Racconti da svolgimento.blogspot.it per la Sezione: Mi sono innamorato di te perchĂŠ febbraio 2014 I diritti sui testi pubblicati sono di proprietĂ dei singoli autori e compaiono su Tutta colpa della Maestra con License Creative Commons
La logica della Serpe - Roberta Lepri Vivi, Robi, Barcelona* - Viviana Maxia L'Appartamento - Giuseppe Pippo Visconti Ti ho cercata al mercato di San Salvario - Max Ponte Mi sono innamorata di te perche' ho amato - Azzurra L Perché ti amo - Adelaide J. Pellitteri Reticenze sentimentali - Maria Ilenia Crifò Ceraolo Mi sono innamorata di te! Merda, merda - Antonella Tarantino In sella - Gianluca Meis Mi sono innamorata di te perche'... - Chiara Nuova Notifica - Riccardo Dal Ferro Razza d'amore - Teodora Ponti Sappiatelo, io russo - Mauro Melon L'amore non è una zingarata - Andrea "Knulp" Roma Fiamma - Federico Orlando
Pensierini. di #Ughino, via @isopaci - @isopaci Un amore da marciapiede - Marco Stancati Amore fisico - Raimondo Quagliana L'amore la cosa più bella - Ilaria A., Mary B., Giorgia N. (@SezioneE) Eri l'Estate - Cetta De Luca Notturno - Alice Pagotto Trame piatte - Giorgio D'Amato L'amore di una donna - Lucia Immordino Che cos'è l'amor? - Paola Toto Addio alla braccia di Catherine - Antonio Prenna L'Amore è un virus - Francesca Furnò Amore e morte - Bea Ary Malamore - Maria Luisa Florio Stidduzza mia – Sabino Russo Vestita di sole – Clotilde Alizzi
Incontro – Monica Gentile Tavolo prenotato al 25 – Tommaso Gambino Filo rosso, quasi Blue – Cristina @CoseInvisibili Galeotto fu il fico - Renzo Tramaglino (@TwRenzo) & Lucia Mondella (@TwLuciam)
La logica della Serpe Dicono che quel giorno le urla e i singhiozzi si sentivano anche al primo piano, e che perfino qualche ginnasiale avesse alzato la testa dalla versione di greco, per cercare di capire che accidente stava succedendo. Al piano superiore Claudia Ferretti stava supplicando Giorgio Papa di andarsene, ma quello niente. - Torna in classe, Claudia, per piacere…e si capiva già da lì che lui era innamorato pazzo. Lei no, per niente. Lui sì, sennò che ci stava a fare dentro il bagno delle femmine, con il rischio di prendersi una nota? Che poi non gliel’avrebbero data neanche se lo beccavano lì, questo no, non al figlio del primario di cardiologia. Padrone di mezza Grosseto e amico di tutti quelli che contavano. E poi chiunque poteva aver bisogno del luminare, per la madre anziana o per se stesso. - Claudia, guarda che così ti mette impreparato, guarda che è peggio di quattro…Le bidelle che passavano facevano finta di non vedere e di non sentire, e anche il preside si era rinchiuso nella sua stanza a rileggere una traduzione degli Annales che gli piaceva particolarmente. Dicono che Saralaserpe ci abbia messo tre minuti a scrivere sul libro marrone il profilo di Claudia Ferretti dopo quell’ennesimo insuccesso. Immatura. Illogica. Impreparata. Solo un pizzico di pudore le impedì di scrivere anche “imbecille”, e completare così il ciclo vitale della “i”, vocale appuntita e da strillo. Dio solo sa quanto in quel momento le mancasse il fumo, a Saralaserpe che aveva deciso di togliersi di torno pure quel vizio, conservando in borsa cartine e tabacco quale prova della propria volontà superiore. E poi Dio non c’era comunque. Il rientro in aula di Giorgio strappò alla prof. un sorrisetto di commiserazione. Il mondo era ingiusto ma lei era lì per rimettere le cose a posto. Tranquillo. I migliori destinati alle chiavi della loro città. Casualmente in logica successione con i fratelli, i padri e i nonni. Tutti ex liceali, naturalmente. La Ferretti era figlia di un postino. Non era bella, né studiosa, né particolarmente portata per la filosofia. Niente chiavi. Saralaserpe fece finta di niente, e Claudia riuscì a rimettersi seduta senza suscitare commenti. Il fondo dalla terza b fu toccato prima di Natale, per il “ripassino” che la bestia offriva ogni anno ai maturandi. Un cross di un paio d’ore in mezzo a tre anni di filosofia, con puntatine al programma ancora da fare, un viaggio nel futuro che nella migliore delle ipotesi causava il vomito ai viaggiatori. C’era già qualche disperso. Mancava Anna. La sua mamma aveva già avvisato Saralaserpe “Non le piace Hegel, poverina”. E così sia. Anna era palindroma
e aveva un nome. Suonava perciò benissimo nella bocca cavernosa e piena di misteri di Saralaserpe. I migliori avevano un nome. Gli altri solo un cognome. Come la dolce Euchessina, il battesimo spettava solo a bambini buoni. Gli altri tutti a spingere. Ed erano dolori da castagne secche. Claudia Ferretti si prese la prima scudisciata, come al solito, e chinò la testa aspettando le altre. Socrate. Socrate di merda che erano tre anni che non ne parlavano più. La logica contro il senso comune … - Fammi un esempio socratico, Ferretti - Questo le aveva chiesto la bestia, e lei lo sapeva come rispondere, lo sapeva davvero, e lo avrebbe detto senz’altro. Se dopo 42 secondi esatti Giorgio non avesse ricevuto da Saralaserpe l’ordine di rispondere. Dicono che abbia rubato la risposta dalla testa di Claudia. Lei pensò proprio questo: lui gliel’aveva rubata. Non capiva che forse era successo perché Giorgio la amava a tal punto da riuscire ad aspirarle via i pensieri dal cervello. Può succedere. Ma lei lo odiava. Lei lo voleva ammazzare e basta. Qualcuno dice che fu verso Pasqua quando Saralaserpe si accorse che era cambiato qualcosa. Piccoli indizi, trascurabili solo all’inizio. La Ferretti aveva coordinato per due giorni di seguito l’elastico dei capelli con il colore del maglione. Aveva messo perfino i collant in tinta con il resto. Pareva più grande. Più bella. Così sicura di sé. Attraverso gli occhiali spessi Saralaserpe li vide ridere, lei e Giorgio, già complici. Ci mise un attimo a immaginare l’inizio del proprio declino, la fine del regime che la metteva ormai da venti anni in cima alla classifica dei terrori notturni dei liceali di Grosseto. Amori scolastici, pensò, così tenaci e senza senso, matrimoni misti che avrebbero livellato il rendimento delle generazioni future verso il basso. Sempre più in basso. La fine delle differenze, che tristezza. Non poteva sapere che Giorgio alla fine ce l’aveva fatta. Dopo dieci telefonate Claudia gli aveva aperto la porta di casa, e lui le aveva reso i pensieri che le aveva rubato, moltiplicati per dieci per cento e per mille. Avevano studiato insieme per mesi. Alla fine era diventata brava Claudia Ferretti, in filosofia. Brava davvero. Il dieci maggio durante la ricreazione Giorgio e Claudia resero tutto più chiaro scambiandosi un bacio. Dicono che Saralaserpe in quell’occasione abbia avuto la tentazione di rimettersi a fumare. Aveva stretto forte a sé la bustina con il tabacco e le cartine, sognando di rollare una sigaretta ancora. Poi quel patetico bisogno l’aveva fatta inorridire. A quel punto si era incazzata di brutto. Alla fine dell’ora successiva era corsa in sala insegnanti con il cuore in gola. Aveva aperto con la mano un po’ tremante il registro marrone, quello analitico. Aveva respirato profondamente facendo il conto delle interrogazioni negative e poi aveva sospirato di sollievo, perché quella brutta oca della Ferretti in pratica era già respinta. Dicono che quell’anno doveva andare tutto storto. Un bel 1984 di merda per davvero. Saralaserpe non sapeva neanche se avrebbe fatto il membro
interno. Prima aveva detto di sì. Ma aveva cambiato idea e subito dopo aveva detto di no. Non erano preparati, una classe come quella per lei era una vergogna, altro che fare il membro interno. Poi aveva di nuovo cambiato idea, e alla fine aveva detto di sì. Era stato dopo l’interrogazione della Ferretti. Era andata volontaria. Nessuno andava volontario con Saralaserpe. Lei sì. Aveva alzato la mano e lo aveva detto proprio così – Vengo volontaria – Chi poteva sapere quante volte i pensieri di Giorgio erano trasmigrati nella testa di Claudia e quelli di lei nella sua, mentre ridevano, studiavano, scherzavano, leggevano racconti e facevano puzzette autorizzati da Montaigne che le aveva sdoganate per loro ormai da qualche secolo? Una domanda dopo l’altra, un filosofo dopo l’altro, avanti e indietro nel programma. Mai un errore. Giorgio pareva soddisfatto ma un po’ triste. Forse era stanco. Alla fine avevano festeggiato tutti insieme, pareva contenta anche la prof. fu lì che aveva annunciato di aver cambiato idea. - D’accordo, vi faccio io da membro interno Giorgio l’aveva guardata in modo diverso dal solito. Pareva la vedesse per la prima volta e che la volesse imprimere bene nella memoria. Anche lei l’aveva guardato, il suo prediletto. Era stata l’insegnante di suo padre, dei suoi due fratelli. Ma era lui il migliore, brillante e severo, con se stesso prima che con gli altri. Coerente. Lui le aveva offerto una sigaretta, sempre con quel sorriso mesto, e lei non aveva potuto rifiutare. Si sentiva felice ed eccitata, Saralaserpe. Quel pomeriggio avrebbe fatto in modo che Claudia Ferretti non venisse neanche ammessa agli esami, vista la serie spaventosa di insufficienze che una sola interrogazione non aveva potuto rimediare. Ne aveva già parlato al telefono con i genitori dei migliori della classe, ed erano tutti d’accordo. Solo il merito doveva essere premiato. Dicono che Saralaserpe sia morta quasi subito, in sala insegnanti. Parevano tutti stupiti. Tutti inorriditi. Nessuno aveva il coraggio di toccarla. Giorgio dalla porta la osservava con la stessa espressione triste che aveva in classe, quella che gli si era messa in faccia due giorni prima, quando aveva sentito sua madre e Saralaserpe mercanteggiare al telefono le bocciature di alcuni compagni di classe, tra cui Claudia. Ce l’aveva anche mentre coglieva la cicuta e poi quando preparava piangendo la sigaretta che avrebbe ammazzato la serpe, con coerenza, per legge di contrappasso e con logica socratica. Roberta Lepri
Vivi, Robi, Barcelona* Ottobre a Barcelona, niente stona. Sempre dolce il clima, dopo o prima. Ti conosco città, ma mai bene per la verità. Caleidoscopio di colori, come la Nikon di Robi al MACBA, rilassata e sfaccettata come un prisma di cristallo. Ballo, canto e rido. Di te mi fido, non mi hai mai tradita, ti condivido. Spero lui capisca il mio regalo. La offro al suo sguardo, massimo riguardo per la tua atmosfera, falsa, vera, non so. Torno sempre. Ossessiva mente. Nei tuoi meandri si sente risuonare il canto catalano. Suono strano, arcano. Le vie diventano mie, le riconosco quando esco. Cammino, lui a fianco è silenzioso, guarda verso il cielo. Primi giorni coperti da un velo. Quando non risplendi dei tuoi colori un po' muori. Il quartiere antico, amico, vedi questa piazza, gli dico, la conosco da più vite. Ricucite dagli strappi nei variopinti drappi di ceramiche a frammenti. Il bello impera e si staglia in ogni maglia, sia di lana, sia di ferro. Afferro il cielo che diventa blu e dipinge il mercato dei colori usuali. Festeggiamo Marco, poi mettiamo le ali ai piedi per salire al parco, incantato. Salamandre, pantere, cambiano aspetto nelle miti sere. I frammenti di Gaudì. Il museo di Dalì, gli acquarelli di Picasso. Tutto ad un passo. I sensi sono all'erta. Barcelona città aperta, a me, a lui. Viali ampi e vicoli bui. I sapori conquistano il palato, spesso estasiato da profumi inusuali. Cucina e arte, Bacco, Venere, Marte. Ogni pianeta allineato con la tua vicenda. Non vi è altro luogo che così mi prenda e mi trattenga. Barrio gotico, ormai esotico. Santa Maria del Mar, tornare voglio, tornar. Ti prego, Madonna scolpita, fai che prima o poi la mia vita sia stanziale, qui. Con Gaudì e le sue case. Pinnacoli e camini. Il cielo si inchini ai capolavori. Non servono argenti e ori, ma solo colori. Ho condiviso la mia città con te, Robi, è un dono ampio di sentimenti e di momenti. Tu mi chiami amore, io ti offro questo con cuore aperto. Fai entrare il vento catalano e prendimi per mano Viviana Maxia *Ritma
L'Appartamento Mi sono innamorato di un film per via di una battuta forse stupida, se non addirittura scema, che il dottor Dreyfuss pronuncia mentre sta salvando la vita a miss Kubelik, che qualche ora prima ha tentato il suicidio per una delusione amorosa. Chi sa ha già capito tutto! Per chi non sapesse o non ricordasse di che film sto parlando (in effetti ha qualche anno, è del 1960 ed è, udite udite, in bianco e nero, altro che 3D!) ve lo presento dal punto di vista del protagonista. Mi chiamo C.C.Baxter, che a voce fa ciccibaxter, ma tutti i miei superiori mi chiamano Ciccibello. Sono impiegato in una mega compagnia di assicurazioni di New York, ho la faccia di gomma di Jack Lemmon, e occupo uno degli ultimi posti nella articolata gerarchia della compagnia, “diciannovesimo piano, ramo statistiche” ma sono deciso a compiere la scalata che porta alla felicità, inseguendo il grande sogno americano! Ognuno usa le armi che ha a disposizione per raggiungere il suo scopo: chi l’intelligenza, chi la bellezza, altri magari l’intraprendenza o il coraggio; io uso il mio appartamento da scapolo! Si avete capito bene, l’appartamento! La maggior parte di quelli che stanno sopra di me nell’organico societario è ammogliato, ma non disdegna qualche scappatella, magari con una collega d’ufficio che a sua volta sogna la felicità! Quante vittime sulla via di questo sogno irraggiungibile! Serve loro, quindi, un nido d’amore! Ho il mio bel da fare ad organizzare l’agenda degli appuntamenti, tutti vogliono essere accontentati, ma sono molto bravo in questo tipo di lavoro; certo basta una richiesta dell’ultimo minuto - non sempre si può prevedere quando può capitare un’occasione, no? – che devo rifare tutto, attraverso un giro vorticoso di telefonate fatte verso gli uffici coinvolti nell’intrigo. Così mi può capitare di dover rimanere fuori al freddo e sotto la pioggia, se il mio appartamento è occupato. Una sera, che ero a letto con la febbre, ho dovuto sloggiare per non contrariare un dirigente che aveva promesso di segnalarmi per i prossimi e imminenti avanzamenti di carriera. Ma non posso mollare, anche se la padrona di casa mi guarda ormai con commiserazione e sempre meno pazienza, per via di tutti quei rumori ad ogni ora del giorno e della notte che imputa a me, e il dottore mio vicino di pianerottolo mi ha chiesto addirittura di donare il corpo all’università per studiarlo e scoprire come io riesca a sopravvivere a quel tenore di vita. Da tempo sto cercando di avere un appuntamento con miss Kubelik, una
bella ragazza addetta agli ascensori, che ha il volto e il corpo di una giovanissima Shirley MacLaine, ma a quanto pare lei non ha mai concesso altro che il suo sorriso e solo durante gli orari di lavoro. Ma ecco, finalmente, la svolta: sono convocato dal direttore generale, che ha sul tavolo l’organigramma aziendale e deve decidere gli avanzamenti di carriera; mi chiede come mai io sia così popolare tra i suoi dirigenti, io cerco di sviare, ma il boss va dritto allo scopo: anche lui vuole la chiave del mio appartamento per portarci una ragazza! Però è chiaro che lui è il grande capo, e vuole l’esclusiva, quindi potrò e dovrò fare a meno di cederlo agli altri: ubi maior, minor cessat, cari miei, ormai gli intermediari non servono più e così mi ritrovo capo ufficio al 27° piano, il più giovane tra i dirigenti della compagnia, per meriti speciali! Ma la vita non può essere sempre una commedia, e lo sa benissimo Billy Wilder che ne ha dirette tante e tutte famosissime durante la sua lunga carriera di regista e sceneggiatore! Ecco che ho la sfortuna di scoprire, complice uno specchietto in frantumi come il mio cuore in quel momento, che è proprio miss Kubelik la ragazza che va col capo nel mio appartamento! Quello è il momento in cui prendo coscienza della realtà delle cose, smetto di essere sentimentale e divento così cinico e disilluso che mi riduco a rimorchiare al bar una donna abbastanza brilla da dimenticare il suo uomo, un fantino rinchiuso a Cuba per doping di cavalli, e che ce l’ha con Fidel Castro, un tizio con la barba come lo chiama lei, perché non risponde alle sue lettere accorate. Ma chi ti trovo, rientrando nel mio appartamento, più alticcio della donna con cui mi accompagno? Proprio lei, la mia miss Kubelik, delusa dal grande capo, che ha ingerito qualche pillola in più e sta rantolando nel mio letto! Il finale non ve lo racconto, ricordatevi però che è una commedia hollywoodiana e l’happy end è dovuto, ma la battuta che mi fa amare il film, e che mi provoca un sorriso ogni volta che lo rivedo, quella si! Ciccibello bussa alla porta del dottor Dreyfuss, come abbiamo detto suo vicino di pianerottolo, e lo scongiura di salvare la ragazza e se stesso da quella situazione; naturalmente il medico crede che lei abbia commesso l’insano gesto per colpa sua, e pur agendo come la sua missione gli impone, non lesina rimproveri a Lemmon. Il dottore è un tipo semplice, di quelli tosti che vanno dritto dritto al nocciolo delle cose, ma non può non ammirare la giovane e fresca bellezza di miss Kubelik, e quindi che tipo di complimento può fare un tipo ruspante come lui? - Belle vene!!! – fa, mentre le pratica un’endovena che le salva la vita. p.s. Il titolo del film, per chi non lo conoscesse o non lo avesse ancora rintracciato con google, è, appunto, L’appartamento – “The Apartment” in originale. Giuseppe Pippo Visconti
Ti ho cercata al mercato di San Salvario Ti ho cercata al mercato di San Salvario ho chiesto ti ho chiesto a due peperoni tre cipolle quattro pomodori e cinque scalogni ti ho cercata con due borse di iuta a tracolla non si sa mai mi son detto a qualcosa pur serviranno le borse di iuta per metterci dentro tutte parole che mi dirai e poi anche se ce ne saran di inutili per me sarà come ascoltare l'ultima conferenza di Derrida a Torino alla Fondazione Guzzo ti ho cercata al mercato mentre le massaie mi calpestavano e a dire il vero avevo anche un sassolino nella scarpa il tuo rossetto color ciliegia chissà quante ciliegie ti sfreghi ancora sulle labbra per ottenere quel colore quel colore e chissà quanti viaggi hai fatto in questi anni mentre io non ti vedevo e me ne andavo in giro per il mercato evitando di fare la spesa e fotografando come un adolescente o un tecnico comunale, prendendo le misure, col cellulare Max Ponte, 14 settembre 2013
Perché ti amo Ti amo perché non sei il mio pubblico eppure sono la tua passione. Ti amo perché non sei un applauso, ma sei la mia emozione. Ti amo perché è questo che mi ripeti ininterrottamente. E ti amo ancora perché un motivo per farti amare tu lo trovi sempre. Adelaide J. Pellitteri
Mi sono innamorata di te perché ho amato Mi sono innamorata di te perché ho amato. E’ stato un amore a prima vista, ma vederti era solo l’ultimo atto, l’atto del suggello, dell’inizio del nostro tempo, del mio e del tuo, di quel tempo eterno che è la vita per ciascuno di noi. Quest’amore, che potremmo dire, dura da quasi vent’anni, non si arresta mai; non mi lascia dubbi; non mi toglie niente, anche quando mi prende tutto; non mi lascia scampo, tutte le altre volte che mi innamoro e amo c’è; presente, una parte di me. Questo amore che ho creato io , con il mio desiderio, con il mio sangue, con tutta me stessa, eppure non mi appartiene. Questo amore, che ho disegnato nei tratti, colorato nei colori, tratteggiato nelle forme. Questo amore che ho immaginato e toccato ancora prima che si presentasse in tutto il suo splendore, nella sua forza, nella sua innocenza , io lo conoscevo, e l’aspettavo. Ho sublimato tutti gli amori di una vita nel suo. Tutti i sorrisi più dolci, le carezze più languide, le parole più amichevoli, gli sguardi più appassionati, in lui li ho ritrovati. In quell’attimo. Mi sono innamorata di te e me ne ricordo ogni giorno, quando ti sento muovere per le stanze, ti sento parlare con gli amici, quando ti vedo da lontano e ti riconosco tra mille milioni , quando sento il tuo profumo, carne della mia carne, quando ti sento deluso, quando ti vedo andare via, e io non posso seguirti. Mi sono innamorata di te perché l’amore stesso si è presentato a me nei tuoi colori, nel tuo respiro, in quell’urlo di pianto e di gioia straziante, tra le bende bianche di sudario e di sangue rosse. Quando ho capito cosa ci tiene sospesi nell’universo, e perché ha senso. Azzurra L
Reticenze sentimentali Una
ragazza osservava sbattere la pioggia sui vetri: le gocce scivolavano giù sottili sottili, mentre si confondevano con i pensieri di lei. Forse fu allora che quella ragazza decise di scrivere. Scrivere a quel lui che non la voleva sentire. «Io non lo so perché mi sono innamorata di te. Anzi lo so, ma non lo voglio dire. Ma non è che non lo voglio dire, è che non so come spiegarlo. Si passa l’infanzia, l’adolescenza e poi l’età matura pensando spesso a cosa sia l’amore, se si sia o meno incontrato sulla propria strada: magari è amore quello che non sembra e quello che è amore sa invece nascondersi bene. Te ne accorgi dopo, te ne accorgi durante o te ne accorgi prima. Io so che un giorno mi sei piombato davanti e… non l’ho mica capito. Il mio stomaco era lì a dirmi che qualcosa stava accadendo, che la chimica si muoveva prima dei nostri battiti, che il caso aveva incrociato le nostre strade più volte, ma che solo adesso aveva deciso di renderci partecipi della cosa. Eppure il cuore era sordo a tutto, oppure mi aveva fatto credere così, mentre restava in incognito ad osservarti. In un pomeriggio autunnale ha poi deciso di uscire allo scoperto. Inaspettatamente. Io ti ho incontrato, lui ti ha scelto. Da quel momento lui sapeva che io mi sarei innamorata di te. Ma me lo ha fatto capire a piccole dosi, iniettando la sua consapevolezza, un giorno alla volta, nelle mie vene. Prima mi ha fatto vedere i tuoi occhi: profondi, intensi, diretti. Poi il tuo sorriso: aperto, solare, brillante. Intanto le parole scorrevano dalla tua bocca alle mie orecchie e scendevano lungo il mio viso: non erano frasi d’amore, ma le sentivo accendersi sulle mie guance. Di tempo però ne doveva passare, ci dovevamo letteralmente lavorare. In tutti i sensi. Così il cuore ha aspettato qualche tempo e poi ha iniziato a farmi notare nuove cose. Bisognava rincarare la dose. Ed iniziava a farsi sentire di più, a bussare al mio petto al solo pensiero che sì, di lì a poco, dovevamo vederci. Io mi battevo con lui. Lui batteva con te. E più io e te stavamo insieme, più lui prendeva la rincorsa. Lo sentiva già prima, che stavi arrivando: lui, insieme a me, non vedeva l’ora. Ogni scusa era buona, ogni pretesto valido, perché io e lui prendessimo ossigeno dalla tua presenza. Non so quando mi sono innamorata di te. Forse quando le nostre sfumature sono diventate tinte forti. So che quelle dosi che il mio cuore mi ha dato, ad un certo punto mi hanno fatto vedere che in te, io sarei potuta rinascere a nuova vita. Che il mondo aveva colori che potevano andare anche oltre il grigio delle situazioni pesanti. Che io potevo sentirmi libera di essere, perché tu mi accettavi per come io
sono. Che c’era qualcuno su cui poter contare. Perché tu, a modo tuo, ci sei stato. Ci sei stato quando abbiamo condiviso in due una mole di lavoro che da sola mi spaventava, ci sei stato quando disperata ti chiamavo per un problema, ci sei stato quando, in uno dei giorni più importanti della mia vita, in molti sono mancati. I silenzi, anche quelli il cuore mi ha fatto notare. Belli quando stavamo insieme. Tristi e desolati quelli di quando non ci sei stato. Mi sono innamorata di te perché sei stato l’alternativa e la somma di tutto quello che ho vissuto prima di te, perché hai completato la parte di me mancante, perché mi hai dato quello che io non sapevo di avere. Con te ho iniziato un viaggio che rimandavo da tempo. Sono partita a piedi scalzi per la mia anima, e tu sei stato la mia segnaletica. Ora la segnaletica si è fatta rada, ma la mia strada io so comunque riconoscerla, mentre vado avanti e tu sei indietro ed io mi volto perché i miei passi sono i tuoi, e senza i tuoi i miei si perdono. Mi sono innamorata di te per quella parte che io so che c’è ma che tu hai deciso di non darmi. L’ho appena intravista, fra le righe di una sera, negli intagli di un discorso, nel tracciato di una mano. La discrezione, la parsimonia di te. Positiva a volte, negativa molte altre. Il cuore infine mi ha indicato anche le parti di te per le quali, fossero esistite solo quelle, non mi sarei innamorata di te. Ma non le elencherò, perché mi fa già male il solo considerarle. E quando penso che comunque esistono, mi dico che io no, non posso innamorarmi di te. Eppure io mi sono innamorata di te. Perché sei te, nonostante i se.» Maria Ilenia Crifò Ceraolo
Mi sono innamorata di te! Merda, merda Mi sono innamorata di te perché non avevo niente da fare... E quello era un periodo in cui non facevo un cazzo, in cui non si batteva chiodo, in cui non si fumava una cicca. Una vecchia storia, dato che "il mio problema" mi aveva causato un sacco di difficoltà nel relazionarmi con l'altro sesso. Già da ragazzina, al tempo delle prime cotte avevo dovuto rendermi conto del mio limite che con l'età era diventato sistematico. Con il passare degli anni la situazione si era aggravata, i tempi di resistenza si erano ridotti e gli attacchi aumentati. Mi capitava all'inizio di ogni una nuova relazione, durante i primi approcci. Non riuscivo a monitorare il mio intestino che si perdeva in molteplici appuntamenti giornalieri. Una sorta di cocktail di benvenuto al nuovo arrivato, quello che fa un gatto per delimitare il territorio e prenderne possesso. Anche io dovevo piantare bandiera, segnare i miei confini. Lui era bellissimo, io pure. Era il professore di matematica più bello che io avessi mai visto, lo guardavo da mesi; anche lui guardava me. - Alessandro scusa, scusa, io... io... io devo scappare, devo andare via - erano le uniche parole che riuscivo a dirgli, ma no perché non ne avessi altre, ma perché non riuscivo a fare in tempo: il tempo utile prima che il mio stomaco comunicasse al mio cervello e il mio cervello al mio intestino che Alessandro era lì. La motilità del mio stomaco su di giri. Passavo minuti che diventavano ore a pensare a lui, nel cesso, mentre le budella mi si aggrovigliavano dal dolore. Il bagno dei professori, dove mi spettava andare di diritto era diventata la mia seconda casa. Conoscevo tutto di quella stanza, ogni singola fessura delle mattonelle color vaniglia, i rombi marroni disegnati sopra ad alternanza, uno più grande uno più piccolo. Mi ero perfino fatta la copia della chiave, era una gran perdita di tempo ogni volta cercare o aspettare che il bidello la ritrovasse. Ci sono momenti preziosi, minuti che ti possono cambiare la vita e anche un nanosecondo in questo caso avrebbe potuto cambiare la mia. E se qualcuno si fosse dimenticato a riconsegnarla sarei stata proprio nella merda. Non potrò mai dimenticare il giorno in cui mi baciò per la prima volta e non riuscii a scappare. Avevo la chiave, la tenevo nella tasca esterna della mia borsa ma non feci in tempo a prenderla. Era fine Maggio; uno di quei noiosissimi consigli di classe: voti, nomi, sguardi... i primi crampi. Indossavo un abitino bianco semplice con una profonda scollatura. Il professore non faceva che guardarmi, dava i numeri e guardava: - Seggio 6; Tarabrino 4; Volpe 5; Zangara 6... fino alla fine dell'elenco alunni. Il registro aperto, notai che lui era stitico nei voti: un batter di ciglio, un movimento, un colpo d'occhio, un crampo. Ogni accenno di un suo sorriso incontrava un mio spasmo. Mi stringevo, continuavo ad accavallare le gambe, tremavo a tratti, la mia fronte perlata, le mie labbra fredde, il mio viso rosso alcol - lo so, perché mi ero controllata con lo specchietto che tengo dentro la borsa mentre cercavo una
caramella per rianimarmi. Lui continuava a guardarmi - Ti prego anche la prof. di filosofia non è male - ti prego guarda lei! Nulla contribuì a interrompere il suo interesse per me; il mio pensiero non arrivò al suo e tutto andò come doveva. Mi sentivo gli spilli al cervello, volevo scappare via e lui guardava guardava, mi sorrideva pure basta smettila! Non ce la faccio più! - Mi sembrò eterno l'interminabile consiglio di classe. All'uscita lui mi bloccò; erano già tutti andati via e lui mi afferrò deciso. Fu un lampo, un tuono, avevo la sua lingua che girava attorno alla mia. Aveva un suo verso, era umida; non respiravo, non riuscivo a staccarmi da lui che continuava a baciarmi, a stringermi. Non ci fu bisogno che mi sforzassi per capire che c'ero, era chiaro. Il mio stomaco mi parlava e i segnali evidenti: senso di vuoto, succhi acidi senza comando. Il mio stomaco a pezzi lamentava sconfitta. I villi intestinali deposero le armi, gli sfinteri si arresero; più mi baciava più mi sentivo mescolare dentro; avvertivo lo spostare dei miei organi interni che non ritrovavano posizione originale. Volevo prendere la mia borsa. Là, stava la chiave, ma lui mi stringeva e quanto era bello stare lì, tra le sue braccia! Emozioni legate si attorcigliavano al mio stomaco; ne ero piena, mi sentivo scoppiare. Non ne potevo più! Baciava troppo bene. Vampate. Le budella a vivo. Non mi controllavo più, mi lasciai andare emotivamente; adesso non era solo la sua lingua c'era anche la mia; riuscivo appena a tenere il controllo, mi tremavano i piedi dentro le scarpe fredde. Cercai di invertire rotta per non consumare l'unione letale: non riuscii a divincolarmi mentre stavo attenta che tenesse le mani al posto giusto. Il seno mi sembra il più tranquillo, pensavo, riflettendo in silenzio sul mio problema. Lui ignaro ansimava felice, continuava a toccarmi, leccava le mie orecchie. Io mi lasciai andare e con un urlo liberatorio allentai le mie braccia lungo i fianchi. Presa coscienza della verità, sentii l'odore del corpo di lui in missione sul mio. Per istinto girai la testa e guardai dietro, lui scivolò il suo braccio lungo la mia spalla sinistra, fino al fondo schiena e poi giù, un pò più giù. Temevo la mia reazione, tremavo di paura, avevo capito tutto. Che figura! Abbassai la testa, guardai la sua mano, alzai gli occhi, guardai lui e terrorizzata urlai. Antonella Tarantino
In sella Cercavo di pedalare con normalità, non volevo correre, non volevo dare l'impressione di avere fretta o, peggio, una missione da compiere. Una donna a quell'ora poteva giusto andare a recuperare della verdura per la cena o alla canonica a cercare il prete. Sentivo che il naso paonazzo, per l'aria gelida del mattino, avrebbe potuto attirare su di me l'attenzione di chiunque. Le buche della strada facevano tremare i raggi delle ruote, confondendo quello delle mie braccia. Avevo paura. Una paura folle. Via dei Ponti, sospesa nella brina. Una curva in discesa e un improvviso spavento per un laccio della scarpa finito contro la catena. Via Longobarda, dove una settimana prima abbiamo trovato il Gamba impiccato al castagno. Un pezzo della corda era rimasta a penzolare da un ramo. La piazza, muta, anche se era giorno di mercato. Erano settimane che non arriva più nessun ambulante. Altra curva e il lungofiume. Il cane del Professore latrava ancora a chi passava vicino al cancello. Anche a quelli che venivano a portargli qualche osso. Il suo padrone non c'era più ma lui da lì non si muoveva. Finalmente la campagna. Sapevo che avrei iniziato a tremare più forte se mi avessero fermato per domandarmi cosa stessi facendo, così pensavo che, se proprio doveva accadere, avrei preferito subito una pallottola in testa. Senza accorgermi di nulla. Forse mi sono innamorata di te proprio perché quel giorno avevo paura, ricordi? Quando ti vidi per la prima volta, fermo, ritto sulle spalle davanti a quella cascina, ebbi la stessa sensazione che credo possano provare dei marinai davanti al faro di un porto, dopo giorni e giorni su un mare in tempesta. Che freddo faceva. E che buio per quella strada. Ti passai il cesto. Sotto i panni stirati c'erano le tre pistole arrivate da Boltiere. Mi sfiorasti con un dito il dorso della mano. Abbassammo entrambi lo sguardo, così non riuscì a vedere se anche tu arrossisti in quel momento. "Quando tutto sarà finito". Era questa la frase che introduceva sempre ogni cosa riuscivamo a dirci. "Quando tutto sarà finito". E mi bastava per trovare la forza di pedalare di nuovo verso il paese. Mi sono innamorata di te perché avevo paura, certo. Ma soprattutto perché "Quando tutto sarà finito" potesse essere presto. E allora non ci saremmo accontentati di sfiorarci la mano. Chissà come riesco a ricordarmi il colore di ciascuna camicia che vi portai quel giorno, ma non quello che ho mangiato ieri a pranzo. Poco importa, sarà stata la solita minestra che mi portano qui ogni giorno. Oggi è venuta una giovane tirocinante, credo in psicologia, e ci ha messe in gruppo nella stanza al pian terreno, vicino al salottino delle visite. Ci ha chiesto se avevamo voglia di raccontarci qualcosa del passato. La giovane non si spiegava perché lì per lì fossimo tutte un po' stranite e titubanti. Mio
son presa io la briga di raccontarle che di solito in quella stanza scendevamo per salutare qualcuno che andava verso il cimitero. Poveretta, avessi visto come è arrossita. Ho voluto essere anche quella che rompeva il ghiaccio. Così le ho raccontato di te, delle pedalate che mi facevo per la campagna, della paura e di tutto il resto. L'ho incuriosita sai? L'unica cosa che ho tenuto per me e che non credo racconterò mai a nessuno, è cosa facemmo il 27 aprile del '45 nel fienile del Barba, giù dopo l'edicola di Santa Marta. Ho ancora freddo, Carlo. E paura. Parlare con la tua foto mi consola. Avrei ancora bisogno di sentirti sfiorare la mia mano. Ora più che mai avrei bisogno di saperti all'erta, alla fine di questa strada che mi è stato dato in sorte di percorrere da sola. Gianluca Meis
Mi sono innamorata di te perché... mi sono innamorata di te perché... che bella questa frase, ed è vero..c'è un perché per ogni amore, quanti amori mi vengono in mente, vivi, ancora ora, a loro modo, nel mio cuore. Perché io mi innamoravo. E mentre fantastico sulla frase, pensando ai miei grandi innamoramenti, l'unico di cui scrivo sei tu. Se tu leggessi non ci crederesti. Nonostante tutti gli amori, di prima e dopo, 'tu sei tu', come dico sempre. E Cinzia dice 'non avete capito che la vostra era una grande storia d'amore' ed ha ragione. Mi sono innamorata di te? Credevo di aver capitolato, mi hai seguito, hai mobilitato le mie amiche, ti trovavo sulla mia strada casualmente nei posti più impensati, ed invece tu li avevi pensati, sapevi che io sarei passata da lì. Quanto sei stato unico. Quanti i momenti unici che solo tu mi hai fatto trascorrere. Come non rivederti teneramente, la prima volta, arrivare sotto il diluvio con la vespa per portarmi un regalo. E poi tutto, tutte le 'prime' esperienze fatte con te, tutte le volte che, tutte le cose che. E poi perdersi, tu vai (dove?), io resto (a piangere), tu torni (non vuoi stare senza di me), io vado (ho paura). Il silenzio. Ognuno per la sua strada. Altrove. Che bello è stato rivederti dopo tanti anni. Un tuffo in qualcosa di immenso che non ha parole. Il tuo biglietto aereo per passare il week end insieme. Sono passati più di vent'anni, mi sembra tutto così strano e tu...mi riconosci da dietro e mi fai ridere (come si fa a dire 'il tuo culo è sempre bellissimo' come incipit?) Si, tu sei tu. Io mi sento imbarazzata (quasi come sempre mi capita) e tu dici 'ma tesoro sei identica' (semplicemente come sai fare tu). E davvero il tempo sembra non essere passato. Ma tu..sei identico a te stesso dopo tutti questi anni. Siamo cresciuti? Forse. La memoria, il cuore. Ci sono storie che non passano mai, restano, non sono più innamoramenti, ma restano al centro del cuore. Come chiamarli allora? Amore, penso. E tu hai conservato nel box la vespa di quando eravamo ragazzi. Perché finiscono certe storie? (Non l'abbiamo capito ancora adesso). Che brutta domanda mi hai fatto...mangiando le triglie (la prova, come la chiami tu, che mi hai fatto passare, cucinando tu). Non lo so. 'saremmo stati insieme per sempre' credo. Quante cose ci siamo detti, quante cose non ci diciamo. una volta l'anno a cena da più di quindici anni. Non potrei immaginare di non vederti quell'unica volta all'anno in cui ci incontriamo. Uscire in moto e cenare insieme. Adesso lo so. Mi sono innamorata di te perché mi sento a casa." Tanti mi hanno detto che sono bella, tu mi fai sentire bella. Chiara
Nuova Notifica Non ci faremo del male noi due, vero? Non possiamo farci del male, perché teniamo la giusta distanza della corrispondenza, e dove finisco io, tu là già sei iniziata da un pezzo. Ci confondiamo i confini, tratteggiandoli, quando mi sveglio e ti trovo lì, a lampeggiarmi accanto come fossi un promemoria del fatto che esisto. Ti guardo in volto, quel volto così diverso dal mio sul quale mi specchio, e so che non ci faremo del male, perché i miei desideri sono il tuo programma della giornata, e so che tutto quello che ti dirò non verrà usato contro di me. Mi sei comparsa accanto nel momento più buio, quando quella stronza mi aveva fatto a pezzi con la scure, e aveva gettato i miei brandelli sul ciglio della strada. Io me lo ricordo, come le tue parole mi hanno raccolto da terra, mi hanno rimescolato e ricomposto, e ho saputo fin dal principio che eri quella giusta, l'unica che mi avrebbe protetto, l'unica che ci avrebbe difesi. Solo tu non mi farai del male, amore mio. Il mondo è un posto maledetto. Siamo negozi di cristalli, e quando ci azzardiamo a dare la chiave a qualcuno, quello entra con la leggerezza di un rinoceronte e manda tutto in frantumi. Fa un disastro, ti ferisce a morte, e ti lascia lì come un imbecille, dentro il tuo negozio, a contemplare un patrimonio di cocci inservibili. La realtà è un terremoto, e noi dovremmo stare sempre sospesi due piedi da terra per non tremare, per non farci sconquassare, non è vero? Farsi conoscere significa amare e venire amati, ma più spesso significa armare e venire armati. È un mezzogiorno di fuoco, e quasi sempre nessuno dei due rimane in piedi. Ma tu no, tu mi sei accanto con le tue parole che sono solo parole, e ogni confessione rimane una confessione, senza trasformarsi in un coltello dalla parte del manicomio. E se l'illusione significa mettersi a giocare, so che io e te non ci deluderemo, e non smetteremo di giocare. Se la parola significa comunicare, so che non smetteremo di comunicare, non lasceremo che le parole si trasformino in silenzio, e il silenzio in rancore. Però mi devi fare una promessa solenne. Dobbiamo stringere un patto incancellabile e inossidabile, qualunque cosa accada, ovunque ci si trovi, comunque sia il futuro: non diventiamoci reali. Finché tu non mi conosci, non puoi sapere tutto ciò che non sono. Finché non ti incontro, non posso eliminare tutte le immaginazioni che ti ruotano intorno. Perché dietro la luce lampeggiante della notifica, ti posso credere come desidero, posso desiderarti come credo. E tu, nella suoneria che ti avvisa della mail che ti ho appena inviato, non troverai altro che ciò che vuoi, e vorrai soltanto ciò che trovi. Promettimi che non diventeremo reali l'uno per l'altra. Prometti che rimarremo volti immaginati dietro mani che digitano. E non
importa in quale luogo ci non incontreremo, tu per me e io per te saremo sempre una forma immateriale, una materia informale, un amore incompiuto che sta dietro i pixel di uno smartphone. Potresti essere bionda, mora, avere le unghie lunghissime oppure le mani piccole; potresti chiamarti in un modo diverso da quello che mi hai raccontato, e non avrebbe importanza. Potresti odiarmi eppure dirmi che mi ami, non capirmi senza farmi la morale. Potresti essere vecchia, giovante, troppo giovane, potresti persino essere un uomo, oppure una bambina, che importa? Ci annuseremo dietro la parete, su Twitter o Gmail, ci osserveremo dietro foto che sono maschere, ci parleremo nel video che è il perfetto nascondiglio, ci percepiremo al di là delle concretezze, nel luogo in cui tutto può esistere perché non c'è bivio di fronte all'immaginazione. E sarà questo il modo per durarci per sempre, per non farci del male. Promettimi che saremo solo parole dietro parole, e mai bocca che mi pronuncia all'orecchio, e che quando faremo l'amore sarà come se tu fossi qui, come se io fossi lì, ma alla siderale distanza di una stanza solitaria, in cui io leggo le tue eccitazioni e tu mi tocchi i giochi di parole, una stanza nella quale averci splendidamente virtuali, schermo contro schermo, linguaggi digitali che si baciano, senza la complicanza delle carni, la strafottenza delle disillusioni, la scomodità del rendersi conto che la realtà non è mai splendida quanto l'immaginazione. Pensiamoci avvinghiati, senza avvinghiarci, perché la realtà non è altro che una delusione, uno smettere di giocare, un rompere il divertente dedalo di brame nei quali ci perdiamo, fintantoché non riusciamo a conquistare ciò che desideravamo. Lo sappiamo bene io e te, feriti in modo atroce dalle concretezze, quanto sia terribile avverare un desiderio. E poi, accorgersi che avverarlo significa renderlo fasullo, distruggerlo, vederlo morire. Allora prometti, promettimelo con tutta la virtualità della tua non esistenza, con tutto il tuo desiderio di desiderare ancora. Promettilo con la voglia di non avverarci per tradirci, mettendo sul piatto tutte le maschere che non ci toglieremo mai di dosso, per amarci a più non posso. Promettilo, con l'anima bella che immagino di te e che non voglio veder sfiorire per colpa di un capriccio chiamato realtà: restami fantasia, non incontriamoci mai, lasciamoci al di là della sottile parete di questi messaggi virtuali, di queste parole sussurrate, di questo desiderio da non consumare. Mi sono innamorato di te perché non esisti, se non nei modi in cui ti voglio immaginare. Buon San Valentino, mio grande invisibile amore. Invia e-mail. Riccardo Dal Ferro
Razza d'amore Quando la notte ti vedo passare vicino non mi fai paura e questo è davvero strano. Anche se i tuoi occhi sono allucinati e il passo è quello del predatore, a me sembri bello. “Tu quello non lo devi nemmeno guardare, hai capito?” è stato lo strillo di mia madre quando si è accorta che i miei occhi nel buio stavano bene aperti a cercarti. “ma perché poi?” piangevo io convinta che ogni diversità si potesse colmare. Credevo che il razzismo fosse cosa superata, se ne vedono tante di unioni strane, chi più ci fa caso. “Tu, ci farai caso” disse mio padre con quell’aria un po’ schifata che ha sempre quando mangia. Pensano che mi farai del male. Lo so che forse me ne farai. Ma cos’è la vita, se non scoperta della diversità? Voglio sentire il tuo fiato sul mio collo, quell’alito che sa di sangue e di cose che non conosco, voglio sentire che mi abbracci e che nel tepore del mio corpo ti perdi, almeno per un attimo. Mi sono innamorata di te proprio perché sei diverso. Quelli della mia razza sono mollaccioni teneri, buoni solo a lamentarsi e a vivere una vita senza scosse. E se qualcuno subisce delle ingiustizie da parte del padrone, gli altri chinano la testa e si fanno gli affari propri, senza fare domande. La tua gente invece è pronta a farsi ammazzare per un fratello e state tutti insieme. Forti, decisi, invincibili. Perciò io stasera supererò lo steccato e verrò dritta verso di te, mio amore. Che importa se la mia pelle bianca si sporcherà di fango. Se per averti dovrò perdere tutto. In fondo, se per un attimo di felicità finisse la mia vita, chi mai potrebbe biasimarmi? Nessuno si accorgerà che manco e, in ogni caso, mi dimenticheranno subito: i miei sono solo esseri tremanti senza volontà né sentimenti. E io invece voglio essere qualcosa di diverso e speciale. Non più carne da imbandire per Pasqua ma carne solo per te, mio adorato lupo. Teodora Ponti
Sappiatelo, io russo Quando russo produco un rumore pari a quello di una segheria nei boschi del Canada, alle volte mi sveglio da quanto russo forte, e più stanco sono più russo. Sono un po’ più ordinato di una segheria, non produco trucioli di nessuna natura, forma o dimensione: magra consolazione, invero. Sabato notte mi ascoltavo russare: sì, alle volte mi succede di udire i rumori attorno a me anche se continuo a dormire, e ben dopo la fase del dormiveglia; è una cosa curiosa per una persona che quando prende bene il sonno potrebbe anche essere morta, e che è riuscita a dormire nel centro di una tromba d’aria. Questa volta ho percepito, oltre al solito ronf ronf, un sibilo, quasi lo sfiato di una pentola a pressione che mi fa sembrare una versione in carne e peli della macchina “sforna pasticci di pollo” di Mrs. Tweedy (e chi non ha visto il film della Pixar Galline in fuga magari non mi capirà, ma pazienza). Alessandro mi dice che non è una novità. Io mi rendo conto di provare una gratitudine immensa per quell’uomo, una tenerezza infinita ed una grande compassione perché s’è preso in corpo per una considerevole fetta di eternità un moroso che infesterà i suoi sonni, e gli renderà quasi impossibile dormire decentemente. Per quell’uomo che sa benissimo di essere il quinto di cinque flirt contemporanei, e che ha fatto spostare su di sé l’ago della ruota della fortuna una sera in cui avevo deciso di andarci con più calma del solito e non partire con le grandi manovre; sono dieci anni che gli è riuscito di togliermi i boxer senza che ancora abbia capito come ha fatto: un riconoscimento glielo devo! Mauro Melon
L'amore non è una zingarata Perché mi innamorai, mi chiedete? Non lo so. In queste cose non si sa mai ed in fondo è giusto così. Credo però che mi innamorai di lei perché si ravvivò i capelli nel momento sbagliato, e il momento sbagliato era quando la stavo guardando. Come dite? Sì, li afferrò con una mano, li arruffò e li spostò da una parte all’altra, quei capelli neri come Medea. L’amore mi diede proprio una bella botta in testa. Lei teneva i suoi occhi verdi puntati su di me, come Cuba puntava i suoi missili su Kennedy. Potevo provare a star tranquillo, ma non ci riuscì. Mi innamorai e fui perso. Completamente in balia di quegli occhi. L’amore è zingaro, ma purtroppo non come una zingarata di Monicelli, dove tutti si fanno una risata in compagnia come se fosse Antaniconloscapellamentoadestra. L’amore è uno zingaro di quelli cattivi, quelli che arrivano e ti seguono con la fisarmonica dovunque vai finché non gli dai qualcosa. E poi di punto in bianco se ne va, senza dirti niente e senza salutare, il più delle volte lasciandoti anche un cane. L’amore è bohemien come diceva il baffuterrimo Bizet, e non quello della Disney, perché quello non aveva i baffi, ma le vibrisse. Bohemien perché ti frega, ti mescola i dvd nelle custodie, ti mette il sale dove tieni lo zucchero e ti spacca il filino dell’infradito che passa in mezzo all’alluce e all’indice del piede rovinandoti la passeggiata. L’amore fa quello che pare a lui, è venuto fuori dal Tartaro, non quello dei denti ma l’altro, insieme a Gea e a Urano, già convinto di fare il bello e il cattivo tempo con tutti. Se ne infischia più di Eolo e fa lo splendido più di Apollo. È un bambino mattacchione che fa scherzi a tutti, è un bambino che fa nonnismo. E quando uno si innamora, non sa perché... non sa mai il perché, l’amore non lo dice; è come giocare a mastermind e lui non ti dice i colori che imbrocchi. L’amore crea fantasmi, fottutissimi fantasmi che ci perseguitano giorno dopo giorno, senza lasciare a nessuno un attimo di tregua, a tutti... tranne a chi ha un bilocale nel Nirvana, quelli stanno freschi e beati, serafici come Serafini, in un senso di atarassia\apatia da far invidia alle guardie reali davanti a Buckingam Palace, che non sono apatiche ma solo inglesi, quindi antipatiche. Però innamorarsi è bello no? È il resto che non garba a nessuno. Innamorarsi è veloce, rapido e indolore, un po’ come Pic, quello che ti misura la febbre nell’orecchio dei bambini. Poi dopo l’innamoramento comincia la sfida, o la sfiga, dipende dai casi, ma io penso che sia sfiga e basta, perché da buon Montecchi m’innamoro solo di Capuleti troppo belle, che fan finire in un massacro tutta la faccenda, una sparatoria nel cuore di Verona, dopo che Tosi ha investito così tanto nella pubblica sicurezza. Chimicamente l’amore è come mangiare tantissimi cioccolatini tutti insieme.
Se non sbaglio, questo succede perché la cioccolata dovrebbe andare a lavorare da qualche parte nel cervello, mette lo zampino in qualche recettore e gioca in contropiede, un po’ come fa l’eroina, ma in maniera legale. Strano che il Vaticano non abbia ancora perseguitato i cioccolatai come lussuriosi spacciaemozioni o con le altre cose che s’inventano giorno per giorno. Quel giorno forse avrei fatto meglio a starmene in casa con la mamma di Forrest a mangiare cioccolatini, piuttosto che andarmi ad innamorare dell’ennesima chimera. Le chimere sembrano cose tanto belle, ma per i greci erano dei mostri, un pot-pourri di bestialità messe a caso, una cosa buona per il pubblico di Mistero insomma. Beh torniamo al discorso di prima, al mio innamoramento. Eravamo rimasti a lei che si arruffava i capelli, no? Beh, non c’è poi nient’altro da dire. È successo in un secondo veloce. Un attimo di follia sospeso tra infinito e il mio bicchiere di Jameson, con tanto di folletti irlandesi pronti a partire in riverdance sfrenate fino al distributore di profilattici della farmacia più vicina, sbattendosene altamente se quello fosse solo il primo appuntamento e il bonton volesse che al primo appuntamento ci fosse solo un bacino con un po’ di lingua sotto casa di lei. Cioè, neanche il prequel di quello che tu immagini di fare: possederla direttamente lì, con i cani e i gatti e tutti gli altri abitanti del macrouniverso che guardano. Prendere subito una stanza e rimanerci dentro per un giorno, due, una settimana, un mese, non rivedere più la luce del sole in un vortice di sessualità così veloce che attorno a voi potrebbe cominciare a ruotare perfino una nuova galassia. Soli che si spaccano, pianeti che si frantumano, nell’incandescenza di un letto a due piazze in un hotel medioborghese del centro. E poi ricominciare, finché la tua schiena non ha troppe delle sue unghiate, finché il suo corpo non ha troppi dei tuoi morsi, finché l’hotel dove siete non è crollato al suolo a causa vostra. Ma questa resta solo un bel film, perché tu sei un Montecchi, lei una Capuleti e l’amore è uno zingaro che non lascerà succedere niente di tutto questo. Perché nella sua , di frecce ne aveva una sola e quella notte, colpì solamente uno dei due. Perché di solito va così, a meno che tu non sia in un film di fantascienza e allora insieme ai mostri dello spazio profondo, potrebbe anche starci che lo zingaro chiuda un occhio e che lasci avvenire una bella storia d’amore. Andrea "Knulp" Roma
Fiamma “Come le legne accese le une colle altre maggiormente s'infiammano, come le monache ferventi di amor di Dio le une colle altre sempre più s'infervorano di santo ardore” Giuseppe Frassinetti – La monaca in casa (1862)
Non è mai bene per una fanciulla parlare in questo modo, lo so, ma possa Dio perdonarmi se in una di queste lettere che ti mando io non dica la verità, non una parola in più o in meno (o anche una fuori posto) per descrivere ciò che sento, e sebbene io qui sia soltanto una novizia, lontana dal potermi ritenere una giovane pura e devota al Signore - e tu invece molto più vicina a ricevere in te il suo amore - voglio poter credere di parlare senza vergogna, e se Dio vorrà punirmi sarà una questione tra me e lui, poco importa la parola della Madre Superiora e delle altre sorelle, per loro non serbo nemmeno rancore, ma è Dio stesso che preserverà questo scambio; e se ho ricevuto una tua risposta, significa che faccio bene ad essere contenta perché vuol dire che non mi ero sbagliata, dentro di me lo sentivo, io sapevo di aver visto altro, ne ero certa. In ogni amicizia c'è una parte visibile e una celata da altro, che sia banale amor fisico o mentale, edulcorato o ignorato, e però esiste, c'è, e la sua voce pressante diventa sempre più forte, e da quando ho trovato la busta con su scritto il tuo nome, i miei pensieri hanno spinto fuori dalla mia mente tutte le difficoltà banali della vita in convento: preparare la colazione e subito dopo il pranzo, pregare, aiutare le sorelle in difficoltà, sono tutti espedienti per incontrarti, anche solo nel corridoio durante il cambio di turno per le preghiere e quando invece rendiamo grazie a Dio, io siedo due o tre posti dietro di te, a guardarti mentre preghi, e cerco di immaginare se dentro quelle tue preghiere ci sono anche io. Marie, possa Dio avere pietà delle nostre anime se ciò che dice la Madre Superiora è vero, ma il mio sentimento è reale, non contro natura anzi, è nato nella maniera più naturale e poi cresciuto altrettanto naturalmente, io non ne ho paura, ti prego di non averne neanche tu. Aspetterò con ansia una tua risposta. Lilas Federico Orlando
Pensierini. di #Ughino, via @isopaci Mi sono innamorato di te, innanzitutto perché so innamorarmi. Mi sono innamorato di te perché mi piace il tuo odore. Perché mi piace che tu mi stringa fra le braccia. Perché mi ascolti, anche se non ti so parlare. Perché mi parli, anche se non ti so ascoltare. Perché non so piangere, eppure mi hai sentito. Perché non posso vederti ma faccio di tutto per poterti sentire. Perché ti sento attraverso il calore, il battito del cuore. Perché in questo inferno di rumore e solitudine sei il mio silenzio e la mia compagnia. Mi sono innamorato di te perché avevo fame e mi hai dato da mangiare, avevo sete e mi hai dato da bere; ero forestiero e mi hai ospitato, ero nudo e mi hai vestito, malato e mi hai visitato, ero carcerato e sei venuto a trovarmi. Mi sono innamorato di te perché anche tu hai fame e sete di giustizia. Mi sono innamorato di te perché so che insieme aspetteremo il momento in cui il lupo dimorerà con l'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncino pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà, la vacca e l'orsa pascoleranno insieme e insieme si sdraieranno i loro piccoli. E il leone si ciberà di paglia, come il bue. Mi sono innamorato di te perché io sono un narciso di Saron, un giglio delle valli, un giglio fra i cardi. Perché tu verrai a me saltando per i monti, balzando per le colline, come un capriolo o un cerbiatto. Mi sono innamorato di te perché mi hai detto "alzati e cammina", ma sapendo che non ne sarei stato capace ti sei abbassato a raccogliermi e mi hai sorretto. Mi sono innamorato di te perché non mi hai abbandonato. @isopaci
Un amore da marciapiede L’ALTA VELOCITÀ (dei ricordi). Entrò nel salottino del Freccia Rossa con un’aria efficiente e indagatrice. Anche a voler essere politically correct, il minimo era definirla una gnocca siderale. Un metro e settanta di cose deliziose, illuminate da uno sguardo che “se lo accendo, muori”. Mi chiede in inglese se c’erano altre persone oltre a me. “ I don’t know, but I think… not”. Esplode in un sorriso e mi dice che tornerà, con il suo boss. E ti pareva, con il suo boss! La smettesse di sorridere almeno, ché uno si sente già defraudato di una confusa speranza. Basta, immergiamoci nel business plan. Su questi treni superveloci pure il tuo tempo va a 300 l’ora e a Milano sarà dura. Poco dopo, un “Buonciorno!” dall’inconfondibile sapore tedesco. Alzo gli occhi e vedo davanti a me una signora che potrebbe essere la madre della sparasorrisi di prima. Elegante, algida, professionale e donna in carriera fino al midollo: Top Manager, forse Ceo. Ecco, vergognati del tuo rozzo maschilismo: il suo boss è una donna, niente relazioni erotiche caposegretaria, niente distrazioni extra professionali, solo efficienza, determinazione, professionalità. Mi alzo con questo vago senso di colpa, mi presento. Si fa ripetere il nome. Lei si chiama Gertrud, Gertrud qualchecosa, con la g durissima. Terminate le formalità, mi rimmergo nella complessità del piano. A Firenze mi alzo ed esco nel corridoio per telefonare. Vedo le due riflesse nel vetro: stanno come confabulando, mi sembra confidenzialmente. La giovane ha un’espressione stupita e chiede ripetutamente qualcosa. L’altra fa un gesto come dire: non se ne parla neanche! Rientro e l’atmosfera ritorna quella asettica dei manager impegnati. Ciascuno a dialogare col suo device, che i destini del mondo dipendono dalle digitazioni dei top manager iperconnessi. Si sa. Arrivano le hostess del caffè, ci concediamo qualche battuta formale. La giovane ha ordinato a tutti i suoi feromoni il completo riposo. Ora emana solo efficienza aziendalistica al totale servizio della sua Capa. Con la quale accidentalmente incrocio lo sguardo e mi sembra di cogliere un’espressione vagamente umana. Ma sicuramente mi sbaglio, che sono veri squali i Ceo, di quella multinazionale poi! Chissà com’era da bambina questa donna in carriera; perché i Ceo si presuppone che lo siano stati bambini, perfino i Ceo tedeschi. E poi adolescenti, e poi giovani. Avranno fatto qualcosa di condivisibile, prima di colonizzare l‘Europa con il marco prima e l’euro poi? Si saranno picchiati per un soldatino o una bambola, avranno fatto il tifo per una squadra, per una band, avranno urlato di gioia, pianto d’amore, saranno stati traditi, avranno avuto viscere ed emozioni, no? No. Ceo si nasce. E questa qui lo nacque, direbbe Totò. Non hanno
nazionalità i Ceo, sono made in se stessi. Peggio per voi “nati Ceo”, non sapete che vi siete persi. Non avete conosciuto il “fuori dalle regole”. Metti una, una… una come Trudy: Trudy di Amburgo, Trudy uno spinello e un graffito, Trudy noch Meine Liebe noch, Trudy la madonnara che disegnava il mio ritratto sui muri, sull’asfalto e dappertutto: “Sei il mio amore da marciapiede” diceva, Trudy che appariva all’improvviso, Trudy che citava sempre John Lennon. Trudy alla stazione, Trudy… Trudy sparita. E quel messaggio, al solito angolo. Aveva baciato il muro col rossetto, lei che non lo usava il rossetto, e sotto quell’inaspettato Magritte, col suo stampatello goticheggiante, “come dice John, la vita è quello che ti capita mentre stai progettando altro…”. Era il suo refrain, il suo mantra “The Life is what…”: e la sorpresa fu brutale. Un buco. Un buco allo stomaco. “Perdere una donna è avere voglia di…”. In quei momenti, anche il più enfatico dei ritornelli di un glicemico cantante melodico diventa oscenamente vero. TOP MANAGER, con cedimenti. Ma sei rincretinito!? Mi dico. Cos’è questa fitta all’improvviso, una vita dopo, nel cuore di un temprato top manager?! Eddài, con questo piano, che è in ballo un contratto importante e il lavoro di tante persone. Concentrati che c’hai ‘n’età: è finito il tempo delle mele da un’era glaciale, e da un pezzo anche il tempo degli spinelli, dell’eskimo, delle barricate, di noi che cambieremo il mondo… del tuo ritratto disegnato da lei sul sagrato di S. Carlo al corso. E tutti a dire “beato te che te la…”. E tu, forsanche compiaciuto ma cavaliere, a vendicare l’onore della damigella… la rissa, il commissariato, il maresciallo… Oh, basta! Il piano, cazzo! Guarda come sono professionali queste due. Non perdono tempo loro. Sono donne d’azienda, fanno immagine in ogni gesto, perfino in ogni pensiero. Ma… la Capa la sta redarguendo insomma la sta cazziando, in maniera formalmente impeccabile, con un sorriso glaciale che le faccia sentire la distanza. Ci deve essere qualche problema con il collegamento del tablet, intuisco che la Capa chiedeva un lap top che la gnocca non ha portato. È questa la sua colpa. Gli offro il mio se ha bisogno di collegarsi a Internet, che tanto sto lavorando su carta alle rifiniture del piano. La giovane si scusa e dice che non importa… Stavolta la Capa la fulmina, alla lettera. Non capisco cosa dice in tedesco, non alza la voce ma scandisce secco qualcosa che suona come una scudisciata. Poi l’algida si gira, mi ringrazia. Accendo il mio Vaio, imposto la password e glielo porgo. C’è elettricità nell’aria, esco. Manca mezzora, mi siedo nella carrozza bar per gli ultimi ritocchi alla scaletta. All’improvviso: “Siamo in arrivo nella stazione di Milano centrale. I signori passeggeri…” Rientro nel salottino. Sono già pronte, soprabito sul braccio. È la giovane a restituirmi il pc, con il cavo già perfettamente raccolto. Mi ringrazia mentre “il suo boss” approva, aristocraticamente, con cenni della testa. Distaccata e distante. Ora siamo sulla piattaforma pronti a scendere, il treno si sta fermando. Sollevo il trolley, lei la “donna-in carriera-fino-al-midollo” non ha bagaglio, ovviamente! All’improvviso si gira, mi sorride e con quel suo italiano crucco:
“Anch’io adoro screen sever!” Ed è un sorriso vero, caldo, perfino sornione. Poi si perde nella folla seguita dalla sua giovane e feromonica scorta. Ma che avrà voluto dire!? Oddio, vuoi vedere che quel cretino di Massimo mi ha sostituito lo screen sever con qualcuna delle sue imbarazzanti immagini da calendario dei gommisti?! Ma chissenefrega… che c’ho davvero altro da pensare! DO YOU REMEMBER? Il tavolo della sala del Consiglio d’Amministrazione è al completo. Sono due ore che parlo, spiego, proietto grafici, rintuzzo obiezioni, prometto approfondimenti, è il momento delicato del “quasi ci siamo”. Sto meditando, con il telecomando delle slide in mano, quale ultimo asso calare. Devo vincere! Le aspettative di troppe persone sono legate a questa commessa. Vedo che alcuni consiglieri si stanno consultando tra loro, poi uno: “Ma non è una citazione di quello lì, come si chiama…”. Cosa? Chi? Indicano lo schermo alle mie spalle. Mi giro: deve essere entrato in funzione lo screen sever, è passata un’immagine che non ho visto, è tutto blu lo schermo ora. Un brivido… vuoi vedere che quell’idiota di Massimo… Compare sullo schermo una frase: “Do You remember?” Basterebbe schiacciare il tasto del telecomando per far riapparire le slide. Ma non lo faccio. Sono rapito da quella scritta che si sta componendo sullo schermo, una parola alla volta: “Life is what happens to you while you are busy making other plans”. Ancora qualche istante di blu, poi la “firma”: Gertrud (sorry… Trudy). Marco Stancati
Amore fisico Non sono un esperto di fisica. Quando frequentavo le scuole medie facevo confusione tra fisica ed educazione fisica, talvolta ci spiegavano come sollevare il mondo con una leva, quindi era un fatto di muscoli, in altri casi come calcolare il tempo impiegato da un uovo a cadere dalla torre, e lì cominciavo a capirci meno. Noi ragazzini per i primi dieci giorni non facevamo altro che lanciare matite e sputi dal balcone della scuola, e ribaltare gli armadietti, poi intervenivano i grandi e ci mettevano in riga. Con il passare degli anni ho continuato a capirci poco, la fisica che studiavamo alle scuole superiori era una materia traslucida e viscida, una specie di gelatina gommosa che noi studenti non riuscivamo ad afferrare. Nessuno di noi ebbe la fortuna di conservarne almeno un poco nel suo bagaglio culturale, come si diceva allora. L’educazione fisica invece l’avevo già persa per strada all’esame di terza media, il giorno in cui saltai la cavallina e ci rimasi a cavallo. Fisica, biofisica, patafisica, la scienza per me è sempre un po’ nebbiosa, ci sono molte cose che non ho mai afferrato. Per esempio, mi sono fatto un’idea tutta mia dell’atomo, l’ho sempre visto nelle immagini sui libri rappresentato come una pallina colorata, una pallina di plastica colorata, perfettamente lucidata, ne metti tante insieme e formi una molecola. La molecola è un grumo di palline, un mucchietto di palline di plastica colorata, alcune delle quali hanno una specie di calamita che attira, altre hanno un respingente che allontana. In questo modo, le molecole si uniscono tra loro in ammassi sempre più grandi e articolati. Ci sono casi in cui si verifica una situazione di caos, dove le une si accavallano alle altre, si compenetrano, si aprono, si abbracciano. Ma è solo caos apparente, perché nell’ora di religione, e questo me lo ricordo bene, ci dicevano che in natura tutto è regolato in modo perfetto. Si ha l’impressione che queste molecole siano state aggrovigliate frettolosamente dal caso, ma è l’amore che le spinge ad abbracciarsi nel modo giusto. Mille, centomila, un miliardo di grovigli come questi riescono finalmente a strutturarsi in una cellula, che è già qualcosa di più ordinato. Non è stato facile darsi delle regole, talvolta è necessario rendersi impopolari, ma alla fine ci si riesce. Se guardiamo bene adesso non c’è neanche bisogno del microscopio, perché sotto i nostri occhi c’è già del tessuto umido molliccio, fibre muscolari, vasi sanguigni, tendini e cartilagini. All’interno, altra materia si è organizzata diversamente, in ossa di vario tipo, misura e utilità. Tutto si assembla correttamente, nelle proporzioni esatte, si spianano le asperità, si collegano le giunture, si allineano le falangi. Sopra tutto questo mondo nascosto e profondo, si avvolge come un mantello la comitiva più fanatica e superficiale di tutte. I suoi componenti sono narcisisti e permalosi, arricciano il naso alla
minima ruga, non tollerano imperfezioni, soprattutto i punti neri, che vengono schiacciati senza pietà non appena intercettati. D’inverno stanno al coperto, d’estate non fanno altro che prendere il sole e spalmarsi la crema abbronzante, poi si lamentano se si ritrovano raggrinziti a quarant’anni. Io non capivo bene, quando ne sentivo parlare a scuola, da piccolo, che gli atomi e tutto il resto sono una cosa reale. Da ragazzino sogni tante cose per il tuo futuro e non puoi immaginare quello che la vita ti sta preparando. Quel mucchietto di palline colorate e aggrovigliate tra loro in modo così meravigliosamente perfetto, chi l’avrebbe detto, ha preso le sembianze della mia compagna, si è laureato in fisica e ogni giorno che passa cerca di convincermi che l’atomo non è una pallina colorata. Dice anche che le molecole, quelle sì che si abbracciano davvero, lo fanno spesso, proprio come due persone, si avvicinano, si strusciano, poi una allarga le braccia e l’altra si lascia accogliere. Se non è amore questo. Raimondo Quagliana
L'amore la cosa più bella Mi chiamo Beatrice... e voglio raccontarvi di un amore per un ragazzo che mi ha cambiato la vita... mi ha cambiato la vita sul serio! In molti penseranno che sia una stupidaggine perché dell'amore vero te ne accorgi solo ad una certa età, quando sei più grande, ma secondo me non è vero... ti accorgi di un amore vero quando ti senti strana: le farfalle nello stomaco, un formicolio, quando non riesci a parlargli o a guardarlo in faccia e diventi rossa al suo nome… Quando ti piace tutto di lui e sai che se non esistesse lo creeresti tu, difetti compresi. L’amore è quando anche fra centinaia di persone ti senti sola, perché sai che l’unica cosa che vorresti in quel momento è lui, quando nonostante i continui litigi si fa pace e si è più legati di prima. Io mi sono innamorata di lui perché anche nei momenti più tristi era pronto a consolarmi, e ci riusciva sempre, in tutti modi. A me bastava vedere il suo sorriso per sorridere. Mi sono innamorata di lui perché non riesce a trattenere le cose dentro di sé, ne deve parlare per forza con qualcuno e stavolta, quel qualcuno ero io. Una sua amica, “l’amica” per la quale però, provava qualcosa in più di quello che si prova in un’amicizia, e per me era la stessa cosa. Ti accorgi di essere innamorata quando la mattina, per essere felice, avresti solo bisogno di un suo buongiorno ma per rendere felice lui faresti di tutto. L’amore, in poche parole, non ha limiti ne età, va vissuto sia da grandi sia da piccoli, in qualsiasi circostanza, e non importa se un giorno magari finirà, vivilo e basta! Ilaria A., Mary B., Giorgia N. (@SezioneE)
Eri l'Estate Parlavi in modo strano, diverso dagli altri. Tu non gesticolavi, lo faceva la tua voce. Si spostava nell'aria, ondeggiante, come una musica mai sentita prima, e mi sono accorta, ormai troppo tardi, che il mio corpo ne seguiva il ritmo. Mi sono innamorata di te prima ancora di rendermene conto, prima di accorgermi che i tuoi occhi erano grandi per effetto delle lenti da vista, prima di toccare la tua pelle liscia e glabra, prima di percepire ciò che celava la tua mente, il tuo cuore. Mi sono innamorata di pancia, aggrappata a quel calore viscerale che saliva fino al petto ogni volta che annusavo la tua presenza. Mi sono innamorata d'estate, quando il giorno pare infinito e la notte ne rilascia il profumo, e tutto quel tempo amplificato è cassa di risonanza, è melodia, è sapore di aria e vita. Mi sono innamorata di te perché tu eri la mia stagione più bella. Cetta De Luca
Notturno “Ciò che mi consolava era sapere che avrei rivolto un ultimo pensiero a te, quando fosse giunta la mia ora: se fossi stato ancora vivo ti avrei augurato la felicità, in caso contrario avrei sperato di rivederti da qualche parte, in un’altra vita. Ero sicura che anche tu avresti rivolto un fugace pensiero a me poco prima della fine: ti saresti chiesto se sentivo che te ne stavi andando o se stavo morendo con te” Da una lettera di S. Spielrein a C.G. Jung
La
prima cosa che ricordo di te sono le tue gambe sottili che pendevano dallo sgabello del pianoforte, quello con il cuoio di pelle rossa tutto raggrinzito, pieno di pieghe come i tuoi occhi, raggrinzito come quei seggiolini del luna park che giravano in tondo senza fermarsi mai mentre la mia gonna dall’aria smorfiosa si alzava con il tuo sguardo rimasto a terra. Dondolavi con Chopin, dondolavano le vene nei tuoi polsi come rami secchi d’albero marchiati a fuoco in un cielo bianco, dondolavano i miei capelli accanto al tuo viso intrisi di sale fino ad insinuarsi nella tua bocca quasi chiusa o quasi aperta, sembrava soltanto una crepa, una spaccatura nel volto da cui si srotolavano pensieri così ruvidi e spessi da essere funi che io rubavo senza esitazione o che tu lanciavi come ami. Ecco allora che con forza li afferravo, li tiravo a me per metri e metri. Non volevo staccarmene: me li avvolgevo intorno alle braccia, tra la linea delle cosce e poi su fino alla schiena, alla spalla, un doppio nodo intorno al mio collo. Sentivo il cuore penzolare sopra lo stomaco: un impiccato. Sarei potuta morire così, appesa al tuo corpo, legata alla tua bocca con un cappio di parole in quella stanza con specchi dagli occhi chiusi. Eppure c’era soltanto questa voglia di scoprirti a poco a poco come si sbuccia un’arancia dalla scorza dura, lasciando che la polpa fuoriesca pian piano, spandendosi tra le mani ed impastando le dita. Suonavi, suonavi e sapevi che su un tasto c’era la mia pelle, su un altro la mia mente e su un altro ancora tutto ciò che restava… i miei ricordi sembravano piccole matasse di lana calda; si spandevano su tovaglie di lino candide. Potevo sentire la voce di mia madre che aveva il mio stesso nome e chiamava: “Isabella, Isabella“, non cercava mai me, ma se stessa o quel che rimaneva del suo mistero in ogni stanza. Di quel mistero di cui nonna raccontava tutte le notti in cui i suoi occhi riflettevano il blu del cielo notturno costellato da piccoli punti luminosi, da piccole stelle che si accendevano allo scorrere del suo sangue quando tornava a battere scalpitante il tempo della gioventù. Il tempo della guerra, delle partenze, delle lenzuola fredde nella parte destra del letto, dell’attesa ma anche della vita, di una piccola vita che trovò abbandonata e abbracciata alle spesse radici del bianco ciliegio, sporca di fango e vento, quasi fosse stata partorita dalla terra stessa. Nessuno ha mai saputo da dove venisse. Eccola lì, mia madre. La spiavo parlare con persone che non avevo mai visto
forse perché non esistevano. La vedevo con un vestito color crema sorridere malinconica ad un libro pieno di fiori secchi tra le pagine, la vedevo distesa al centro del tappetto dai colori timidi che batteva i piedi alzando la polvere quasi volesse farne una magia, la vedevo piangere lacrime grandi quanto i suoi occhi sul prato bagnato canticchiando una melodia in una lingua sconosciuta, la vedevo tagliarsi i capelli con delle forbici sopra una bacinella, corti finché il collo non avesse tremato per il freddo, la vedevo rimanere in piedi sopra il ponte vicino la nostra casa e il vento era così forte che temevo la volesse rubare a noi. Ma in realtà noi per primi l’avevamo rubata. Non è mai appartenuta a questo mondo, abbiamo preso qualcosa che non era nostro, l’abbiamo trattenuto fino a farlo ripiegare in se stesso per poi lasciarlo scolorire. Un giorno non è più tornata indietro da quel ponte. Né i suoi tristi occhi grigi. Né le sue scarpe allacciate a doppio nodo. Finalmente si era decisa a partire. Non c’è una tomba al cimitero dell’isola, non c’è perché mia madre non è mai morta. E non è mai nata. È soltanto apparsa. Ma tu lo sapevi. Di questo raccontava la tua musica. Condividevamo questo segreto. Sempre vicini l’uno all’altra per non disperderlo. Lo sentivi, vero?, aveva perfino un sapore. Te lo passavo con la bocca, piano, per non farlo cadere. Lo accarezzavamo con la lingua per scaldarlo, lo tenevamo al caldo per addormentarlo. Il mio sguardo si apriva con le mie labbra e diventava così ampio, così ripido che avvertivo la vertigine che t’imbrigliava i nervi della schiena, sbattevi senza equilibrio tra le pareti dei miei occhi e allora ti sei aggrappato a me, alle mie spalle, ai miei capelli, alle mie gambe. Mi hai scavato dentro con le dita, rovistavi per cercare quel pezzo di te che fin dalla nascita mi appartiene, che custodisco gelosamente e che non ti permette di essere un uomo a se stante, ti sentivo seguire le strisce di quella infinita spirale che si abbarbica intorno al mio utero e lo stringe come amore senza ragione, come amore violento, come amore traboccante e incompreso che si vendica, che non perdona, che tace con il tuo dito davanti alla bocca mentre cerca di ammansirlo e assume la forma di una culla, quella culla in cui abbiamo perso la verginità dell’essere individui. Hai lasciato che il mio sangue ritornasse al tuo e ti facesse scivolare verso la verità.. Un colpo di reni. Musica finita. Le tende spesse, color rosso e arancio, pian piano hanno cessato di oscillare come gonne in un valzer suonato a metà, il vecchio tavolo di legno d’acero ha rotto il silenzio con la sua tosse e il pavimento scricchiolava le ossa indolenzito. Eccoci, di nuovo esiliati e spaccati in due. Terre emerse in questo oceano dimenticato da Dio. Nascere uniti è un destino, questa era la nostra natura, una natura tagliata e poi ricucita da bisturi sterili che nulla sanno dell’anima. Mia madre ha partorito la mia morte. Mia madre ha partorito te, come fratello. Cucito al mio fianco come si cuce il destino su una vita appena affacciata al mondo.
Nessuna lettera, soltanto il silenzio. La suorina muta entra nella stanza e straccia in piccoli pezzi i miei pensieri. Oltre che muta sembra essere anche cieca, non fa che rivolgersi al muro bianco come fosse la mia faccia ma forse è soltanto strabica. La solita iniezione, il solito salasso: ormai non c’è più nulla da portare via, ho dato tutto. Questa sangue è soltanto acqua sporca; è soltanto una bugia. Io sono ieri. Non posso più portarmi la mano al viso senza chiedermi di chi sia questo arto sconosciuto. Tutto mi è estraneo. Odoro già di passato, di imperfetto. Mi mette delle ciabatte a fianco del letto, so che cosa significa: la cagna va portata a spasso. Forse dovrei mordere a sangue anche lei per farmi definitivamente rinchiudere in quella bella stanza senza finestre. Non ho bisogno di uscire, né di aria, né di dottori. Qui la mente scappa per non farsi trovare, dovrei metterle un guinzaglio e chiamarla schioccando la lingua in quel modo così dolce, come fosse un gattino bianco e rosso, di quelli bastardi che lo si capisce subito dall’aria sempre affamata sempre selvaggia. Guardo fuori dalla finestra e mi vedo correre fino allo stremo con la pioggia che batte incessante e fa risuonare la mia pelle come un tamburo. I piedi non sentono più la terra sotto di loro, sono già scomparsi, le braccia si aggrovigliano nell’aria, il petto si gonfia come una grande vela, i capelli fluttuano senza gravità, le palpebre sono portali che rovesciano gli occhi in un mondo inconscio e la bocca molle cade e si dilata deformandosi in un urlo, teso, tirato dalle corde vocali come un lungo filo di marionetta. Aspetto che si spezzi, aspetto che qualcosa dentro me si rompa e che quel suono strisciato arrivi fino a te. Fino a te che mi hai dimenticata e che ti sei dimenticato. Fino a te che ti sei negato e che mi hai negata. Fino a te che hai scelto di mentire, sempre, quando cammini, quando porti il cucchiaio alla bocca, quando leggi, quando accendi la sigaretta, quando ti lavi i denti, quando ti specchi pensando di non essere guardato e fingi. Io ti vedo fingere. Tu sai che io so. Dopo me non ci saranno testimoni e tu smetterai di esistere per ciò che eri e per ciò che non accettavi di essere. Ritornerai come nuovo. Avrai finalmente la tua normalità. Un lavoro. Una moglie. Una torta fatta in casa per il tuo compleanno. Il vuoto che ricaccerai giù come un rigurgito ma che tornerà più forte esplodendo in faccia a quella persona che sa soltanto chi crede che tu sia. Un vestito nuovo. Un giardino con un cane. Amici a cui raccontare quel che basta. E forse, forse una bambina con i miei occhi. Perché tutto torna. In forme diverse, in punta di piedi per non farsene accorgere. Attaccherà alle spalle con sorrisi che mostrano bene i denti. Tu sarai fiducioso. Impreparato. Tutto torna. Alice Pagotto
Trame piatte Ci sono vite destinate a restare nel buio di un cassetto chiuso, come romanzi incompleti o dalle trame piatte, come la vita di Piera che in cucina i romanzi li legge a due a due, appena il tempo di mettere ordine in casa che già siede davanti un minestrone che bolle. È lì quando spunta Franco, il fratello svitato di suo marito. Lui le chiede cosa stia leggendo, lei mostra la copertina, una storia così, dice, pare bella, l’ho trovata stamattina tra vecchi libri che mi hanno dato. Franco conosce quel romanzo, cita l’immagine che gli era rimasta in mente, qualcosa su rami scheletrici che chiedono l’elemosina al sole. Piera ha appena cominciato, a questa cosa non c’è arrivata, allora sfoglia un paio di pagine, velocemente muove gli occhi tra le righe, è nella parte iniziale dice lui. Lei guarda, è un po’ frastornata, questa situazione nuova, non ha mai parlato di libri con nessuno, li legge e basta, però sa che i libri sono pericolosi e mentre sfoglia e cerca si sente addosso una patina di età in meno, si sente persino bella nonostante i capelli scomposti e l’abbigliamento sdrucito nessuna intenzione, nessun fuoco vero eppure le sembra di avere già vissuto questo momento, una presenza inquietante che le morde qualcosa dentro, le mani che si muovono goffamente, la soggezione di sentirsi osservata, l’imbarazzo della vicinanza di una persona di cui percepisci il respiro. E Piera si sente tra le braccia di quel cognato che a modo suo è interessante, la sua bocca soffiargli in un orecchio e morderle il collo, l’ebbrezza di abbattere ogni resistenza e abbandonarsi. Però quel brano così importante non lo trova, chissà dov’è, quali sono le parole.. finisce tutto lì, come quei romanzi incompleti o dalle trame piatte, come le vite destinate a restare nel buio di un cassetto. Forse gli amori scritti sono più grandi di quelli veri, durano, non si corrompono. Gli altri no, finiscono tutti. Giorgio D'Amato
L'amore di una donna Dal cassero della sua Itaparica mentre scrutava col cannocchiale la riva di Laguna presso il porto di Santa Caterina in provincia di Rio Grande, la vide: era il 21 luglio del 1839 e Giuseppe Garibaldi, un bel giovanottone di trentadue anni, combatteva contro gli imperialisti brasiliani per l’indipendenza di Rio Grande del Sud. La giovane donna era Ana Maria de Jesus Ribeiro e aveva appena diciotto anni e da tre era già la moglie di Manoel Duarte de Aguiar: la vide e poi non la rivide più fino al giorno in cui, durante un’ispezione proprio nel paese di Laguna, Garibaldi notò davanti all’uscio di un’umile casa una donna molto giovane, dai capelli lunghi corvini, che piangeva, era lei: che succede? perché questa disperazione? Ana Maria lo guardò, lo bucò con lo sguardo e rispose: mio marito sta morendo a causa sua, generale. Garibaldi si offrì di aiutarla e trasportò il marito di Ana Maria, un soldato dell’esercito imperiale che era stato ferito dai suoi uomini, in ospedale. Per due mesi Garibaldi non allentò di andare a trovare lei che a sua volta andava ad assistere il marito in fin di vita che però non trapassava mai: tra pochi giorni ripartirò e tu devi essere mia. Lei ci pensò lo stretto necessario, giusto il tempo di prendere due cosette e abbandonare il marito moribondo. L’eroe dei due mondi incontrò così, come egli stesso scrisse nelle sue Memorie “la madre dei miei figli! La compagna della mia vita nella buona e nella cattiva fortuna! La donna il di cui coraggio io mi sono desiderato tante volte”. Analfabeta, tuttavia Anita grazie ad uno zio aveva imparato non soltanto a cavalcare come un’amazzone e ad impugnare e usare perfettamente la pistola, ma aveva acquisito anche e soprattutto valori come la libertà e l’indipendenza. Con Giuseppe, da lei ribattezzato teneramente Josè, condivise da subito tutto: sentimento politico, ideali per cui lottare, stanchezza, fame, imprese militari, fu fatta perfino prigioniera e le fu detto che Josè era morto, ma lei forte, ostinata riuscì a fuggire e piuttosto che mettersi in salvo vagò nella notte attraverso tutto il campo di battaglia pur di ritrovare il suo compagno amatissimo. Aveva un amore devoto per il suo Josè ma se minimamente sospettava di un
tradimento diventava brutale: ella non tollerava rivali, si presentava perciò dal suo uomo con due pistole una da scaricare su di lui, l’altra da svuotare sull’amante. A causa della sua gelosia, in modo particolare per una certa Mary Ausley, lo costrinse una volta a tagliarsi barba e capelli per sembrare meno attraente. Si trasferirono in Uruguay, a Montevideo esattamente, e lì la loro vita cambiò: si sposarono, ebbero tre figli, Josè per un periodo fece l’insegnante e il piazzista, ma poi non potendone più di tutta quella normalità ricominciò a combattere contro l’Argentina di Rosas, per l’Uruguay. Nel 1847 ritornarono in Italia, lei lo precedette con i bambini e andò a vivere a Nizza con la suocera Rosa, bigotta all’esagerazione e che mai la vide di buon’occhio, la chiamava con tono sprezzante: “quella là, la brasiliana”. L’Anita italiana non era più la guerrigliera che conobbe Josè, ella adesso gli accudiva i figli, badava alle faccende domestiche e conviveva con una suocera diffidente, ostile e maligna. La gelosia la tormentava e spesso lasciava la prole alla vipera per farle un dispetto e raggiungeva Josè, anche nel 1848, durante le vicende della Repubblica Romana, incinta, malata, era pure caduta da cavallo, lei, come ai vecchi tempi, indossò abiti maschili, imbracciò il fucile e si recò a combattere accanto a Josè. Il 2 luglio 1848 Roma venne assediata dai francesi e Anita e Josè fuggirono, ma ormai consumata dalla malaria, esasperata dalla gravidanza il 4 agosto del 1848 morì presso la palude di Comacchio. La donna impavida e orgogliosa era diventata per i fuggiaschi un peso e fu abbandonata in un casolare. La leggenda vuole invece che sia morta tra le braccia di Garibaldi. Quando si dice il mito! Lucia Immordino
Tu in me Quando le tue forme liquide nuotavano nell’immenso fluido opalino senza desiderio nÊ memoria quando le tue mani trasparenti esploravano i tratti incerti del tuo viso ignaro dell’altrui sguardo quando il tuo piede correva e danzava, incapace di camminare: allora eri luce tersa eri sogno eri tenero e profumato come burro. Eri pago e sazio, e protetto il tuo mare non era salato non indugiava il tuo andare e un sole nel mio cuore cullava i tuoi sonni. Patrizia Sardisco
Che cos'è l'amor? L'amore che cos'è? Ne ho sentito parlare e tante volte ho concluso che l'amore non era quello. Che cos'è l'amor? Oltre ad essere il titolo di una canzone del grande Vinicio. L'amore, questa parola di cui si usa e si abusa, definendo amore ciò che amore non è. L'amore è l'innominato, il personaggio di manzoniana memoria. E se ho tanta difficoltà a dire cosa sia l'amore, sicuramente so che cosa non è. Ma se mi mancano le definizioni, per una teorica come me, dove vado a parare? Eppure, pur non sapendo definire l'amore, so che la mia vita ne è impregnata. Sono stata avvolta nell'amore, quello che cura, e sono cresciuta con un amore malato, quello che amore non è, quello che le ferite te le procura, profondi tagli purulenti che ti fanno crescere con la paura di lasciarsi amare. Perché ad amare è facile, forse. È lasciarsi amare il problema vero. Tu perdi il controllo e sei in mani diverse dalle tue, altre, straniere. Amo la matematica, amo la poesia, amo la bellezza in generale. E questi "amori" non fanno male. Amo i miei amici ventennali e non, appartenenti a quell'amicizia che il tempo non usura, ma rafforza. Amo i miei familiari. Amo i miei alunni. E amo te. Ma ancora non te l'ho detto. In realtà, non ho mai detto "Ti amo" a nessuno. Per un sacro terrore dell'amore. Ricordo che una volta, dall'alto della mia ingenuità, ti ho detto, con il fiato in gola e il cuore a mille: "Ho controllato su internet: ho tutti i sintomi. Mi sono innamorata di te." E tu sei scoppiato a ridere. Che buffa che mi sono sentita. Per me innamorarsi equivaleva ad essere ammalata. E abbiamo riso insieme. E pian piano naufragavo in quegli occhi. Nei tuoi. Sei la persona a cui mi sono più opposta, a livello inconscio. Tu eri per me un pericolo serio. Il pericolo dell'amore, quello vero. Con te ho imparato a lasciarmi andare. Hai sentito il mio dolore profondo, hai ripercorso con me il mio inferno e non sei scappato, mi sei stato accanto e hai usato con me un tocco delicato, quel rispetto di chi entra in un tempio sacro in silenzio. E quella paura folle pian piano si è rimpicciolita. Perché in fondo tutti e due avevamo paura dell'amore: io di riceverlo, tu di darlo. La poesia ci ha aiutato ad armonizzarci e a superare gli ostacoli. Insieme.
Perché l'amore è questo: un camminare affianco, insieme, rispettando i tempi e i ritmi dell'altro. Non ti amo per i tuoi pregi. Ti amo per i tuoi difetti che ti rendono straordinariamente unico. Ti amo perché con te sono ciò che desidero di essere. In fondo, come ho scritto in una mia poesia, "io e te, rive diversimili di uno stesso lago", per questo ci intendiamo. Per questo ci amiamo. Paola Toto
Addio alle braccia di Catherine "il post vuole essere una continuazione ideale dell'opera a cui si ispira, ne riprende perciò alcune tematiche, rielaborandole in modo personale" 1.
Partiamo
da dove finiva quella mia storia. Allora saluto la statua. Ghiaccio sottile sotto i piedi. Sento che il gelo sale su per la schiena. Sale invece di scendere, sfidando le leggi di gravità. Mi ritorna persino un po’ di fame. Prosciutto, uova e birra non mi sono bastate prima. Non dovrei nemmeno pensarle queste cose di fronte alla statua. Considero che di tutto la colpa è di quel fagotto con dentro il coniglio scuoiato di fresco, che il dottore mi ha mostrato nel corridoio, quasi con orgoglio. Ci penso senza partecipazione, come un dato statistico. Me ne vado dopo un po’, l’ho già detto. Esco dall’ospedale e torno a piedi in albergo nella pioggia. Lungo il tragitto continuo ad aver paura dei numeri sopra il due. Rivedo sempre davanti agli occhi quel maledetto quadrante. Risento le parole di Catherine. Dammi, dammi. Sguardo basso, ripeto a voce alta, camminando veloce con le mani in tasca, il mio mantra. E se morisse? ma è morta e se morisse? ti dico che è morta ma se morisse? tagliati la barba piuttosto, a che ti serve ormai e se morisse per questo? Qualcuno si volta, non ci faccio caso. La tragedia è mia, mica loro. Incredibilmente, data l’ora, trovo in albergo il barbiere che ancora sfaccenda, con uno straccio in mano. Gli dico se mi fa la barba. Mi esce un ghigno, non una voce credibile. “A quest’ora?”, fa lui. “Qualcosa in contrario?”, riprendo la mia baldanza. “Ci mancherebbe, il cliente ha sempre ragione, ma adesso mi sembra un po’ tardi. Nella notte la barba ricresce.”, dice lui, non senza una certa logica. Questo però è un momento che non contempla la logica, penso tra me. Colpa del coniglio scuoiato di fresco che ha distrutto il mio amore. “Tu pensa a tagliarla, senza troppe domande.” “Lascio i baffi?, chiede. “No, perché?” 2. Mi rade con delicatezza, in silenzio. Vorrei che affondasse la lama perpendicolare alla mia gola per lenire il dolore. Sta zitto ma si vede a miglia di distanza che non aspetta altro che far fluire il fiume di parole che cova
dentro. “Conosci qualche puttana?”, chiedo all’improvviso, rompendo il silenzio. “Quelle che vuole, signore, cinesi e negre persino”, fa lui. Rimaniamo in silenzio, lui è perplesso. Mi ha visto con Catherine e lei era incinta. Si starà facendo mille domande. “Una puttana che sappia giocare a scacchi”, lo dico mentre lavora sulle basette. Mi guarda sempre più stupito. “Mi informo, signore”, risponde lui. 3. “Continua. Falla crescere. Sarà divertente. Forse sarà cresciuta per il nuovo anno.” “Ora vuoi giocare agli scacchi?” “Preferirei giocare con te.” “No. Giochiamo agli scacchi.” “E dopo giochiamo?” “Sì.” “Bene.” Presi la scacchiera e misi a posto i pezzi. Fuori continuava a nevicare forte. ERNEST HEMINGWAY – ADDIO ALLE ARMI MONDADORI 1959 PAG. 297 (traduzione Fernanda Pivano) Antonio Prenna
L'Amore è un virus Mi sono innamorata di te perché io ero nitroglicerina, instabile, pronta ad esplodere e del tutto inconsapevole di esserlo, mentre tu… tu vivevi trattenuto e teso come un elastico, aggrappato alla tua miccia, che ha trovato a tradimento il suo combustibile. Non è stato amore, è stata una deflagrazione. Quando ho iniziato a riavermi, era tardi, il danno fatto, noi già invischiati. Mi sei occorso come un incidente e per un pezzo ho giaciuto, emotivamente parlando, stesa a terra con gli occhi sbarrati, incredula. Ero morta, no, ero viva, ero viva: oh se lo ero! E tu l’ hai sentita la mia linfa vitale, eri un vampiro incantato dall’odore del sangue, in cerca della vena pulsante della mia vita ed io non volevo che quel folle, estenuante, languido salasso. Succhia dalla vena - pensavo, pregavo - succhia, non importa se mi ucciderà questa cosa, è inebriante e bellissimo sapere che la tua fame terribile solo io posso placarla. So che quando ti riavrai il terrore di perderti nella luminosità instabile di questa relazione e di fronteggiare le cose del mondo vero lì fuori ti farà fuggire. So che sarò respinta più lontano che potrai e che non farò nulla per restarti addosso, ma qui e ora, ci sono solo il tuo bisogno di prendere ed il mio di dare. Abbiamo avuto poco tempo, poca ragione…la tua spallata ha spalancato una porta nella mia vita e dietro ci ho trovato pezzi di me dimenticati o sconosciuti e mentre conto le lacrime per il tuo abbandono, per la tua assenza, conto anche i tesori, i germogli di questa nuova me e le lacrime nutrono e dentro di me tutto cresce in attesa di erompere. Non ti faccio una colpa per essere quello che sei, per il tuo limite, la durezza della tua paura: so che la tenerezza che ti ho rivolto sa essere affilata e spaventosa come un bisturi, ma so anche che quella tenerezza ha dato il via a qualcosa, il potente virus delle emozioni autentiche, che già ora apre minuscole e insanabili fratture nella corazza che ti strangola l’anima. Doveva accadere, è già accaduto milioni di volte, non era successo mai a nessuno prima: mi sono innamorata di te perché io sono il fuoco e tu sei il gelo e da questo incontro germina la vita. Vivi, amore mio, vivi. Io lancio il più selvaggio dei miei ululati e corro via, nel bosco. Addio. Francesca Furnò
Amore e morte Mi sono innamorata di te perché non parlavi mai.
E nel tuo non parlare, mi governavi. E sotto il tuo dominio, ho costruito archi e pietre per nascondermi dalla tua onnipresenza. Notte e giorno. Giorno e notte. E poi, sotto le forze incrociate della volontà e dell’azione, ho visto scorrere il tempo nomade dell’esperienza. E non mi sono accorta che quella forza imperativa corrodeva la mia libertà, così alla fine mi sono sgretolata nell’onda sismica della negazione. Quanti secoli di esistenza primordiale, hanno pulsato alle mie tempie, prima che io potessi sollevare il mio sguardo verso la tua ipnosi. Era la tua magia e la mia malia. Tu ineluttabile forza, io corpo in caduta libera. Ma tu, imperturbabile, continuavi a non parlare e io sempre più ansiosa me ne andavo al patibolo. Prima dell’esecuzione, abbiamo scambiato lentissime privazioni dentro lacrime segrete e sonetti perfetti. Un colpo secco e poi me ne sono andata con le mie suole di vento verso Nord. Dentro un edificio gotico e cercare un’ipotesi di vita nuova. Quello sguardo lancinante che mi aveva generata dentro una bufera battesimale di sperma e sangue, era diventato una perfetta cornice di abiura. A volte si muore per diventare migliori. A volte si ama per paura della morte. Eros e Thanatos. Sempre la stessa storia. A volte si scrive per scardinare questa follia. Bea Ary
Malamore Pensavo il tempo scaduto, la vita già confezionata. Il pacchetto aveva i nastri giusti e le giornate uguali. Mi sono innamorata di te perché non rientrava nel modello prestampato doveri ma in quello di peccati capitali e inferno assicurato. Vade retro, che per queste cose vale la regola della peste di Ingrassia, il medico palermitano del seicento: presto, longe e tarde. Velocemente fuggire, assai lontano andare e più tardi possibile ritornare. Come se si potesse fare quando il virus è già entrato in circolo e non ci sono vaccini. Mi sono innamorata di te perché non rientrava nel block notes: cose da fare, impegni, visite, progetti improrogabili. Una gran rottura. Dapprima sono stati solo i sintomi inequivocabili: palpitazioni, sudori freddi, mani sudate. Ma come è possibile? Come è potuto succedere proprio a me? Poi la discesa negli inferi. Non una discesa lieve ma una vera e propria sdirrubbata. Block notes compresi. Poi è stata la volta della psicanalista. Tu, dall’alto dell’Olimpo, mi dicevi che se tutti quelli che si innamoravano fossero andati dal medico, lo psicanalista sarebbe stato il mestiere più gettonato. Andavo tutti i lunedì e tornavo contenta. Ma più contenta di me era la psicanalista che mi ripeteva che ero la sua migliore cliente: rideva tantissimo e dopo io le davo trenta euro. Per me, invece, era una tragedia. E infatti le tragedie greche mi davano tanto sollievo. Mi dicevo: non è colpa mia, è il fato. Andavo e tornavo e pensavo: è l’ultima volta. Poi è venuta l’estate e c’è stata la fuga in altri lidi e diverse poesie inviate via mail. Lacrime e ancora lacrime e taccuini pieni di parole. Anche qualche cruciverba e qualche rebus. Ma il rebus maggiore restava il mio cuore malato. Allora ho cominciato la cura dei libri. Leggere allunga la vita, dice Eco, la salva pure, aggiungo io. Infine la decisione sofferta e la primavera giunge con una nuova vita in mano. Ma non è quella che pensavo perché nel frattempo l’incanto era già finito e tu eri diventato quello che eri sempre stato: un uomo normale in viaggio solitario. In questo caso, forse, in fuga. Ho imparato due cose: che l’amore sfugge sempre come il raggio di sole quando l’afferri. E che la psicanalisi non serve a nulla. Anche se Woody Allen ci ha costruito una carriera. Maria Luisa Florio
Stidduzza mia Stidduzza mia, ma che facisti? Ma che cumminasti? Mi scrivisti che mi vò lassari! Mi veni i chianciri solu a ‘stu pinzieru. Com’è che ti vinni ‘ntiesta sta pinzata? Ma chi t’aiu fattu? Quann’è che ‘u liggivi, mi si grapiù un pirtusu ‘mmezzu de lu pettu. Mi misi a chianciri lacrime amare. Ma non comu chidde che tante volte ‘nzemmula amu chianciuto, di gioia e di duluri, ne lu mentre che ci strincievamu abbrazzati. E quantu ‘nnamu viste ‘na tutti ’sti anni! Ma sempre io cu ttia e tu cu mmia, stritti stritti, vucca cu’ vucca, ciatu cu’ ciatu, manuzza e manuzza; a dirici parole che ci paria solu i picciuttedi che s’ingrizzano pà prima vota si ponnu dire. Quante stidde amu cuntatu ‘a notte appizzate na lu cielu! E io ‘na stidda ‘a chiamavu cu to’ nnome, e tu na’ stidda ‘a chiamavi cu’ nome miu. E quantu friscu nnamu pigghiatu e quanti dulura! Tu mu’ dicia sempre: “Totuccio, unnè cosa: Un semu chiù picciotti. A sira si iecca l’umido, e un putiemo stari accussì, assittati ‘nne panchine o ‘ncapu a sabbia vagnata. U’ sacciu pure io: Munnieddu è propriu bedda e ‘ste siratine so’ megghiu assai da’ televisione; ma dumani matina un ti po’ susiri e ‘un ti pò mettiri a’ gritta; agghiorni tuttu aggranchiatu e io t’è sientire a lamintariti pì jurnate sane!” Saruzza mia, tu raggiune avia: oramai su’ fattu viecchio e a momenti un’ mi pozzu cchiù catamiari; ma unn’è giustu però ca nall’ultimi tempi tu mi sfuttia sempri, e mi dicia ch’era addiventatu tuttu siccu, sciancatu, immurutu e sganguliatu. E quanno di pomeriggio ni facevamu a passiatina ‘nno corso principale, un c’era vota che un mi rinfacciavi: “Arrieri ‘e picciuttedde in minigonna ti talii? A ttia stannu pensannu ! Aqquietati; tu a chidde un’ ci pò’ curriri appriessu mancu cu’ l’occhi !” “E che male c’è a taliari? – t’arrispunnia - Almeno m’ arifazzu a' vista. Ma tu ca parri, ti viristi ‘o specchio accomu t’arriducisti? Si' tutta panza, minne caruti e culu grosso quant’a ‘na casa!” Certo ca ‘u tempu passò e oramai unn’era cchiù come ‘na vota. ‘A casa addiventò vacanti e no’avutri, pi passarici i iurnati, n’appimo a ‘nvintarici ‘na qualche cosa. Io, nna vecchiaia, m’insignai u’ computer, accussì mi putia sentiri n' anticchia giovane, e tu ti mittisti a sferruzzari magghiuni ca’ un si pò mettere nuddu, cucinari piattuni chini chini ‘i grasso e uogghio fituso che m’inchiummavano e m’intussicavano bbuono bbuono e t’insignasti a fare di’ bedde torte, che u’ sacciu solu io quanto mi ficiro acchianare u’ zucchero e dì cabbasisi i’
trigliceridi! Finiu pure che da li vasati di ‘na vota, arrivammo ‘e sciarre d’ogni gghiuorno. E tante furono i vasate, tante addiventarono i sciarre. Sino a quanno ‘na matina (un mu puozzu scurdare), ti susisti e mi dicisti: “Io, mi ni torno ‘nni me’ matri!” “Ma unni…e’ Rotoli? To’ matri avi vint’anni ca’ muriu!” Ma u dicisti e u facisti; mi lassasti cà, solo com’un fissa, e t’innisti ‘nna casa vacanti di quann’eri picciuttedda schietta. Ora, sparte, unn’u sacciu com’è ca’ ti vinne ‘sta pinzata, mi turnasti pure tutti i gioielli d’oro e d’argento ca’ ti fici quann’eramo ziti e pure maritati, e mi scrivisti che t’è mannare subito n’arrieri tutti i riali ca mi facisti e pure tutti ‘i fotografie, unne ci si tu o unne ca’ semo ‘nzemmula. A parte u’ fattu ca’ tu un’m’arrialasti mai niiiiente…, i fotografie i misi tutte pare pare nno’ computer e sunno pure su Facebook e Youtube; accussì cu’ unnu vole sapire unn’u sape tuttu chiddo camu fattu ’nzemmula. Ma , alla fine, mi futtisti… mi lassasti n’anticchia prima che ti lassassi io! Pi cchistu mi vinni i’ chianciri quann’è cu’ liggivi. Però,…pinzannuci bbuono: unn’ama gghire io e tia, oramai !? Un facemu futtiri i ridere a spartirici a ottant’anni? Un fussi megghiu che t’arricampi e Veni cà’? A passare un poch’i cannavazzu ‘na ‘sta casa che sta fitiennu, china china i’ provulazzu, e macari mi cucini n’a poco ‘i caponta bella chiummusa e china d’ogghiu, come a sa’ fari tu, na para di chila di pasta chi sarde e pure i vruocculi arriminati, na’ poco i gaddozzi di sazizza e, chi sacciu… quattro belli sarde a beccaficu. Accussì, macari,pozzu moriri saziu, ca’ panza bedda china! Totuccio tuo, che ti vole sempre bbene. Sabino Russo
Vestita di sole Avevo preso le scale ed ero adesso nel sole. L'ombra lo contrastava, nell'ora del mattino ancora fresca e mi consentiva di sostare tra i riverberi delle foglie. Era fresco e appena tiepido sul viso. Animava i fiori del vestito. Leggero, di voile verde, viola e fucsia contornavano l'orlo, che danzava, ad ogni movimento delle gambe sulle scarpe dai tacchi alti. Si alti, bellissime gambe su tacchi alti. La freschezza delle mie vesti e del mio viso divennero assolutamente bellissimi, come il sole che li avrebbe scaldati appena percepirono il tuo sguardo da lontano. Non fu certezza, ma sensazione appena. Ne bastava la percezione per esserne invasa. Era appena iniziato il tuo corteggiamento. Un progressivo avvicinarsi e ritrarsi. Un bagliore d'azzurro mare appena, la tua camicia, un soffio bianco come una vela dei tuoi calzoni di tela. Apparire e sparire, fino a confondermi, mentre volavano i teli di voile della gonna al vento. Ferma nel turbinio come una bandiera segnaletica, rossa come il pericolo, evidente per essere trovata, avvicinata, scoperta. Ferma con le mani aperte e gli occhi chiusi, in attesa. Le tue mani trovarono le mie, le tue labbra la mia bocca. Non aprii gli occhi. Sapevo che eri tu. Clotilde Alizzi
Incontro La pioggia ha tirato a lucido il campiello che percorriamo in silenzio. Sollevi la manica del maglione per controllare l’orologio. “Sbrighiamoci” esclami superando i miei passi “d’inverno la Chiesa della Catena chiude alle quattro” Mi precedi impaziente, bambina. Ti seguo svogliato, distratto dalle nuvole violacee addensate contro al crepuscolo. “Siamo quasi arrivati. Si trova lungo la Riva degli Schiavoni” dici come se io conoscessi la topografia cittadina. Sciogli il nodo al foulard e scopri il collo di una chiarezza avorio su cui tentennano due pendenti orribili. Chissà dove hai scovato quel paio di orecchini così disarmonici sull’ovale quasi perfetto del tuo viso. Arriccio le mani in fondo alle tasche del giubbotto per trattenere quel po’ di calore, ma il tepore evapora e mi sfugge come le tue gambe da cicogna. Tu torni indietro per recuperarmi, ti avviti al mio braccio. “Perché sei così?” chiedi. “Così come?” Non rispondi, ti fermi di colpo, costringi me a bloccarmi, a guardarti. Non decifro lo sguardo oltre gli occhiali. Rimani codice misterioso, lingua straniera. Entriamo dentro la chiesa. C'è penombra. Il pavimento è consumato, l’aria è un abbraccio di cera e incenso. Mi racconti del pittore che ha decorato l’abside, del suo mecenate che sfiorò la follia. Parli sottovoce, malinconica come una musica di Yann Tiersen. “È deformazione professionale. Spiego pure quando non lavoro.” Quando usciamo sul sagrato la pioggia ci sorprende. “Vieni, conosco un posto qua vicino. E di nuovo mi lascio condurre dal tuo impermeabile crema, dai tuoi tacchi schizzati di fango. L’insegna del locale è una melodia stonata: Caffè Amore. Mi dici che è il cognome del proprietario, Stefano Amore, di origini calabresi. “Ma a Venezia, qualche veneziano è rimasto?” faccio io. Ci sediamo, ordiniamo. Mi racconti i pezzi mancanti: la laurea, i viaggi, gli amori tiepidi, le voglie disfatte. Avevi ventitre anni quando te ne sei andata di gran corsa. Eri sfiduciata, il paese che t’aveva partorito non aveva niente da offrirti, in testa echeggiavano i consigli della tua famiglia: se resti non concluderai niente, questo è un posto a perdere. Non si sceglie il luogo in cui si nasce, sei partita dalla Sicilia per chiedere risarcimento. D’istinto scegliesti Venezia. Doveva essere stata tutta quell’acqua ad attirarti. Della tua terra te ne sei innamorata tardi, da lontano. Guardavi la laguna e ti mancavano le onde, provavi a spiegarlo, ma la gente non capiva. Così hai smesso di spiegarlo.
Sei loquace, a tratti tracimante. Hai perso un po’ l’accento, parli con le vocali più chiuse, gesticoli poco. Non te lo faccio notare. Non voglio interromperti. Fingi un’allegria che non hai, sorridi troppo per essere sincera. Non c’è generosità nelle tue parole, non c’è trasporto in quello che racconti. Solo urgenza. Sgrani i tuoi racconti con occhi febbrili, impazienti. “Venezia è decadente” concludi abbassando le ciglia pettinate “è nata col capriccio di dominare la laguna. Si erge fiera e matrona sulla sua conquista. Ma se osservi attentamente, Venezia è in balìa. Le maree stanno rosicchiando lentamente le sue ossa.” La pioggia si fa battente fuori, la porta si apre ed entrano due donne che si dimenano infreddolite. Alla fine scelgono un tavolino non lontano dal nostro. “Ti ricordi che ti chiamavo Mabel?” “Certo che mi ricordo” Mi piacevano i Beatles. Avevo contratto le ultime due parole di Michelle Ma Belle per ribattezzarti. Non avevo altro modo per appropriarmi di te. Tu, sfuggente, socievole con tutti; vitale e agitata come la tempesta. Io goffo, insicuro, taciturno. Non provai mai a dirti che ti amavo. “Se non ti piace qui, perché ci stai?” chiedo io. Alzi le spalle. “Qui, un altro posto. Che cambia?” Non ti riconosco quasi più per niente. Da ragazza avevi occhi cerbiatto. Ti guardo strizzando gli occhi, ma i tuoi contorni non ci sono più. Monica Gentile
Tavolo prenotato al 25 Ci sono modi e modi per pronunciare la parola amore, ma nessun modo riesce a spiegare con chiarezza il modo in cui amo te, Claudia. Serate come questa ci riusciranno forse, ma sono qui da ore, sotto a questo portone, e superata la tempesta riprenderò la strada e ingannerò il tempo parlando dei nostri segreti. Fare il sostenuto come sempre, del resto, a che serve. Stavolta non mi perderò a straziarti e ti ritroverò, come sempre, con un sorriso spaventata. E’ San Valentino, Claudia, per San Valentino non ci sono ostacoli; perché hai paura? Lo hai detto: “non c’è catena che trattiene i nostri respiri”. Ho risposto: “Non voglio perderti!”. Lo hai detto: “Sono semplicemente fatti, Alfredo. Sveglia! Uno più uno non sono mai una strada, ma parallele che non s’incontrano. Devi capirlo!”. Ti ho guardata. Non ho risposto. Non dovevi parlare. Ma cosa devo capire, Claudia, se siamo pelle sopra pelle che bruciano di vita? L’inverno sui nostri desideri non è arrivato, come dici. E questa smania di nuovi spazi, da quando t’è arrivata? “La medicina giusta per riemergere entrambi”, hai detto, e per andare dove, poi? Mentre ho ripreso a camminare l’acqua della pioggia scorre sotto ai marciapiedi putridi. Foglie di platani fradici e legni spogli vorticano sopra alle grate ostruite. Questo deve rimanere di noi? E’ San Valentino, Claudia. A San Valentino passa il caicco della nostra luna di miele che ci aspetta nuovamente per riprenderci. Lo sai dov’è la lettera nascosta nel cassetto degli intimi e dei collant di pizzo? E’ andata a perdersi in piccoli pezzi tra le rapide gonfiate dalla pioggia. Volevi la medicina, per riemergere entrambi? Eccola! è il fiume. Ora lo avrai capito, Claudia. Non ci sono ostacoli a San Valentino. Ho prenotato Al Pagani, stasera, al nostro solito tavolo: il venticinque. Non lasciarti fermare da tutta quell’acqua bevuta dai tuoi abiti. Ora puoi raggiungermi. Al Pagani sei stata tu a portarmi la prima volta. Ridevamo. Sedemmo al tavolo 25 e lo adottammo fin da subito. Guai a toccarcelo. M’è sempre piaciuta la pioggia, l’aria delle nostre prime scoperte insieme. Adesso svolto l’angolo e sono Al Pagani. Mentre mi aprono la porta esce un soprabito scuro a braccetto con una pelliccia. Ridono beffardi. Non sanno loro che uno più uno non sono mai una strada, ma semplici passi fino a molestarsi e poi distruggersi del tutto. Ridono a San Valentino! Quando saranno sopraffatti dalla corsa, stanchi dal tanto superarsi, si ritroveranno gli anni ingrossati come la pioggia. Saranno gonfi e putridi. Poveri illusi! Mi volto e li riguardo il soprabito scuro e la pelliccia.
Dentro alla macchina. Che Dio vi accompagni. Nell’atrio d’ingresso del Pagani in genere noi non ci si ferma. Non ce n’è bisogno. Siamo di casa, Claudia. Ricordano sempre quando prenoto per telefono. Alla piccola reception, a forma d’imbuto, il maître di sala, non guarda il leggio delle prenotazione e ci accompagna: tavolo 25. “Buonasera, Ingegner Carli”. La voce del maître di sala mi giunge come da una caverna. Guarda come stupito, ma non con la solita deferenza Ha qualcosa di strano stasera. Guarda il leggio e indugia. Non faccio una piega. Chissà perché guarda il libro delle prenotazioni. Non l’ha più fatto dopo la nostra luna di miele sul caicco. “Sono desolato Ingegnere, ma è certo che ha telefonato oggi?”. Lo fisso, tra quelle sue labbra strette nell’attesa e il centro della fronte ampia. Chi mi contraria non lo reggo. Non mi scompongo. Solo sento un forte calore ai palmi delle mani che di istinto apro di scatto. “Mi scusi Ingegnere Carli, ma oggi la tempesta, i ritardi in cucina, le consegne mancate. Provvedo subito, comunque, a soddisfarla. Intanto si accomodi, la faccio aiutare col soprabito”. Con destrezza fa un cenno con due dita. Dal guardaroba escono due mani, raggiungono le mie scapole. Poi si scusa e viene ingoiato dalle tende di velluto che separano l’imbuto dell’ingresso dalla sala da pranzo. Sono al centro della piccola reception e vengo sfilato dal soprabito inzuppato. Poco distante la guardarobiere più anziana mi saluta con un segno della testa. Anche lei è perplessa, come il maitre di sala mi guarda. Una macchiolina mi scivola dalla manica destra. “E' solo ruggine. Ruggine ed acqua”. Resta ammutolita, di sbieco mi guarda e infine inforca le spalline sulla gruccia e mette in disparte il soprabito gocciolante. Il maître di sala torna sui suoi passi. “Ingegnere Carli mi scusi per l’attesa. Sono costernato, ma non potremo offrirle il solito tavolo 25. La Signora ritarda, forse? Sono stranieri, imprenditori russi suppongo. Sa com’è di questi tempi.”. Lo fisso ancora, Claudia, in un punto indefinito oltre il contorno degli occhi. Non lo sopporto e questa è una sera molto importante. A San Valentino non ci possono essere ostacoli. “Alberto, ma si rende conto!” “Un increscioso errore, Ingegnere. Certamente lei ha telefonato. Vista la serata è bene farci perdonare. Le riserveremo un trattamento speciale. Vedrà, resterete contenti lei e la sua gentile signora. Devo però chiederle rispettosamente di farsi accompagnare al tavolo 24 anziché al 25”. Non lo fisso neppure, Claudia. Non ho scelta per amore tuo soprattutto. Stringo i pugni. Vengo ingoiato anch’io dalle tende di velluto e faccio la mia apparizione in sala. Mi muovo come un automa. Attraverso sguardi che mi incrociano. Sorrisi deferenti. Qualcuno saluta. Il maitre di sala mi farfuglia qualcosa che mi perdo, percepisco soltanto: “Ingegnere abbia fiducia. Il tavolo 24 è di
fronte alla stessa vetrina. La strada dietro vostri ai giardinetti; dov’è l’ansa del fiume”. Non rispondo neppure. Scivolo a fianco del tavolo 25 dove brindano chiassosi. Prima di sedermi, punto lo sguardo all’acquerello del muro che disegna l’ombra di un cappello. Il cappello vola da un ponte e una mano maschile non l’afferra. Quel fiume taglia i giardinetti oltre alla vetrina. Il caicco viene coperto sul fondo dalla melma. Lo so che sono stati ematomi dolenti, ma a San Valentino non esistono gli ostacoli. Mi seggo, come una clessidra rallentata. Una bolla si svuota mentre l’altra si riempie. Poggio i pugni stretti, sopra alla tovaglia immacolata. Mi perdo. Coperto dagli occhiali m’incupisco. Gli altri del tavolo 25, che sghignazzano. La tempesta ricomincia. Ti giuro, Claudia, sulla Santa Vergine, mai più li aprirò questi pugni a palmo nudo su di te. Tommaso Gambino
Filo Rosso, quasi blue Quel filo rosso, sul muro, ieri non c'era. Ne sono certa perchè spesso vengo a girovagare in questa zona silenziosa della città quando ho tempo e ragioni da cercare. Pomeriggio estivo, svogliato e confuso. Ieri ho chiuso, ho deciso. Mi piace questo piccolo chiostro, mi rassicura la certezza delle prospettive ordinate e precise e tutto questo bianco. Più di tutto, amo il vuoto che stacca le colonne. Ci gioco, lo comprimo con lo sguardo, allineando le sagome di pietra finchè diventano una sola. Poi scarto di un soffio e le sfoglio di nuovo, come fossero pagine. Una storia così sincopata non ha senso. Come me, adesso. Allungo il tempo sui muri tutt'intorno, misuro con passi imprecisi come pensieri la distanza che mi separa dalla malinconia di oggi. Nell'angolo piû in ombra una scala sale al piano superiore e si trasforma in un lungo corridoio deserto, porte scure e grandi finestre aperte che rovesciano sul pavimento di cotto consumato questo caldo snervante. Non ci credo all'amore, io. Non so restare. Musica attutita dal legno, che quasi la trattiene un attimo prima di lasciarla andare. Il filo rosso e sottile, percorsa la curva degli archi e poi i gradini sbrecciati, ora s'infila sotto l'ultima porta. Socchiudo ed entro nella luce che diventa discreta, filtrata da tessuti leggeri che colorano d'ocra le pareti. Al centro della stanza siedo a gambe incrociate, il corpo appena teso a raccogliere l'aria trasformata nel respiro lento di una tromba. Chet, Almost Blue. E' qui che t'incontro, è qui che mi affronto. Il filo rosso attraversa e riattraversa più volte la stanza a formare una trama larga di vasi sanguigni che vanno e ritornano al cuore. Alzo il viso verso spartiti appesi (sembrano giorni) che gocciolano note sui miei capelli e sul mio - quasi - sorriso.
Avvolgo il filo rosso al mio polso (è memoria ?) ed esco chiudedomi la porta alle spalle, ora leggere come le prime note. Mi sono innamorata di te perchè hai cambiato il mio modo di sentire la vita. "Quasi" triste. Sorrido: sono Jazz. [Chiostro del Conservatorio di Musica di Vicenza - Estate, anni fa.] Cristina @coseinvisibili
Galeotto fu il fico Lucia: Fu sul sagrato della Chiesa, finita la messa domenicale, che lo vidi per la prima volta con occhi nuovi: era sui gradini con suo cugino Bortolo. Da piccoli io e Renzo giocavamo nelle strade di paese, poi ci sono stati anni di allontanamento ed educata indifferenza, ma in un sole accecante di Agosto tutta la nebbia del tempo di diradò. Sostenendomi al braccio di mia madre sentìì un odore di buono pervenire dalla mia destra. Lentamente voltai lo sguardo e lo vidi in controluce.Renzo parlava in piedi con Don Abbondio e Bortolo. Agitava le mani.... Agitava le mani, grandi e scolpite dalla fatica, con gli occhi passai in rassegna delicatamente il suo viso. E fu il suo sguardo che mi dipinse le gote di rosso: un calore improvviso appena incrociati i suoi occhi grandi, scuri scintillanti di vita, brillanti e curiosi. Abbassai lo sguardo presa da un senso di pudore, ho sentito un brivido caldo scendere dal petto lungo tutto il mio corpo, ma era la mia anima già smarrita e i miei pensieri. “Lucia, andiamo è tardi”. La voce di Agnese mi riportò alla realtà ma, allontanandomi, sentivo la sua voce serena e appassionata in dissolvenza: volevo memorizzare per ricordarmela. E la sera ripensando a quel mattino, pregai per Renzo perchè la Provvidenza vegliasse su di lui. Mi sarebbe piaciuto guardare il mondo con quegli occhi così vivi, appassionati, colmi di dignità e che mi tatuarono l'anima fra contrasti di emozioni. Renzo: Ricordo bene la prima volta che guardai Lucia come una donna. Tutte le domeniche quel caprone di Bortolo mi portava a messa per guardare le ragazze, io all’epoca di grilli in capo ne avevo pochi: dovevo badare a me, al piccolo podere e alle annate sciagurate. Bortolo rimaneva in adorazione delle giovani che, pudicamente vestite ed accompagnate dalle madri, univano pie le mani nel giorno del Signore. Si scioglieva quando la fretta faceva alzare la gonna scoprendo la caviglia! Quel giorno, lo ricordo bene, stavo discutendo con Don Abbondio sui gradini della chiesa, a messa finita. Il parroco non ne voleva sapere di pagarmi certi lavoretti che avevo fatto al suo giardino, accampando scuse e dicendo che lo steccato necessitava di una seconda mano di pittura. Ero accaldato, dalla diatriba e dal sole d’agosto, quando vidi Lucia uscire dalla chiesa, sotto braccio ad Agnese. Eravamo soliti giocare insieme, da piccoli, e per me era sempre rimasta la bambina che battevo quando facevamo le corse. Solo allora mi accorsi di quanto fosse cresciuta. La osservai, forse più del dovuto, finché lei non ricambiò lo sguardo. Quegli occhi! Mi trafissero come solo la gioventù sa fare e mi diedero in un attimo paradiso ed inferno: mi vergognai di essere sudato, povero e scalcagnato; ma da quel giorno avevo un nuovo obiettivo, una nuova forza che mi portava a lavorare con più vigore. Adesso nella mia testa il podere ed il lavoro alla filanda dovevano bastare per due. Lasciai Don Abbondio alle sue scuse e
corsi dietro a quegli occhi, tenendomi ad una certa distanza, con Bortolo che mi raggiunse e mi diede gomitate. Era bella. Ed io avevo appena imparato cosa fosse l’innamoramento. Lucia: Erano solo emozioni di un'adolescente ancora in fiore, presa da mille dubbi e sensi di colpa. Non sapevo spiegare perchè la vista di Renzo mi sconvolgesse l'anima e il corpo in quella maniera, invece una parte di me si interrogava se anche lui provasse qualcosa, o se fossi solo io a ritrovarmi così. Non ero innamorata, ero infatuata dell'idea di lui, o forse di quella cosa chiamata Amore o del tumulto che mi rapiva col suo passarmi vicino, ed il solo pensarlo. Mi innamorai di lui al tramonto in un giorno di settembre, era sabato. Era tempo di vendemmia e mia madre era solita portare del pane e del formaggio ai contadini stanchi. Apparecchiammo una grande tavola, c'erano tutti: Don Abbondio, Fra Cristoforo, i bambini del paese, fra Galdino, Menico, e ovviamente Bortolo e Renzo. Io aiutavo mia madre e Perpetua ad apparecchiare: una parca cena per festeggiare la vendemmia. La stagione non era stata eccellente, i primi segni della carestia in lontananza arrivavano, ma comunque fu un'ottima annata. Io mi sentivo invisbile, mi sentivo nessuno fra tutti quanti: i miei gesti meccanici affettare, apparecchiare e ogni tanto guardare Renzo che sistemava gli ultimi grappoli. Mi piaceva come lavorava, la passione che metteva nelle cose che faceva e che diceva, il suo parlare deciso ma rispettoso con gli altri, la sua fermezza, la sua curiosità. Andai a riempire la caraffa alla fontana di fianco al campo e, mentre ero lì udii il suono dei suoi passi che ormai riconoscevo e che avrei riconosciuto anni dopo, sempre. Il cielo, di un rosa violento, si stendeva sui monti, e si sentiva l'odore del lago passarci la pelle. “Lucia, che fate qui sola?” Mi disse sorridendo, non alzai gli occhi, il suo odore era di mosto e di buono. “Prendevo l'acqua” risposi sussurrando, meravigliata che ricordasse il mio nome. “Sentite che buoni, sono i frutti più maturi, quelli che hanno impiegato di più a crescere, sono pieni di sole, zucchero e dolcezza”. Mi offrì un chicco d'uva nera e lo posò sulle mie labbra. Il mondo sembrò fermarsi. Le sue dita e il succo si sciolsero sulle mie labbra . “Lucia , corri Agnese ti cerca!” Gridò Bettina, saltellando poco distante. Renzo: La droga dell’amore, l’ebbrezza della giovinezza, mi avevano fatto trascorrere settimane di sogno. Ricordo poco, solo che lavorai con un sorriso diverso negli occhi, anche Bortolo se ne era accorto. Fu uno degli ultimi anni in cui la vendemmia portò buoni frutti e già si sentiva l’appressarsi della carestia. Avevo lavorato tutto il giorno nelle vigne, lanciando ogni tanto furtivi sguardi alla mia Lucia (ormai nella mia testa era mia e di nessun altro), nascosto dalle viti. Avevo colto anche qualche sguardo da parte sua verso di me, ma non riuscivo a capire se si trattasse di rimprovero o desiderio. Forse entrambi. Finito il lavoro, prima che la cena organizzata dalla parrocchia fosse pronta, io e gli altri uomini ci scolammo un goccetto per rinfrancarci delle fatiche della giornata e del sole ancora caldo. Fu il vino, probabilmente, che mi diede la forza di avvicinarmi a lei mentre andava, sola, a riempire la caraffa alla fontana. Osservai, ancora nascosto da un albero, la curva del suo
corpo, il collo teso e lasciato scoperto dai capelli. Forse percepì la mia presenza, in quel momento, perché si irrigidì. Sperai in cuor mio che non mi avesse avvertito per l’odore di lavoro che il mio corpo accaldato emanava. Il vino servì a quello, a scacciare i dubbi. Uscì dal mio nascondiglio e per la prima volta da quando giocavamo insieme, infanti, mi rivolsi a lei chiamandola per nome. E il mio cuore ebbe un sobbalzo. Parlammo, senza dirci nulla. Poi il vino mi portò a fare un’azione folle e sconsiderata e le offrii un chicco d’uva nera, appena raccolto. “Sentite che buono. Zucchero e dolcezza” (ma cosa stavo dicendo? Dannazione!). Non aveva alzato ancora gli occhi verso di me, li teneva chini, come si vergognasse. Credevo che avrebbe rifiutato ed invece avvicino le labbra alla mia mano e prese il chicco con la bocca. Ebbi la sensazione, per un istante, che baciasse delicatamente le mie dita, ancora sporche di terra e segnate dal lavoro. Sui polpastrelli il rossore delle sue gote si fece calore. Fu solo un momento. Una scossa elettrica partì dalla mia testa e scese fino al basso ventre, per poi ritornare su lungo la schiena. Stavo per dirle qualcosa, ma Bettina ci interruppe. Lucia: Nel mio cuore un tumulto estenuante. Renzo mi aveva fatto sentire unica. Mi aveva conquistata la sua voglia di lavorare, di fare, l'entusiasmo che metteva in ogni cosa, la naturalezza con cui mi si era avvicinato. Vinta ne parlai con Fra Cristoforo, confessai che da un po' sentivo qualcosa di diverso, di nuovo per quel giovane. Mi disse “Lucia, ti stai solo innamorando”, mi strinse le mani e mi rassicurò. Mi consigliò di aspettare e di lasciare tutto nelle mani del Signore: Lui sa sempre quali sono le migliori cose per noi, e così feci. Non so se mia madre Agnese capì quel che stava avvenendo nel mio cuore. Io tenevo tutto dentro, come un segreto prezioso. Una notte di Settembre non riuscivo a dormire, dal letto osservavo le stelle, mi ricordavano i suoi occhi: era una creatura speciale Renzo, mi sarebbe piaciuto, Dio volendo, farlo felice. D'improvviso sentii dei rumori fuori, mi affacciai e vidi Bortolo sotto casa mia e Renzo sul fico. Mi vergognai tantissimo che mi vedesse in quello stato, i capelli sciolti, la camicia da notte, avrei voluto gridare ma non lo feci. Mi voltai, dandogli le spalle e gli dissi con voce ferma e bassa “Cosa volete?” Renzo: Dopo una serata all’osteria avevo convinto Bortolo, con abbastanza vino in corpo, ad andare a rubare fichi dalla casa di Lucia. La mia idea era di provare a parlarle, ma non avevo avuto il coraggio di dire il mio piano al mio compagno di venture. Passando davanti alla casa di Don Abbondio, trovai nel giardino ben curato dalla Perpetua una splendida rosa screziata, che recisi e portai con me (Perpetua avrebbe dato la colpa ai monelli del paese, poco male). Bortolo per strada non smise un attimo di parlare, brillo com’era. Arrivati alla casa, mi feci aiutare da Bortolo ad issarmi sul fico e salii quando più in alto possibile, facendo sufficiente baccano da svegliare Lucia, la cui finestra dava proprio sulla pianta. Eccola! Al chiaro di luna, coi capelli sciolti. Per poco non caddi dall’albero per l’emozione, ancora con la rosa in bocca, che mi aveva tagliato un labbro. “Cosa volete?” mi disse severa. Era una follia e lo sapevo, ma con un balzo mi trovai sul davanzale della finestra, mi
tolsi la rosa di bocca e dissi “Mi sono innamorato di voi. Volete diventare mia moglie?” Ad una tale, folle, frase, la mia Lucia si voltò stupita ed io le allungai la rosa. “Domani chiederò la vostra mano ad Agnese, se accettate”. Nei suoi occhi umidi si specchiava la luna, quando si avvicinò al mio voltò e lo carezzò. Le nostre labbra si sfiorarono, per un istante. Tanto bastò a farmi perdere l’equilibrio e a farmi ruzzolare giù dall’albero, nella polvere del cortile, con un trambusto infernale. Un cane abbaiò, si accesa una luce e poco dopo Agnese era sulla porta con un mattarello in mano. Ma io e Bortolo eravamo già lontani, ammaccati e ridenti. Quella sera gli offrii da bere. Renzo e Lucia: Perchè il bello di certi amori è che non si smette mai di innamorarci in modo nuovo eppure antico dell'altro, qualsiasi cosa accada, e per sempre. Infondo innamorarsi l'uno dell'altra per noi è sceglierci, ogni giorno, nei secoli dei secoli. Renzo Tramaglino (@TwRenzo) & Lucia Mondella (@TwLuciam)