Vampiri o cannibali? Per sottolineare meglio alcune caratteristiche dei vampiri, costruiamo una contrapposizione con una modalità affine, ma

32 Cfr. A.J. Bernstein (2002), Emotional Vampires. Dealing with People Who Drain You Dry, McGraw-Hill, New York.

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opposta, quella del cannibalismo. Una forma di relazione fra gruppi contrapposti, presente in alcune latitudini, orizzonti, epoche. Una modalità accettata da entrambe le parti in gioco. Più esattamente in guerra33. Vampiri versus cannibalismo, una delle possibili forme culturali – forse solo all’apparenza estreme – di rapporto con l’altro, il diverso, il nemico. Un nemico da assimilare, da far diventare parte di noi. Un gioco di potere che, indipendentemente da dove penda la bilancia, non determina l’annientamento di una parte, né una perdita della biodiversità, ma una combinazione di elementi diversi, una ridefinizione del mondo, in cui il vincitore è stato contaminato dal perdente ed esce diverso. Possiamo intravedere qui, nello sfondo, la consapevolezza della non autosufficienza. Di un gruppo, una società, una cultura. Non vogliamo cadere nel rischio dell’idealizzazione di culture e modalità diverse dalle nostre. Nel rischio dell’utopia, che distorce lo specchio in cui ci guardiamo negli altri e ci fa vedere noi come vorremmo essere. Desideriamo, invece, continuare ad attingere ad una pluralità di possibilità e significati dell’essere umani, anche in situazioni sicuramente drammatiche, come sono, ovunque, la guerra e la morte. Diffuse dal Sudamerica all’Oceania34, le pratiche cannibaliche hanno la

33 Troviamo particolarmente interessanti le pagine in cui Remotti ci parla, come esempio di alterità che diventa somiglianza, del cannibalismo Tupinamba. La cosiddetta identità di una popolazione non esisterebbe, in quanto composta di identità e alterità inscindibili fra loro. Il cannibalismo, non inteso qui come atto di nutrimento, è, invece, inserito in una sorta di rituale post-bellico fra due popolazioni (A e B). Quella vincente ammette nella propria società dei prigionieri, manifestando un forte senso di ospitalità e talvolta anche di affetto; il prigioniero viene trasformato in un quasi-noi. Solo successivamente abbiamo il passaggio finale di questo processo, l’atto di cannibalismo vero e proprio (che si divide in cannibalismo attivo, quando viene mangiato il corpo del prigioniero, e passivo, dato dalla realizzazione di oggetti con le ossa del prigioniero). L’aspetto più interessante di questo processo è che A (il prigioniero) tende volontariamente a B (il vincitore) perché lo ritiene una tomba prestigiosa, cui aspirare per supplire e compensare la propria condizione manchevole. 34 Cfr. P. Brown, D. Tuzin (edd.) (1983), The Ethnography of Cannibalism, 1983, Washington; E. Viveiros De Castro (1992), From

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Vampiri versus cannibalismo, una delle possibili forme culturali – forse solo all’apparenza estreme – di rapporto con l’altro, il diverso, il nemico


funzione di assimilare la diversità, masticandola, in senso più o meno concreto o metaforico. Da noi questo si ribalta nel succhiare il sangue. Perché? Lasciamo la domanda aperta. La forma soggettiva, rispettivamente memoriale ed epistolare, delle due grandi narrazioni anglosassoni ottocentesche sui vampiri, Carmilla e Dracula, sembra ricordarci qualcosa di impegnativo: che cioè l’icona del seduttore vampiresco ha anzitutto le sue radici in noi, nei nostri sogni spesso di piccolo cabotaggio, nella nostra disponibilità a farci assoggettare […]. Non è un caso che i vampiri trionfino nei momenti di crisi, quando il mondo intorno, quello delle nostre appartenenze familiari e magari ideologiche […], sembra costituito da vecchi impotenti. Che nella furia di distruggere il vampiro finiscono con l’assomigliargli35. Gli stimoli non lasciano traccia e non modificano; là dove le novità sono interessanti, scomode, nutrienti, da assimilare

Qualcosa, nella struttura stessa della nostra società, rischia di risucchiare le novità, le possibilità, l’energia? Viviamo in un contesto che annulla opposizioni e polarità diverse? Tutto si vanifica, in una condizione postmoderna di crisi di categorie, fedi, ideologie? Gli stimoli restano tali e non diventano novità, perché non sono supportati né selezionati? Gli stimoli non lasciano traccia e non modificano; là dove le novità sono interessanti, scomode, nutrienti, da assimilare36.

the Enemy’s Point of View: Humanity and Divinity in an Amazonian Society, University of Chicago Press, Chicago; F. Remotti (1996), Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari. 35 M. Bevilacqua (2009), L’evoluzione del vampiro nella letteratura, Oblique Studio, Roma, 6. 36 Viviamo in un mondo complesso. E, per quanto si cerchi di allargare la consapevolezza, troppi sono gli stimoli che ci invadono in ogni istante. La figura non fa in tempo a definirsi. L’adattamento creativo è, oggi, primariamente un lavoro di selezione. Si tratta di non perdere la direzione data dal sentire i bisogni, dall’ascoltare il corpo. Di mantenere la spinta dell’intenzionalità relazionale, la capacità di discernere e orientarsi della funzione-io, il sostegno di appartenenze, percorsi, funzione personalità. Tutto questo per dare una struttura al caos, alla complessità dell’ambiente. Un surplus di stimoli può infatti ridurre l’attenzione nelle relazioni e l’esperienza delle emozioni. Diventa, allora, fondamentale tutto ciò che dà il sostegno necessario per distinguere e decodificare gli

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Gli stimoli danno un nutrimento immediato, ma che si esaurisce presto e non sfama davvero (come il sangue…). L’attuale interesse per racconti e saghe su moderni vampiri sembra indicare, come metafora della nostra società, la ricerca più di stimoli facili da cogliere, che di impegnative novità Vampiro è sia straniero sia specchio37. Vampirismo come situazione limite a cui tende il narcisismo. Non ci sono né morte né rischi. Troviamo, viceversa, un’eterna giovinezza. Ma manca la capacità di assimilare, siamo di fronte a una non vita. Questo hanno capito i nostri figli, le nuove generazioni, figli e nipoti della società narcisistica. Arrivare al limite di una polarità innesca, però, la contro-polarità, l’affetto. Tenero e ingenuo, anche perché sconosciuto, da scoprire. Legami fragili, che vanno nella direzione di superare la morte narcisistica. L’affettività del vampiro moderno è carina, infantile, tenera, adolescenziale, dalla sessualità incerta, forse perché, essendo fuori da norme e doveri sociali, il vampiro non è obbligato a scimmiottare forme relazionali che non sente, rimanendo ‘puro’, apparentemente incontaminato da quegli stessi mali della società, che, in un’altra accezione, rappresenta. Questa modalità, nuova, è, in quanto tale, anche una possibilità. Vampiro come estremo decadente di una società decadente, come elemento estremo distruttivo; ma vampiro anche come possibilità di ‘uomo nuovo’. Come dire, c’è il narcisismo vecchio e sterile di una società che si auto-consuma; ma anche un narcisismo che è speranza e forse possibilità di una società diversa. Forse la polarità si sta invertendo, forse è la vittima a nutrirsi. È possibile? È il vampiro, oggi, a essere sfruttato? La società succhia la sua energia. Stiamo cercando di attingere a questo immaginario per rigenerarci?

stimoli, attraverso la costruzione di una rete di senso e di significato. Il sostegno permette alla funzione-io di mantenere il suo ruolo di ordinatore dell’esperienza, e di non perdere una direzione. 37 Un’altra interessante suggestione, a questo proposito, è che la tradizione vuole i vampiri incapaci di essere riflessi in uno specchio. Perché non hanno anima. Potremmo dire, perché non hanno sfondo, né spessore temporale e relazionale; né vita. Potremmo anche mettere a confronto questa non-immagine-riflessa all’immagine-riflessa di Narciso. Polarità opposte o affini?

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Vampiro è sia straniero sia specchio. Vampirismo come situazione limite a cui tende il narcisismo

L’affettività del vampiro moderno è carina, infantile, tenera, adolescenziale, dalla sessualità incerta. Questa modalità, nuova, è, in quanto tale, anche una possibilità


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Abstract Quanto deve essere diverso l’altro per essere altro? E quanto questa variabile, imprevedibile differenza sfida e mette in crisi il nostro essere terapeuti? Di che strumenti abbiamo bisogno per capire un immigrato, o per decifrare quanto avviene in un altro continente? Queste sono le domande a cui questo articolo cerca di dare risposta, interrogando le discipline che si sono occupate e si occupano di approcci interculturali. Primariamente, interrogando l’etnopsichiatria. Individuiamo dei fili rossi da dipanare lungo questo piccolo percorso. Quelli dell’esperienza migratoria, del confronto con l’alterità/ novità, di un’attenzione anche clinica all’altro e all’immigrato. Un ‘altro’ che, a specchio, diventiamo noi stessi. L’attenzione della psicoterapia della Gestalt agli sfondi è una chiave importante per l’attenzione all’intercultura. L’altro, il nuovo, il diverso mette in discussione a tutti i livelli, dalla relazione duale ai processi sociali più ampi. Mette in discussione i presupposti che diamo per scontati nel nostro quotidiano procedere, l’ordine sociale che ogni società si dà. Con l’etnopsichiatria ci collochiamo proprio nella continua relativizzazione di saperi e discipline. Sempre più ‘deboli’ e per questo sempre più interessanti. Riflettere sui sistema di cura è anche riflettere sulla produzione del consenso politico e sociale, su come questo plasmi le forme del disagio; è interrogarsi sul come l’etnopsichiatria sia una disciplina di confine, un metodo, più che un insieme di conoscenze.

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Untitled (particolare)


ARTE E PSICOTERAPIA

TOCCO DI RUBINO Chiara Gatti

6 Febbraio 2014

Velo di rosso cremisi sulle mie spalle curve piegate sotto a ruote di lunghe lune rosse. Medici ed anticamere per vecchie sofferenze in notti vuote e cave col cuore all’impazzata che chiede di tornare ai giorni del riposo tra tutte le compagne che vivono la gemma di un sole che ritorna soltanto quando è giorno. Ti vedo da lontano disteso tra la folla, promessa di rubino per donna senza gioie ma sola con rimpianti di una stranezza cupa e pena imbavagliata. Consegno nel mio tocco la sola mia pienezza a un lembo di mantello che so che ti appartiene: il tatto è una parola che non so pronunciare consunta da uno strazio che più non mi appartiene. Mi arresto e il mio dolore si spezza come pietra che viene decorata da uno scalpello nuovo che segna questo tempo di tutto il suo vigore. Mi vedi e poi mi accogli ma io posso mostrare soltanto il luccichio, velato e scolorito,

di anni indeboliti che non sanno di vita. Ti temo e poi avverto che tu mi sai spiegare il senso di quel tocco, gentile e disperato, di donna che a un mantello concede autorità, sapendo che il Tuo Corpo è stoffa troppo sacra... Così lo scambio è premio di fede consolata in semplice pienezza di manto ricamato.

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CHIARA D’ASSISI

ESTER

Chiara Gatti

Chiara Gatti

Mi chiudo in un centro dove dorme una gioia che ha il nome sereno di una donna vissuta.

È nata da fronde di cielo la regina che vive in un astro e sceglie di tutte le lune la sola che reca bellezza, È viva accanto al suo re, potente la sua dimessa gloria, che non conosce brama di trono superiore. Nel buio le resta la sua stanza e una preghiera fatta di sete inginocchiata di chi non è toccato da brama di potere. Rimane in piega disadorna di vesti e implorazione che possono variare da cenere a diademi: il fondo è la consegna a un Re a cui appartiene da sempre e senza oltraggio... Infine si avventura nel fragile suo vaso di stelle sbriciolate in bocca a quel leone di fauce scolorita, vantando ogni mancanza come in un suo vigore che muove l’altro cuore a riscattarle il Dono. Si apre solo allora disteso il firmamento a un popolo in attesa, e a lei la sua corona di cui non sa che fare...

5 Settembre 2013

La tocco nei lembi di un tessuto di cielo che ha portato per anni sapendolo rotto.... La smania del nulla l’aveva riempita di ardui sentieri che avevano piazze abitate da donne in parchi mercati di semente venduta in pena e silenzio.. Vorrei in quelle piazze trovare il mio posto e rendere vuoti ormai senza parole. Richiederle il dono di esserle figlia in baci non dati, abbracci di vento in cerchi di pianto vicini al Suo volto di Sposo completo.

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29 Gennaio 2014


RIGA DI CIGLIO

COLLO DI GIUDITTA

Chiara Gatti

Chiara Gatti

Quando il dolore sarà troppo, usciranno molti fiumi dal mio alveo di rosa grigia in un branco silente di lupi assiepati, presenze invisibili di un giorno incalzante. Se ci sarà il tempo di addormentare un figlio, un giglio mi spenga quell’ansia di nutrirlo con parole impossibili e pena di vento nella culla che dondolo.

Alberi crescono al collo di Giuditta alberi scarni come bei monili. Capelli a fiotti sul capo di Giuditta solo pensieri di morte e di salvezza. Collo prezioso, gioiello dolce arcuato un ceppo vano, respiro d’altre vene. Labbra socchiuse, parole dolci amare spazi raccolti che non sa più ridire. Occhi socchiusi per un breve sguardo sul suo Oleoferne, uomo da capire. Viene Giuditta, sa come soggiogare l’unico collo di quel suo momento dove la vita trova il suo valore umido eroe di quel suo mozzare...

24 Agosto 2013

Allora forse mi avrai dato quel segno di rosso confine su una riga di ciglio che rimarchi per poco la distanza avvertita, mentre tocco le ali di farfalle nel cuore e la polvere cade, terminando il mio volo.

4 Gennaio 2013

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CASSANDRA Chiara Gatti

1 Settembre 2013

Fu Priamo con cui visitai le stanze di prime visioni, io breve col viso tremante, lui re ma col corpo piegato. Un megaron poteva bastare tra cure di padre e di madre, ma io avevo scelto degli atri che un dio mi poteva donare. Lo fece vantando uno scambio, non volli, così ebbi in cambio lo sputo che rende più amara la bocca di lame e parole... Nessuno mi avrebbe creduto. A me consegnava un destino, la Vista come oscuro regalo, distacco profondo nel cuore vedendo quel fuoco di pena por fine ai miei affetti più cari e mura di nuova Micene con scure di morte regina. Fu Christa a ridarmi una vita, sottile, fedele, di perla... Capiva che donna ero stata che luce di fuoco e tramonto, che sesso di sponda sbagliata amandomi in riflessi di quadri di tinte diverse che in vita intere non potevo aver visto. Mi rese comunque un bottino, di guerra una facile preda da usare per stregare e ammaliare: Cassandra la donna visione, la donna strumento di Voce, che vendica donne recise... La vista di nuovo un ordigno, gettato oltre roghi di case, di corpi rinchiusi per sempre, di un modo diverso d’amare.

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PUBBLICAZIONI TEORIA EVOLUTIVA E TERAPIA FAMILIARE

Come l’acqua. Per un’esperienza gestaltica con i bambini tra rabbia e paura Autori: Dada Iacono, Ghery Maltese

Danza delle sedie e danza dei pronomi. La Gestalt Therapy con le coppie e le famiglie Autore: Giovanni Salonia

Si esce dalla lettura di Come l’acqua... con delle sensazioni forti, come quando si viene fuori da uno di quei fiumi rigeneratori presenti in ogni cammino di iniziazione. Il corpo che vibra e le gocce che giocano sulla pelle narrano dell’acqua che scorre, della dolcezza del fluire ritrovato, della forza che proviene dagli argini, dell’impeto come energia che attraversa gli ostacoli. Leggendo si impara tanto su come, nella teoria e nella prassi della Gestalt Therapy, si lavora (o meglio: si entra in contatto) con i bambini. E non solo con loro. E non solo nel setting terapeutico o educativo. Perché i bambini ci aiutano a crescere. E forse, per far crescere la «nostra statura prossima» (quella di cui parla mirabilmente Mario Luzi), abbiamo bisogno di raggiungere ogni bambino ferito nel suo dolore, nella sua disperazione, e di coinvolgerlo (e coinvolgerci) nella danza relazionale che dentro il suo corpo vibra e preme per fluire. Come l’acqua...

La famiglia postmoderna porta avanti un progetto inedito e ambizioso: essere il luogo della piena realizzazione di ognuno e di tutti. Dentro tale intenzionalità accadono difficoltà e conflitti che spesso sembrano contraddire questo progetto. Coniugare, infatti, maternità e paternità, maschile e femminile, sessualità e vita quotidiana, sogni e tradimenti, piccoli e grandi, centralità e periferia, primogeniti e secondogeniti è fatica spesso impossibile. La Gestalt Therapy, assumendo come principi ispiratori e clinici la centralità del soggetto in relazione, il corpo vissuto, il qui-e-adesso del contatto, offre chiavi di lettura e di intervento che facilitano nella famiglia la ripresa della danza relazionale, dove diventa musica il ritmo di ogni membro della famiglia. Categorie come intercorporeità, funzione-Personalità, grammatica della relazione, diventano nella presentazione dell’autore strumenti terapeutici preziosi per ridare alla famiglia il sogno di una pienezza del singolo e di tutti.

ISBN: 978-88-6124-384-2 Pagine: 96

ISBN 978-88-6124-388-0 Pagine: 160

Indice

Indice

Editoriale

Editorial

In questo numero

In this issue

Edipo dopo Freud. Dalla legge del padre alla legge della relazione Giovanni Salonia

Oedipus after Freud. From the law of the father to the law of relationship Giovanni Salonia

Il trivio della condizione umana: tra verità e relazione, tra diade e triade E se invece gli dei non esistessero? Il triangolo primario: nell’Atene di Sofocle, nella Vienna di Freud, nella postmodernità Dal disagio del figlio al disagio del triangolo primario Dal trivio una nuova ermeneutica per la co-genitorialià Bibliografia

From Freudian fracture to Gestaltic continuity: the epistemological gap of Gestalt Therapy Antonio Sichera

Dalla frattura freudiana alla continuità gestaltica: lo scarto epistemologico di Gestalt Therapy Antonio Sichera

Letter to a young Gestalt therapist. Gestalt therapy approach to family therapy Giovanni Salonia The refund grandson Co-therapy carried out by V. Conte and G. Salonia Giusy’s failed degree Therapy conducted by G. Salonia

L’inconscio e il suo oltrepassamento in una prospettiva storico-culturale La prima mossa: l’ermeneutica relazionale dell’inconscio La seconda mossa: lo scioglimento estetico Conclusioni rapide Edipo Re Sofocle traduzione di Guido Paduano

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MIUR D.M. 9.5.94, D.M. 7.12.01 e D.M. 24.10.08

SICILIA-LAZIO-VENETO

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Man with mask


NUOVE APPLICAZIONI CLINICHE

DA GEPPETTO A PIGMALIONE: IL MASCHILE COME PRESENZA CHE (SI) TRASFORMA Claudia Angelini Una favola del XIX sec. e un mito del I sec. possono ancora raccontare qualcosa di attuale e di significativo all’uomo e alla donna degli anni 2000?

La nostra è un’epoca in cui il maschile sembra catturare l’interesse o per la sua assenza o per il suo diventare figura terrificante nei confronti della donna

Questa è la domanda che mi sono fatta, accingendomi a scrivere questo articolo e, nel tentativo di trovare una risposta, ha colpito la mia attenzione un aspetto: il fatto che entrambi i personaggi che ne sono stati ispiratori siano uomini. Beh, che c’è di strano? Nulla di strano, in realtà, è solo che la nostra è un’epoca in cui il maschile sembra catturare l’interesse o per la sua assenza (si consideri il venir meno del codice paterno nell’educazione dei figli) o per il suo diventare figura terrificante nei confronti della donna (verso cui manifesta talvolta una distruttività feroce, figlia di una sostanziale incapacità a stare in relazione dialogica con l’altro). Un’epoca, dunque, in cui proprio dal maschile si alza una richiesta – forse non pienamente consapevole – di aiuto verso il mondo circostante, per riuscire ad attraversare questa delicata fase di cambiamento (ri)trovando o re-inventando modi di esserci-con rivestiti di senso, quel senso che solo il legame autentico con l’altro può offrire. Per questi motivi mi pare che, in effetti, possa avere un senso richiamare a noi alcune suggestioni evocate da questi due personaggi cui corrispondono due diversi volti del maschile, dal momento che essi non fanno solo parte del nostro passato – inteso come le radici culturali e personali che danno forma a ciò che siamo – ma ci interrogano sul presente, rendono possibile la costruzione di ponti tra ieri e oggi, tra un tempo che fu e l’attualità e dunque, a buon diritto, potranno accompagnarci in questa riflessione sul mondo relazionale odierno.

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Per un ritorno del padre

Chi vive senza diventare padre, rischia di morire senza diventare uomo Autore sconosciuto

Un tempo la donna aveva il compito di mettere al mondo il figlio, di allevarlo, di occuparsi di lui fintantoché rimaneva nello spazio della casa; al padre spettava invece quello di metterlo nel mondo, insegnandogli a trovare e occupare il proprio posto nel più ampio spazio mondano. Egli trasmetteva le regole sociali, era il primo esempio di autorità, il detentore dei valori. Il padre era colui che assicurava l’ordine, nel mondo e nella vita dei suoi figli. Questa coesistenza di funzioni educative diversificate, che si integrano nell’agire congiunto delle due figure genitoriali – che appunto in modo diverso promuovono lo sviluppo del figlio – si ritrova parimenti nell’etimologia del termine educare: da un lato, esso rimanda all’omonimo vocabolo latino, che fa riferimento prevalentemente al nutrimento e alla cura (allevare, alimentare, nutrire, curare, ecc.); dall’altro, esso deriva a sua volta da un altro verbo (educere), che significa ‘trarre fuori’, ‘far uscire’, ‘portare alla luce’1. In queste diverse accezioni, pertanto, possiamo cogliere le differenti sfumature di senso intrinseche alla parola educazione: le prime connotano la funzione formativa declinata secondo il principio materno, le seconde esprimono il ruolo genitoriale inteso secondo il codice del padre. La madre accoglie, protegge e consola; il padre spinge ad andare, a rischiare, trasmette interessi e innalza alla dimensione dei valori. La madre, nutrendo, toccando e prendendosi cura

1 AA.VV. (2013), Vocabolario Treccani, Giunti, Firenze.

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Un tempo la donna aveva il compito di mettere al mondo il figlio, di allevarlo, di occuparsi di lui fintantoché rimaneva nello spazio della casa; al padre spettava invece quello di metterlo nel mondo, insegnandogli a trovare e occupare il proprio posto nel più ampio spazio mondano


del neonato, lo inizia alla vita. Il padre, consentendogli di separarsi dalla madre, gli insegna l’esperienza della perdita e con essa lo inizia alla scelta e alla morte2. Questo, appunto, è ciò che succedeva nelle famiglie fino a circa 20-30 anni fa… E oggi? Nell’epoca ipermoderna i genitori sembrano maggiormente impegnati nell’intento di farsi amare a tutti i costi dai propri figli piuttosto che di educarli; sono così preoccupati di poter dare loro tutto ciò che essi – come figli – non avevano ricevuto, che di sovente eliminano proprio quelle pratiche educative che garantivano una buona crescita, non solo in quanto trasmettevano il senso e il valore del limite ma anche perché consentivano l’emergere del conflitto generazionale e, con esso, l’apprendimento della possibilità di incontrare-(ri)conoscere-amare l’altro (anche) nelle differenze, elementi, questi, indispensabili al figlio affinché riesca ad individuarsi nel riconoscimento dell’alterità e a vivere con pienezza la propria vita3. La mancanza di queste specifiche competenze relazionali, che fino a qualche decennio fa venivano trasmesse prevalentemente attraverso il rapporto padre-figlio, rende particolarmente vulnerabili i giovani e segnala un assottigliamento della distanza generazionale, un appiattimento delle posizioni reciproche all’interno dei rapporti parentali. L’avanzata prepotente della soggettività in quanto valore e la sua apologia incondizionata – cifra distintiva del tempo attuale – in effetti mal si conciliano con la relazione educativa, ove essa preveda un rapporto tra qualcuno che ‘sa’ e qualcun altro che deve «imparare accettando la verità dell’altro». Per questo, oggi, risulta di gran lunga preferibile mascherare i rapporti che si fondano sull’asimmetria (e, tra questi, la relazione educativa) rendendoli, almeno in apparenza, paritari. Il rischio insito in questa ipo-

2 Cfr. C. Risé (2013), Il padre. Libertà dono, Ares, Milano, 152. 3 Su questo tema, cfr. M. Recalcati (2011), Cosa resta del padre. La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano; G. Salonia (2010), Edipo dopo Freud. Una nuova gestalt per il triangolo primario, in D. Cavanna, A. Salvini (edd.), Per una psicologia dell’agire umano. Scritti in onore di Erminio Gius, Franco Angeli, Milano.

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crisia consiste nel ‘fingere’ che, nel caso specifico, genitore e figlio si trovino sullo stesso piano, dimenticando che chi si prende cura dell’altro (a qualunque titolo e in qualunque contesto) «ha sempre e comunque la responsabilità della relazione e non può né percepirsi né comportarsi a livello paritario»4, in quanto ciò comporterebbe uno stravolgimento della realtà del rapporto, che è e rimane irriducibilmente asimmetrico. Ma da cosa deriva tutto questo? Che cosa induce il genitore di oggi a non riconoscere o ad ignorare questa verità? In termini gestaltici, possiamo cogliere in questa condizione un disturbo della funzione-Personalità del Sé, che riguarda il modo in cui l’individuo si rappresenta, l’immagine che ha di se stesso: gli uomini odierni, ancor più delle donne, stanno vivendo una rilevante difficoltà a trovare una collocazione rivestita di senso («chi sono io? qual è il mio ruolo? chi sono io per lei?»), nella polis come nell’oikos, per via delle note trasformazioni sociali che hanno investito e stravolto potentemente i rapporti uomo-donna5. Tutto questo, come la PdG ha intuito e sottolineato, non può che riversare i suoi effetti anche sulla relazione con i figli: la prospettiva triangolare proposta dalla Gestalt Therapy offre, infatti, una visione complessa dei legami madre-padre-figlio e riconosce la centralità della relazione coniugale nel determinare la qualità dei singoli rapporti genitore-figlio6. È chiaro dunque come i mutamenti che stanno avvenendo all’interno della coppia – in termini di ruoli maschili e femminili, modalità relazionali reciproche, ecc. – comportino un pervasivo smarrimento identitario particolarmente negli uomini – e nei padri – di oggi, e ciò si manifesta anche nella difficoltà a trasmettere a loro volta ai figli un’identità che consenta loro

4 G. Salonia (2012a), Dacci oggi i pani per condividere, in «MC Messaggero Cappuccino», 10, 12-15, 12. 5 Cfr. G. Salonia (2004), Femminile e maschile: vicende e significati di un’irriducibile diversità, in R.G. Romano (ed.), Ciclo di vita e dinamiche educative nella società postmoderna, Franco Angeli, Milano. 6 Sul tema della cogenitorialità, cfr. G Salonia (2009), Letter to a young Gestalt therapist for a Gestalt therapy approach to family therapy, in «British Gestalt Journal», 18/2, 38-47; Id. (2010), Edipo dopo Freud, cit.

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Gli uomini odierni, ancor più delle donne, stanno vivendo una rilevante difficoltà a trovare una collocazione rivestita di senso. Tutto questo non può che riversare i suoi effetti anche sulla relazione con i figli


L’insegnamento paterno, che consiste nell’unire il desiderio alla ‘legge’, diventa impossibile

di abitare gli spazi vasti e sconosciuti al di fuori della casa portando con sé il sostegno delle radici e la bussola, che solo le buone relazioni educative possono fornire. La funzione simbolico-formativa del padre sta quindi attraversando una profonda crisi per due ordini di motivi: in primo luogo, per via del contesto sociale e culturale che ha privato di valore il principio d’autorità (e con esso il padre, che di quel principio era simbolo e custode), ha abolito ogni norma condivisa in nome del relativismo assoluto e che sospinge verso l’appagamento privo di differimenti e di qualsiasi vincolo. In tale prospettiva, infatti, l’insegnamento paterno, che consiste nell’unire il desiderio alla ‘legge’, diventa impossibile, dal momento che ogni esperienza del limite – a cui oggi si risponde con un «Perché no?» – diventa del tutto insensata e, in quanto tale, inaccettabile7. In secondo luogo poi, coerentemente con i presupposti dell’ottica triangolare sopra accennata, va considerato come la paternità – e le modalità con cui viene espressa – si modifichi in funzione dei cambiamenti che si verificano all’interno del rapporto uomo-donna e, non meno, nel rapporto madre-figlio: in altre parole, nel modo di essere – e sentirsi – padre è implicita una definizione di madre, dal momento che non può esistere quel padre di quel bambino senza quella determinata madre, e viceversa8. Finché la madre ha rappresentato – per dirla con Winnicott – la «stabilità del focolare»9, garantendo nutrimento, accoglienza e contenimento, per il padre è stato infatti possibile preparare e introdurre i figli alla «vivacità della strada»10 trasmettendo loro valori fondamentali quali il senso della responsabilità, la spinta emancipativa, il rispetto della norma, ecc. Come detto

7 Cfr. M. Recalcati (2011), Cosa resta del padre, cit. 8 M. Spagnuolo Lobb, G. Salonia (1993), Verso un’ecologia della competenza genitoriale. Il contributo della psicoterapia della Gestalt, in «Genitori e Figli, Atti del I Convegno di Studi della S.I.P.P.R. – Società Italiana di Psicologia e Psicoterapia Relazionale», Taormina, 5-6-7 Febbraio. 9 Cfr. D.W. Winnicott (2001) (ed. or. 1958), Dalla pediatria alla psicoanalisi. Patologia e normalità nel bambino. Un approccio innovatore, Psycho, Firenze. 10 Cfr. Ivi.

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all’inizio, entrambe queste componenti della funzione educativa sono fondamentali e imprescindibili per una sana crescita: infatti, l’amore privo della direzione normativa non consente al figlio di progredire lungo il naturale processo di individuazione e separazione dalle figure genitoriali, così come il rispetto della legge in assenza di calore diventa per il figlio un’esperienza mortifera (di cui la cronaca attuale sempre più spesso ci restituisce gli esiti infausti sulla vita degli adolescenti), in quanto disconferma della sua stessa esistenza. Infatti, la ‘regola’ è un seme che può germogliare e portare frutto SOLO SE seminata nel terreno fecondo della relazione, solo se prima c’è stato un grembo caldo che ha accolto senza riserve il corpo del figlio e, insieme al calore e al nutrimento, gli ha infuso la fiducia nell’altro, nel mondo, nella vita, oltre che in se stesso. Il limite può essere accettato e assimilato solo se il genitore ha consentito al figlio l’esperienza – prima di tutto corporea – del sentirsi ‘visto’, riconosciuto, incluso in un legame di appartenenza, solo se l’adulto ha fondato nel figlio quel senso dell’esserci che costituisce la prima e più solida forma di identità, una sorta di baricentro stabile intorno al quale i cambiamenti legati «ai ruoli, ai disagi, alle fatiche e ai piaceri del quotidiano, potranno poi compiersi e fluire senza distruggere l’integrità della persona»11. In tali condizioni favorevoli, il limite non è negazione della libertà/esistenza dell’altro, al contrario gli fornisce una cornice simbolica entro cui la libertà diventa davvero possibile, non più in qualità di agito incontrollato (coazione) ma in quanto autentica ‘possibilità di scegliere’ (e in questo consiste il buon funzionamento della funzione-Io del Sé) coniugando il desiderio (funzione-Es) con la responsabilità (funzione-Personalità), il sentire con la cura di sé, dell’altro e del legame tra i due12.

11 A. Fabbrini (1997), Le radici corporee dell’esperienza emotiva nella psicoterapia della Gestalt. Per una lettura gestaltica degli stati limite, in C. Maffei, L. Baroni (edd.), Emozione e conoscenza nei disturbi di personalità, Franco Angeli, Milano, 206. 12 Cfr. G. Salonia (2012b), Teoria del sé e società liquida. Riscrivere la funzione-Personalità in Gestalt Therapy, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 3.

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La ‘regola’ è un seme che può germogliare e portare frutto SOLO SE seminata nel terreno fecondo della relazione

Il limite può essere accettato e assimilato solo se il genitore ha consentito al figlio l’esperienza – prima di tutto corporea – del sentirsi ‘visto’, riconosciuto, incluso in un legame di appartenenza


La sfida del tempo attuale consiste nel consentire ai figli di assimilare le esperienze formative che attengono ad entrambi i domini (quale che sia la figura genitoriale che rappresenta l’uno o l’altro): riconoscimento e sfida, sicurezza e ricerca di sé, possibilità e limiti

Il percorso di cambiamento di Pinocchio non prevede la caduta e la distruzione di un padre onnipotente che non consente al figlio di emergere con la propria individualità; anzi, in Geppetto è evidente tutta la fragilità e lo smarrimento del padre contemporaneo

In definitiva, la sfida del tempo attuale non consiste unicamente nel recupero di quei valori che tradizionalmente vengono associati alla figura del padre, ma nel garantire al contempo una presenza adeguata – citando ancora Winnicott diremmo ‘sufficientemente buona’13 − del ‘materno’ all’interno della gestalt familiare, per consentire ai figli di assimilare le esperienze formative che attengono ad entrambi i domini (quale che sia la figura genitoriale che rappresenta l’uno o l’altro): riconoscimento e sfida, sicurezza e ricerca di sé, possibilità e limiti. E proprio di questo ci parla il personaggio di Geppetto, che potremmo definire un padre postmoderno, antesignano dei padri di oggi che condividono il ruolo genitoriale con madri ‘mascolinizzate’ e presenti negli spazi della città non meno che in quelli della casa. Anche Geppetto infatti, come i padri odierni, assume talvolta connotati ‘materni’, esprimendo nei confronti del figlio calore, accoglienza e fiducia incondizionati, oltre ad assolvere per lui funzioni quali il nutrimento, l’accudimento fisico, ecc. D’altra parte, è invece principalmente la Fata Turchina a educare Pinocchio secondo il codice paterno: è infatti a questa figura femminile che spetta il compito di trasmettere le regole e favorire la crescita di Pinocchio lasciandogli facoltà di ‘sperimentarsi’ per le strade del mondo, senza tuttavia sottrarlo alle conseguenze delle sue azioni e alle preziose opportunità di cambiamento da esse derivate. La favola ci mostra – sin da tempi non sospetti – quella verità che oggi sta emergendo con sempre maggior evidenza nella realtà delle nostre famiglie: la paternità – e il suo corrispondente femminile – può essere incarnata in modi differenti da quelli che secoli di storia e di cultura ci avevano forse abituato a considerare come gli unici possibili. L’attualità della figura di Geppetto può insegnarci che invocare il ritorno del ‘padre’ non significa voler o dover ristabilire l’autoritarismo e quella distanza affettiva su cui i padri, fino al secolo scorso, spesso costruivano il rapporto con i figli. Il percorso di cambiamento

13 Cfr. D.W. Winnicott (1970) (ed. or. 1965), Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo, Armando, Roma.

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di Pinocchio non prevede, infatti, la caduta e la distruzione di un padre onnipotente che non consente al figlio di emergere con la propria individualità; anzi, in Geppetto è evidente tutta la fragilità e lo smarrimento del padre contemporaneo, quel padre che deve fare i conti con le esigenze di un figlio ‘forte’ a cui accordare (quasi) sempre il proprio consenso per sentirsi da lui riconosciuto e amato. L’esempio di Geppetto, oltre a indicare che il mito del padrepadrone – e, con esso, quello della mamma-chioccia – è ormai irreversibilmente tramontato, ci riguarda da vicino anche per un altro aspetto, dal momento che ci invita a riflettere in modo diverso sull’esperienza stessa della genitorialità. Se, infatti, essa viene da sempre considerata la funzione attraverso cui l’adulto permette al bambino di crescere, avanzando nel proprio percorso di sviluppo, il buon Geppetto ci rivela un altro pezzetto di verità: non solo i figli si trasformano grazie alla relazione con i genitori, anche i padri – e le madri, naturalmente! – vengono trasformati dal rapporto con i figli. Pinocchio infatti, come tutti i bambini, può davvero esprimere la propria umanità solo se viene educato ad essa14, solo se comprende il valore della gratitudine e riconosce il debito assunto nei confronti di chi gli ha ‘dato forma’, di chi ha donato se stesso in nome del legame tra loro. Allo stesso modo Geppetto, rendendo possibile (insieme alla Fata) la metamorfosi del burattino in essere umano, esce a sua volta trasformato da quelle vicende che gli restituiscono un bambino vero di cui essere, a tutti gli effetti, padre. Se è vero, infatti, che da principio Geppetto crea Pinocchio per mettere un argine alla propria solitudine e fare qualche soldo15, nello stesso atto del crearlo si ritrova ad amarlo, rinunciando al proprio interesse e spesso anche ai propri bisogni per accogliere senza riserve il ruolo del padre.

14 Cfr. G. Salonia (2012a), Dacci oggi i pani per condividere, cit. 15 «Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno: ma un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirar di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino», in C. Collodi (1902) (ed. or. 1883), Le Avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, Bemporad & figlio, Firenze, 12.

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Ad un figlio assetato di esperienze, e con una spiccata avversione per le regole, Geppetto oppone un’instancabile e irremovibile fiducia nella bontà di cuore del burattino e rispetto per le sue scelte (anche quando non condivise), al contempo senza mai rinunciare ad offrirgli quegli insegnamenti di vita che certo non trasmette con le parole ma con la sua presenza attenta e premurosa, autenticamente interessata all’altro. Dunque, proprio questa potrebbe essere l’ultima suggestione che babbo Geppetto lascia in eredità ai padri di oggi: rinunciare a fornire ai figli insegnamenti e verità universali, assoluti – propri di un altro tempo – opponendo tuttavia al vuoto del nichilismo contemporaneo il coraggio di diventare testimonianza vivente della propria scelta etica, ossia di quell’opera inedita che è la propria esistenza in quanto frutto della personale sintesi creativa tra desiderio e responsabilità, tra ragioni dell’io e ragioni dell’altro. In tal modo, il padre può (ri)diventare per il figlio una figura ispiratrice che, attraverso la forza del proprio cammino di vita, può infondergli la sola verità meritevole di essere trasmessa: «individuazione e appartenenza non si contrappongono ma si integrano pienamente»16; esprimere se stessi e la propria identità non significa negare l’altro, ma aprirsi all’incontro con lui all’interno di una relazione in cui «le differenze non emergono per contraddire l’altro, per competere con lui, ma per cooperare alla sua stessa edificazione»17, oltre che alla propria. Dischiudersi all’altro, in un’apertura accogliente che diventa dono di sé, permette all’Io di attraversare «l’esperienza del noi per poi riappropriarsi di un’identità più arricchita, qualitativamente diversa da prima»18, capace di trasformare le esistenze ‘inanimate’ e ‘devitalizzate’ (la propria e quella altrui) in percorsi di crescita della propria umanità.

16 S. Magari, P.A. Cavaleri (2009), Il senso di sé, l’incontro con l’altro e l’accettazione del limite, in «Nuova Umanità» XXXI, (3), 183, 379-394, 387. 17 Ivi, 388. 18 Ivi, 389.

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Quale Adamo per la nuova Eva?

E da allora sono perché tu sei, e da allora sei, sono e siamo, e per amore sarò, sarai, saremo. P. Neruda Quando l’amore vi chiama, seguitelo. Anche se le sue vie sono dure e scoscese. E quando le sue ali vi avvolgono, affidatevi a lui. Anche se la lama nascosta tra le sue piume potrebbe ferirvi. K. Gibran

I mutamenti appena visti riguardanti il ruolo genitoriale derivano, come abbiamo detto, dalle imponenti trasformazioni che ormai da diversi decenni stanno interessando le identità femminili e maschili – e, con esse, i modi di ‘essere coppia’ – e che oggi si esprimono in tutta la loro intensità, rivelando certamente sofferenze e difficoltà nel dare nuova forma allo stare insieme, ma anche opportunità inesplorate che da esse possono prendere vita19. Nel territorio della relazione si gioca, infatti, l’esito del quesito e della convocazione che accompagnano il vivere postmoderno: il primo riguardante l’incertezza di poter riconoscere in essa un sentiero realmente percorribile, e la seconda elevandosi con forza quale ‘chiamata’ alla realtà dell’incontro, a quella dimensione sempre più spesso sconosciuta e temuta che, tuttavia, è e rimane condizione imprescindibile della nostra umanità, bisogno irrinunciabile dell’uomo e della donna di ogni tempo e di ogni luogo.

19 Cfr. G. Salonia (2004), Femminile e maschile: vicende e significati di un’irriducibile diversità, cit.

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Nel territorio della relazione si gioca l’esito del quesito e della convocazione che accompagnano il vivere postmoderno


Il mito di Pigmalione ci consente di attraversare entrambi questi territori − l’amore di sé e l’amore per l’altro-da-sé, la luce e l’ombra − e di viaggiare nel tempo

La relazione è, in fondo, la ‘scommessa’ – potremmo dire parafrasando Pascal20 – a cui nessuna esistenza umana può sottrarsi. E, all’interno dell’articolato mondo delle relazioni, questa sfida cui oggi tutti noi siamo chiamati si rivela più che mai ardua quando riguarda i componenti della coppia che – per la natura stessa del rapporto – sono particolarmente esposti sia al potente richiamo che il legame con l’altro esercita su ogni individuo sia, al tempo stesso, ai profondi timori e incertezze che l’andare-verso-l’altro riattiva: «Come è possibile realizzare l’unità nella diversità?», «Come incontrare l’altro nell’appartenenza senza perdere se stessi?». Tra le varie rappresentazioni del legame di coppia, la letteratura – che sempre attinge alla vita reale – ci offre esempi in cui esso si rivela nella bellezza di un sentimento reciproco di lealtà, rispetto, unione di fronte alle avversità (Ulisse e Penelope, Ettore e Andromaca, Paride ed Elena), come pure troviamo vicende in cui l’amore per l’altro assume i contorni dell’inganno, della perdizione, della volontà di possesso e si manifesta più come riflesso di un bisogno narcisistico in cui l’altro ‘reale’ non trova spazio, che come autentico dia-logo tra due persone (Circe e Ulisse, Didone ed Enea, Marte e Rea Silvia). Il mito di Pigmalione21 ci consente di attraversare entrambi questi territori − l’amore di sé e l’amore per l’altro-da-sé, la luce e l’ombra − e di viaggiare nel tempo sia per riflettere sul cambiamento del rapporto di coppia tra ieri e oggi, sia per immaginarne l’evoluzione nel corso del suo ciclo di vita, dall’innamoramento al progressivo consolidarsi della relazione a due. La vicenda, come è noto, narra dello scultore di Cipro che, indignato dalla condotta dissoluta delle donne dell’isola, sceglie una vita solitaria votata esclusivamente alla propria arte. Egli decide così di costruirsi, con le proprie mani, il suo ideale di donna, scolpendo nell’avorio più prezioso una statua di tale bellezza da non poter essere eguagliata da donna alcuna. Innamoratosi perdutamente di lei, Pigmalione si rivolge a quel

20 Cfr. B. Pascal (1989) (ed. or. 1670), Pensieri, La Scuola, Milano, 128-136. 21 Cfr. V. Sermonti (2014), Le Metamorfosi di Ovidio, Rizzoli, Milano.

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corpo come se fosse in vita, considerandolo l’espressione più compiuta dell’essenza e della presenza femminili. L’amore appassionato dell’artista per la sua Galatea muove a compassione Afrodite e (grazie all’intervento di quest’ultima) riesce a trasformare la materia inanimata in carne viva. Pigmalione può così trovare in lei una vera compagna con cui condividere l’esistenza e generare nuova vita. Il primo aspetto che questa storia ci consente di mettere a fuoco appartiene ad una tradizione culturale che per secoli ha dominato e impregnato di sé le dinamiche relazionali tra l’uomo e la donna e riguarda la svalutazione del femminile: Pigmalione prova disgusto per il comportamento delle donne, per i «vizi illimitati che natura ha dato alla donna»22. Tale pensiero, unito alla complementare convinzione della superiorità maschile, ha dato forma alle identità dell’uomo e della donna almeno fino al secolo scorso (ossia fino a quando la società era organizzata secondo il Modello Relazionale di Base/Noi23): in questa prospettiva, la donna si costituisce – ontologicamente e storicamente – come l’‘altro’, il ‘diverso’ – rispetto al maschile – e l’identità del maschio (il ‘sesso forte’), la sua stessa virilità, si costruisce proprio a partire da una posizione ‘contro’, ossia da ciò che l’uomo non è o da cui fugge (il ‘sesso debole’), vale a dire il femminile, appunto24. All’interno di questa cornice di ruoli rigidamente tratteggiati e incarnati – in tal modo concepiti da un pensiero radicalmente maschile – il rapporto di coppia trova una corrispondente

22 Quas quia Pygmalion aevum per crimen agentis/ viderat, offensus vitiis, quae plurima menti/ femineae natura dedit, vv. 243245, in V. Sermonti (2014), Le Metamorfosi di Ovidio, cit. 23 Su questo tema, cfr. G. Salonia (2005), Cambiamenti sociali e disagi psichici. Gli attacchi di panico nella postmodernità, in G. Francesetti (ed.), Attacchi di panico e postmodernità, Franco Angeli, Milano; Id. (2011), Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani; Id. (2004), Femminile e maschile, cit.; Id. (2013), Psicopatologia e contesti culturali, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani. 24 Cfr. I. Crespi (ed.) (2008), Identità e trasformazioni sociali nella dopomodernità: tra personale e sociale, maschile e femminile, EUM, Macerata.

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Il primo aspetto che questa storia ci consente di mettere a fuoco riguarda la svalutazione del femminile


La verità di ogni individuo, di ciò che egli ‘è’, non può infatti mai dimorare fuori dalla relazione

La dinamica amorosa tra Pigmalione e la statua, ci può mostrare anche come la realtà del partner possa giungere ad estenuarsi, fino a sparire, surrogata dalle proiezioni di sé che assorbono e annullano ogni forma di alterità

modalità espressiva. Ed è proprio su questo sfondo che va collocata e si riempie di senso la dedizione incondizionata di un uomo ad un corpo inerte: lo scarto incolmabile tra il ‘tutto dare’ e il ‘nulla ricevere’ non costituisce, infatti, l’atto generoso di colui che rinuncia a sé – ai propri desideri e bisogni – per l’altro; piuttosto, esprime l’incapacità/indisponibilità ad entrare in contatto con l’altro reale, a donarsi all’altro che – nella sua irriducibile diversità – può talvolta deludere, ferire, cogliere di sorpresa, tradire le attese, e – non ultima possibilità, né meno temibile – sollevare interrogativi laddove la solitudine erige certezze: la verità di ogni individuo, di ciò che egli ‘è’, non può infatti mai dimorare fuori dalla relazione25 e la scelta di un non-rapporto attraverso l’illusione di esso – ove l’altro sia ridotto a mera effigie delle proprie proiezioni – si connota come rifugio per chi anela a «fermare il tempo (la storia)»26, cristallizzando se stesso e l’altro in un ‘dato’ precostituito, in un coagulo rappreso che si sottrae al flusso della vita, rimanendo in un luogo ove la spontaneità e il divenire sono negati. Come accennato sopra, nel racconto mitologico possiamo ritrovare una modalità di stare in relazione che ha caratterizzato il fondamento del legame di coppia per molto tempo, almeno fino alla seconda metà del secolo scorso. In essa, ogni vera reciprocità è interdetta e la ‘perfezione’ dell’amore – in Pigmalione così come nella coppia di ieri – viene assicurata proprio dall’inerzia della donna, dall’arrendevolezza con cui si lascia ‘modellare’ dalle mani del partner e da cui si evidenzia l’impossibilità del legame come relazione paritaria, ossia costruita attraverso uno scambio tra individui equi-valenti27. La dinamica amorosa tra Pigmalione e la statua, se enfatizzata sul versante della ‘cecità’ verso l’altro, ci può mostrare anche come la realtà del partner possa giungere ad estenuarsi, fino a sparire, surrogata dalle proiezioni di sé che assorbono e annullano ogni forma di alterità, qualora quest’ultima venga vissuta come vera e propria minaccia per la consistenza della propria identità.

25 G. Salonia (2011), Sulla felicità e dintorni, cit., 147. 26 Ib. 27 Cfr. I. Crespi (ed.) (2008), Identità e trasformazioni sociali nella dopomodernità: tra personale e sociale, maschile e femminile, cit.

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In tali circostanze, solo in apparenza l’investimento affettivo si trasferisce dall’uno all’altro soggetto della relazione stabilendo tramite esso un contatto fra loro; in realtà, ciò che si verifica è un processo di riflessione (in GT, ‘retroflessione’28) per cui l’energia del sentimento semplicemente si rifrange sull’altro – senza tuttavia attraversarlo davvero e penetrarne la materia – per poi tornare, immutata, a colui da cui era stata generata. In sostanza, si tratta di un rapporto ‘sterile’, in quanto privato del germe generativo che deriva dal reciproco darsi e dall’essere rinnovati da ciò che accade tra sé e l’altro: in questi termini, il contatto, in quanto privo di reciprocità e di eco interpersonale, non può essere nutriente, dal momento che non può produrre novità, crescita e cambiamento negli individui che vi partecipano29. La trasformazione da ‘statua’ a donna ‘viva e vera’ (che riguarda non solo Galatea, ma anche l’identità femminile nell’attuale momento storico) può allora considerarsi l’evento attraverso cui la relazione di coppia disvela la sua intima essenza: talvolta essa non riesce a reggere il flusso di questo mutamento e, in tali casi, la possibilità di far evolvere il rapporto asimmetrico in un incontro co-costruito comporta di fatto il dissolvimento immediato del sogno d’amore (individuale), che si annulla paradossalmente proprio quando più diventa prossimo alla sua massima realizzazione. Viene così portata alla luce l’evidenza che la presenza della donna – quale ‘altro’ reale e partecipante – risulta qui non solo pleonastica ma di vero impedimento per la sussistenza del legame, la cui natura si rivela sostanzialmente in-transitiva. All’estremo di tale modalità relazionale si colloca la relazione uomo-donna quando produce esiti tragici – di cui la cronaca spesso ci dà notizia – derivanti dalla volontà di affermare se stessi e il proprio potere sull’altro, drammatici tentativi di riesumare modi di esserci-con propri del passato riproponendoli in

28 «L’ambiente tangibile dell’individuo che retroflette consiste soltanto di lui stesso, e su questa entità egli sfoga le energie che ha mobilitato», in F. Perls, R.H. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana, Astrolabio, Roma, 260. 29 Sulla modalità relazionale retroflessiva, cfr. G. Salonia (2003), Il narcisismo come ferita relazionale, in «Horeb», 32, 48-54.

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La trasformazione da ‘statua’ a donna ‘viva e vera’ (che riguarda non solo Galatea, ma anche l’identità femminile nell’attuale momento storico) può allora considerarsi l’evento attraverso cui la relazione di coppia disvela la sua intima essenza


un presente ormai mutato, espressioni di sofferenza dell’uomomaschio contemporaneo quando non riesce a ri-definirsi, a (ri) generare-se-stesso-con-l’altro, quando il processo di costruzione di una ‘nuova’ identità – che può emergere solo in un contesto relazionale, quale frutto dell’incontro – non può essere attuato mancando disponibilità e apertura al cambiamento da parte degli individui coinvolti, come pure ancoraggio e supporto ad esso da parte dell’ambiente in cui le persone sono inserite. In queste circostanze, il maschile può essere accostato alla figura di un altro personaggio mitologico, icona dell’amore infelice: Narciso. Egli, infatti, rappresenta l’identità assoluta – autocostituita e autoreferenziale – che non conosce alterità e proprio per questo è chiamato a morire (trasmutare) per rinascere in altra forma30. Diversamente da lui, Pigmalione accoglie invece la sfida che ogni alterità porta con sé e si abbandona a ciò che accade con la sua Galatea anche quando essa smette di essere il simulacro del suo ideale femminile e diventa una donna a tutti gli effetti. Considerata alla luce di questa visione d’insieme, la proiezione dei propri desideri/aspettative/fantasie sulla figura amata assume un senso differente da quello finora evidenziato, connotandosi non tanto quale elemento di disturbo per una reale conoscenza e appartenenza con l’altro, quanto piuttosto come uno dei momenti che il sentimento d’amore attraversa nel corso del suo continuo evolvere e mutare31. Durante l’avvio del rapporto, infatti, nel periodo dell’innamoramento, tale modalità relazionale è del tutto fisiologica e riguarda ambedue i partners; inoltre, proprio in tale momento, ognuno offre la massima disponibilità ad accogliere in sé ciò che il partner ‘vede’ in lui32. Non si tratta riduttivamente di ‘farsi belli’ agli occhi dell’altro, rivestendosi ‘esteriormente’ – in modo posticcio – di quel-

30 Secondo il mito, narrato nel libro III delle Metamorfosi di Ovidio, Narciso, dopo aver riconosciuto se stesso riflesso nell’acqua, muore e si trasforma nell’omonimo fiore. 31 Sul tema dell’evoluzione del sentimento d’amore, cfr. G. Salonia (2011), Sulla felicità e dintorni, cit., 139-142. 32 Sull’«effetto Pigmalione» cfr. R. Rosenthal, L. Jacobson (1972) (ed. or. 1968), Pigmalione in classe, Franco Angeli, Milano.

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le qualità che lo sguardo dell’innamorato scorge nell’amato; dalla scintilla dell’amore si sviluppa una vera e propria esperienza di mutamento dell’esistenza, si risveglia un processo di rinnovamento di sé nelle persone coinvolte, che consente loro di allargare i confini della propria identità, di trascendere se stessi aprendosi all’altro, lasciandosi trasfigurare dall’energia trasformatrice dell’incontro33. Gli innamorati irradiano autenticamente una ‘bellezza’ nuova, che prima non poteva essere espressa perché è la bellezza che infondono gli occhi del partner, occhi pieni di amore, passione, interesse, occhi che donano all’altro luce, vita, grazia, nel corpo e nell’anima. Ecco, la storia di Pigmalione non soltanto è un inno al potere trasformativo che il legame amoroso sprigiona nella fase ‘magica’ dell’innamoramento, quando due singoli si uniscono in una coppia e ciascuno «entra con la propria idea nell’idea di lui o di lei e ne fa un sospiro di felicità»34. Oltre a questo, il racconto lascia intravedere, in filigrana, il prodigio ulteriore che da tale relazione può nascere quando lo sguardo appassionato dell’innamorato non solo si limita a vedere ciò che lui stesso ‘mette’ nell’altro, ma sa aprirsi con fiducia e rispetto alla verità dell’altro, riuscendo a cogliere e ad accogliere, con altrettanto senso di meraviglia e fascino, anche quella parte di universo sconosciuto – e non sempre comprensibile – di cui l’alterità è portatrice35. In tale prospettiva, il mito di Pigmalione diventa rappresentativo di come possa evolvere il sentimento d’amore in funzione della dimensione temporale, intendendo con ciò non solo il suo progredire lungo le varie fasi del ciclo vitale, ma anche il suo potersi manifestare con ‘fogge’ diverse a seconda dei momenti e relativi contesti storici-sociali-culturali che gli fanno da sfondo e che forgiano modi differenti di concepire e di vivere il rapporto uomo-donna.

33 Cfr. G. Salonia (1987), L’innamoramento come terapia e la terapia come innamoramento, in «Quaderni di Gestalt», III, 4, 74-99, 80. 34 Citazione di Alda Merini: «Appartenere a qualcuno significa entrare con la propria idea nell’idea di lui o di lei e farne un sospiro di felicità», in A. Merini (2000), L’anima innamorata, Feltrinelli, Milano. 35 Cfr. G. Salonia (2011), Sulla felicità e dintorni, cit., 139-142.

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Dalla scintilla dell’amore si sviluppa una vera e propria esperienza di mutamento dell’esistenza

La storia di Pigmalione è un inno al potere trasformativo che il legame amoroso sprigiona nella fase ‘magica’ dell’innamoramento


Ci piace pensare che lo scultore innamorato follemente della sua stessa creazione – ossia di un ‘prolungamento’ di sé – possa con il tempo lasciare il passo ad una maschilità nuova

In altre parole, pur se il prosieguo della storia – nelle Metamorfosi di Ovidio – non viene narrato nei dettagli, provando a immaginarne gli sviluppi e facendo un parallelo tra questo racconto e le relazioni di coppia contemporanee, ci piace pensare che lo scultore innamorato follemente della sua stessa creazione – ossia di un ‘prolungamento’ di sé – (efficace sintesi di molti rapporti di coppia nel passato, e di alcuni anche nel presente), possa con il tempo lasciare il passo ad una maschilità nuova, anch’essa trasformata dalla rivoluzione culturale e identitaria in atto negli individui del tempo odierno oltre che dall’evento stra-ordinario che l’esperienza del calore, dell’appartenenza, rende possibile. È attraverso queste metamorfosi (che riguardano il fuori e il dentro, l’ambiente e le persone, e le relazioni tra essi) che l’uomo può riuscire a ‘vedere’ e amare con pienezza la donna reale al suo fianco – che è al tempo stesso in parte ‘creata’ da lui e in parte ‘altro’ da lui – a considerarla suo pari e permetterle così di ‘raggiungere’ l’amato con tutta se stessa, riconoscendola anche in quegli aspetti che la rendono differente da come lui crede, o desidera, che sia. Si transita così dalla proiezione di sé all’incontro (reale!) con l’altro, dall’amore come strumento per il soddisfacimento di bisogni individuali all’amore come esperienza di condivisione, di crescita e di conoscenza – di sé e dell’altro – attraverso la relazione36. In questo senso, Pigmalione incarnerebbe la piena accettazione e realizzazione dell’invito che il tempo odierno rivolge, particolarmente, agli uomini: aprirsi realmente all’incontro, anche quando conduce su sentieri differenti da quelli attesi, anche quando richiede di abbandonare qualche (presunta) certezza per accogliere il mistero dell’altro e di sé-con-l’altro, quel mistero che si rinnova ogni volta che ci si lascia attraversare e trasfigurare da ciò che accade nello spazio ‘tra’37 del contatto, quando ci si affida al flusso inarrestabile del divenire-con-l’altro.

36 Ib. 37 Sul concetto della ‘traità’ come luogo ove avviene ogni esperienza esistenziale, cfr. B. Kimura (2013), Tra. Per una fenomenologia dell’incontro, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani.

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Al termine di questo viaggio nel tempo, forse riusciamo a sentire più vicini a noi questi due personaggi che hanno evocato le nostre riflessioni. Geppetto e Pigmalione: uomini e padri di ieri che parlano a quelli di oggi, figure che appartengono al passato eppure sanno guardare al futuro e, gettando lo sguardo con fiducia ‘oltre il presente’, ci mostrano che strade differenti da quelle note possono essere percorse per raggiungersi e incontrarsi reciprocamente e che, attraverso esse, un nuovo esser-ci è possibile. Per sé, per l’altro. Per l’uomo, per la donna, per i figli, di oggi e di domani.

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BIBLIOGRAFIA

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Abstract L’articolo propone una riflessione sulle relazioni nel mondo contemporaneo e, precisamente, si sofferma sui due legami più significativi per l’essere umano: il rapporto genitori-figli e quello di coppia. Attraverso le suggestioni evocate da due personaggi letterari, Geppetto e Pigmalione, cui corrispondono due volti del maschile, si dà avvio ad una sorta di viaggio nel tempo in cui vengono esplorate peculiarità e differenze – tra ieri e oggi – nel modo di concepire e dare vita alla paternità e al rapporto uomo-donna. Pur essendo figure nate in un periodo storico-sociale-culturale molto differente dal nostro, Geppetto e Pigmalione possono a buon diritto essere rappresentativi di una maschilità ‘nuova’, che riesce a far proprio e a realizzare l’invito che la postmodernità rivolge, particolarmente, agli uomini d’oggi: aprirsi realmente all’incontro, alle possibilità inedite che la relazione offre, per sé e per l’altro. Solo in questo modo il maschile può (ri)diventare una presenza ‘forte’, non attraverso l’affermazione del proprio potere sull’altro, ma piuttosto attraverso il dia-logo e il rispetto nei confronti dell’alterità. Questo, infatti, è ciò che consente al maschile di riappropriarsi del ‘potere’ della relazione, quell’energia trasfiguratrice che, come Geppetto (con il suo Pinocchio) e Pigmalione (con la sua Galatea) ci dimostrano, riesce a trasformare le esistenze ‘inanimate’ e ‘devitalizzate’ (la propria e quella altrui) infondendo in esse vita, luce, grazia e umanità.

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Battle (particolare)




NUOVE APPLICAZIONI CLINICHE

CON TE NON HO PAURA. PER UNA RILETTURA DEL TESTO «ATTACCHI DI PANICO E POSTMODERNITÀ» Annalisa Castrechini Ha una solitudine lo spazio, solitudine il mare e solitudine la morte, eppure tutte queste son folla in confronto a quel punto più profondo, segretezza polare che è un’anima al cospetto di se stessa: infinità finita. Emily Dickinson

Drammatica è l’indicibilità della sofferenza che spaura e rende impotenti tanto il paziente quanto lo stesso terapeuta. Come professionisti della cura ci domandiamo, pertanto, se essa consista sempre nel rendere dicibile ciò che è nascosto nel giardino segreto dell’anima

Ho letto il libro Attacchi di panico e postmodernità. La psicoterapia della Gestalt tra clinica e società1 cinque anni fa e da allora l’ho ripreso molte volte. Avevo l’impressione di non esaurirne mai fino in fondo la comprensione, tale è la sua ricchezza espositiva e la portata delle riflessioni teoriche contenute. In una scrittura chiara che fluisce con toni narrativi, poetici, senza perdere mai di concretezza e rigore scientifico, il testo approfondisce concetti portanti della PdG e, con coraggio, formula ipotesi originali, alcune delle quali, sebbene in grado di suscitare accordi o disaccordi, hanno indubbiamente il merito di caldeggiare ulteriori approfondimenti e stimolare nuovi confronti. Le considerazioni che seguono prendono spunto dagli articoli di questo interessante saggio, proponendo una rilettura degli stessi secondo gli approfondimenti clinici e teorici sviluppati nel nostro Istituto Gestalt Therapy Kairos. Parole che parlano di dolore, parole che curano e mancanza di parole. Esse non saranno mai in grado di esprimere fino in fondo l’esperienza di dolore che prova chi soffre di AP, né saranno sufficienti a volte per lenirla. Drammatica è l’indicibilità della sofferenza che spaura e rende impotenti tanto il paziente quanto lo stesso terapeuta. Come professionisti della cura ci

1 G. Francesetti (2006), Attacchi di panico e Postmodernità. La psicoterapia della Gestalt tra clinica e società, Franco Angeli, Milano.

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domandiamo, pertanto, se essa consista sempre nel rendere dicibile ciò che è nascosto nel giardino segreto dell’anima, restituendone i vissuti al mondo della coscienza e della rappresentazione simbolica, secondo quanto è contemplato nei dettami illuministici della psicoanalisi freudiana, oppure se essa possa estrinsecarsi anche al di fuori del dominio delle parole, attraverso una forma di conoscenza implicita, inconsapevole2. L’ermeneutica gestaltica offre una chiave di lettura e una prospettiva terapeutica che partono dagli aspetti processuali, dalla qualità del contatto, dal modo ovvero in cui il Sé è presente al confine di contatto a vari livelli, primo tra tutti attraverso l’esperienza corporea3. Perché possiamo diventarne consapevoli, tale esperienza «deve essere sempre dicibile»4, scrive Salonia, e ciò avviene grazie alla capacità della funzione-Personalità di tradurre in parole il «flusso emozionale che il corpo vive» 5. La cura, pertanto, sta nella co-costruzione di uno sfondo relazionale in cui il paziente viene sostenuto al fine di ripristinare la realizzazione dell’intenzionalità, il cui blocco ha originato, attraverso creative capacità di adattamento dell’Organismo in un campo problematico, il disagio. Secondo questa prospettiva, possiamo cogliere realmente il senso della sofferenza psi-

2 Cfr. H. Franta, G. Salonia (1998) (ed. or. 1981), Comunicazione interpersonale. Teoria e pratica, LAS, Roma; M. Spagnuolo Lobb (2006), Perché la psicoterapia negli attacchi di panico?, in G. Francesetti (ed.), Attacchi di panico e Postmodernità. La psicoterapia della Gestalt tra clinica e società, Franco Angeli, Milano, 19-35; G. Salonia (2012), Teoria del sé e società liquida. Riscrivere la funzione-Personalità in Gestalt Therapy, in «GTK Rivista di psicoterapia», 3, 31-59. 3 Cfr. G. Salonia (1986), La consapevolezza nella teoria e pratica della Psicoterapia della Gestalt, in «Quaderni di Gestalt», 3, 125146; F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma; G. Salonia (2008), La Psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero, Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano, 51-71; Id. (2013), Disagio psichico e risorse relazionali, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 55-67. 4 G. Salonia (2012), Teoria del sé e società liquida. Riscrivere la funzione-Personalità in Gestalt Therapy, cit., 49. 5 Ib.

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Perché possiamo diventarne consapevoli, tale esperienza «deve essere sempre dicibile», scrive Salonia, e ciò avviene grazie alla capacità della funzionePersonalità di tradurre in parole il «flusso emozionale che il corpo vive»


L’autonomia è veramente tale se poggia su gambe solide, se possiamo girarci indietro e guardare i nostri punti di riferimento per ritrovare l’audacia e la sicurezza nell’andare avanti nel mondo

Candidati all’AP sono gli «orfani affettivi», quelli cresciuti in fretta facendo appello alle loro risorse, che non potendo aspettarsi nulla dal mondo esterno hanno finito per negare le proprie debolezze

chica solo se la contestualizziamo nello sfondo storico-sociale in cui prende forma e ne comprendiamo il «Modello Relazionale di Base»6, illuminante elaborazione teorica di Salonia. Tale modello esprime il modo in cui un gruppo, o una comunità, integra due tipi di spinte motivazionali: quelle centrifughe che privilegiano la soggettività e l’autorealizzazione personale, e quelle centripete sostenenti l’appartenenza ed emergenti in situazioni di pericolo per la sopravvivenza. Chi siamo noi? Noi, figli di un mondo no limits in cui sembra pensabile ogni percorso e dove tutto assume connotati incerti, confusi, in cui l’identità si dissolve nel mare delle possibilità, delle false individuazioni, perdendo e rinunciando a se stessa. Sappiamo bene che l’autonomia è veramente tale se poggia su gambe solide, se possiamo girarci indietro e guardare i nostri punti di riferimento per ritrovare l’audacia e la sicurezza nell’andare avanti nel mondo. Ecco, in modo prorompente, l’AP disvela il senso di solitudine estrema che si nasconde nelle viscere dell’anima e la mancanza di quelle sicurezze esistenziali che derivano dal modo in cui l’‘altro’ si è preso cura di noi7. Candidati all’AP sono gli «orfani affettivi», così definiti in letteratura, quelli cresciuti in fretta facendo appello alle loro risorse, che non potendo aspettarsi nulla dal mondo esterno hanno finito per negare le proprie debolezze, divenendo genitori di se stessi. Il tipo di sostegno che è mancato in chi soffre di AP, dunque, è proprio la possibilità di beneficiare di un ground solido, di un contesto di crescita affettivo e valoriale saldo e allo stesso modo flessibile. E che cos’è se non l’ansia di consegnarsi, l’esperienza di angoscia più temuta e difficile da affrontare per chi ha dovuto im6 Cfr. a questo riguardo G. Salonia (2006), Cambiamenti sociali e disagi psichici. Gli attacchi di panico nella postmodernità, in G. Francesetti (ed.), Attacchi di panico e Postmodernità. La psicoterapia della Gestalt tra clinica e società,cit.; Id. (2013), Psicopatologia e contesti culturali, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani,17-32. 7 Cfr. G. Salonia (1989), Dal Noi all’Io-Tu: contributo per una teoria evolutiva del contatto, in «Quaderni di Gestalt», V, 8/9, 4564; Id. (1992), Tempo e relazione. L’intenzionalità relazionale come orizzonte ermeneutico della Gestalt Terapia, in «Quaderni di Gestalt», 14, 7-21.

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parare presto a rivolgere verso o contro di sé ciò che avrebbe voluto fare o ricevere dall’Ambiente? Per chi ha bloccato l’azione perché sentiva il mondo piccolo e incapace di sostenere la sua energia e il bisogno di affidarsi8? Nel testo Attacchi di panico e postmodernità emerge, in proposito, un passaggio critico, forse anche il più suggestivo ma nondimeno fuorviante se partiamo dalle premesse esposte; il punto, comunque, grazie al quale, dopo interessanti disquisizioni sull’argomento, è stato chiaro dentro di me l’aspetto più importante che si cela dietro questo disagio. Si afferma, precisamente, che non esisterebbe un momento della curva in cui nasce l’AP; esso insorge quando è impossibile attuare l’interruzione di contatto abituale, quella che mettiamo in atto comunemente e che costituisce il nostro ground9. Intorno alla storia, alle differenze individuali e ai cambiamenti esistenziali che potrebbero determinare un crollo improvviso dello sfondo emergono, pertanto, rispetto al nostro modello di riferimento, delle disarmonie. Vero è che il processo di contatto può interrompersi in qualsiasi fase se manca il sostegno specifico per l’eccitazione e altrettanto vero è che, come afferma Salonia, il tempo del contatto definisce la «specificità» e le «diverse configurazioni del disagio psichico»10. E la specificità dell’AP è indissolubilmente legata alla fobia di appartenenza. Andiamo per gradi. Sono due le grandi angosce esistenziali che affliggono l’essere umano: l’ansia di separarsi e quella di consegnarsi11.

8 Cfr. G. Salonia (1989), Tempi e modi del contatto, in «Quaderni di Gestalt», V, 8/9, 55-64; F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or.1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma; P. Cavaleri (2003), La profondità della superficie, Franco Angeli, Milano. 9 Cfr. G. Francesetti (2006), Fenomenologia e clinica degli attacchi di panico, in G. Francesetti (ed.), Attacchi di panico e Postmodernità. La psicoterapia della Gestalt tra clinica e società, cit. 10 Cfr. a questo riguardo G. Salonia (1989), Tempi e modi del contatto, cit.; Id. (2001), Disagio psichico e risorse relazionali, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, cit.; Id. (2010), L’anxiety come interruzione nella Gestalt Therapy in L.D. Regazzo (ed.), Ansia che fare?, CLEUP, Padova, 233-254, 243. 11 Cfr. a questo riguardo G. Salonia (1992), Tempo e relazione.

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Il tempo del contatto definisce la «specificità» e le «diverse configurazioni del disagio psichico»

Sono due le grandi angosce esistenziali che affliggono l’essere umano: l’ansia di separarsi e quella di consegnarsi


Tutta l’esistenza sarà pertanto costellata da insicurezze e stati di ansietà che, in certe condizioni, potrebbero esitare in vere e proprie crisi di panico

All’ansia di consegnarsi, invece, appartiene la difficoltà dell’O. ad incontrare l’A. in maniera piena e nutriente, passando dall’Io al Noi

Il paziente con AP non ha goduto fino in fondo di una sana confluenza

Alla prima sono legate tutte quelle sofferenze in cui la soggettività non può venire fuori nella sua integrità e spontaneità. Tutta l’esistenza sarà pertanto costellata da insicurezze e stati di ansietà che, in certe condizioni, potrebbero esitare in vere e proprie crisi di panico12. L’obiettivo terapeutico, in questo caso, consisterà nel sostenere la persona perché sperimenti la consistenza della sua individualità, il suo sentire e volere, affinché sia in grado di percepire la forza e l’energia nella sua capacità di ‘mordere’ e masticare la vita13. All’ansia di consegnarsi, invece, appartiene la difficoltà dell’O. ad incontrare l’A. in maniera piena e nutriente, passando dall’Io al Noi. È questa la difficoltà del nostro tempo, quella in cui si verifica l’Attacco di Panico, vale a dire non nello smarrimento della polis, non nel lasciare porti sicuri, ma quando l’uomo «separato dalle proprie radici e tagliato dalla consapevolezza intima del corpo»14 sta per entrare in una nuova appartenenza e non è attrezzato per farlo. Quando ha la possibilità di affidarsi e vivere con pienezza il rapporto con l’altro ma gli manca il coraggio di rischiare e viene travolto dall’angoscia. Centrale nella storia relazionale è che il paziente con AP non ha goduto

L’intenzionalità relazionale come orizzonte ermeneutico della Gestalt Terapia, cit.; E. Becker (1982), Il rifiuto della morte, Paoline, Roma; G. Salonia (2011), Sulla felicità e dintorni. Tra corpo parola e tempo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani. 12 Cfr G. Salonia, La GT con attacchi di panico, Seminario 7-8 giugno 2013, Istituto di Gestalt Therapy Kairos, Roma. Per una migliore chiarificazione: mentre il panico fisiologico è legato ad un pericolo reale improvviso e il terrore ad un evento che genera intenso sgomento che paralizza poiché è sconosciuta la fonte di minaccia, nel panico patologico (o crisi di panico) si verifica, attraverso una convulsa reazione psico-fisiologica dell’organismo, un livello sproporzionato di ansia rispetto al possibile rischio o pericolo della situazione ed è caratteristico di soggetti tendenzialmente ansiosi e insicuri. L’attacco di panico, invece, è un’esperienza che inaspettatamente e improvvisamente sopraggiunge in una situazione ordinaria ed è tipica dei soggetti con uno stile autonomo, molto efficienti nella vita e piuttosto anaffettivi. 13 Cfr. a questo riguardo F. Perls (1995), L’Io, la fame, l’aggressività, Franco Angeli, Milano; I. From, M.V. Miller (1997), Introduzione alla nuova edizione, in F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della terapia della Gestalt, cit. 14 Cfr. A. Sichera (2012), La funzione-Personalità nel testo Gestalt Therapy, in «GTK Rivista di psicoterapia», 3, 19-29.

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fino in fondo di una sana confluenza, essendo stato spinto nel mondo adulto troppo precocemente. A proposito del ‘narcisista retroflessivo’ (modalità relazionale che ben descrive gli aspetti peculiari che stiamo trattando), Conte scrive che egli: «teme l’introiezione come l’annullamento della sua personalità e non riesce a sostenere una relazione senza sentirsi soffocato/fagocitato»15. Nella mancanza di radicamento in legami stabili e nutrienti in cui non è stato possibile affidarsi e chiedere senza sentire vergogna e umiliazione, l’identità non può essere percepita in tutte le sue parti e suoi bisogni (disturbo della funzionePersonalità) così come il corpo, che si è dovuto difendere dalle proprie sensazioni ed emozioni, non ha potuto vivere e abitare tutto se stesso (disturbo della funzione-Es)16. Guardando più approfonditamente la famiglia nelle sue funzioni, trame relazionali e patterns comunicativi, vediamo che sono due, in particolare, i sistemi che possono favorire lo sviluppo di uno stile narcisistico di personalità, e dunque esporre l’individuo al rischio di AP. Il caso in cui nella famiglia c’è una relazione di tipo troppo coniugale (con confini rigidi tra il sottosistema di coppia e quello filiale) o quando, tra i due genitori, vale un codice esperienziale di tipo up/down. Nella famiglia troppo coniugale, si assiste ad un disimpegno genitoriale per ciò che riguarda le funzioni di guida e di sostegno emotivo e relazionale dei figli. Si tratta di un sistema familiare in cui il bambino non gode di una nutriente confluenza originaria e, come già esposto, vive una precoce richiesta di autonomia, non potendo assimilare l’esperienza di fiducia verso l’ambiente. Nell’altro caso, invece, il sottosistema coniugale è sbilanciato (un genitore in posizione up e uno down) e il confine con quello genitoriale risulta ‘diffuso’17, poco differenziato, tanto da configurarsi un’alleanza disturbata (a livello di funzione-

15 Cfr. V. Conte (2013), La modalità relazionale narcisistica nella postmodernità e il lavoro terapeutico in Gestalt Therapy, in «GTK Rivista di psicoterapia», 4, 17-37. 16 Cfr. G. Salonia (2008), La Psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, cit. 17 Cfr. S. Minuchin (1976), Famiglie e terapie della famiglia, Astrolabio, Roma.

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L’identità non può essere percepita in tutte le sue parti e suoi bisogni (disturbo della funzione-Personalità) così come il corpo, non ha potuto vivere e abitare tutto se stesso (disturbo della funzione-Es)


La persona ritorna in contatto con i bisogni legati al codice della sicurezza a cui rispondono le figure professionali di cura, e quelli legati al codice del cuore, soddisfatti dal calore e la vicinanza delle persone care

I vuoti affettivi sottaciuti esplodono come esplode impetuosamente il corpo a lungo negato, contratto, desensibilizzato che ora sente tutto il dolore

Personalità) tra genitore-figlio (madre-figlio/a oppure padrefiglia/o) e uno schieramento contro l’altro genitore. In quest’alleanza, al figlio verranno richiesti vissuti e comportamenti da adulto fino a condurlo alla negazione dei propri bisogni per rispondere generosamente a quelli inappagati del genitore, pur di continuare a godere del suo «sguardo luminoso»18, del suo amore e della sua approvazione. La differenza tra crisi e attacchi di panico non è, dunque, una questione di ‘linguaggi’, ma è fondamentale nel processo di orientamento diagnostico e terapeutico. Dopo aver sperimentato l’attacco di panico, la persona ritorna in contatto con i bisogni più arcaici, quelli legati al codice della sicurezza a cui rispondono le figure professionali di cura, quali lo psicoterapeuta, e quelli legati al codice del cuore, soddisfatti dal calore e la vicinanza delle persone care. Proprio colui che sembra abbia fatto sempre a meno degli altri, diventa un ‘esperto delle relazioni’, capace riconoscere benissimo chi ha il potere di placare le sue paure, desiderandone l’assidua presenza19. A lungo coperti da una presunta idea di autosufficienza, i vuoti affettivi sottaciuti si esprimono, attraverso il sintomo, in un disperato «appello alla relazione»20, ed esplodono come esplode impetuosamente il corpo a lungo negato, contratto, desensibilizzato, che ora sente tutto il dolore («il corpo è la figura; e il sé, nella sua struttura dell’Io deliberativo e attivo dal punto di vista motorio, è lo sfondo»)21. Espressione del campo, nel dinamico e mutevole processo di figura/sfondo, il disagio psichico «possiede proprietà specifiche osservabili»22 del contesto in cui si manifesta. 18 G. Salonia, Pensieri su Gestalt Therapy e vissuti narcisistici, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, cit., 166. 19 Cfr. G. Salonia, La GT con attacchi di panico, Seminario 7-8 giugno 2013, Istituto di Gestalt Therapy Kairòs, Roma. 20 Cfr. A. Sichera (2001), Un confronto con Gadamer: per una epistemologia ermeneutica della Gestalt, in M. Spagnuolo Lobb (a cura di), Psicoterapia della Gestalt Ermeneutica e clinica, Franco Angeli, Milano, 17-41. 21 Cfr. F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit. 22 Cfr. Ivi.

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Cantiere di incessanti trasformazioni, veloce nei ritmi e nelle soluzioni, «divorato dalla ricerca senza fine dell’esteriorità e del successo (…) e dalla realizzazione istantanea di ogni desiderio e pulsione»23, il mondo attuale funziona secondo sistemi organizzativi di rete che interagiscono in tempo reale in una produzione caotica, incerta ed eterogenea di significati. Quello che dovrebbe essere il nostro spazio privato, il luogo dell’intimità, l’oikos, viene continuamente invaso dalla presenza ramificata e pervasiva della realtà esterna, del ‘fuori’, di cui pare non riusciamo a fare a meno. Forse perché abbiamo paura della solitudine e, pertanto, ne rifuggiamo l’incontro. In questo modo, però, perdiamo l’occasione di stare con noi stessi, di sperimentare la pausa permettendo l’apprendimento delle esperienze vissute, in un dialogo interno che si fa «solitudine creativa nella quale si assimila il contatto, si cresce e si esprime la propria creatività»24. È in questo sfondo culturale e relazionale che prendono forma paure collettive e si diffondono, in modo allarmante, comportamenti ‘a rischio’, di tipo antisociale, autodistruttivo, o caratterizzati da nuove forme di dipendenza25. Di fronte alla crisi dei legami di appartenenza, abbiamo bisogno di costruire una nuova «comunità»26 dove il dialogo, inteso come esercizio di lealtà, giustizia, amore e sensibilità, assume un «dimensione etica fondamentale»27. È con esso che

23 Cfr. E. Borgna (2011), La solitudine dell’anima, Feltrinelli, Milano. 24 Cfr. G. Salonia (2012), Teoria del sé e società liquida. Riscrivere la funzione-Personalità in Gestalt Therapy, cit.; Per ulteriori approfondimenti sul concetto di «traità intrapersonale», si veda la prefazione di G. Salonia, L’esser-ci-tra. Aida e confine di contatto in Bin Kimura e in Gestalt Therapy, in B. Kimura (2013), Tra. Per una fenomenologia dell’incontro, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 5-17. 25 Cfr. a questo riguardo D. Albero, C. Freddi, E. Pelanda (2011), Il corpo come se, il corpo come sé. Trasformazione della società e agiti autolesivi in adolescenza, Franco Angeli, Milano; V. Conte (2013), La modalità relazionale narcisistica nella postmodernità e il lavoro terapeutico in Gestalt Therapy, cit.; Z. Bauman (2014), Il demone della paura, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma. 26 Cfr. G. Salonia (1999), Dialogare nel tempo della frammentazione, in F. Rametta, M. Naro (edd.), Impense Adlaboravit, Facoltà Teologica di Sicilia, Palermo, 572-595. 27 Cfr. M.F. Pacitto (2012), Buoni si nasce, soggetti etici si diventa. La costruzione della mente etica tra neuroscienza, filosofia, psicologia, Pendragon, Bologna.

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Abbiamo paura della solitudine e, pertanto, ne rifuggiamo l’incontro. In questo modo, però, perdiamo l’occasione di stare con noi stessi

È in questo sfondo culturale e relazionale che prendono forma paure collettive e si diffondono, in modo allarmante, comportamenti ‘a rischio’


Dialogo e appartenenza, dunque, come esperienze fondanti di connessione e apertura alla vita, di condivisione e sostegno per nuove e successive occasioni di crescita

sappiamo riconoscere il volto dell’altro, la sua soggettività, «la pari dignità e anche, kantianamente, l’‘autonomia’»28. Dialogo e appartenenza, dunque, come esperienze fondanti di connessione e apertura alla vita, di condivisione e sostegno per nuove e successive occasioni di crescita; entrambi costituiscono la risposta etica e politica per arricchire lo sfondo affinché, come si afferma in Attacchi di panico e postmodernità possa divenire figura il bisogno di relazione e la motivazione al contatto. Con una rinnovata consapevolezza, dove ‘chi sono io’ e ‘chi sono diventato’ non possono prescindere mai dalla considerazione ‘a chi e a cosa appartengo’, pena lo smarrimento della propria identità.

28 Cfr. Ivi.

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BIBLIOGRAFIA

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Abstract L’articolo, partendo da una rilettura di alcuni passi del testo Attacchi di panico e Postmodernità, affronta il complesso rapporto tra disagio psichico e sfondo storico-sociale in cui esso prende forma. Caratterizzato da continue trasformazioni, da uno sviluppo caotico ed eterogeneo di stimoli e significati, il mondo attuale ostacola la costruzione di solide identità e sani percorsi di crescita. L’esperienza degli attacchi di panico esprime le difficoltà del nostro tempo, quelle contrassegnate da un’autonomia che non poggia su saldi sistemi di riferimento ma nasce dalla negazione delle proprie debolezze e del bisogno dell’altro. Attraverso una disamina clinica e fenomenologia delle due principali angosce esistenziali dell’essere umano, nell’articolo si opera una distinzione tra l’esperienza di crisi di panico e quella di attacco di panico. La prima, legata ad un’ansia da separazione, è tipica di una soggettività non compiutamente integrata, che fatica ad esprimersi spontaneamente; la seconda è caratteristica, invece, di coloro che non hanno beneficiato di un ground solido e temono l’ingresso in una nuova appartenenza nella quale si sentono risucchiati. Il dialogo e il senso di appartenenza costituiscono la risposta etica e politica allo smarrimento del contesto attuale e alla realizzazione di possibili percorsi di intervento che coinvolgono tanto il singolo quanto la sfera sociale.

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PUBBLICAZIONI ANTROPOLOGIA

Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo Autore: Giovanni Salonia La felicità passa, ma a volte ritorna. È questo il messaggio in codice che viene dalla lettura di questo libro. Come a dire che non dobbiamo deflettere, che non è mail il caso di deporre la speranza. Anche nella condizione più difficile si può farle spazio, affinché la tanto attesa ritorni. ISBN: 978-88-6124-182-4 Pagine: 184

La Grazia dell’audacia. Per una lettura gestaltica dell’Antigone Autore: Giovanni Salonia

Ogni giorno merita una Gestalt. A cura di: Stefania Antoci, Alessandro Rusca

Il volume è ispirato da un personaggio che è icona della forza gestaltica della relazione e della capacità di portare avanti fino in fondo ciò che il cuore detta: Antigone, protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle. Sono le riflessioni di Giovanni Salonia a guidarci nei sentieri del cuore e delle vicende di questa fanciulla che, con grazia ed intensità tutta femminile, sa proclamare ad una società che si è smarrita nella insensatezza ed aridità di una logica autoreferenziale, quell’ordine degli affetti che – solo – può restituire via e vita. «Solo perché lei sacrifica i suoi affetti più cari non scomparirà nella città il diritto degli affetti». Al saggio di Salonia fanno da cornice una prefazione di Antonio Sichera che introduce ad un lettura gestaltica dell’eroina sofoclea ed una traduzione inedita ed integrale del testo greco, preceduta a sua volta da una breve pagina di delucidazione sui criteri ed i riferimenti che hanno guidato l’opera di traduzione.

Il volume rappresenta il primo diario gestaltico curato dall’Istituto Gestalt Therapy hcc Kairos. L’istituto, al suo quarto decennio di attività, opera nell’ambito della formazione e della ricerca in psicoterapia della Gestalt a livello nazionale e internazionale. Propone una sorta di “quarta anima della Gestalt” che apre nuove prospettive sull’antropologia e sulla clinica del vivere insieme e della crescita, sviluppando contributi innovativi sia a livello ermeneutico che clinico. Tra gli ultimi si annoverano l’elaborazione di una teoria sui modelli relazionali di base e la psicopatologia, un modello di teoria evolutiva e un modello di Gestalt Therapy con le coppie e le famiglie (teoria del Sé e dell’intercorporeità). ISBN: 978-88-3081-392-2 Pagine: 156

ISBN: 978-88-6124-365-1 Pagine: 80

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House of non sense (particolare)


Nadia Iannella Qualcosa da sperare. Per quanto lontanissimo È capitale contro la disperazione Qualcosa da soffrire Per quanto acutissimo Si sopporta se ha conclusione. Emily Dickinson1

Il dolore è umano, inevitabile, improvviso. Come la perdita di una persona cara, è un evento certamente possibile, pensabile, ma a suo modo sempre imprevisto

Il dolore è umano, inevitabile, improvviso. Come la perdita di una persona cara, è un evento certamente possibile, pensabile, ma a suo modo sempre imprevisto nella misura in cui coglie impreparati, disorienta, ferisce. Viviamo nella consapevolezza della morte e della sua possibile irruzione nella nostra vita, dunque la morte è pensabile. Può essere immaginata o fantasticata, oppure ricordata. Eppure il dolore della perdita è un’esperienza sempre nuova e l’elaborazione del lutto è un atto creativo non dissimile da quello di un artista che, aprendosi al vuoto-imprevisto, genera una nuova dimensione di sé e del mondo. È l’‘imprevisto’, doloroso o meno che sia, a permettere all’uomo di mostrarsi nella sua capacità di adattamento creativo. Sono le situazioni nuove, a volte drammatiche, altre di gioia, sempre e ad ogni modo vitali, che ci ‘chiamano ad alzarci’, a mostrare la nostra altezza, la nostra luce, la nostra capacità di reagire creativamente alle situazioni. Quando «una persona amata muore, si verifica un conflitto triste tra l’accettazione intellettuale da una parte e i desideri e ricordi dall’altra»2. Le persone precipitano nel loro presente – che percepiscono senza speranza, schiacciato dalla perdita e dal dolore – in una sosta a volte lancinante, prolungata, ma mai distratta, perché nella negazione o nella deliberata

1 E. Dickinson (1997), Tutte le poesie, Arnoldo Mondadori, Milano. 2 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma, 168.

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NUOVE APPLICAZIONI CLINICHE

L’ELABORAZIONE DEL LUTTO IN PSICOTERAPIA DELLA GESTALT


rimozione del conflitto non si hanno la soluzione del lutto e la crescita. È la forza di questa dolorosa ‘concentrazione emotiva’ a generare il cambiamento vitale e il disinteresse creativo, e dunque la capacità di chi resta di avere nuovi interessi e di ritornare a vivere senza dimenticare, ma assimilando a sé la persona amata e perduta. Lo spazio nel quale si piange la perdita è uno spazio di libertà. Attraverso il pianto mettiamo dentro il mondo, nella forma particolare della sottrazione che ha portato nella nostra vita, e diamo al mondo il nostro dolore. Fare esperienza del dolore, viverlo sino in fondo, significa aprirsi alla crescita. Il rifiuto della sofferenza e la chiusura all’esperienza del dolore, invece, allontanano la persona da ogni vitale processo di crescita e la rendono ostaggio silente di un lutto non vissuto. O piuttosto di un lutto non affrontato, non pianto fino in fondo, non elaborato e per questo vischioso, insidioso, distruttivo. Bisogna guardare al lutto come al tempo in cui la persona deve elaborare due tipi fedeltà: la fedeltà ad una relazione finita e la fedeltà alla vita che continua a scorrere3.Continuare a vivere ed essere felici non è un tradimento verso la persona scomparsa. Questa consapevolezza è il risultato di una profonda elaborazione del lutto.

Le fasi dell’elaborazione del lutto Le fasi dell’elaborazione del lutto sono state descritte in diversi orientamenti psicoterapeutici e, tra gli altri, da autori come Kübler-Ross e Bowlby. In questo lavoro le fasi dell’elaborazione del lutto verranno integrate con i principi della psicoterapia della Gestalt, nel suo dispiegarsi all’interno del ciclo di contatto.

Fase 1: il perturbante (pre-contatto) Il termine perturbante è stato introdotto in psicologia dai primi traduttori di Freud che così rendevano l’aggettivo sostantivato

3 Cfr. G. Francesetti (2010), Appunti seminario presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt hcc Kairos, Roma.

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Fare esperienza del dolore, viverlo sino in fondo, significa aprirsi alla crescita. Il rifiuto della sofferenza e la chiusura all’esperienza del dolore, invece, allontanano la persona da ogni vitale processo di crescita e la rendono ostaggio silente di un lutto non vissuto


La morte di una persona amata è perturbante. Lo è anche nella sua fisicità. Il corpo privo di vita della persona amata è qualcosa di conosciuto ed estraneo allo stesso tempo

La persona appare chiusa nel proprio mondo e non vede la presenza dell’altro. In termini gestaltici si parla di «funzione protettiva» del confine di contatto

della lingua tedesca Das Unheimliche. Al di là della sua accezione psicoanalitica, tale termine designa una particolare declinazione dell’emotività che si sviluppa quando una cosa, una situazione o una persona viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo, causando spaesamento, straniamento e angoscia. La morte di una persona amata è perturbante. Lo è anche nella sua fisicità. Il corpo privo di vita della persona amata è qualcosa di conosciuto ed estraneo allo stesso tempo. I colori, gli odori, la freddezza della morte, al pari delle emozioni che emergono dalla perdita, sono perturbanti e irrompono nel confine di contatto della persona, in quel luogo particolare dove entriamo in contatto con l’ambiente. In termini gestaltici ci troviamo all’interno della fase di pre-contatto. Il lutto genera uno sfondo di gestalt aperte e, come sollecitazione violenta da parte dell’ambiente, non rispetta i normali ritmi di interazione con lo stesso e per questo è sempre traumatico. Le emozioni che ne conseguono sono violente e inizialmente la prima reazione al lutto è quella dell’incredulità e della disperazione. La persona appare chiusa nel proprio mondo e non vede la presenza dell’altro. In termini gestaltici si parla di «funzione protettiva»4 del confine di contatto. Una prima negazione della perdita non va vista come una barriera da rimuovere ma come una forza creativa la cui funzione è quella di arginare un’angoscia intollerabile per riuscire a gestire una situazione difficile. Quando la sofferenza è eccessivamente forte allora diventa necessario fermarsi sulla soglia di accesso all’esperienza profonda del dolore. Quasi letteralmente «il dolore ha pietrificato la soglia»5 e bloccato ogni senso di percorrenza. Naturalmente, oltre un certo limite temporale e adattivo, la funzione protettiva della chiusura e del ritiro dal dolore viene meno. Quando permane rigidamente si configura come blocco nel contatto e viene denominata «confluenza nevrotica» o «desensibilizzazione»: l’organismo non riesce a percepire

4 M. Partinico, E. Conte, M. Mione, (2003-2005), L’esperienza del morire, in «Quaderni di Gestalt», XIX-XX-XXI, 36/41, 16. 5 G. Trakl (1969), Opere poetiche, Edizione dell’Ateneo, Roma, 200-201.

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l’ambiente perché fuso in una esperienza precedente6. La persona si comporta come se tutto sia in equilibrio quando invece tutto è in squilibrio7.

Fase 2: l’emersione (contatto) Si entra nella fase dell’emersione quando le iniziali funzioni protettive vengono abbandonate e dallo sfondo della persona emergono nuovi bisogni. La funzione-Io del Sé guida la direzionalità verso cui muoversi (orientamento), l’individuo sente di aver bisogno dell’ambiente e non è più in confluenza con esso. Nel momento in cui emerge una nuova figura, se la persona non riceve un adeguato sostegno nell’ambiente, sposterà l’attenzione sugli apprendimenti precedenti (introietti) per sfuggire l’angoscia del senso di vuoto provocata dalla percezione del bisogno. L’individuo cerca di dare un senso agli eventi, imposti e non assimilati dall’ambiente, attraverso idee e regole. Questi introietti sono un argine molto fragile, non sostengono l’urto del dolore e generano esperienze angoscianti piuttosto che di sicurezza. Dopo l’abbandono delle iniziali funzioni protettive possono emergere emozioni quali il dolore, la paura e la collera. L’ambiente entra nell’orizzonte percettivo della persona e si costruiscono le fondamenta del futuro reciproco incontro e la piena realizzazione dell’individuo e dell’ambiente. Frammenti emotivi prendono corpo e direzionalità, attraversano il confine di contatto ora percorribile anche se doloroso: dallo sfondo il lutto assume contorni più definiti, per entrare nella fase della collera, delle esplosioni di dolore, della rabbia, della rivolta. In questa fase di emersione inizia a prendere forma l’eccitazione necessaria per sostenere il movimento e per mantenere l’attrazione e il desiderio del contatto (manipolazione).

6 Cfr. G. Salonia (1989), Tempi e modi di contatto, in «Quaderni di Gestalt», V, 8/9, 55-64. 7 Cfr. J.M. Robine (2006), Il rivelarsi del sé nel contatto, Franco Angeli, Milano.

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Si entra nella fase dell’emersione quando le iniziali funzioni protettive vengono abbandonate e dallo sfondo della persona emergono nuovi bisogni

Frammenti emotivi prendono corpo e direzionalità, attraversano il confine di contatto ora percorribile anche se doloroso


Questa assenza può essere accettata soltanto dopo una serrata ribellione. È un ribellarsi per poter vivere senza

Secondo Bowlby8, la rabbia conseguente ad una perdita è una risposta assolutamente normale. La collera rappresenta, infatti, la prima forma di protesta alla perdita della persona amata. Il desiderio di recuperare la persona, per quanto infondato possa apparire, permette, attraverso il suo successivo abbandono, nuovi orientamenti in un mondo dove l’assenza sarà ritenuta irreversibile. Questa assenza può essere accettata soltanto dopo una serrata ribellione. È un ribellarsi per poter vivere senza. Anche il dolore della persona fa sì che l’energia, prima investita per riempire un vuoto, ora diventi eccitazione dell’agire9. Se i sentimenti legati al lutto non vengono adeguatamente sostenuti, o rientrano all’interno di una tipologia di emozioni che siamo stati educati a non manifestare, vengono avvertiti dalla persona come ‘proibiti’, incontenibili, spaventosi, diventando inaccessibili, slegati dal Sé e attribuiti all’ambiente circostante, investendo i familiari, gli amici e Dio. E l’eccitazione, perdendo l’orientamento, diventa insopportabile e spinge la persona ad agire. La sua azione risulterà inappropriata perché messa in atto non per arrivare ad una meta ma per ridurre o scaricare una tensione10. L’uomo è caratterizzato dalla sua intenzionalità, dal suo esserci nel mondo, dal suo ‘in-tendere-verso’, dal suo entrare in contatto con quanto lo circonda. Il suo comportamento è un direzionare la propria intenzionalità di contatto verso un bersaglio, un bisogno, una persona. Nell’esperienza del lutto la persona amata viene perduta e chi resta dovrà necessariamente bloccare la propria precedente intenzionalità di contatto: il suo orizzonte è cambiato, il suo bersaglio scomparso. La persona «evoca il passato, vede il suo presente frustrato senza speranza; non gli riesce proprio immaginare cosa dovrebbe fare adesso che ha toccato il fondo»11. E arriva il momento in cui si smette di protestare contro il passato felice che non ritorna più e si affonda, inevitabilmente, nella sofferenza.

8 Cfr. J. Bowlby (1982), Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina, Milano. 9 Cfr. G. Salonia (1989), Tempi e modi di contatto, cit. 10 Cfr. Ivi. 11 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 168.

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Fase 3: del morire (contatto finale) Molto è stato scritto sulla differenza tra nascita biologica e nascita psicologica e sulla loro coincidenza più o meno puntuale. Altrettanti interrogativi attendono chi azzardi una simile ipotesi sulla morte. L’altro, quando muore davvero? La morte, in un senso completo, arriva più tardi, si estende oltre il dato fisico del corpo privo di vita, dell’assenza, e irrompe pienamente nella nostra consapevolezza con il tempo. Un tempo che è anche quello del morire di chi resta e della depressione. La risposta depressiva alla perdita è una risposta fisiologica e sana ad un evento traumatico che ha spazzato via i punti di riferimento. È questo il momento nel quale la persona inizia a prendere consapevolezza della perdita che ha subito. Piangere per la perdita della persona amata è un atto di sottile importanza. Il pianto è un gesto di coraggio: significa aprirsi alla sofferenza, comunicare il proprio dolore, mostrarsi bisognosi di cure. Nel pianto una parte della nostra sofferenza scivola nell’ambiente in una sottile forma di materia sensibile che dall’ambiente ritorna in noi in movimento: «grazie di questo piangere, senza il quale sarei una cosa secca, immota»12. Nel lutto la depressione è una delle fasi più delicate. Dopo l’incredulità, la rabbia, la collera, le grida, la ribellione, il fitto ragionare e pensare, dopo le continue attenzioni delle persone, amici e conoscenti, dopo che l’irrealtà dell’altro che non c’è più si è fatta presenza costante, quasi ordinaria, tutto rallenta, si rassegna, si piega al dolore, tace. L’individuo deve distruggere per assimilare, annientare la materia stessa del lutto per ricongiungere e riscoprire la relazione con chi non c’è più nel nostro mondo fatto di emozioni, gesti, parole. Sostare nel dolore è meno appariscente della collera e della rabbia. Somiglia ad una stasi, all’immobilità. In realtà tutto è in movimento e la sofferenza è l’unica via di accesso al superamento del lutto stesso perché essa «è il mezzo attraverso il quale si lascia libero il vecchio sé di andare incontro al

12 M. Gualtieri (2003), Senza polvere senza peso, Giulio Einaudi, Torino. 13.

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La risposta depressiva alla perdita è una risposta fisiologica e sana ad un evento traumatico che ha spazzato via i punti di riferimento

L’individuo deve distruggere per assimilare, annientare la materia stessa del lutto per ricongiungere e riscoprire la relazione con chi non c’è più nel nostro mondo fatto di emozioni, gesti, parole


Se subito dopo il lutto i sensi percepiscono l’assenza ‘dilagante’ dell’altro come un’assenza, dopo l’elaborazione del lutto la persona diventa presenza

mutamento»13. Nel momento in cui ci si apre al cambiamento e ci si avvicina alla fine dell’elaborazione di un lutto si può essere sopraffatti da stati d’animo angoscianti, spaventosi ritorni negli abissi del dolore. Si corre il rischio di mettere in discussione i passi in avanti compiuti, di pensare che il dolore non avrà mai fine. Ma «la sofferenza non è uno stato ma un processo»14 e nella spirale della consapevolezza si ripropongono a volte gli stessi problemi del passato, ma in forme, modi e livelli di esperienza diversi. Se subito dopo il lutto i sensi percepiscono l’assenza ‘dilagante’ dell’altro come un’assenza che «non è localizzata. La sua assenza è come il cielo si stende sopra ogni cosa»15, dopo l’elaborazione del lutto la persona diventa presenza: «È piuttosto come una sensazione discreta e tuttavia massiccia che lei sia, ora non meno di prima, una realtà con cui devo fare i conti»16. E ancora: «Attraverso la collera e il lavoro del lutto, il bisogno dell’impossibile viene annientato. Il nuovo sé è triste ma integro»17. La persona amata e perduta è sempre presente con noi mentre la vita continua. Come un uragano, la depressione ha distrutto e creato lo spazio necessario per arredare insieme al mondo la nostra vita.

Fase 4: Acting Now (Post-Contatto) La fase dell’acting now è anche e soprattutto la fase dell’agire e del desiderare

La fase dell’acting now è anche e soprattutto la fase dell’agire e del desiderare, il momento in cui si raccolgono le energie che verranno dirette verso nuovi bersagli in maniera appropriata. È l’ultima fase dell’elaborazione del lutto, quella che permette di accedere al post-contatto. L’individuo si ‘ritira dal lutto’ con naturalezza, ripone fiducia nell’ambiente e nella

13 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 169. 14 C.S. Lewis (1990), Diario di un dolore, Adelphi, Milano, 67. 15 Ivi, 18. 16 Ivi, 60. 17 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1994), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 171.

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propria capacità di stare da solo. Emerge una nuova figura e «compaiono d’improvviso nuove eccitazioni provenienti sia dall’organismo e dal passato che dalle nuove cose notate dall’ambiente»18. Anche se spesso le prime sensazioni di benessere, che compaiono dopo il periodo di dolore che segue la perdita, sono vissute con vergogna o senso di colpa, sia verso la persona persa che verso gli altri. Come se si avesse l’obbligo di soffrire, di mantenere il dolore all’infinito. La sofferenza scava al fondo delle persone: dopo un periodo di profondo dolore, è come se ci si sentisse abituati al dolore stesso, come se fosse quasi rassicurante, tanto che, appena sorge un primo moto di cambiamento, di benessere, ci si spaventa, vergognandosi. Questa vergogna rappresenta la rottura della confluenza ed «è provocata da una ferita nei riguardi non già dell’oggetto ma di una norma mentale19» con conseguente angoscia di essere esclusi dalla comunità degli uomini20. Nel momento in cui la persona incontra l’ambiente, la fusione che ne consegue crea una nuova gestalt. La persona avverte una sensazione di pienezza e di integrazione. Il bisogno è appagato e ciò che è accaduto diventa patrimonio esperienziale della persona. La funzione-Personalità informa il Sé su chi è e cosa è diventata la persona attraverso l’esperienza di contatto. Ritirarsi dal contatto in modo sano fa crescere l’organismo in quanto è bene, come dice L. Perls, «che la figura, il nuovo si mescoli e venga incluso nello sfondo precedente per poter essere dimenticato, ricordato assimilato»21. Nell’elaborazione di un lutto si attraversano diverse fasi ma le stesse non sono rigidamente predeterminate, né seguono una stabile cronologia. Passi in avanti e indietro sono frequenti, perché la crescita a cui la persona si espone, nell’esperienza del lutto, è più di ogni altra cosa la consapevolezza e l’apertura al cambiamento. Elaborare il lutto è anche restituire alla morte il suo volto di natura e a se stessi il diritto alla vita.

18 Ivi, 224. 19 P. Hultberg (1987), La honte (ombre entre l’idéal du moi et le soi) in «Cahiers Jungiens de Psychanalyse», 52, cit. in J.M. Robine (2006), Il rivelarsi del sé nel contatto, Franco Angeli, Milano, 83. 20 Cfr. Ivi. 21 G. Salonia (1989), Tempi e modi di contatto, cit., 60.

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Spesso le prime sensazioni di benessere, che compaiono dopo il periodo di dolore che segue la perdita, sono vissute con vergogna o senso di colpa, sia verso la persona persa che verso gli altri

Nell’elaborazione di un lutto si attraversano diverse fasi ma le stesse non sono rigidamente predeterminate, né seguono una stabile cronologia


Quello che in seguito ad un lutto avviene dentro di noi è la nostra storia, è il modo che scegliamo per stare nel mondo

Nessuno sceglie di vivere un lutto, al pari di molte altre esperienze che nella vita semplicemente accadono. Il lutto è un dramma, un dramma senza appello. Ma quello che in seguito ad un lutto avviene dentro di noi è la nostra storia, è il modo che scegliamo per stare nel mondo. Se la scelta che operiamo e costruiamo nel dolore è una scelta di vita e di apertura, quello che sembrava inesorabilmente perso ci viene restituito sotto un’altra forma. Quel che è perduto mi è restituito quel che è lontano oggi mi è vicino. Che tu ci sia, dove tu sia, oggi non importa, (…). io sono dentro e mi entra dentro il fuori Patrizia Cavalli22

Il presente contributo ha vinto il concorso S.I.P.G. “L’Articolo gestaltico” (2011), pubblicato in Francesetti G., Ammirata M., Riccamboni S., Sgadari N., Spagnuolo Lobb M. (2014), Il dolore e la bellezza. Atti del III Convegno della Società Italiana Psicoterapia Gestalt, Franco Angeli, Milano.

22 P. Cavalli (1999), Sempre aperto teatro, Giulio Einaudi, Torino.

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Abstract La perdita di una persona amata è un evento doloroso con cui tutti gli individui, presto o tardi, devono confrontarsi nel corso della propria vita. Il lutto che ne consegue non comporta un semplice uscire dalla sofferenza, ma esprime la capacità dell’individuo di sapersi adattare creativamente alla perdita, aprendosi al cambiamento e quindi alla crescita. L’articolo descrive le fasi dell’elaborazione del lutto all’interno del ciclo di contatto e le diverse interruzioni che possono verificarsi, mantenendo bloccato l’individuo in un’esperienza di lutto non vissuto o vissuto in maniera parziale. Nel processo di elaborazione della perdita, la sofferenza è la via di accesso al superamento del lutto stesso, per cui è fondamentale che l’individuo viva fino in fondo il proprio dolore, affinché possa, successivamente, accettare la perdita della persona, integrandola alla propria storia e aprirsi di nuovo, con fiducia, alla vita che continua.

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In shades of grey and colors (particolare)


SOCIETÀ E PSICOTERAPIA

NOW MOMENT O FINALLY CONTACT? INCONTRI E CONFRONTI CON D. STERN, AMICO E MAESTRO Giovanni Salonia

Riconoscendoci ci guardammo mezzo secondo in più del previsto. E fu intesa

Leggendo i suoi libri in effetti rimasi sorpreso dal modo in cui uno psicoanalista come lui si fosse appassionato alla fenomenologia dell’esperienza

«Mister Stern?». «Yes». «I’m Giovanni Salonia. Welcome to Palermo». Dentro poche battute formali un evento: riconoscendoci ci guardammo mezzo secondo in più del previsto. E fu intesa. Era una tarda serata del 25 gennaio 2001 all’aeroporto di Palermo. Un anno dopo, a Siracusa, Daniel stesso dirà che a Palermo, tra il nostro Istituto e lui, era stato innamoramento e che avremmo dovuto ricercare le differenze! Le trovammo, e tante! Ma non tali da farci dimenticare quell’attimo in cui ci eravamo guardati, e riconosciuti. È come se quella sera, a Palermo, a cena, io avessi conosciuto il suo ‘bambino’ interiore: curioso, vivace, genuino, che non mi metteva in disagio neppure quando – incuriosito della mia condizione di frate – mi chiedeva con tranquillità se mi fossi mai innamorato, e di chi, e come era andata, e così via. Lo avevamo invitato perché entusiasmati dalla sua teoria sullo sviluppo dei bambini. Leggendo i suoi libri in effetti rimasi sorpreso dal modo in cui uno psicoanalista come lui si fosse appassionato (convertito – avrebbe detto Husserl) alla fenomenologia dell’esperienza. Una teoria evolutiva, la sua, che – alla stessa stregua dell’intuizione sulla fase dentale di Perls – derivava non dalle speculazioni sul bambino ‘clinico’ ma dall’osservazione del bambino ‘live’. Sentii subito che di una teoria evolutiva come quella di Stern avevano bisogno sia la pur geniale teoria del sé della Gestalt Therapy (nata già negli anni ‘50), sia la scontata teoria del sé delle Relazioni Oggettuali e di Kohut. La rilettura che Daniel fa della relazione madre-bambino come danza e come paradigma della relazione terapeuta-paziente era per me decisamente avvincente. A livello epistemologico, quella transizione sterniana dalla relazione madre-bambino a quella terapeuta-paziente aprirà poi molti fronti di ricerca e di studio anche in campo psicoanalitico, non senza confusioni a livello ermeneutico e clinico (non è operazione facile, infatti, combinare inconscio e fenomenologia, esperienza e interpretazione, prospettiva psicodinamica

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e sistemica). In ogni caso, la teoria evolutiva del sé resta il contributo prezioso e storico di Daniel Stern. È stato lui ad introdurre nell’evolutiva il soggetto-in-relazione, è stato lui ad ‘inventare’ il ‘sé narrativo’ come riedizione della dimensione triadica della parola e dei legami nel triangolo primario. Per questo durante i nostri numerosi incontri di quegli anni mi trovai tante volte a dirgli che mi ero proprio innamorato della sua teoria evolutiva! Ma torniamo a quel primo incontro palermitano e alla sua storia. L’indomani, infatti, la conferenza all’Hotel Addaura è un vero e proprio un evento: circa 600 partecipanti, tra cui molti docenti di psicologia dell’Università di Palermo. Il suo intervento accattivante e la sua generosa apertura, unita ad una grande valorizzazione degli interventi dei direttori dell’Istituto, creano un’atmosfera speciale, che rende l’evento significativo a livello culturale e relazionale. Doveva però ancora arrivare il momento clou. Il giorno dopo, didatti e allievi dell’Istituto ci riuniamo con lui per approfondire la sua teoria. Stern, all’improvviso, ci prende in contropiede: «Potete mostrarmi dal vivo il vostro modo di fare terapia?». Da vent’anni invitavamo docenti di spessore (italiani e stranieri; gestaltisti e non), ma nessuno aveva mai mostrato tanto interesse o, se volete, tanta curiosità per il nostro stile terapeutico. Daniel fu il primo. E lo fece con un’umiltà reale e rara: «Non sono venuto solo per insegnare, ma anche per imparare qualcosa da voi! ». Stern ci diede insomma quel giorno un’indimenticabile lezione di vita! Perché ci mostrò che per essere vivi, per portare novità e freschezza nel mondo attorno a noi, non bisogna mai – soprattutto se si è Daniel Stern – restare prigionieri della statua di se stessi, ma bensì avere il coraggio e la gioia restare curiosi e aperti come bambini a quel che ogni giorno ci viene offerto in dono. Ma non è finita qui. Superato il primo momento di sorpresa, uno studente chiede di poter lavorare su un proprio disagio e Valeria Conte conduce il colloquio terapeutico. Stern fu catturato dal ritmo della seduta, dalla finezza terapeutica. Alla fine del colloquio terapeutico Daniel prende in mano il microfono e comincia, fra lo stupore generale, a fare il paziente. Si capì che voleva chiamarmi in causa e così iniziai con lui un colloquio terapeutico. Dopo le prime battute, tutti capiscono bene che Daniel si sta mettendo in gioco in prima persona. La sedu-

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La teoria evolutiva del sé resta il contributo prezioso e storico di Daniel Stern

Da vent’anni invitavamo docenti di spessore (italiani e stranieri; gestaltisti e non), ma nessuno aveva mai mostrato tanto interesse o, se volete, tanta curiosità per il nostro stile terapeutico

Stern fu catturato dal ritmo della seduta, dalla finezza terapeutica


Nel nostro rapporto il nuovo lavoro di Stern rappresentò l’occasione per ridefinire i confini

Al centro però, inutile negarlo, c’erano le nostre differenze teoriche

ta finisce con una palpabile soddisfazione e commozione del ‘paziente’, che definisce subito quel giorno uno ‘special day’. Naturalmente l’idillio non poteva durare, non sarebbe stato né logico né naturale. Ogni vero rapporto fra diversi si evolve ed è destinato ad incontrare delle difficoltà. E per noi si presentarono sia sul piano della relazione che su quello della teoria. Daniel le aveva, in un certo senso, previste e ricordo che di sua iniziativa ce ne parlò a Roma. Galeotto fu proprio il suo famoso libro: Now Moment. Nel nostro rapporto il nuovo lavoro di Stern rappresentò l’occasione per ridefinire i confini. Ho ancora ben presente la nostra discussione. Io gli dico che ero rimasto contrariato dal fatto che, pur avendo conosciuto noi gestaltisti, nonostante avessimo parlato in lungo e in largo, lui fosse rimasto fissato all’antica (ed errata) convinzione psicoanalitica che non c’erano mai stati modelli terapeutici basati sull’esperienza. «E noi cosa siamo? Tu lo sai bene. È tipico dei paradigmi dominanti non informarsi e snobbare gli altri approcci, meno conosciuti forse, ma capaci di preparare il futuro! E poi non è neppure corretto parlare di empatia senza citare né Jaspers né Rogers, ma Kohut (venuto molti anni dopo), che peraltro a suo tempo ha riconosciuto a Rogers il primato sull’empatia!». Al centro però, inutile negarlo, c’erano le nostre differenze teoriche. Ricordo l’energia, la musicalità, il coinvolgimento con cui a Siracusa per ben quattro ore ci confrontammo. Lui sosteneva che il ciclo di contatto gestaltico fosse troppo deterministico e che in realtà il now moment, ossia il cambiamento, avviene in modo improvviso e imprevedibile. Il suo esempio era quello del bambino in braccia al padre durante un party serale: «Vedete: ad un tratto il bambino guarda il padre, si attacca al suo dito e crolla nel sonno. È un cambiamento imprevedibile, un now moment». E io: «Secondo me non si tratta di un momento imprevisto: ad una certa ora ogni genitore aspetta che il figlio si addormenti. Quel che è imprevedibile non è il fatto che accada ma il modo in cui accade». Così nella terapia. Daniel portava esempi clinici tratti dalla sua esperienza o dai testi di Mitchell, a conferma dell’imprevedibilità del now moment. Io obiettavo che il now moment è imprevedibile nel modo in cui accade ma che debba accadere è l’attesa del terapeuta e del paziente, che si incontrano, appunto, per cambiare: il cambiamento in sé non può essere

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considerato né imprevisto né imprevedibile, quanto piuttosto il modo in cui esso accade. E fu una sorpresa piacevole, l’anno dopo, ascoltare Stern, in chiusura di un convegno sul rapporto tra Gestalt Therapy e Psicoanalisi Relazionale, parlare dell’intenzionalità: «È un concetto su cui Giovanni ha lavorato molto e che il modello gestaltico in effetti sottolinea con forza. Io lo riprendo pensando in prima battuta a Brentano». Era sempre piacevole costatare come, nonostante le divergenze, rimanesse vivo e indelebile in lui il nostro feeling iniziale e la sua voglia di confrontarsi con me. Il nostro ultimo dialogo fu ad un convegno sul triangolo primario. E fu un confronto più duro del solito. Alla stessa Elizabeth Fivaz, che me lo fece notare, dissi che ce lo potevamo permettere perché avevamo un buon rapporto. Daniel, infatti, aveva chiuso il convegno così: «Mi piace il modo in cui all’Istituto di Gestalt si fa terapia, ma non condivido lo stile che i gestaltisti usano per descrivere la loro teoria». Gli risposi: «È probabilmente vero quello che dici e ti ringrazio del suggerimento. Ma anch’io ho un suggerimento per te: prova a pensare che si possa lavorare bene anche se con teorie diverse dalle tue». In fondo il mio disaccordo era legato anche ad un diverso background. La psicoanalisi scopriva in quegli anni, con lui, idee e prospettive che noi gestaltisti frequentavamo da mezzo secolo. Penso all’uso del presente, al ‘now-for-next’ di Erving Polster o alla temporalità nei termini del kairòs: tutti elementi che avevano delle chiare tangenze con le sue intuizioni ma che erano ricche di una complessità e di uno sviluppo per lui non percepibili, vista anche la sua conoscenza radicalmente ‘orale’ della tradizione gestaltica. Ricordo bene una cena a Siracusa nella quale, per colpa della qualità del vino o del mio inglese, non riuscii a far passare, nel nostro dialogo a proposito delle prime fasi evolutive del bambino, il fatto che il concetto gestaltico di ‘confluenza’ era molto diverso da quello freudiano di simbiosi. Daniel mi parlava di «schemi dell’essere-con» e questo era una reale novità per gli psicoanalisti. Ma io insistevo che il ‘con-essere’ della sua psicoanalisi evolutiva era alla fine ben diverso dal ‘con-esser-ci’ gestaltico. In quel ‘ci’ c’era tutta la vicinanza e la distanza tra le due teorie. Aveva ragione, Daniel, a non volersi sentir definire gestaltista da qualche nostro allievo un po’ ingenuo. Nel

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Era sempre piacevole costatare come, nonostante le divergenze, rimanesse vivo e indelebile in lui il nostro feeling iniziale e la sua voglia di confrontarsi con me

Aveva ragione, Daniel, a non volersi sentir definire gestaltista da qualche nostro allievo un po’ ingenuo


Ripensando a lui rivedo con commozione – nei flashback della memoria o nei tanti filmati – la passione, la curiosità, l’energia, la stima e l’affetto che rilucevano nei nostri infiniti confronti, disaccordi, incomprensioni

Sono grato a Daniel non solo per la sua teoria evolutiva ma anche per la fiducia, la stima, la curiosità che mi ha donato

fondo, ci muovevamo su epistemologie metaforicamente molto prossime alla definizione in linguistica di ‘falsi amici’, ovvero tutti quei lemmi che sono simili per forma in due lingue diverse ma con significati divergenti. L’implicito era su questo punto una cartina al tornasole: «Daniel, ma l’implicito è visibile o no a livello fenomenologico?». Per me infatti è ovvio che l’implicito, entrando nell’intenzionalità di contatto, in una prospettiva fenomenologica ‘deve’ risultare visibile: la profondità della superficie! Ma Stern, dopo averci pensato su, mi risponde: «No, Giovanni, credo di no». Ed io replico: «Beh, Daniel, a questa altezza le nostre teorie si dividono». Da lì in poi, per diversi motivi, dopo tanta frequentazione cominciò qualche anno di maggiore distanza e di silenzio. Ma la tristezza di un commiato senza parole non cambia in nulla il calore e la gratitudine per un incontro che vivo ancora come un dono della vita. Ripensando a lui rivedo con commozione – nei flashback della memoria o nei tanti filmati – la passione, la curiosità, l’energia, la stima e l’affetto che rilucevano nei nostri infiniti confronti, disaccordi, incomprensioni. Sapevamo entrambi che in quel mezzo secondo in più, a Palermo, ci eravamo riconosciuti. E da quell’attimo abbiamo preso la forza per attraversare le difficoltà profonde e feconde che emergono quando si tenta in modo serio e coinvolto di confrontare modelli teorici e clinici. Sono grato a Daniel non solo per la sua teoria evolutiva ma anche per la fiducia, la stima, la curiosità che mi ha donato. E qui chiudo, dandogli ragione. Il riconoscimento che ci era accaduto a Palermo, in quel primo attimo del nostro incontro, era stato implicito. Ma indimenticabile.

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Trip in the Far West (particolare)


Grace Maiorana Dal 2 al 5 Ottobre scorso, GTK ha partecipato al VI Convegno della Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia (F.I.A.P.), svoltosi presso il Centro Congressi di Riva del Garda (TN). Questo appuntamento biennale mira a promuovere un interscambio teorico-clinico nella comunità psicoterapeutica italiana su alcuni dei temi più rilevanti, interdisciplinari e attuali nella psicoterapia contemporanea. Il tema affrontato in questa edizione è stato, infatti, il Sé inteso come concetto fondante e trasversale nella psicoterapia, di cui fonda l’epistemologia e da cui deriva la comprensione della sofferenza psicopatologica e l’articolazione della prassi clinica. Il Sé è una struttura o una funzione emergente? Appartiene all’individuo o è un fenomeno intersoggettivo? Come si sviluppa e matura? In che modo coinvolge la dimensione corporea e affettiva? Quali caratteristiche presenta nella diversi esperienze psicopatologiche? Sono queste alcune delle domande che hanno fatto da sfondo ai diversi interventi che si sono succeduti, in modo incalzante e fluido, nelle quattro giornate. La strutturazione del convegno ha previsto al mattino delle sessioni in plenaria, con le lectiones magistrales di alcuni tra i più autorevoli esponenti su questi temi e al pomeriggio delle sessioni parallele, con workshops, lectures e panels condotti da diversi colleghi che hanno proposto degli approfondimenti teorici e clinici muovendosi all’interno dei propri modelli psicoterapeutici. Il convegno è stato dunque un’occasione di confronto tra diversi approcci.

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GTK DISSEMINATION

REPORT VI CONVEGNO F.I.A.P. L’EMERGERE DEL SÉ IN PSICOTERAPIA. NEUROSCIENZE, PSICOPATOLOGIA E FENOMENOLOGIA DEL SÉ 2-5 OTTOBRE 2014 RIVA DEL GARDA (TN)


LECTIONES MAGISTRALES Damasio A. “Il Sé viene alla mente” Il prof. Damasio nel suo intervento ha approfondito il tema del Sé che emerge dalla mente: muovendosi in antitesi all’epistemologia cartesiana ha sostenuto una continuità funzionale tra corpo-cervello-mente e portato avanti un approccio di studio e di ricerca di tipo bottom-up che rivendica l’importanza del corpo nel funzionamento del Sé così come nella sua definizione e comprensione. Concezione di base da cui ha preso avvio la sua disquisizione è che la mente dotata di un Sé e di una soggettività non prende origine dal rapporto con l’ambiente esterno ma da un rapporto con l’interno cioè dal corpo: «il punto critico è l’inizio: ritengo che la mente e dunque il Sé originino dal corpo». E ciò non solo a livello evolutivo ma anche come realtà fenomenologico-relazionale alla base del senso di Sé. Il suo intervento è iniziato a partire da una precisa domanda: perché occuparsi di sentimenti parlando del Sé? E ci ha guidati, in modo preciso e puntuale, nella comprensione della scelta di questo focus affermando che non è possibile spiegare come sono fatte le menti senza comprendere i sentimenti dal punto di vista biologico: i sentimenti danno ragione della coscienza e del Sé; determinano la costruzione del comportamento sociale e delle culture e, cosa più importante per i clinici, molte malattie dell’uomo sono patologie del sentimento. Ha poi approfondito il ruolo dei sentimenti come parte del processo di regolazione omeostatica definendoli «sentinelle e motivatori» per l’essere umano. Interessante è stato il passaggio in cui ha spiegato come gli obiettivi dell’omeostasi siano implementati attraverso programmi di azione cioè programmi di base che risolvono problemi complessi con risposte standard che non richiedono deliberazione. Ha continuato descrivendo le componenti di un programma di azione, puntualizzandone l’aspetto neurofisiologico, per poi concludere spiegando il meccanismo attraverso cui emergono i sentimenti e precisando che questi sono l’esperienza delle modificazioni che avvengono nel nostro corpo dopo l’esecuzione di questi programmi di azione, cioè sono le esperienze mentali che accompagnano degli stati corporei ovvero ciò che si prova mentre si fa l’esperienza.

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Dopo aver illustrato, da un punto di vista neurofisiologico, come avvengono i processi che consentono una mappatura dell’intero organismo in contatto con i propri stati interni e in relazione con l’ambiente, è stato facile comprendere il rapporto tra sentimenti e Sé. Ultimo interessante passaggio è stato il tema della soggettività. Questa, secondo Damasio, riguarda la relazione particolare tra cervello e corpo che si concretizza nel tronco encefalico, in un sistema di connessioni integrativo e ricorsivo, che implica le mappe primordiali che nascono in questo campo di unità mente-corpo e le mappe superiori che afferiscono all’astrazione e al linguaggio. In questo senso, nella sua lectio magistralis ha dato conto delle modalità in cui si realizza l’interazione tra corpo e cervello dimostrando l’importanza del corpo nel funzionamento del Sé: «bisogna partire dal corpo per comprendere il Sé e non dai livelli mentali superiori come si è fatto finora».

Gallese V. “Bodily Self e schizofrenia” Il prof. Gallese nel suo intervento ha approfondito il senso corporeo del Sé reso dal potenziale di azione, mettendo in evidenza come le potenzialità motorie del nostro corpo siano alla base della presenza corporea che costitutivamente ci caratterizza come Sé1. «Il nostro corpo ci è dato primariamente come una molteplicità di possibilità per l’azione. In quanto esprime una potenzialità di movimento e di azione il corpo ci fa abitare in modo particolare il mondo e ci fa incontrare gli altri». Ha definito la consapevolezza corporea di Sé come forma di consapevolezza più primitiva, un livello elementare di consapevolezza di Sé di cui costituisce il nucleo centrale a partire dal quale evolvono altre forme di auto-coscienza2.

1 Cfr. V. Gallese, F. Ferri (2013). Jaspers, the Body, and Schizophrenia: The Bodily Self, in «Psychopathology», Publicato online: 17 Luglio 2013. 2 Cfr. V. Gallese, C. Sinigaglia (2010), The bodily self as power for action, in «Neuropsychologia», 48, 746-755.; V. Gallese, C. Sinigaglia, (2011), How the body in action shapes the self, in «Journal of Consciousness Studies», 18, 117-143.

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A partire dai punti fermi acquisiti dalla ricerca neuroscientifica degli ultimi venti anni ha ribadito che la nostra percezione del mondo è plasmata dall’azione anche quando non eseguiamo un movimento e che lo stesso vale per il nostro essere nello spazio, evidenziando come il meccanismo dei neuroni specchio risponda con maggiore intensità quando l’azione è eseguita rispetto a quando è solo osservata e che la stessa logica si applica alle emozioni e alle sensazioni; ha poi sottolineato come nell’ambito delle azioni intenzionali, il sistema motorio ci permetta di avere contemporaneamente un denominatore comune e un criterio per distinguere la consapevolezza di Sé da quella degli altri. La consapevolezza corporea quindi come consapevolezza primaria ed elementare di noi stessi e, contemporaneamente, come consapevolezza degli altri in quanto altri Sé corporei3. Infine, ha riportato i risultati di alcuni studi condotti dal suo gruppo di ricerca sulla psicosi schizofrenica che, secondo questa prospettiva del Sé corporeo, è intesa come disturbo dell’ipseità. A partire da queste evidenze empiriche ha concluso affermando che la matrice corporea di questo Sé elementare, concepito in termini di potenzialità per l’azione, definisce quel continuum dell’esperienza che include le diverse visioni del mondo, sia negli individui sani sia nei pazienti psicotici4. In questo senso ha aggiunto che è necessaria la clinica per capire meglio la soggettività del Sé.

Borgna E. “In dialogo senza fine con il dolore” Il prof. Borgna, nel suo appassionato, saggio e sempre attuale intervento, ci ha guidati per tre sentieri: il primo, quello della riconoscenza che ha il sapore dell’umiltà e della grandezza di un uomo che sa farsi compagno di viaggio silenzioso e at-

3 Cfr. V. Gallese, F. Ferri, C. Sinigaglia (2012), Corpo, Azione e Coscienza Corporea di Sé: Una Prospettiva Neurofenomenologica, in A. Ales Bello, P. Manganaro (edd.), «... e la coscienza? Fenomenologia, Psico-patologia, Neuroscienze», Giuseppe Laterza, Bari. 4 Cfr. V. Gallese, F. Ferri (2013). Jaspers, the Body, and Schizophrenia: The Bodily Self, in «Psychopathology», cit.

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tento, aperto al mistero dell’altro; il secondo, quello del dolore come componente essenziale di ogni esperienza di sofferenza psichica, di ogni esperienza psicotica; il terzo, più complesso, quello che ricerca quali possono essere le sorgenti del dolore presente in ogni forma di esperienza psichica sia psicotica, sia nevrotica sia normale. Toccante è stato il suo appello alla dimensione umana della psichiatria che deve avere cura della parola che cura e, per dare corpo al potere trasformativo delle parole, puntuale è stata la sua citazione di L. Wittgenstein «cambiano le parole e cambia il mondo» in cui viviamo noi e vivono gli altri. Per poi aggiungere che «per avvicinarsi al mistero della sofferenza, del dolore bisogna abbandonare l’abitudine di trasferire nell’osservazione e poi nell’interpretazione dei fatti uno sguardo semplicemente oggettivo, oggettivante. Questo è uno dei rischi in cui ogni forma di psicoterapia corre il pericolo di scivolare: perdere il contatto umano, psicologico, esistenziale e creativo con la persona che si ha dinanzi». Nel secondo sentiero ha ravvisato la sofferenza e il dolore come componenti indispensabili dell’esistenza umana e di ogni forma di sofferenza psichica, e ha individuato nello sguardo fenomenologico «quella capacità di tentare disperatamente di seguire il sentiero che ci porta dentro agli abissi dell’anima degli altri, soltanto se mettiamo tra parentesi tutte le esperienze già fatte che limitino il nostro sguardo, che ci impediscono di cogliere quali siano le esperienze attuali sia dentro di noi sia dentro gli altri: questa è la meta, sempre raggiungibile e lontana che, come ogni cosa essenziale, sfugge». E alla platea di psicoterapeuti ha rivolto l’invito a custodire questo sguardo fenomenologico «dinanzi a chiunque voi incontriate nella normalità o nella follia, questa sorella sfortunata della poesia». Appassionata è stata la sua difesa della psichiatria fenomenologica in Italia così come la maniera in cui ha sostenuto il punto di vista di una psichiatria che con l’aiuto delle discipline sorelle, la poesia e la filosofia, provi a cogliere qualcosa di ciò che avviene «nel guazzabuglio del cuore umano, cioè nel mistero». Lungo il terzo sentiero ha individuato nei disturbi della coscienza di Sé, della coscienza dell’Io una delle sorgenti del dolore indicibile che si può soffrire nell’esperienza psicotica.

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Ha definito le premesse della coscienza di Sé nella condizione di vigilanza e parlato di coscienza di Sé come un concetto più astratto, filosofico, individuandone quattro dimensioni costitutive nell’esperienza di identità, unità, autonomia del pensiero e diffusione. Dando voce ai pazienti, attraverso frammenti di verbatim poiché «solo chi soffre conosce davvero quello che accade» ha descritto i vissuti dei pazienti e indicato che cosa accade in questo universo. Nel ribadire l’inafferrabilità dell’anima umana e l’indicibilità della sofferenza psichica ha esortato la platea ad un dialogo senza fine con il dolore poiché, citando Shakespeare, ci ha ricordato che «ci sono infinite più cose in cielo e in terra» di quante ne conoscano le nostre psichiatrie e filosofie.

Ammaniti M. “Metamorfosi del Sé in adolescenza: implicazioni cliniche” Nel suo intervento il prof. Ammaniti ha messo in luce le trasformazioni puberali, sia ormonali sia cerebrali, che intervengono nell’organizzazione del Sé nel periodo dell’adolescenza e come queste possono influenzare l’approccio clinico. Interessante è stato contestualizzare alcuni vissuti e comportamenti adolescenziali rispetto alle modificazioni dello sfondo corporeo: lo starter biologico mette in moto le trasformazioni biologiche e psicologiche riconducibili ad un’azione ormonale che agisce a livello cerebrale; così come ripercorrere il processo di maturazione muovendosi in continuità tra soma e psiche, tra modificazioni neurobiologiche e specificazioni funzionali di competenze autoregolative, cognitive affettive e relazionali. L’aspetto coinvolgente dell’intervento è stato parlare dell’adolescente a partire dal corpo e dell’adolescenza come un percorso maturativo che dal corpo parte, come interferenza traumatica nella continuità del Sé5, e al corpo ritorna con nuove assimilazioni e nuove ridefinizioni di Sé e del mondo.

5 Cfr. D. Winnicott (1994) (ed. or. 1970), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma.

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Interessante, anche se poco approfondita, è stata l’attenzione posta sull’intercorporeità.

CONTRIBUTI GTK SESSIONI PARALLELE GTK ha contribuito attivamente alle sessioni parallele attraverso le Lectures della Dott.ssa Silvestri e della Dott.ssa Lisi rispettivamente sul Gambling e sull’Isteria. ‑–­ Gambling: l’approccio gestaltico alla dipendenza da gioco di azzardo, Dott.ssa G. Silvestri In una sala gremita e partecipe, attrezzata di cuffie stereo per ciascun partecipante al fine di superare l’ostacolo del riverbero da palazzetto dello sport, Giovanna Silvestri ha dapprima spiegato la situazione del Gambling in Italia e poi discusso un caso clinico. Nel presentare il Gambling o Disturbo da Gioco d’Azzardo secondo i criteri diagnostici del DSM-5, la Dott.ssa Silvestri ne ha segnalato il significativo aumento epidemiologico, evidenziando le incongruenze dello Stato italiano che, negli ultimi anni, attraverso la deregolamentazione delle sale bingo e slot machine, così come la diffusione di video poker e gratta e vinci ha sottovalutato gli effetti sociali di queste scelte, fatte sulla scia di motivazioni economiche. Lo Stato, colpevolmente disattento e inosservante della propria funzione di tutela dei cittadini, non ha ancora predisposto un monitoraggio su scala nazionale per l’emersione del fenomeno. Gli unici dati disponibili provengono dalla preziosa ricerca del Dipartimento Politiche Antidroga e delle associazioni dedicate a questa patologia. Tutti sono d’accordo nel constatare come oggi il gioco d’azzardo costituisca una vera e propria emergenza sociale. Quali sono i fattori che costituiscono principalmente la matrice causale del DGA? Come si declinano le evidenze cliniche nella diagnosi in GTK? Qual è nella prospettiva evolutiva il «momento critico» (in cui è mancato quel corpo complementare evolutivo) e quale sostegno specifico deve essere offerto a chi soffre di tale disturbo? La discussione del caso clinico ha preso avvio da queste domande e ha suggerito strumenti e prassi per

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la lettura e il trattamento di tale patologia secondo il modello teorico-clinico della Gestalt Therapy. ‑–­ Imito, ergo sum. Le funzioni del Sé nella modalità isterica di relazione secondo l’approccio della Gestalt Therapy, Dott. ssa R. Lisi Dinanzi ad una platea curiosa e attenta, la Dott.ssa Lisi ha proposto una riflessione storica, antropologica e clinica sull’isteria, presentata come sofferenza relazionale della post-modernità. Il suo intervento è partito dal far notare come «falso Sé» e personalità «come se» sono alcune delle definizioni classiche della patologia isterica che mettono in luce il vissuto centrale del soggetto isterico: l’imitazione6. Tema magistralmente trattato nella sua accezione neurofisiologica dal Prof. Damasio e dal Prof. Gallese negli interventi del venerdì mattina. Interessante è stato riflettere sul significato antropologico di questa sintomatologia che, per la sua costante presenza nella storia dell’umanità e della psicoterapia, ha insinuato il dubbio in diversi studiosi che possa trattarsi di una declinazione antropologica, di una posizione originaria e non solo di una sofferenza7. La lecture ha offerto chiavi di lettura per riconoscere le varie forme in cui l’isteria si ripresenta come sofferenza relazionale della post-modernità. La rilettura, condotta secondo il modello teorico-clinico elaborato dall’Istituto Gestalt Therapy Kairos8, vede la modalità relazionale isterica come l’insieme di vissuti corporeo-relazionali che connotano una specifica interruzione della relazione (ciclo di contatto) e individua precise compromissioni del Sé nelle sue funzioni (Es, Io, Personalità). Tale presentazione ha offerto anche un’inedita chiave di lettura fenomenologica dei sintomi del Disturbo Istrionico di personalità descritti nel DSM-5.

6 Cfr. R. Girard (1965), Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano. 7 Cfr. Ivi; E. Gaddini (1989), Scritti (1953-1985), Raffaello Cortina, Milano. 8 Cfr. G. Salonia (ed.), Quando tutto mi è pertinente. Isteria e Gestalt Therapy, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, in press.

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CONTRIBUTI GTK SESSIONE EDITORIA Stimolante è stata anche la presentazione dei libri GTK svoltasi sabato pomeriggio, che ha visto impegnate le Dottoresse Leggio, Lisi, Maiorana, Silvestri nella presentazione della copiosa produzione scientifica ed editoriale dell’Istituto Gestalt Therapy hcc Kairos. Per dare una panoramica dei diversi ambiti di studio e di ricerca portati avanti, negli ultimi tempi, dall’Istituto GTK la presentazione dei libri è stata articolata nelle seguenti aree tematiche: nell’area «Psicopatologia e Nuove prassi cliniche» punta di diamante è stato il saggio Devo sapere subito se sono vivo, di G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, che rappresenta il primo manuale di psicopatologia gestaltica in italiano; non meno importante il recente testo curato da G. Salonia sulla Traduzione del Linguaggio Borderline che prende il titolo dal celebre caso clinico di I. From La luna è fatta di formaggio, così come l’ultima originale pubblicazione della collana curata da A. Merenda sulla zooantropologia clinica Incontri terapeutici a quattro zampe. Adeguato spazio è stato dedicato anche al pregevole testo di B. Kimura sulla psicopatologia fenomenologica Tra. Per una fenomenologia dell’incontro. Nell’area «Teoria evolutiva e Terapia familiare» è stato presentato Edipo dopo Freud di G. Salonia e A. Sichera, il primo GTK Book, nuova avventura di GTK che, dentro la cornice della rivista, ha pensato di immettere dei numeri speciali, veri e propri libri, dedicati a temi di rilievo rispetto ai quali la ricerca dell’Istituto è approdata a risultati definitivi. Punti fermi del nostro lavoro clinico ed ermeneutico sono le ultime evoluzioni della teoria evolutiva gestaltica e l’originale rilettura corporeorelazionale dell’Edipo freudiano anche per il suo risvolto sulla lettura della co-genitorialità. Di questo parla, appunto, il testo. E poi Come l’acqua meraviglioso testo in cui le autrici ci narrano di come nel loro lavoro, che si svolge nella scuola, riescano con leggerezza rispettosa e competente ad entrare e a muoversi nel mondo dei bambini, avendo cura delle loro ferite. Appassionante è stato anche parlare del testo Danza delle sedie e danza dei pronomi e quindi del nuovo modello di terapia familiare sviluppato dall’Istituto di Gestalt Therapy Kairos che,

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applicando il Sé al sistema famiglia, delinea un innovativo modello di lettura del disagio familiare e di intervento clinico. Un clima vivace si è respirato durante la presentazione dei testi dell’area «Antropologia» in cui sono state condivise le parole del Prof. Borgna, scritte nella post-fazione del libro Sulla felicità e dintorni di G. Salonia, nelle quali si legge stima e riconoscimento per lo spessore scientifico ed umano del testo. Avvincente è stato parlare di Antigone ne La grazia dell’audacia di G. Salonia, testo ispirato a colei che è icona della forza della relazione e dell’audacia di portare fino in fondo ciò che il cuore detta, con grazia e intensità tutta femminile. E infine la Rivista internazionale (in italiano e in inglese) di Psicoterapia di Gestalt Therapy Kairos – GTK, fiore all’occhiello della produzione scientifica ed editoriale del nostro Istituto, disponibile anche online, per aprire dentro il web una nuova via di accesso all’universo gestaltico e contribuire, nel panorama nazionale e internazionale, al dibattito sulla sofferenza e sul disagio. Interessante è stato lo spazio dedicato ai cinque diversi numeri della rivista, di cui sono stati evidenziati gli articoli di punta e l’intrigante connubio tra psicopatologia, arte e poesia presente in ogni numero, come filo di Arianna delle diverse forme in cui creativamente può esprimersi e cogliersi la sofferenza umana.

GTK SESSIONE CONCORSI F.I.A.P.: 2° PREMIO RICERCA 2014 GTK ha lasciato il segno anche nella sessione concorsi vincendo il 2° Premio F.I.A.P. Ricerca 2014! All’interno del Convegno, infatti, per sostenere le iniziative dei giovani colleghi sono stati indetti due premi: Premio per la Ricerca e Premio per l’Attività Clinica. I partecipanti hanno presentato il loro contributo durante il convegno sotto forma di poster redatto secondo i criteri di produzione e stesura indicati dal Comitato Scientifico. La valutazione dei contributi è stata fatta in cieco da due referee scelti dai membri del Comitato stesso. Tra tutti i numerosi candidati, il premio veniva assegnato ai tre lavori di ricerca e clinici che hanno ottenuto un maggiore punteggio in graduatoria.

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Date tali premesse, per Noi di GTK enorme è stata la soddisfazione con cui abbiamo assistito, fiere, all’assegnazione e alla premiazione del Lavoro di Ricerca condotto e presentato dalle Dott.ssa Antoci e Dott.ssa Lisi dal titolo «Il vissuto dell’adolescente prende corpo nella relazione. Risultati di una ricerca»9. Le autrici, applicando i principi della Gestalt Therapy in ambito educativo e preventivo, hanno sperimentato un percorso conoscitivo-esperienziale con un gruppo di studenti di scuola secondaria superiore, all’interno del progetto “Dietro lo specchio”, promosso dalla Regione Siciliana in collaborazione con l’ASP n. 7 di Ragusa e con l’Istituto di Gestalt Therapy Kairos. I risultati dell’intervento dimostrano come il lavoro gestaltico sull’intercorporeità, agendo sul corpo e attraverso i corpi in relazione, permetta di recuperare fiducia nella propria spontaneità e di destrutturare gli introietti che portano i ragazzi a ricorrere a ideali estetici di perfezionismo per trovare il proprio stile personale e scoprire la fierezza della propria unicità.

RIFLESSIONI CONCLUSIVE La partecipazione a questa VI edizione del Convegno F.I.A.P. è stata un’esperienza professionale ed umana arricchente che ha offerto interessanti occasioni di confronto con colleghi di altri orientamenti teorico-clinici durante i momenti strutturati e opportunità di incontri nutrienti durante i momenti conviviali, primo fra tutti ‘le scatenate danze’ aperte dopo la cena sociale. Gli innumerevoli input ricevuti sono stati stimolanti, adesso il passo successivo da compiere è quello dell’assimilazione e dell’integrazione, con una puntuale riflessione sulle ricadute in ambito clinico e terapeutico dei temi affrontati. Ed è appassionante sapere di portare nuova linfa ad una riflessione che l’Istituto di Gestalt Therapy Kairos ha già iniziato da diversi anni, approfondendo lo studio della teoria

9 Per una trattazione più ampia del disegno di ricerca cfr. S. Antoci, R. Lisi, Il vissuto dell’adolescente prende corpo nella relazione. Risultati di una ricerca, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 4, 61-74.

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del Sé e delle sue funzioni, formulando un’inedita rielaborazione delle funzioni del Sé e della teoria del contatto, sia in chiave evolutiva sia nella lettura fenomenologico-relazionale del ciclo di contatto, offrendo in tal modo chiari orientamenti diagnostici e terapeutici oltre che un completo inquadramento delle diverse classi nosografiche che hanno permesso a noi terapeuti della Gestalt di avere, finalmente, ciò che è sempre mancato: una rilettura della psicopatologia in chiave gestaltica. Altro aspetto connesso ai temi del Convegno F.I.A.P. è l’apertura alle nuove frontiere delle Neuroscienze (Porges, MacLean, Damasio, Edelman, etc.) che l’Istituto GTK ha da tempo avviato in una logica di integrazione ai temi della psicopatologia, dell’intercorporeità, della traità, delle funzioni e disfunzioni del Sé, della processualità dell’emergere del Sé dal punto di vista evolutivo e fenomenologico-relazionale, avendo come focus di interesse le ricadute nella propria prassi clinica. Cogliere questi aspetti di continuità ci ha permesso di constatare che il livello di aggiornamento del nostro Istituto è in linea con le attuali acquisizioni neuroscientifiche, che sono state integrate nella specificità clinica e terapeutica del modello GTK. Prendere consapevolezza di questo ci ha permesso di sentire forte l’orgoglio dell’appartenenza al nostro modello e alla Gestalt Community di cui noi, in questo Convegno, siamo state fiere rappresentanti.

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LETTURE

TRAUMA THERAPY AND CLINICAL PRACTICE. NEUROSCIENCE, GESTALT AND THE BODY Miriam Taylor (2014) Open University Press (McGraw–Hill Education). Recensione di Aluette Merenda Miriam Taylor descrive l’approccio della Gestalt Therapy (GT) al trattamento del trauma, integrandolo con le attuali teorie e ricerche sulle neuroscienze e dando particolare importanza al ruolo del corpo nel percorso di presa in carico. Il suo lavoro offre le basi teoriche ed esplora le implicazioni cliniche dell’intervento con i pazienti che hanno vissuto esperienze traumatiche, focalizzandosi in modo specifico sul lavoro ed il ruolo del terapeuta, profondamente interconnessi con il ciclo dell’esperienza dei pazienti traumatizzati, durante il processo terapeutico che li coinvolge. Il volume si divide in tre parti: 1) Enlarging the field of choice; 2) At the limits of self; 3) A relational home for trauma. In particolare, nel capitolo Making change possible (I parte), l’autrice descrive la Paradoxical Theory of Change and Trauma (T.d.A.: Teoria paradossale del cambiamento e trauma): «This theory encompasses a number of core Gestalt principles and is predicated on a number of assumptions about the client’s inherent capacities, which can be summed up as the ability to make choices: response-ability in the here-and-now. Change occurs when one becomes what he is, not when he tries to become what he is not» (37). Miriam Taylor riesce a spingersi oltre tale teoria, affermando come il cambiamento possa essere influenzato da un diverso numero di fattori, tra cui le tecniche espressive, la relazione e la speranza. E, per coloro che hanno subito un trauma, dalla revisione delle basi neurobiologiche. Attraverso il processo di consapevolezza nel qui e ora ed il suo approccio fenomenologico, l’autrice sottolinea inoltre come la GT consenta di lasciare gli eventi traumatici al passato, sottolineando così la risonanza della prospettiva temporale connessa al trauma ed evitando pertanto che il paziente continui a vivere come se il trauma fosse ancora in corso.

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Nella II parte del volume (capitoli 6-9), l’autrice esplora invece i limiti del Sé: «(At the limits of self): from fear to safety, from helplessness to autonomy, from disconnection to contact and from shame to acceptance». In altre parole, esplicitando le basi neurobiologiche dei sistemi emotivi e le loro particolari connessioni con i meccanismi istintivi di sopravvivenza e di difesa, Miriam Taylor arriva a descrivere le modalità operative per creare il proprio senso di sicurezza, esterno ed interno. Molto significativa è poi la sua definizione di dissociazione, intesa come un adattamento creativo per eccellenza, ovvero: «a creative adjustment par excellence, enabling the victim to continue with some semblance of normality, though enormous cost» (146). Proprio il lavoro di recupero delle connessioni neurobiologiche coinvolte nell’esperienza traumaticamente vissuta ha un potere di controllo sulla capacità di integrare le parti del Sé e del corpo frammentate, aumentando la connessione con l’ampio campo fenomenologico. Infine, la III parte (A relational home for trauma) analizza il ruolo del terapeuta durante il percorso di guarigione e le modalità con cui lei/lui è in grado di creare un embodied relational ground (T.d.A.: campo relazionale incarnato) con il paziente. Il terapeuta, partendo dall’esperienza traumatica, crea le condizioni per un cambiamento: «as an organizer, the therapist offers clients the opportunity to understand their creative adjustments and to reorganize their experiential ground, principally somatically and relationally and the therapist’s body becomes a mirror and representation of something that needs to owned» (179). Attraverso poi il Window of Tolerance Model (181), emerge il ruolo del terapeuta nel processo di regolazione emotiva con il paziente, ove entrambi apprendono insieme «i passi della danza che occorrono per ristabilire il bisogno di sicurezza perduto» (181). Concludendo, il volume illustra il lavoro di cura delle diverse esperienze traumatiche, arricchito dalle numerose vignette cliniche riportate, attraverso le lenti relazionali dell’approccio della GT. Risulta, a mio parere, molto accurato il modo in cui l’autrice descrive l’importanza del ruolo del terapeuta durante il percorso terapeutico, mediante un approccio di co-regola-

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zione emotiva (co-regulatory approach) con coloro che lottano contro il proprio trauma. In tal modo, sarĂ possibile sperare, come terapeuti, di accompagnare i propri pazienti verso quel sentiero relazionale, in cui potrebbero, per la prima volta o finalmente, sentirsi a casa (a relational home for trauma) (233).

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PUBBLICAZIONI RIVISTA DI PSICOTERAPIA (ITA/ENG)

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Ricerca L’angoscia dell’agire tra eccitazione e trasgressione La Gestalt Therapy con gli stili relazionali fobico-ossessivo -compulsivi Giovanni Salonia

Ricerca La Gestalt Therapy e i pazienti gravi Valeria Conte

Ricerca La funzione-Personalità nel testo Gestalt Therapy Antonio Sichera

L’errore di Perls Intuizioni e fraintendimenti del postfreudismo gestaltico Intervista a Giovanni Salonia a cura di Piero A. Cavaleri

Teoria del sé e società liquida Riscrivere la funzione-Personalità in Gestalt Therapy Giovanni Salonia

Il paziente borderline: una ostinata e sofferta richiesta di chiarezza Intervista a Valeria Conte a cura di Rosa Grazia Romano Arte e psicoterapia Ricordo di Alda Merini Paola Argentino Prendimi l’anima Giuliana Gambuzza Nuove applicazioni cliniche Gestalt Therapy e Onoterapia: nuove applicazioni della pet therapy Silvia Zuddas e Francesco Padoan Letture Nello Dell’Agli, Aluette Merenda, Fabio Presti, Assunta Tolentino

Arte e psicoterapia Il corpo ritrovato Scritture e immagini da una terapia Non so scriverlo... Eva Aster Nuove applicazioni cliniche Narciso: il riflesso senza acqua Il mito secondo Bill Viola, riflessioni sull’esperienza narcisistica Giovanna Silvestri Letture Bruno Callieri, Michela Gecele, Aluette Merenda

Arte e psicoterapia Borderline Border-line Annalisa Iaculo Rileggendo ‘Il corpo ritrovato’ Intervista a Maurizio Stupiggia a cura di Elisa Amenta Nuove applicazioni cliniche La Gestalt Therapy e la cura del disturbo post-traumatico da stress Un’ipotesi di intervento in gruppo con i sopravvissuti del genocidio cambogiano Vinanda Var Società e psicoterapia Il volo di Bauman a Siracusa Intervista a Zygmunt Bauman a cura di Orazio Mezzio Letture P. Cavalieri, L. Marchiori, F. Pecorari

In questo numero Ricerca La modalità relazionale narcisistica nella post modernità e il lavoro terapeutico in Gestalt Therapy Valeria Conte Oltre L’Edipo, un fratello per Narciso Paola Aparo Nuove applicazioni cliniche Il vissuto dell’adolescente prende corpo nella relazione. Risultati di una ricerca Stefania Antoci e Rosaria Lisi Adolescenza: generazione e degenerazione di una Festa Federico Battaglini Affrontare il dolore con un bagaglio di leggerezza Anna Cò e Annalisa Marinoni L’esperienza triadica in Gestalt Therapy Enrica Ficili e Gabriella Gionfriddo Coparenting nelle nuove figure familiari:orizzonti teorici e percorsi di osservazione in Gestalt Therapy Daniela Lipari e Aluette Merenda La vergogna nella coppia: un appello all’intimità Daniele Marini Il cancro al seno: per ridefinire ricordi, progetti e aspettative Il sostegno specifico nelle relazioni di coppia Valeria Nigro e Alessandra Pitino Il video racconto. Un’arte di gruppo Giovanna Silvestri La mafia e la plebe. La psicoterapia e la violenza rimossa della politica in Sicilia Dario Vicari Arte e psicoterapia Incesto Dada Iacono Lettura A. Merenda, A. Sichera

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LETTURE

LA COOPERAZIONE CONSAPEVOLE UN MODELLO DI INTERVENTO SOCIOLOGICO A SOSTEGNO DELLE ORGANIZZAZIONI E DEI PROTAGONISTI DELLA SOCIETÀ CIVILE Gianluca Piscitelli (2010), Aracne, Roma. Recensione di Giovanni Salonia Il modello di intervento sociologico a sostegno delle organizzazioni e dei protagonisti della società civile presentato nel testo di Piscitelli suscita molto interesse. L’autore si rifà al modello della Gestalt Therapy già nello schema di base suddiviso in sfondo/figura. La genialità di tale intuizione degli psicologi della Gestalt emerge proprio dalla costatazione che si tratta di un principio ermeneutico che rigenera ogni sapere che lo assume come preliminare chiave di lettura. In fondo la Gestalt Therapy nacque anche dall’idea di Laura Perls, assistente di Wertheimer, di una possibile declinazione clinica dei principi della Gestalt Psychology. Altri (L. Ancona, U. Galimberti), con meno sistematicità e convinzione, sono stati attratti da tale coniugazione della psicologia della Gestalt con la psicopatologia. È di notevole interesse la rilettura che fa il dott. Piscitelli di tale principio in chiave sociologica, che, come si evince dal testo, arricchisce la ricerca e l’intervento sociale e fa emergere (dallo sfondo!) altre suggestive potenzialità euristiche di tale principio. Come sappiamo, il principio figura/sfondo si colloca non solo nell’asse spaziale (struttura percettiva della realtà) ma anche nell’asse temporale (struttura evolutiva della percezione), per cui il dispiegarsi del rapporto organismo-ambiente segue un affascinante processo evolutivo. È proprio il caso di ricordare il poeta Whitman quando scrive che la verità non vuole il forcipe ma si dispiega, emerge se l’ambiente non è ostativo: lo sfondo tende a diventare figura e la figura, piena, a diventare sfondo. Se questo processo si interrompe, la realtà perde le vibrazioni della freschezza dell’esserci e dell’essercicon. Ha scritto P. Goodman: «ciò che non si completa si perpetua» (senza vita, potremmo aggiungere). Inoltre, come ci ricorda l’Autore, tale principio declinato nelle relazioni umane evita ogni tentativo di fuga dalla simmetria, in una pretesa di

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conoscenza del mondo inconsapevole dell’altro. Ricordiamo e parafrasiamo Gadamer: la pretesa di conoscere l’altro prima e più dell’altro è un modo di evitare la necessaria ansia dell’incontrarlo. La verità relazionale emerge se sappiamo attendere con l’altro, nel rispetto delle verità precarie e momentanee che ne preparano l’emergenza piena. È intrigante anche per un terapeuta leggere come una nuova forma di welfare si fondi sulla pluralizzazione degli attori e sull’autorealizzazione personale intesa come attuazione del proprio progetto di felicità. Uno dei sogni dei fondatori della Gestalt Therapy fu quello di una comunità, una città costruita secondo un ordine gestaltico. Principio fondativo della visione gestaltica della città (interessanti i progetti di Goodman e del fratello architetto sulla città di New York) è lo spazio del contatto pieno: essere se stessi, permettere all’altro di esserlo e incontrarsi in questo reciproco riconoscimento. La ricerca di felicità è la domanda che unisce gli umani. L’intrigo del vivere insieme è proprio nella capacità di mettere ordine alle molteplici risposte a queste domande. Un welfare che debba fare i conti con questa domanda è un pensiero relazionale capace di cogliere gli snodi più intimi delle conflittualità che non diventano ricchezza. Il convivere umano oscilla sempre tra paura e arroganza, tra chi è senza speranza (down) e chi si irrigidisce nella posizione (up): sappiamo ormai che nessun progetto di felicità ha vita lunga se formulato su tali angusti perimetri. In tale prospettiva va sottolineato il valore sociale e relazionale dell’affermazione dell’Autore: la scelta del career non può essere confinata in ambiti personalistici o religiosi ma deve porsi come fondamento del vivere insieme. Risuona la lezione di alto profilo di Jonas sulla responsabilità, sul prendesi cura dell’ambiente e, possiamo dire, del sociale perché non solo dimora nostra ma anche dei figli dei nostri figli. La caduta delle Torri Gemelle (2001) e di Wall Street (2008) (dopo ‘la caduta degli dei’) nella loro drammaticità e pervasività ci indicano come qualsiasi welfare che sia stato costruito e progettato senza partecipazione piena dei cittadini (senza l’ordo amoris) alimenta nel proprio intimo cariche implosive di violenza e di distruzione. Solo un intervento sociale che definisce ed include, in tutte le sue ramificazioni, il bene relazionale come bene sociale ed economico può aprire le strade di un futuro umano.

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Educare al bene relazionale significa, nella psicoterapia della Gestalt, educare all’ascolto di se stessi e dell’altro (ascolto della proprie e dell’altrui corporeità), alla chiarezza dei confini relazionali nella loro duplice matrice del prendesi cura e del condividere, alla capacità di contatto, e cioè di incontro con l’altro, con aggressività sana (senza paura) e con umiltà relazionale (senza prevaricazione), all’adattamento creativo che ricompone in modo efficace la spontaneità dei soggetti tra loro e quella di ognuno con le esigenze di tutti nel civile con-vivere. Bene relazionale è, come piace dire all’Autore, educare al benessere come armonia (karis). La Gestalt Therapy ha sostenuto sin dall’inizio (1950) che la grazia (karis) è lo scopo della psicoterapia. G. Bateson, anni dopo, nel suo classico Verso un’ecologia della mente, scriverà che la grazia è il punto di arrivo della maturazione: «Perché si possa conseguire la grazia, le ragioni del cuore debbono essere integrate con le ragioni della ragione». Risuona l’asserzione di Huxley: il problema fondamentale dell’umanità è la ricerca della grazia. Il nostro Autore termina proprio con questa apertura di grande respiro e di fecondità operativa: pensare al bene relazionale come karis. Per il gioco temporale di figura e sfondo, adesso ci accorgiamo che la karis emerge alla fine perché è stata sempre presente nello sfondo. Assumere la karis come ‘momento tecnico’ nella costruzione di un modello di intervento sociale è uno dei cambiamenti di paradigma prioritari da inserire nella grammatica del vivere insieme che l’umanità sta, con fatiche e confusioni, redigendo nel terzo millennio.

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