Tutta colpa della Maestra Halloween Writing Contest 2013 Concorso letterario a cura di Anna Wood, Gianluca Meis, Roberta Lepri, Federico Orlando e Giorgio D'Amato I racconti pubblicati in questa raccolta restano di proprietĂ degli autori che li hanno pubblicati su svolgimento.blogspot.it con license creative commons
LA STANZA DA LETTO Entrai in camera e vidi il mio cadavere steso sul letto. Indietreggiai mentre l’orrore mi irrigidiva, poi la ragione mi disse che doveva esserci un errore, una qualche falla nel mio cervello che mi dava un’immagine sbagliata, dovevo esaminarla per rendermene conto, ma i piedi si erano incollati al pavimento, non riuscivo ad avvicinarmi così sfrontatamente alla morte, non potevo, allora la ragione mi spinse con la sua mano enorme e calda in avanti e quando continuai a opporre resistenza mi prese a calci fino al letto, tanto che mi sbilanciai e rischiai di cadere e mi ritrovai a qualche millimetro dal mio naso di gesso, volevo urlare, ma ogni passaggio d’aria alla faringe sembrava interrotto, portai le mani alla gola, qualcuno mi aiuti, pensai, credetti di svenire, e invece un burattinaio sadico mi teneva vigile a fissarmi da morta, gli occhi aperti e velati che osservavano qualcosa a cui io non potevo volgere lo sguardo, le labbra viola, i capelli di un colore spento che non è il mio ai lati del viso, non sono io, ci deve essere un errore, pensavo mentre riconoscevo le mie mani, il mio corpo, i miei abiti, voltai le spalle all’evidenza e mi diressi verso la porta, volevo chiamare qualcuno, riprendere contatto con la realtà e trovare conforto, ma le dita che vengono a prendere nei loro letti quelli che hanno paura del buio mi afferrarono, una voce all’orecchio mi sussurrò: e tu, di cosa hai paura? Lasciami andare, la supplicai, e lei disse che non era lei a bloccarmi ma io stessa - non capisci, continuava, di cosa hai paura? Ecco, se fosse un incubo adesso finirebbe, mi sveglierei di soprassalto ma poi riprenderei sonno e non avrei alcun ricordo al mattino, pregai perché accadesse, io che non prego mai, ma la voce disse: non ci sperare, è più reale di quanto pensi. Mamma, avrei voluto urlare, aiutami - l’aria che respiravo era schegge di vetro, mi ostruiva le narici, mi graffiava la gola, mi bucava i polmoni. Mamma, sto sanguinando, adesso mi esce un verme dall’orecchio -sono un cadavere e mi sto già decomponendo-, è lui, è quello che mi parlava, e che non ha mancato di ricordarmi che dove sono io tu non mi puoi aiutare, che neanche tu sei immune… E a un tratto, si fermò. Mia madre aprì la porta e entrò nella stanza, si bloccò e cambiò espressione quando vide la mia faccia. Mi chiese cos’era successo, io mi voltai per mostrarle il cadavere. Ma il letto era vuoto. Un piccolo verme strisciava fuori dalla finestra. Valeria Balistreri
L’INCUBO PEGGIORE Precipito. Continuo a cadere. Piombo in un vuoto e in un buio. Urlo ma la voce non esce. Non sento più le gambe. So che è un sogno; sì, sto sognando di correre per una strada scura, nera, senza luna. Mi volto indietro perché qualcuno di cui ho molta paura mi sta seguendo, solo che io sono più veloce, lui zoppica. Poi, non so come, inizio a cadere. So che è un sogno e voglio svegliarmi ma non ci riesco. Sento il mio cuore battere forte, le vene pulsare in maniera convulsa. Ho consapevolezza del mio respiro affannoso. Finalmente mi sveglio, sgrano gli occhi perché voglio appurare di essere cosciente. Guardo nel buio e non scorgo nulla. Provo a spingere le gambe, ma non rispondono al mio comando di muoversi. Non sono più certo di essere sveglio. Richiudo gli occhi e ripiombo nel sogno, solo che questa volta sono dentro ad una casa vecchia, diroccata. Non c’è nessuno, almeno così sembra. C’è buio: il buio mi perseguita. La casa è parchettata e ad ogni passo si sente un rumore di tegole arse e smosse. C’è una scala, inizio a salire, faccio attenzione. Sento bisbigliare. Mi ritrovo in un corridoio e da un momento all’altro immagino di vedere il bambino sul triciclo di Shining. Mi avvicino alla stanza da cui sento provenire le voci e da cui promana una fievole luce. La porta è socchiusa. Ho paura ma lo stesso la spingo e intravedo seduta a terra una bambina, di spalle, che gioca con delle bambole tutte decapitate e parla con loro sottovoce. Poi comincia a canticchiare una cantilena ipnotica. Vorrei toccarla per farla girare verso di me ma ho paura. Voglio svegliarmi. Lo so che è un sogno, ma non ci riesco. Mi ritraggo e faccio per andarmene che la bambina smette di cantilenare e si gira verso di me. Una bellissima fanciulla solo che sono impietrito: si è voltata roteando il collo a trecentosessanta gradi stando ferma con il resto del suo corpo. Provo ad urlare ma la voce non esce. Cammino all’indietro sempre più velocemente. Precipito di nuovo nel vuoto. Mi sveglio. Sono nella mia camera. Sento gente attorno a me, ma non vedo nessuno. So che ci sono persone perché percepisco il loro sussurrare e avverto i loro respiri. Ma che sta succedendo? Ad un tratto sento la voce del mio vecchio amico Edgard che mi chiede:- Sei addormentato? Ed io:- Sto avendo un incubo. E. – Dove ti trovi? Io. –Sono appena fuggito da una strana casa. E. – Lo sai cosa stiamo facendo? Io. – No, o almeno non ricordo. E. – Sei stato ancora in catalessi, soltanto per due giorni però, per questo non ti abbiamo seppellito! Io. –Ora ricordo. Sono morto. E. –Si. Dopo la catalessi proprio mentre ti stavi riprendendo, hai avuto un
incidente cadendo dalle scale, hai battuto la testa e hai perso la vista e l’uso delle gambe. Io. – Come sono morto? E. – Hai avuto complicazioni polmonari e ti si è fermato il cuore. Io. –Ho sognato qualcuno che zoppicava, una strada buia, c’entrano qualcosa? E. – Probabilmente. Durante la convalescenza è venuto a trovarti tutti i giorni quel tuo amico che ha le gambe al titanio, quello che è stato accusato di aver decapitato la sua bellissima compagna, e che è stato scagionato da prove schiaccianti. Io. – L’ha uccisa davvero lui la compagna. Ma se sono morto com’è che noi due stiamo interloquendo? E. – Ti ho praticato il sonno mesmerico: ti ho ipnotizzato con una cantilena. Io. – Adesso che succederà? E. – Ci saluteremo e ti seppelliremo. Io. – Perché non l’avete fatto subito? E. – Perché non era giusto che tu fossi seppellito senza sapere di essere morto, veramente morto, e non in catalessi. Io. – Grazie: essere sepolto vivo era il mio peggiore incubo! Lucia Immordino
THUN IN TUTU’ Da
quando Miss Paola le aveva fatto quella promessa aveva perso dodici chili. Aveva rinunciato alla nutella, al kinder pinguì e al ragù della mamma. Quello che per farlo, la domenica, ci impiegava quasi tutta la mattina. Aveva spostato la casa delle bambole da camera sua e aveva lasciato il posto ad un tappetino, sul quale ogni mattina, prima di andare a scuola, faceva gli esercizi che le erano stati assegnati dall'insegnante di danza. Se fosse riuscita a perdere peso, se fosse riuscita a non sembrare un angioletto Thun, pacioccone, simpatico ma piuttosto sgraziato, avrebbe potuto stare in prima fila al saggio di Natale! Thun in tutù, proprio così la chiamavano le sue compagne del corso. Quando era più piccola non ci faceva poi tanto caso, anzi le piacevano tutti quei pizzicotti che amici e parenti amavano darle sulle guance rosee e piene. Ma a sedici anni, e col sogno di danzare sulle punte, quelle manifestazioni d'affetto erano diventate una condanna. Dodici chili aveva perso, e gran parte del suo innato buon umore. Stringendo la cartellina sulla quale aveva annotato il proprio peso per quasi sette mesi, arrivò davanti a Miss Paola trattenendo il respiro. L'insegnante scorse la lista con l'indice e le sorrise. Quella reazione le scaldò il cuore e, mentre si cambiava con le altre, riprese a sperare: era il gran giorno. Miss Paola avrebbe assegnato quella sera l'ordine di palco e i ruoli per il saggio. Ad una ad una, le sue compagne, vennero chiamate e quasi non riusciva a sentire i nomi successivi, per gli schiamazzi di gioia che quelle galline bercianti facevano. Il suo, tuttavia, lo sentì benissimo. In fondo a tutti. Era l'ultimo. Le sarebbe toccato l'ultimo posto nell'ultima fila. Così vicino alle quinte che la mamma e il papà avrebbero dovuto fare miracoli per poterla riprendere con la telecamera. Non disse nulla. Riusciva a pensare solo a tutti i Kinder Pinguì a cui aveva dovuto rinunciare. Quella stessa sera, a casa, passò un'intera mezzora nel capanno degli attrezzi del padre. Al successivo appuntamento preferì andare al corso di danza in autobus. Si era fatta dare i soldi del biglietto e con buon anticipo si era messa ad aspettare sulla banchina. Arrivarono alcune compagne e la salutarono con fare canzonatorio: "Che hai nel borsone? Hai finalmente trovato il tutù gigante che ti sta comodo?" E ridevano. Arrivata a danza attese che tutte si fossero cambiate. Ammirò di ciascuna l'eleganza che andava facendosi matura, con le giuste proporzioni tra gambe, braccia e i leggeri accenni di seno. Tutto in lei era invece fuori misura. Seduta su una panchina dello spogliatoio prese dalla sua borsetta un Kinder Pinguì e ne assaporò ogni morso. Le altre avevano già iniziato il riscaldamento. Nella sala si diffondevano le armoniose note del "Lago dei Cigni". Con cura e attenzione, invece del proprio tutù, estrasse dal borsone la motosega del padre. Quella che usava per potare gli alberi del giardino. Tirò diverse volte la corda del motorino prima che questo iniziasse a bruciare miscela e a riempire di fumo lo spogliatoio. Cominciò con un braccio di Miss Paola, che finì a terra poco distante dai suoi piedi mentre
gli schizzi di sangue avevano macchiato tutti i fogli dei suoi appunti. Poi spinse con forza nel ventre di una compagna. Altro sangue che, finito sui suoi occhiali, le impediva di prendere nuovamente la mira. Una mano. Un altro braccio e poi ancora una gamba, recisa di netto appena sotto il ginocchio. Quelle che urlavano di più si beccavano un colpo di motosega anche in faccia, così almeno poi stavano zitte. Quando ebbe finito il giro, accertatasi di essere l'unica che potesse ancora affrontare un pliè, un dégagés o grand rond de jambe, fece ripartire il cd con la musica di Cajkovskij e, davanti ai grandi specchi della sala, iniziò a volteggiare, sorridere e far grandi inchini agli immaginati applausi del folto pubblico. Ermelinda Frangisponde
DISEGNI “Leo, micio, micio! Vieni in casa” ma del gatto nessuna traccia. Si stringe nel maglione e continua ad urlare al nulla “Leo quando hai fame batti un colpo!” Chiude la porta e si mette al computer. Si massaggia le mani e inizia a scrivere. Ho iniziato una sera. Mi annoiavo. Così sono scesa per le scale. Era buio, ma non ero spaventata. Sono entrata nella camera e ho visto tutti quei giocattoli. Io non li ho mai avuti, forse perché sono ancora piccola. Le tende, le mie migliori amiche, svolazzano leggere. Anch’io sono leggera. Mia madre diceva che dovevo mangiare per diventare grande. Quella tazza piena di latte mi ha sempre preoccupato. Sembrava che mi risucchiasse dentro, insieme ai biscotti che galleggiavano e poi sparivano. Una mattina ho pianto per quei biscotti che non ritrovavo più, disciolti e persi, per sempre. Questa casa non è male, solo noiosa, perché, da quando mia madre se ne è andata, io ho visto trascorrere il tempo piano, con persone che arrivano e poi se ne vanno, di nuovo. Quando arrivano cambiano colore alle pareti dove ci sono i miei disegni, spostano i mobili, rompono i muri e li ricostruiscono, fanno una confusione infernale. Per questo io faccio esattamente quello che fanno loro. Faccio rumore, sposto gli oggetti, faccio cadere qualche libro. La storia dei libri è diversa. Scelgo quelli con foto e disegni bellissimi, che poi ridisegno sul muro, anche se a volte disegno solo il prato con i colori che trovo. Si stropiccia gli occhi. Guarda la camomilla ormai fredda nella tazza . Pensa che per stasera può bastare. Domani continuerà il racconto. La mattina dopo si alza presto, vuole finire il racconto prima di andare a lavorare. Il primo caffè della mattina lo accompagna alla scrivania. Sul video una frase incomprensibile. ASDFGHJKLòàù ZXCVVBNM,.QWERTYUIOPè+ “Razza di gattaccio. Hai di nuovo camminato sul computer. Lo stupido sono io che lo lascio aperto ovunque. Meno male che non hai cancellato nulla. Allora, si, ecco. Avevo lasciato da qui” La storia dei libri è diversa. Scelgo quelli con foto e disegni bellissimi, che poi ridisegno sul muro, anche se a volte disegno solo il prato con i colori che trovo. Di giorno non riesco a fare nulla come il mio gatto che la notte andava fuori, a caccia o a cercare la gattina del vicino, e durante il giorno dormiva. Forse anche io sono come lui. Quando è morto non ho pianto. Anzi ero contenta, speravo di poterlo accarezzare, invece la mamma diceva che nemmeno lui mi poteva far compagnia, diceva che era una questione di anima.
Quella sera ero così arrabbiata che ho fatto il diavolo a quattro. La mia mamma non si è preoccupata. Diceva che era una situazione normale. Ma dopo quella notte non l’ho più vista. Nessuno dei miei parenti ho più visto. Una notte sono entrate nella casa delle persone. Avevano delle macchine che fotografavano i muri. Io mi sono messa davanti ai miei disegni, ma non mi hanno visto. Dopo un po’ hanno indicato, nello schermo di una specie di televisione, che vedevano qualcosa. Mi sono avvicinata, ma non ho visto nulla. Solo un alone fluorescente. Dicevano “E’ lei! È’ lei!” Valli a capire. Ma cosa vedevano di tanto interessante? Io non vedevo nulla e per questo mi sono arrabbiata tantissimo. Ho visto delle carte sul tavolo e ho soffiato forte, facendole volare. In casa è successo il finimondo. Chissà cosa pensavano che succedesse. In fondo erano solo dei fogli. Magari ci potevo disegnare, ma li hanno portati via. “No, stasera proprio non scorre. Meglio se invece della camomilla mi faccio un caffè per svegliarmi” – si alza dalla poltroncina e va verso la cucina. Prepara la caffettiera da due tazze e aspetta il profumo del caffè. Mentre si versa il liquido nero nella tazzina sente bussare alla porta. “Arrivo! Ma chi è a quest’ora?” Appena apre il gatto entra di corsa in casa. Non c’è nessuno forse è stato il vicino che ha bussato per avvisarlo del gatto. Un brivido lo avvolge, non faceva così freddo prima. Con le mani si sfrega le braccia per scaldarsi. Richiude la porta e torna al computer. GHHKJHKKL HKLKKIOILKLKJ JLKLJLL “Ancora! Leo se ti becco sul mio computer ti faccio volare dalla finestra!” ma il gatto già si è accoccolato sulla poltroncina vicino al camino.” Dove ero rimasto, ah ecco … Magari ci potevo disegnare, ma li hanno portati via. Per anni nessuno è tornato nella casa. Quando le giornate cominciavano a diventare più calde, muratori e imbianchini sono arrivati e hanno disfatto e ricostruito i muri, dipinto le pareti e rimesso a posto le finestre. La notte sì che era un divertimento. Con le mani coloravo tutte le pareti, lasciando impronte ovunque. Gli imbianchini la mattina dopo hanno dato la colpa ai ragazzi dei vicini e hanno dovuto rifare tutto il lavoro. Qualche giorno dopo una famiglia nuova ha riempito le stanze. La mamma era una donna molto bella, ma soprattutto mi piacevano i bambini, fratello e sorella. La bambina era piccola, stava sempre in braccio alla mamma. Ma lui, lo so, mi aveva visto perché disegnava sempre e capiva cosa volevo che disegnasse. Di nuovo bussano alla porta. “Ma stasera che succede!” Si alza spazientito, apre la porta, ancora nessuno. Esce e urla al buio “Ma che vi sembra di essere al Halloween!” un attimo e la porta si chiude. Impreca, deve cercare le chiavi di riserva sotto qualche vaso. Ma quello che accade nella casa è
proprio strano. Dalla finestra vede il gatto sopra la televisione che miagola al computer. Trova la chiave e torna in casa. “Leo che hai? Ha mangiato una lucertola viva stanotte?” si siede di nuovo alla scrivania. “E’ no! Hai di nuovo passeggiato sulla testiera? Guarda che casino! Sembra quasi che hai imparato a scrivere.” Legge la riga prima di cancellarla. POIUUUUUG EWQRRNBMBBNMNM GIOKO. Arrivavo piano nella sua camera, non toccavo i giocattoli, solo la tenda. Lui dormiva con una piccola luce accesa, per questo non mi vedeva. Se si svegliava si infilava sotto le coperte. Una notte ha cominciato a parlarmi. Mi ha chiesto chi ero e io non ho potuto fare altro che muovere le tende. Avevo un amico, finalmente avevo un amico! Alla parete della camera aveva attaccato dei disegni. Erano dei fiori splendidi. Qualche notte lui disegnava e poi mi mostrava i fiori e i colori che aveva lasciato sulla carta. Una notte ero così contenta che ho agitato troppo le tende, tanto che lui si è alzato sul letto con gli occhi spalancati. Ma ha acceso la luce e subito dopo è arrivata la sua mamma. Lo ha stretto al petto e lo ha portato via. Ci siamo salutati mentre usciva. Per tanto tempo sono rimasta nella sua camera, fino a quando lui non mi ha più parlato. Era cresciuto e io ero rimasta piccola. “Basta vado a letto. Domani devo cambiare tutto.“ chiude il computer, accarezza il gatto e lascia la stanza. Poi torna indietro, ha visto una luce. “Che mi sono scordato adesso!” Il computer è aperto, con il video che illumina la spalliera della poltroncina. “Strano, mi sembrava di aver spento.” Si avvicina e una frase appare al posto del racconto: SI DISEGNA I FIORI? Cinzia Giuntoli
ALEPH Indosso una maschera perché la mia faccia non mi piace. Non mi è mai piaciuta e mai mi piacerà. Questo, perché in fondo non piace nemmeno a lei. Lei, l’unica che abbia mai amato e a cui mi sia mai importato di piacere. Per questo porto una maschera, una di quelle bianche, di cartongesso, col naso lungo, con le guance rugose. Sulla fronte della maschera ho scritto una Aleph, la prima lettera ebraica, che non è la “A” di noi occidentali, l’Aleph non ha suono, Aleph è il silenzio. Quello assordante di una notte vuota, di un albero che cade lontano, quello della risposta alla domanda: “E’ per via della mia faccia che non ti piaccio?” La maschera copre la mie paure e da un volto a quelle degli altri. La maschera cela il volto ai miei occhi costretti a guardarlo ogni dannato giorno e ogni dannata notte. Ma questa notte è diversa, altroché se è diversa. Ho trovato una faccia nuova. Una bella, questa volta, non come quella che mi ha dato mia madre. Una faccia che piace, non a tutti, ma solamente a chi veramente m’interessa che piaccia. Questa sera mi procuro una faccia. … Il corpo del ragazzo è a terra, a faccia in giù. Sono in piedi sopra di lui con ancora il coltello insanguinato. Sul suo giubbino sgocciola del sangue dalla lama. Tlick, tlick, tlick. Un attimo di pausa. Ucciderlo è stato una bella prova per i miei nervi. Ma ce l’ho fatta. Respiro, inspiro, respiro, inspiro. Immobile. Il freddo condensa il mio sforzo in piccole nuvolette bianche che mi escono da sotto la maschera. È il momento di girarlo. Lo giro e finalmente i miei occhi si incrociano con i suoi, che son rimasti aperti. Non è una gran faccia, ma è la faccia che mi serve. Tutto qua. Mi chino su di lui. Controllo per bene dov’è l’attaccatura dei capelli, dove iniziano le orecchie e dove inizia invece la pelle del mento. Non ha la barba. Bene. Inizio il lavoro di coltello. Non so da che parte iniziare, è la prima volta che levo la faccia a qualcuno. Faccio prima gli occhi, infilo la punta del coltello vicino all’orbita e comincio a penetrare la pelle, pian pianino, non devo rovinarla. Con calma traccio il primo cerchio intorno all’occhio e poi faccio anche l’altro. Nonostante il freddo, sento il sudore grondare all’interno della maschera, ma vado avanti. Inserisco la lama nel collo e poi vado verso l’orecchio, ma non mi viene fuori un bel lavoro, ho seghettato tutto il bordo come un bambino che taglia malamente un foglio di carta. Devo stare più attento. Ritorno nella gola con la lama e poi vado verso l’altro orecchio. Viene fuori un pezzo di gola tutto duro e grigiastro. Mi vien da vomitare. Mi tocca lasciare lì la mia faccia per andare a vomitare in mezzo ai fiori. Mi prendo due minuti. Ritorno su quel corpo e finisco il mio lavoro. Sta volta non bado troppo ai bordi, voglio fare presto. Arrivo sulla fronte e do un bel strattone per strappare il cuoio capelluto, i capelli non mi servono. Solo la faccia. A questo punto, infilo i polpastrelli di entrambe le mani nella cute sotto la fronte e comincio a
tirare, piano però, non voglio che si rovini. Ma è più facile di quanto pensassi. Si solleva bene, viene via bene. Basta essere decisi, colpetti rapidi e brevi, come quando si toglie l’adesivo del prezzo sulla copertina dei libri o dei dvd. Alla fine non è troppo rovinata, posso ancora usarla. Basta solo sistemare i bordi. La metto dentro un sacchetto di plastica e vado via. … Andai davanti alla porta della mia bella, della ragazza che mi piaceva. Non portavo la maschera con Aleph, era il momento di dire la mia, avevo la mia faccia nuova. La faccia che le piaceva. Avevo comprato un mazzo di rose e suonai al campanello di casa sua. Sotto la mia faccia sorridevo ed ero contento. Venne ad aprire e si fermò sulla porta con gli occhi spalancati, dovevo sembrarle il principe azzurro che veniva a prenderla per portarla via. Ma incominciò a indietreggiare e il suo volto divenne la maschera di una ragazza terrorizzata, si porto le mani alla bocca e cominciò a urlare. Io le porsi le mie rose e le dissi di non avere paura, che ora possedevo anch’io la faccia di chi lei voleva amare e che avremmo potuto essere felici, insieme. Ma lei non capiva. Indietreggiò ancora e chiuse la porta davanti a sé. Io rimasi lì, fermo, nel silenzio che si era appena formato. Con le mie rose e la mia faccia nuova. Non sapevo dove avevo sbagliato, avevo ripulito la faccia dal sangue, avevo fatto due buchetti per inserire i lacci e mi calzava alla perfezione, era della mia misura. Cosa c’era che non andava? Mi levai la faccia lì davanti alla porta e la buttai per terra, insieme alle rose. Mi sentii nudo e scappai nella notte, in lacrime. Ritornai a casa, chiusi la porta dietro di me e decisi di ricoprire con Aleph quella faccia che non poteva piacere a nessuno. Andrea "Knulp" Roma
OLOF NON ERA UN BUON CRISTIANO GIA’ DAI TEMPI DELLA PRIMA LICEO «Olof non era un buon cristiano già dai tempi del primo liceo. Era un ragazzino solitario, vestiva male, parlava poco, era ambiguo. Ogni tanto lo si vedeva in giro con un uomo quindici o vent’anni più grande di lui, alcuni dicevano fosse omosessuale. Io, per mia natura, non credo al pettegolezzo e, mi sembra sia evidente, sono stata più acuta degli altri. Alla luce dei fatti accaduti Olof ha manifestato una ben più grave menomazione psichica – lungi da me considerare l’omosessualità una menomazione psichica, al contrario trovo che i gay siano persone dotate di un’incredibile intelligenza, cosa che Olof ha dimostrato di non possedere, o comunque qui sarebbe opportuno indagare sulla natura del male, che sia ignoranza o perfidia. Una grave menomazione psichica, dicevo, che lo ha portato a fare quel che ha fatto» «Io credo che Karin non fosse davvero vergine. Anzi, sono sicuro di aver sentito voci che alludevano ad uno stupro subito in tenera età. Sì, ci si riferiva a lei quel giorno. Poco importa. La verginità che cercavo io non era fisica, piuttosto uno stato mentale» «Solo ora rimango allibita dall’idea di coinvolgere ed essere coinvolta all’interno del piano visionario di un pazzo. D’altra parte non c’è di che stupirsi: le forze del male, gli spiriti maligni, lo so, possono sedurre anche un’anima candida come la mia, o come quella di Elisabeth» «Quando conobbi Elisabeth lei era ancora la fidanzata del mio bassista. Ci vedevamo in sala prove e tutti i mercoledì le parlavo di musica. Mi ascoltava sempre con attenzione, tant’è che pian piano incominciò ad avere un’ammirazione quasi religiosa nei miei confronti. Un giorno la vidi che si era già lasciata. Le presi la mano, gliela gettai con un sorriso dietro la mia spalla e stampai le mie labbra sulle sue» «Si frequentavano da più di due mesi, non so cosa ci trovasse in quel poco di buono. Al telefono una volta mi ha detto che era essenziale alla sua crescita personale, che ne aveva bisogno proprio in quel momento, queste storie qui. Io l’ho sempre trattata da buona amica e anche quel giorno, nonostante la mia disapprovazione, le feci capire che se per lei era quello giusto allora doveva lottare per tenerselo stretto. E fu così che conobbi Olof» «Inevitabilmente incominciai a parlarle delle voglie più irrefrenabili che avevo. Mi mostrò talmente tanto interesse che dopo poco la portai nella mia piccola libreria di fiducia»
«Non ho mai messo piedi in quella libreria, deve essere sicuramente un posto spettrale. Dicono che se fai colpo sul moretto al bancone hai più possibilità di farti passare certi libri. Certi libri, che orrore! Mi hanno detto che all’apparenza sembra una Bibbia come le altre, con la sola differenza che viene utilizzata per celebrare Satana» «Satana, caproni e messe nere… sono tutte cazzate! Io avevo altro in mente. Quando mi fermo a pensare, quando resto ad osservare le foglie, i frutti, i ciottoli sul fondo del fiume, vedo in natura composizioni perfettamente ordinate; la geometria frattale della natura. Piogge di spirali, l’essere che è intrinseco. Poi vedo i corpi, la materia, le imperfezioni e mi chiedo come tutto questo possa influenzare la nostra natura sostanzialmente pura e spirituale…» «Io non ho mai avuto a che fare con tutto questo. Questa storia, la storia di Karin, mi mette ansia e disagio. A volte mi chiedo che cos’è che ci faccio qui. Con chi sto parlando? Vorrei essere già adulta, vorrei realizzare i miei sogni, vedermi sistemata…» «L’adolescenza fa schifo» «…E invece mi hanno accusata, calunniata, violentata! Non in senso fisico, è chiaro. Anche in questo sono stata più prudente delle altre: Il giorno che ci recammo nei pressi di *** sapevo bene a cosa stavamo andando incontro, era tutto chiaro. Oddio, Karin… Karin era così ingenua… Il volto mi si rigò di lacrime appena capì cosa stava per accadere. Cinque paletti conficcati nel terreno, cinque candele, un nastro che disegnava la stella del demonio…» «Il pentacolo viene prettamente utilizzato per invocare o consacrare. Le punte sono in rappresentazione dello spirito e delle forze elementali. Quei libri io ed Elisabeth li conoscevamo a memoria e lei, con me, conveniva sul fatto che l’unico amore possibile prevede la comunione mistica con l’intero creato» «Olof iniziò a toccare Karin, che era totalmente fuori di testa - probabilmente assunsero entrambi grandi quantità di droghe già prima di raggiungere il boschetto. Pare anche che nel pomeriggio abbiano fatto… non so come dirlo… sì, abbiano avuto rapporti sessuali o qualcosa di simile, che si siano cimentati in un gioco erotico o… non lo so…» «Marit ci ha procurato la droga. Con molte probabilità si era già fatta lungo la strada. Neanche il tempo di sistemare tutto che scopava con Karin come una matta. Tutti e quattro ci lanciavamo sguardi lascivi e, tutti, in poco tempo abbiamo fatto di Karin carne da macello» «La prese poi con forza e iniziò a penetrarla. La povera Elisabeth, alla vista
degli occhi indemoniati di quel mostro, svenne... Lui, noncurante, continuava a penetrare Karin… più la penetrava e più la stringeva… cercai di aiutarla… tutto inutile…» «Ho visto Marit fare cose indicibili col cadavere della piccola Karin. Ogni movimento e ogni gesto era una continua prova della sua insana perversione per i genitali, per le mutilazioni» «Fra le lacrime riuscivo a malapena a distinguere il volto di Karin, che si deformava e si contraeva in smorfie mai viste prima d’ora» «Mi pento solo di non aver avuto una videocamera con me, di non aver filmato il rituale. Tutte quelle facce che esplodevano di piacere alla liberazione di pulsioni trattenute durante il corso della vita… io, la notte del *** ho salvato quelle donne, Karin compresa. Le ho guidate affinché tutte le cesure potessero essere ricongiunte, come all’inizio dei tempi. In tutta quella omogeneità non riuscivo a scorgere i divisi, gli spezzati, gli imperfetti poiché eravamo tutti parte di un unico corpo» Giovanni Alberto Arena
LA CONFESSIONE Il
monaco sollevò di poco il cappuccio nero e prese a fissarla. Da lontano, le carni bianche della ragazza, emergevano spettrali sullo sfondo di calce annerita dal fuoco e dalla muffa. Quel corpo smagrito si offriva alla conta di ogni ossa. Le braccia in tensione aprivano incavi profondi tra le ascelle e i seni. Su quel foglio vivo non era possibile vergare altre accuse. Le pinze arroventate andavano poggiate altrove. Esausta, la giovane non poteva più rispondere con la voce. Ogni nuova passata dei ferri provocava solo delle contrazioni muscolari che facevano risuonare le catene dei magli. Si stava andando avanti da ore. Ordinarono che venisse rianimata grazie agli effluvi di erbe aromatiche e aceto. Quando il monaco fece calare nuovamente il cappuccio sugli occhi, i suoi assistenti all'interrogatorio compresero che era il momento del divaricatore. Avrebbero cercato il diavolo laddove sapevano era solito rintanarsi: nella vagina. La porta da cui si entra al mondo da peccatori. Con una secchiata d'acqua a terra liberarono il pavimento dagli escrementi e dall'urina rilasciati nella prima parte dell'inchiesta. Allargarono le cosce della giovane grazie a delle cinghie di cuoio. Lo sfrigolio prodotto dalle parti arrugginite dei ferri sul fuoco annunciavano che lo strumento era pronto. Il monaco inizio la sua litania in latino: una preghiera che in alcuni passaggi pareva riprodurre o annunciare prossimi e ben più sinistri lamenti. Sant'Anna, Santa Barbara, Santa Elena, chiamate a testimoni, avrebbero combattuto instancabili qualsiasi spirito uscito dall'immondo rifugio. Il monaco si asciugò le labbra che si erano inumidite per i continui passaggi della lingua, a meglio far scorrere le preghiere, e impugnò penna e pergamena, pronto a raccogliere la confessione della strega. Quando il divaricatore fu posizionato tuttavia non vi fu più alcuna confidenza da trascrivere. Solo altra acqua da spargere e l'ora del decesso da trascrivere. Opera del demonio indubbiamente. Confessione certa di colpa. Su questo convennero tutti i presenti. Gianluca Meis
PENDOLARI Ce
l’avevo fatta. Con un salto degno della miglior Sara Simeoni ero riuscita a salire sul treno un attimo prima che le porte automatiche si chiudessero alle mie spalle. Il cuore lo sentivo battere nei piedi, tanto era accelerato. Trovai posto accanto a una giovane mulatta con neonato in braccio. Per fortuna stava dormendo. Il neonato intendo. Un passeggino rollava lievemente sul pavimento della pensilina di accesso. “Perché mai non ha bloccato le ruote!” Ma si sa, le giovani mamme mulatte non hanno molto senso pratico. Neppure quelle europee, se è per questo. La signora ultra ottantenne in fondo al vagone tirò fuori un foglio con strani simboli disegnati sopra. Li vedevo in trasparenza, da dietro, al contrario. Un attimo dopo mi resi conto che erano note e quel foglio uno spartito, perché la signora si mise a cantare. C’è sempre gente strana sul treno delle 15,00. Il ragazzo rumeno prese il cellulare che suonava al massimo volume una canzone rumena e cominciò a sbraitare in rumeno a qualche rumeno dall’altra parte del mondo. “Ma che avrà mai da urlare tanto. E perché gridano sempre questi qua. Sembrano perennemente incazzati col mondo.” Che poi, a pensarci bene, pure in Calabria tutti gridano quando si parlano. Un modo diverso di aggredire l’altro, che se non puoi farlo con le mani lo fai con la voce. Che modo idiota di comunicare. Da sfigati. Da pecore. Il treno si fermò alla stazione e nessuno salì. Nessuno scese. “Strano. C’è sempre tanta gente qui.” Lo prendevo ogni giorno quel treno di pendolari, e potevo commentare ogni tappa in base alla varia umanità che saliva e scendeva. Il treno ripartì. Le porte erano rimaste aperte. “Cazzo! Questo è matto!” Mi guardai intorno. Nessuno parve accorgersi di quella anomalia. – Signori avete visto il controllore? Qui le porte sono rimaste aperte! – La signora ultra ottantenne continuò per qualche secondo il suo canto, poi si fermò e mi fissò. – Sssttt! Non mi distragga! Ora devo ricominciare! – La fissai con la bocca spalancata e lei riprese imperterrita a cantare. Mi alzai e andai verso il ragazzo rumeno che aveva alzato, se possibile, il volume del suo sbraitare. Con le porte aperte il rumore che proveniva da fuori era infernale e, giustamente, lui non sentiva bene. Questa cosa non mi è mai stata chiara. Perché quando uno non sente bene alza il proprio volume della voce? Forse perché per simpatia anche l’interlocutore diventa sordo? Il treno accelerò la sua corsa e prese una curva a tutta velocità. Il passeggino prese il volo fuori dall’apertura nel preciso istante in cui il neonato in braccio alla mamma mulatta si svegliò e cominciò a piangere. “Ben ti sta, scema!” Mi stavo decisamente irritando col mondo intero. Non riuscivo a tollerare la stupidità, e quel vagone mi pareva decisamente privo di persone minimamente pensanti. – Oh, ma insomma, qualcuno oltre me si rende conto che è PERICOLOSO viaggiare a questa velocità con le porte aperte, o no? – Dal vagone accanto entrarono due ragazze e un ragazzo, apparentemente
cervello-dotati. – Signora, anche qui le porte non si sono chiuse? – Avevano l’aria sufficientemente spaventata, e l’informazione che recepivo in quel momento era che tutto il convoglio viaggiava con le porte aperte. “Che cavolo di guasto!” Mi alzai e percorsi il treno passando da un vagone all’altro e tenendomi a debita distanza da tutte quelle porte spalancate sul fuori. Vedevo alberi, case, strade, prati, sfrecciare a velocità sempre maggiore da quelle bocche vuote, mentre si creava un vortice che rischiava di risucchiare qualunque cosa si fosse trovata alla giusta distanza. Alcuni viaggiatori cominciarono ad animarsi, preoccupati. Un gruppetto di facinorosi, dopo essersi lamentato a voce alta (urlavano tutti ormai) dello scempio delle ferrovie, dello schifo in cui si trovava l’Italia, delle colpe di tutti i politici e della crisi e del malgoverno, decise di partire lancia in resta a caccia del controllore. – Non c’è il controllore. Vengo da un tour guidato di tutto il treno e il controllore non l’ho visto. – La mia comunicazione di servizio li lasciò sbigottiti. Come non c’era il controllore!? E adesso come facciamo qui? Domande mute ma chiaramente leggibili negli sguardi smarriti. Eravamo tutti immobili nel vagone centrale. Tutti noi che consapevolmente avevamo pensato di dover fare qualcosa. Gli altri passeggeri erano rimasti ai loro posti a fare quello che stavano facendo prima. La signora ultra ottantenne continuava a cantare, la si sentiva anche da lì. E il neonato piangeva. E il rumeno gridava al telefono. Di colpo il treno si fermò. Un sospiro collettivo accompagnò il soffio stridente dei ferri sui binari. Sempre immobili fissammo le porte. “Ora si chiudono e il treno riparte. Sì, si sono accorti del guasto e, giustamente si sono fermati. Ora chiudono tutto.” Eravamo fermi in mezzo al nulla. Prati e vallate intorno. Le porte però restavano aperte e il treno fermo. “Forse il guasto è più importante del previsto. Ora arriverà il capotreno e chiuderà queste porte a mano.” Nulla. Cominciammo a guardarci l’un l’altro, con una vaga e lontana idea di panico che cominciava a prendere forma tra i neuroni confusi. Un altro soffio pneumatico e, finalmente, le porte si chiusero. – Ooohhhh! – Quello era il suono del sollievo. Poi il treno ripartì, e le porte si aprirono di nuovo. – Aaaahhhh! – Quello era il suono del terrore. La donna mulatta col neonato volò via dalla porta come era già successo al passeggino. Si era incautamente affacciata all’apertura per guardare fuori nel momento in cui il treno era ripartito. Cosa pensava di trovare? Forse il passeggino attaccato al predellino per le cinture di sicurezza? – Andiamo dal capotreno! Ci sarà un modo di sistemare questa follia! – Partimmo, io, il gruppetto di facinorosi e i ragazzi con l’indice QI nella norma, diretti alla testa del treno. Non era facile passare da un vagone all’altro senza farsi risucchiare da quelle bocche spalancate. Giungemmo dietro alla porta del locomotore. C’era un chiasso infernale che proveniva dall’interno. Bussammo. Ancora. Più forte. Nulla. Il gruppetto di facinorosi, ora terrorizzati e incazzati, prese la rincorsa come un sol uomo e si scaraventò contro il battente, che si spalancò. Nessuno. Non c’era nessuno. In compenso anche
la porta esterna di accesso al posto di guida era aperta. – Questo cazzo di treno non lo guida nessuno! – E allora chi lo aveva fermato nel bel mezzo della campagna? Chi aveva chiuso e riaperto le porte? E cos’era quella cosa luccicante che arrivava a tutta velocità davanti a noi, verso di noi, contro di noi? Non devo più mangiare peperoni di sera, che poi la notte guarda tu che razza di film mi faccio! Cetta De Luca
LA SORELLA DEL FIUME Fa
sempre freddo nella contea. Non si tratta di una prerogativa stagionale e nemmeno di una casualità trascurabile, è un fatto puro e semplice; qualcosa che è sempre stato e sempre sarà. Anche quella mattina il gelo puntellava i tetti, penetrava nelle ossa come un mazzo di aghi, si incollava tra la pancia e i polmoni e teneva stretto il respiro. C’era una ragazzina sul ponte a Sud. Una bambolina bionda con un berretto di pelo e una sciarpa di lana, lo sguardo perso. C’era un’altra ragazzina sotto il ponte. Un’adolescente intirizzita con lo sguardo selvatico e una folta, bizzarra chioma rosa antico. Il fiume non aveva un nome, eppure la gente lo temeva perché era infuocato e forte. La ragazzina sotto il ponte era la sorella del fiume, anche lei non aveva un nome, anche lei era infuocata e forte; si teneva alla larga dal respiro degli uomini, temeva la gente che teme il fiume. La ragazzina sopra il ponte non aveva paura del fiume e nemmeno della gente (e nemmeno della ragazzina dai capelli rosa, della quale ignorava l’esistenza); lei non era forte ma non aveva paura, perché nessuno aveva paura di lei. C’era un gatto nel fiume. Il gatto era piccolo e bianco come la bambina; nemmeno lui aveva paura del fiume, ma stava annegando comunque. Alla sorella del fiume piacevano i gatti. C’era un gatto sopra il ponte. Ce l’aveva portato un’onda potente, l’aveva salvato per non veder piangere la sorella, perché poi le sue lacrime sarebbero cadute dal cielo e avrebbero fatto piangere anche lui. Si volevano bene, la ragazzina ed il fiume senza nome, ma come tutti i fratelli ogni tanto bisticciavano. Quando lo facevano crollava il cielo e gli uomini gridavano e sparivano in quei flutti infuocati. C’erano due ragazzine ed un gatto sotto il ponte. La bambina bianca ammirò la lunga veste d’acqua dell’altra, si avvicinò alla riva bruciata e ai gorghi splendenti di rosso. "Sei la figlia della sarta?" La sorella del fiume aveva la voce profonda e le labbra immobili. Le sue urla, tonanti anche nel cielo più nero, non arrivavano al cuore degli uomini. «No. Sono la sorella del fiume.» Un broncio leggero e un cruccio infantile sul viso della bambina. La figlia della sarta era morta annegata. «Ma devi fare attenzione agli spettri che stanno vicino a tuo fratello. Di solito sono buoni e ti portano fortuna, però poi diventano cattivi e ti mangiano gli occhi» Un sorriso tenue nel greto del fiume, riflesso sul viso selvatico di Lei. La bambina cammina senza pupille sul ponte a Sud. La sorella del fiume dorme sazia nel letto del fratello, sui ciottoli lisci. Si sveglia la mattina presto e guarda in su, verso il ponte e la strada. Aspetta ancora qualcuno che non abbia paura. Bianca Martinetto
CORMICCHIO MON AMOUR La tradizione di Cormicchio era quella di radunare, la vigilia di ogni santi, i giovani adolescenti, attorno al focolare del più anziano del paese, all’anagrafe Pietro Contafatti detto nonno Pietrone. Il nonno viveva in poltrona da tempo indefinito, infatti molti in paese se lo ricordano così fin dalla visita pastorale di papa Giovanni XXIII nel primo sessanta. Il papa buono gli toccò anche la capoccia per sbaglio benedicendolo, ma lui non schiodò dalla poltrona neanche sul sacrato della chiesa del paese e non si lavò la testa, per assoluta devozione, per i seguenti diciotto mesi, infestando di pidocchi, con assoluta simpatia, tutta la vallata. Si presume quindi che nonno Pietrone abbia 140 anni circa, anno più anno meno. Oppure è nato già vecchio in poltrona, ma questo non è dato ne determinante saperlo. Nonno Pietrone sta là, inchiodato in poltrona davanti al focolare perennemente acceso tutte le stagioni. Anche se ci sono 40 gradi all’ombra stanzia davanti al camino con il plaid sulle gambe. Si racconta che d’estate le signore della valle ne approfittano per essiccargli in casa le rane del vicino laghetto, d’inverno invece gli stendono le lenzuola fresche di bucato ad asciugare, il resto dell’anno si sparano dei potenti suffumigi termali. Ma quella magica vigilia successe una cosa che cambiò per sempre il corso della storia di Cormicchio. All’approssimarsi dello scoccare della mezzanotte, come consuetudine, i ragazzi della vallata si radunarono disciplinatamente ed in rigoroso silenzio in casa di nonno Pietrone. Tutti caricati a mille pronti ad ascoltare il tradizionale racconto pauroso del mitico nonno che gli avrebbe tolto il sonno per settimane. I ragazzi più anziani sapevano cogliere dalla postura del Pietrone se sarebbe stato un racconto di fascia alta o fascia bassa. Pinetto ,il più scafato, dopo un rapido sguardo sentenziò “Stanotte il nonno è in gran forma! Ci spiana”. Questo bastò a rendere l’aria ancora più gelida nonostante la temperatura da forno crematoio grazie al camino siderurgico. L’aspettativa rendeva il respiro corto e ghiacciato peggio di un calippo infilato su per il naso. Al dodicesimo p.m. rintocco del vetusto pendolo nonno Pietrone iniziò il racconto con voce pulita e sicura da vecchio saggio. “Era una di quelle notti buie, senza luna, senza stelle, quando il silenzio avvolge ogni cosa come una….unaaa…vabbè. Il glaciale inverno aveva sterminato generazioni di passeri, poiane, sule, gabbiani ed uno stambecco ora lì morente…un grido…un colpo…silenzio…il nulla…la nebbia e poi lontano si udì un afflato…” Seguì una lunga pausa. Molto lunga. Il tempo si era congelato. I ragazzi in attesa a bocca aperta ischemizzati. Solo il crepitio dell’ardere di cioppi di faggio nell’altoforno come colonna sonora. Silenzio. Colpo di tosse. Silenzio. Brusio. E’ morto? Pinetto prende coraggio e con grazia estrema, considerando il momento topico, sussurra a nonno Pietrone “Nonno e quindi?...l’afflato poi?...” il nonno sorpreso mette a fuoco il ragazzo utilizzando un nobile monocolo incrinato su un occhio opalescente. Con aria concentrata riprende “L’afflato…afflato…mmmhhh…no…voglio invece
raccontarvi un altro episodio che molti anni prima straziò il cuore di Annibale il calzolaio” la sala rumoreggiò per un attimo, si sentì anche qualche esclamazione pesante inerente a divinità suine. Ma Pinetto, da giovane ragazzo anziano, con un ssssshhh portentoso zittì gli astanti. Il nonno ricominciò. “Era una di quelle notti buie, senza luna, senza stelle…gelida… Galdieri il salumaio rientrava a casa dopo una lunga giornata di lavoro… stanco…silente…si udì un grido…un colpo…nebbia…fumi…e un lampo…” Seguì un’altra lunga pausa. Molto lunga, ma molto assai. Il camino scoppiettava timidamente mentre i ragazzi attendevano incantati completamente assorbiti dal racconto mozzafiato. Rigorosamente tutti con la bocca semi spalancata. Silenzio. Colpi di tosse sparsi. Silenzio. Intenso brusio. Pinetto riprende coraggio, con più voce e questa volta con aria scocciata “Nonno e quindi?...un lampo, e allora?” il nonno focalizza con più attenzione il giovane Pinetto, sempre attraverso il suo nobile monocolo incrinato, infilandosi un dito in una narice cavernosa riparte “Un lampo si si… lampo lampo lampooo…mmmmhhh…e se invece vi raccontassi la storia della mucca con due teste di frate Gelsomino?...quella si che è tosta!” la sala ondeggiò alquanto spazientita. Questa volta le divinità suine furono diverse e ben scandite. Ma il prode Pinetto con piglio da senatore cesariano placò gli animi spazientiti con un altro sssssssshhhh da 150 decibel abbondanti. Qualche timpano zompò ma fu cosa di poco conto ed il nonno riattaccò placido. “Era una di quelle notti buie, senza luna, senza neanche uno stambecco morente …Dino lo spazzacamino entrò nella stalla del gallo… gelida e buia…si udì in grido…un colpo…silenzio…neeeeeeeeeeeee…” non riuscì nemmeno a terminare la parola nebbia, che una ventina di giovani virgulti lo presero con tutta la poltrona e lo scaraventarono soddisfatti e compiaciuti nella bocca del camino alimentandolo a manetta che manco una locomotiva lanciata a tutto vapore su per la cordigliera andina. Pinetto, il più pacifico e tollerante, provò a salvare inutilmente almeno il suo magico plaid di puro pile che si carbonizzò all’istante. Purtroppo nonno Pietrone non aveva fatto i conti con la nuova generazione smartfonizzata; irascibile, impaziente, molto arrogante e poco incline al rimbambimento senile. Il primo cedimento gli fu ahimè, fatale. La tradizione si spezzò bruscamente. Da quel giorno Nonno Pietrone vive nel cuore, e sul display, di ogni abitante dell’incantevole vallata di Cormicchio. Per mantenere viva la magica tradizione, ogni vigilia di tutti santi, allo scoccare della mezzanotte la new generation lancia in tutta allegria, in un bel camino arroventato, un vecchietto in poltrona con plaid annesso, scambiandosi con gioia e commozione le foto tramite whatsapp. Un rituale delizioso. Quest’anno le previsioni sono ottime. Sarà una splendida annata. Previsti arrivi da tutte le parti del mondo di torpedoni stracarichi di nonni in poltrona plaids muniti. Ohh…Cormicchio mon amour. Il tetro silenzio fumoso…nebbia…un colpo…un afflato…uno scatto e poi… premere invio. Roberto Testa
UNA NOTTE DA CANI Il
Cane affilava i suoi denti. La notte prometteva bene. Abbastanza silenziosa, molto fredda, terribilmente nera. Per il soldato Lo Brusco era l’ultima notte. Almeno, era ciò che sperava con tutto se stesso. Ora stava montando di guardia. Il freddo gli arrivava alle spalle e sebbene, con il fucile pronto a sparare, dovesse star fermo, si muoveva facendo piccoli passi e saltelli. Si difendeva così dal gelo che gli trapassava i polmoni. Cane, in realtà, non affilava i suoi denti, ma tra questi stringeva un coltello. Un Belunga Citadel nuovo di zecca e dunque affilatissimo. Gli era arrivato dalla Cambogia. Lo aveva ammirato per due notti di fila scoprendo ogni piccolo dettaglio, l’imperfezione artigianale… gli era piaciuta la lama in stile drop, lucidata a specchio e brut de forge. Era un coltello robusto, con l’impugnatura rivestita in favoloso legno di betulla. Di coltelli se ne intendeva parecchio. Lo aveva baciato, lasciato luccicare al bagliore del fuoco del campo, ci si era specchiato allargando il sorriso, pochi denti color della terra. Quei nove centimetri e mezzo di lama erano sufficienti per colpire ed uccidere, il resto del lavoro lo avrebbe fatto con la Griz Saw, la sega da ossa che si era fatto arrivare dall’America. Non aveva voluto il fucile, voleva sentire il fiotto caldo dell’avversario, vederlo mentre gli faceva il lago intorno alle scarpe, poi, tornare con le mani sporche di sangue nemico. Avrebbe consegnato al suo capo anche un pezzo dell’uomo da lasciare girare sul fuoco per darlo in pasto agli animali del campo: pecore, asini e galline. Per questo aveva con sé la sega. Non era previsto quest’altro rituale, a lui era stato detto solo di uccidere. Ma per Cane uccidere non era sufficiente. Rideva tra sé e pensava che “uccidere e basta” sarebbe stato come una scopata veloce pagata poche rupie. Al soldato Lo Brusco scappava la “piscia”, ultimamente era sempre così, nemmeno due ore e la vescica non gli reggeva più. Appena tornato in Italia avrebbe fatto qualche controllo. Quel cazzo di piscia stava diventando un problema serio, serissimo! Fare la guardia da solo non gli piaceva, ma ormai metà del battaglione era rientrato, si trattava dell’ultima notte. All’alba si smontava tutto l’armamentario. Dunque, doveva stringere i denti e le gambe per sopportare le ultime ore di guardia. Di tanto in tanto gridava un “chi va là” imbracciando e puntando il fucile sul buio, ne approfittava per sopportare quel freddo da cani. Adesso pensava alle spese per il matrimonio. Teresa non gli aveva dato scampo, non aveva ceduto alla sua proposta di convivenza: «O mi sposi oppure amici come prima!» E lui era partito.
Per la gioia del suo Comandante e con la scusa di portare la pace nel modo, era partito. In realtà voleva evitare la guerra in famiglia. Teresa sognava le cose in grande e con quei quindicimila euro guadagnati sul campo (era proprio il caso di dirlo) Lo Brusco non ci avrebbe pagato nemmeno il ristorante! Era a questo che pensava mentre Cane scivolava come una serpe sulla terra inumidita dalla notte. Era già entro il muro di cinta quando Lo Brusco aveva intimato l’ennesimo “chi va là” guardando da tutt’altra parte. Avrebbe avuto un buon odore, Lo Brusco, almeno la coscia che sarebbe finita sul fuoco. A Cane avrebbe ricordato quello delle capre selvatiche dei monti Salang; avrebbe gioito, brandito la sega per aria ridendo. E per lui, la guerra sarebbe stata già vinta. A Lo Brusco scappava la piscia. “E porca miseria!” Si sarebbe potuto beccare una punizione esemplare! Lo tirò fuori voltandosi verso il punto più buio, il fiotto caldo irrorò Cane e il suo coltello Belunga! La sorpresa fu tanta, troppa! Cane non ebbe il tempo di pararsi la faccia. La colluttazione ebbe i gesti rapidi di chi è abituato alla guerriglia. Alle fitte che raggiungevano entrambi non si poteva dar retta… Era uno tosto Lo Brusco e anche con le braghe slacciate e il fucile caduto per terra, sapeva come strozzare una bestia! Adelaide J. Pellitteri
LA VERA Greta
sollevò la mano a proteggersi gli occhi dal sole forte che picchiava caldo a mezzogiorno. Guardava la barca alla fonda poco distante dalla battigia. Era una nuotata da niente per lei. Ripensò alla sera prima, era stato come sempre un incontro piacevole. Era in albergo da quasi una settimana, si era sentita addosso gli sguardi di Nicola sin dal primo giorno. Era un tipo affascinante, alto, spalle larghe, denti perfetti, belle mani, tutte caratteristiche che le facevano notare un uomo. Ma questo non sarebbe bastato se non fosse stato interessante anche nel parlare. L’approccio era stato banale, in piscina. Nuota bene, le aveva detto, ha stile, aveva continuato. Grazie, era stata la sua risposta asciutta. Lei è di queste parti, aveva insistito lui. Non do informazioni personali agli sconosciuti, aveva ribattuto lei con un mezzo sorriso. Solo mezzo, ma a lui era bastato per cominciare a parlare in modo educato e raffinato, tanto che sarebbe stato scortese non rispondergli. Dopo alcuni giorni di piacevoli conversazioni e qualche cena condivisa allo stesso tavolo, lui le chiese se avrebbe gradito fare un giro in barca. La mia “Diletta” è ormeggiata alla boa di fronte alla spiaggia dell’isolotto, potrei venire a prenderla col gommone domani mattina, mi dica di sì, la prego, aveva insistito. La sua barca ha una scaletta immagino? chiese lei. Beh, certo, ce l’ha, fu la risposta prevedibile di lui. Allora non le dico né si né no, lasci la scaletta fuori bordo, se deciderò per il si, verrò da sola. Non vorrà mica farsela a nuoto, è lontana, concluse lui. L’ha detto lei ricorda, nuoto bene, me la caverò, rispose allontanandosi. Lasciò cadere il telo da mare sulla sabbia e tolse i sandali. L’acqua era il suo elemento, anche se, come sempre, prima di buttarsi ci mise un tempo infinito. In piscina si tuffava e basta, ma il mare era cosa diversa, lei lo accarezzava, entrava lentamente quasi chiedendo permesso, lasciava che fossero i suoi passi a farla bagnare millimetro dopo millimetro, solo quando l’acqua raggiungeva la vita, si lasciava scivolare allungando le braccia davanti a se, le distendeva, le allargava in grandi cerchi per farle tornare alla posizione primitiva. Dopo essersi goduta tutte le liquide carezze, cominciava a nuotare con bracciate vigorose, aveva il pieno controllo del respiro, lo misurava ripetendo il suo mantra: mare io ti amo, mare io ti temo, scandendo le parole come un orologio. La barca, una dodici metri a vela, bianca, col suo nome tutto svolazzi scritto in rosso sulla fiancata di dritta, beccheggiava silenziosa con la sua scaletta penzolante, l’afferrò sicura e vi si issò leggera e agile come un pesce volante. Tutto era silenzio. Provò a chiamare Nicola. Nessuna risposta. Le sembrava un comportamento curioso, fare prima un invito e poi non farsi trovare. Forse era giù in cabina. Scese le scalette che dal ponte portavano al living, l’ambiente era confortevole, il tek e l’acciaio si sposavano perfettamente coi colori naturali delle stoffe dei divani. Sul piano da lavoro, come dimenticato, era appoggiato un grosso coltello da cucina. Forse Nicola aveva cucinato ed era andato a farsi una doccia. Non era probabile, nessun
rumore veniva dalle cabine e nessun profumo di cibo veniva dalla cucina che, a parte il coltello, pareva asettica come se qualcuno avesse disinfettato tutto per non lasciar né disordine, né un granello di sale. La nuotata le aveva fatto venire una gran sete, avrebbe voluto bere un po d’acqua ma non voleva essere maleducata e frugare in giro come fosse stata a casa sua. Fece per avvicinarsi al lavandino per bagnarsi la bocca con l’acqua del rubinetto, ma un improvviso beccheggio, ce la spinse con forza, senza darle il tempo di afferrarsi a qualcosa, fu in un istante che la sua mente registrò due cose, il contenuto dell’acquaio e il fatto che la barca si stesse muovendo. Con gli arti paralizzati e le nocche bianche per la forza con cui stringeva il bordo del lavandino guardava le due falangi umane e femminili in fondo all’acquaio, erano immerse nel sangue come in un piatto sporco. Cercò di riprendere fiato e indietreggiò senza riuscire a voltarsi urtando qualcosa. Con una reazione del tutto fuori luogo, si girò per raccogliere quel che era caduto e solo allora vide la foto appesa alla parete. Era una donna come lei, la stessa età, gli stessi capelli, gli stessi occhi. Ma non era lei, questo lo sapeva con certezza, la donna nella foto abbracciava Nicola in una nuvola di veli e organza. Ebbe un conato e lasciò che un fiotto acido sporcasse il pavimento immacolato. Non doveva fare rumore. Si asciugò gli occhi e cercò tra le lacrime di trovare la scala per tornare sul ponte. Nicola le dava le spalle, era tranquillo, al timone. Hai dormito bene cara? Le disse. Poi, senza aspettare risposta aggiunse, allontanando il braccio dal timone e mostrandole il piccolo cerchietto dorato che teneva in mano, tieni, hai dimenticato la fede giù in cucina. Greta non riusciva a staccare lo sguardo dalle sue spalle e dalla sua mano. Si svegliò improvvisamente dal torpore e mise a fuoco l’orrore che le stava intorno. Si voltò indietro e vide le persone sulla spiaggia piccole come formiche. Non pensò all’altezza nè alla velocità della barca, lui era solo, non poteva governarla più veloce della sua paura. Salì sulla fiancata e si buttò in acqua. L’impatto fu duro, andò a fondo scompostamente ma non risalì prima di essersi spostata, a suo giudizio, sufficientemente dai gorghi della barca. Sapeva trattenere il fiato a lungo lei. Salì in superficie e cominciò a nuotare come non aveva mai nuotato. Sentiva alle sue spalle qualcuno che urlava un nome che non era il suo. Era una voce furiosa, disumana, torna qui, diceva, torna qui è inutile, non ce la farai mai, poi un ultimo urlo strozzato, ti ritrovo, vengo a prenderti. I polmoni sembravano non riuscire più a pompare aria, il cuore aveva superato tutti i gradi di tachicardia che conoscesse, le braccia ad ogni spinta sembravano di piombo ma lei continuava a nuotare, senza tregua, senza guardarsi una volta indietro, senza guardare una volta avanti per vedere quanto mancava alla riva. Doveva nuotare, solo questo sapeva, più forte di quanto avesse mai nuotato. Solo quando senti la sabbia tra le dita si rese conto di essere arrivata. Si voltò di fianco e vide due bambini con l’acqua alle ginocchia, continuarono a giocare senza badare a lei.
Non seppe mai quanto tempo restò lì ferma, sentendosi protetta dalla presenza dei bambini che giocavano nell'acqua bassa. Dovette camminare a lungo per tornare verso l’albergo, seguì il bagnasciuga, si fermò di fronte a un capannello di persone. C’era la polizia e al limitare della spiaggia un’ambulanza. Guardavano tutti il corpo esangue adagiato sulla sabbia. Il livore della pelle rovinava le sembianze di una donna altrimenti bella. La guardò attonita, osservò la mano sinistra a cui mancava l’anulare. Le sfuggì un singhiozzo muto. Solo quando si inginocchiò per guardare meglio il suo stesso viso, si accorse che, nessuno, vedeva lei. Grilletto Salterino
LA FIGLIA Gracile
lo era sempre stata. Sedeva davanti all'ingresso di casa e guardava gli altri giocare. La strada per lei era pericolosa le ripeteva ogni giorno sua madre. Poteva guardare, ecco. Doveva bastarle quello. Non sapeva leggere. I medici interpellati avevano riso in faccia a sua madre. Cosa mai voleva? Doveva accontentarsi che aprisse gli occhi al mattino e stesse con lei per tutto il giorno. Che l'indomani avrebbe avuto solo da ringraziare il cielo se quel corpicino magro e ridotto alla conta delle ossa riusciva ancora ad uscire dalle coperte. E infine scuotevano la testa. Che croce le aveva dato il buon Dio, pensava allora la donna. Una figlia così è un secondo lavoro. Il primo riusciva a sfamarle appena e di ritorno a casa non poteva sperare in un sorriso. Mai che le corresse incontro, abbracciandola, e facendola sentire felice seppur di quel poco calore che poteva produrre quella figliola così minuta. Era tuttavia una donna forte per quanto sola. Il marito se ne era andato, come in quei fotoromanzi, che leggeva a volte per distrarsi. L'aveva abbandonata senza dare spiegazioni, a lei o a quella figlia mai amata. Ingombrante per casa, anche se silenziosa e spesso immobile su qualche poltrona. Si era decisa tuttavia a non abbattersi. Non avrebbe fatto mancare nulla a sua figlia, anche se la missione avrebbe richiesto sacrifici: molte ore in più al lavoro, niente vita sociale, niente parrucchiera. I capelli se li faceva a casa. Era un piccolo rito quello, e in fondo non le dispiaceva se poi venivano tutti strani o più lunghi da una parte. Sedeva in bagno, davanti al lavandino, con la figlia come compagnia. In fondo le pareva di stare lo stesso nel negozio di una parrucchiera, anche se parlava solo lei. E si rispondeva. Oh che grandi chiacchierate mentre aspettava che si asciugassero i capelli, per poi passarci il balsamo che si faceva da sola con l'aceto di mele. I giorni non le pesavano. I mesi si chiudevano sempre in pari coi conti. Lo scorrere del tempo le lasciava però solo un unico pensiero: che ne sarebbe stato di sua figlia una volta morta lei? Questo pensiero la tormentava. Chi si sarebbe preso cura di quelle gambe secche incapaci di correre? Chi avrebbe potuto intuire da quegli occhi spenti i bisogni che andavano soddisfatti senza chiedere? Cinquant'anni da sola con quella bambina da accudire le sembrarono troppi dopo l'ennesimo sorriso di compassione sfuggito al suo medico, un giorno che era in visita per accertarsi che la bronchite non fosse così grave. Un mattino di vento si decise per l'unica soluzione che le parve accettabile. Nell’attimo in cui la concepì vide tutto con occhi diversi. Anche il passato. Vide il marito sbattere la porta urlando che era una pazza. Vide i medici, i vicini, le donne del paese che la compativano e si davano di gomito, mentre passeggiava col quel burattino che chiamava “figlia”. Rassegnata e muta prese dalla legnaia l'ascia con la quale ancora adesso, nonostante l'età, si procurava da sola la legna per il camino. Prese delicatamente la figlia dalla
solita poltrona e la adagiò a terra. Calò su di lei una serie di colpi, precisi e secchi. Piangendo. Nella sua mente sentiva le urla strazianti della piccola. Vedeva il sangue schizzare per la stanza e sentiva il rumore delle ossa rompersi. Ma si ripeteva caparbia che erano solo fantasie. Prese infine i resti, di quell’unica figlia che era riuscita ad avere, di quel’unica compagnia che ha accolto i giorni con lei per oltre cinquantenni, e li mise nel camino. Quella vecchia legna, seppur accuratamente dipinta con colori a olio, spesso ravvivati nel tempo, bruciò in fretta. La donna rimase seduta davanti al camino finché l'ultimo tizzone non fu spento, finché non si convinse che i gemiti di dolore della piccola non fossero finiti. Immerse le mani nella cenere che andava raffreddandosi e se ne sparse un po' tra i capelli e sulle guance. Salì al secondo piano della casa e da quello, attraverso una scaletta esterna, raggiunse il tetto. Guardò il vento ripulirle le mani dalla cenere che volava via anche dai suoi capelli, formando piccole nubi nere ben visibili nel grigio del cielo. E le raggiunse in volo. Gianluca Meis
TU NON DEVI SAPERE Riccardo non riusciva a capire proprio dove potesse andare il bisnonno ogni sera tardi, quando lui invece doveva filare a dormire e zitto. - Potrei accompagnarlo qualche volta - diceva speranzoso a sua madre - Vai a letto, non ha bisogno di te, con lui ci sono i cani Anche se era piccolo, Riccardo pensava dentro di sé che non fosse bene, mandare un vecchio di novanta anni in giro di notte da solo. Il fatto che avesse al guinzaglio due bastardini non era certo una sicurezza. E poi Riccardo voleva sapere dove andava. Cosa faceva in quelle passeggiate notturne? Incontrava qualcuno? Pietro non diceva mai niente di sé. Parlava poco e passava le giornate chiuso nella sua stanza. Qualche volta lo sentiva parlare in una strana lingua che non conosceva. Erano cantilene, specie di preghiere. Poi, la notte usciva. - E’ come se non ci fosse – diceva la mamma alle sue amiche, quasi a volersi giustificare, quando la compativano per quella presenza. Lei non se l’era sentita di mettere il vecchio in qualche istituto, quando tutti gli altri della famiglia se ne erano andati, e lui era restato solo. Erano morti tutti. A dispetto degli anni, Pietro invece resisteva. - Il bisnonno era forse un marinaio? – aveva chiesto Riccardo alla mamma, che lo aveva fulminato con lo sguardo. Lei quel giorno stava misurando la pressione a Pietro, e lo sguardo di Riccardo aveva indugiato sull’avambraccio. Il vecchio aveva fatto finto di non sentire la domanda. Riccardo avrebbe dato chissà cosa per sapere qualcosa del passato. Ma del passato in casa loro non si doveva parlare. Quella sera però il ragazzino aveva avuto un colpo di fortuna. La mamma era stata chiamata da un’amica che aveva avuto un incidente e non sapeva come fare, perché era restata a piedi sulla tangenziale. La mamma era entrata nella sua stanza, e lui aveva finto di dormire, girato verso la parete. Il bisnonno era già pronto sul pianerottolo, con i cani. - Nonno, uscite anche stasera? – aveva sussurrato lei - Devo farlo – era stata la risposta semplice di Pietro. Per Riccardo era stata una cosa da niente. Aveva infilato la tuta da ginnastica sopra al pigiama, e tirato la porta a sé solo quando aveva sentito lo scatto del portone di sotto. Si era poi messo sulle tracce del bisnonno, facendo bene attenzione a non farsi sentire dai cani. La notte era strana e senza rumori. Pietro aveva percorso con sicurezza i viali che separavano la loro casa dalla stazione. Era entrato e aveva cominciato a costeggiare i binari, poi si era fermato vicino a un cartello, su cui stava scritto Tiburtina. Riccardo ora aveva freddo e tremava. Non aveva trovato il coraggio di uscire da sotto la pensilina della stazione. La nebbia era scesa all’improvviso, così fitta che non era riuscito più a vedere il bisnonno, anche se si trovava a pochi passi da lui. Si era guardato intorno. Tutto era diverso da come aveva visto pochi istanti prima. Era sparito l’acciaio
nella nuova stazione, e anche i suoi vetri brillanti. C’erano invece panche di legno e un orologio vecchio e tondo. La pavimentazione adesso era grigia e sconnessa. Cominciò a sentire dei passi. Si avvicinavano, sempre più forti. Si mise con le spalle contro il muro scrostato, mentre il cuore gli pulsava forte in gola. I passi diventarono una cadenza ben definita, quella di centinaia di scarponi. Allora li vide. Soldati in uniforme nera, armati. Davano ordini in una strana lingua. Dietro di loro, una lunga fila di persone con una stella gialla attaccata al petto. Avevano volti pallidi e stupiti. Qualcuno guardava in terra, molti invece avevano lo sguardo perso nel vuoto. In pochi minuti, con urla secche, le persone furono fatte salire su treni di legno, che ripartirono subito dopo. Poi la nebbia si alzò di colpo e Riccardo vide Pietro che piangeva, con i pugni alzati al cielo. Il ragazzo tornò correndo a casa e si infilò a letto vestito, mentre anche quel 16 ottobre finiva. Finiva ogni giorno, per Pietro, ormai da settanta anni. Roberta Lepri
ROSSOSSESIONE Marzo. Ore 6 del mattino. Stanza in penombra congestionata. Lei si svegliava, mi guardava con occhi gonfi, e si pizzicava il labbro inferiore coi denti. A forza di mordicchiare, sulla bocca le si apriva un taglietto colante, e così succhiava, mentre pennellava frasi in color fragola sul muro bianco. Poi, leccandosi le ferite infiammate del mattino, finiva di gocciolare in bagno. Tutto sempre uguale. Ogni giorno. D'altronde, non aveva impegni particolari: gracile freak mangiauomini/nullafacente/solitaria, campata da un padre in carriera in qualche Milano del Nord. Il nostro idillio è iniziato 10 anni fa, quando mi prendeva dalla mensola dello specchio di suo padre insudiciandomi di caldi sudori adolescenziali: sfilacciava per bene la sua frangia gothic-dark con la mia lama incrostata di fluidi e peluria raffermi e inerti su di lei... Lei, feticcio di un'attesa, di ricordi, di mai eseguiti e stra-accarezzati piani B. La routine è iniziata l'anno scorso, dopo la teoria dei colori caldi di Goethe: I colori non sono un puro fenomeno fisico, il rosso è PURA ENERGIA POSITIVA, Evocatore della distruzione, dell'aggressività, Sommo rappresentante del sangue, delle passioni, della vita, dell'amore, dell'istinto, del desiderio, bla, bla e bla. E allora smalto scarlatto a mani e piedi, mogano tra i capelli, versi vermigli tatuati quotidianamente sul muro, lenzuola amaranto; sul comò anelli-collanebracciali rubino; sul collo henné ramatofloreale, indelebile. Ovunque Divinità rosso-cromatiche da imbottigliare e tenere sotto il cuscino. Però, più di tutto amava ME; la lucidità argentea della mia superficie fredda, scabra, semi-arruginita agli angoli, sorretta da un cilindretto metallico spesso e forte, capace di adattarsi a volti virili, gambe femminee, capelli violacei, e di fare sempre e comunque il suo dovere, come un operaio preciso e sempre disponibile. Mi usava, e c'era della sensualità nei suoi sguardi attenti: un far l'amore mentale che non capivo dove l'avrebbe portata. …Il 1° di Maggio notò che ero perfetto per raccogliere il suo rosso: Solita penombra congestionata, da un lato vino rigorosamente rouge, dall'altro io, maneggiato con cura da ubriachi in mani sottili e smaltate. Lentamente, mi infilò in bocca, morbida cavità vellutata, carmìnia tra denti bianchissimi; non potevo NON farle male, accarezzato da quella lingua curiosa e vorace. Senza scomporsi, sputò liquidi sanguigni nel bicchiere del vino e ingurgitò
con soddisfazione l'intruglio appena creato: iniziò a farlo dopo ogni notte angosciata, per succhiare da quei rossi elementi l'energia cannibale che le serviva. Fu l'incipit di psicosi duali pelle-lama, lama-sangue, sangue-pelle. L'OSSESSIONE DIVENNE QUESTA: Si svegliava, Tutto già pronto sul comodino dalla sera prima, Accendeva lo stereo Mi prendeva con dita sonnolenti ...e iniziava la sua personale sinfonia corporea. Nella testa, antiche voci maschili: IDIOTA PUTTANA TROIA ADDIO. Ognuna era un nuovo taglio, lama orizzontale o verticale, su e giù su braccia madide di amato rosso-dolore, pelle sfilacciata, sacrificata come pellicola trasparente, scarificata sotto le mie cesoie affilate affondate affamate. Adesioni di guance su metalli, le mie piccole spade strisciavano lente su carni morbide, rigagnoli di sangue su lenzuola bianche e gambe scoperte; seni segnati di amato rosso-vita. Marchi preziosi, Abrasioni osservate lentamente, sensualmente; Rimirate ogni mattina nei suoi specchi, Pungolate per trarne rosso puro, stillato senza fretta, raccolto in boccette preziose da nascondere sotto il cuscino. In attesa sul comò, il pennello per le sue parolefragola da muro, un piattino che usava come tavolozza, vino e un calice per un cocktail con cui aiutare la vita. Smetteva di usarmi quando era soddisfatta dei suoi trofei liquidi e dei suoi ricami su pelle, squarci di future cicatrici carnali: forse vuoi controllare di esserCi ancora? Avrei voluto chiederglielo, ma sapeva solo bersi e maneggiarmi a piacimento, con quei polpastrelli imbrattati e scivolosi di color tiziano scuro. Lo straccio divenne un punto fisso sulla porta della stanza, color prugna indelebile di plasma rappreso. Il parquet era intriso di strisce concentriche mal pulite, impiastricciate, in forma qui e lì di semplice goccia impastata a frammenti di frangia sempre più corta, sempre più corta, sempre meno donna. Percorso da me al muro, dal muro allo stereo con dentro "NOIA” dei CCCP. Ferretti gracchiava, mentre il pennello fulvo si intingeva in quelle sue boccette o direttamente sulle braccia aperte; e poi, schiaffato sul bianco, scriveva: Apparentemente suicìdi, non ci era esente un tratto di follia. Che ci avrebbe sognato, per sempre. Lei sorrideva, pallida e bellissima: il suo sguardo vagava tra le pieghe di un corpo a brandelli, scarni e sanguinolenti brandelli. In fondo, un corpo ferito dentro uno specchio dentro uno specchio dentro uno specchio dentro uno specchio... Si rimirava sul vetro lucido, cosparso di altre parole di rossetto, alla ricerca di nuovi spazi da incidere e succhiare via.
Poi, un giorno in cui non pensi, ma senti strazi e lo senti, guardi mani tremanti che non si fermano, ploc-ploc e 1 - 2 - 40 gocce rituali. Troppe croste sul braccio contuso e pochi spazi per le nuove; vodka & spezie piccanti per ignorare il sapore-odore-acre di vita dentro il solito bloody-wine. “Aggiungiamo anche questa, due di queste pastiglie e un’altra di questa qui". L'orlo vermiglio delle labbra beve vorace, scorticato. Tutto è meticolosamente tremante, tutto in un silenzio tagliente, graffiante. Necessario. Scarti un Bacio Perugina, lo stringi, si scioglie ed è il tuo Calore nero, non più rosso, ma nero-torvo; ti specchi. Lacera bocca lecca adagio, prima del Clic. Ti cade, strappato dalla gravità, il secondo bloody-drink della giornata, come un feto estirpato grondante dal grembo, e ridi, colante. …Come sempre, non avete capito. Ed è il vuoto, zero pensieri, la mente in giravolte. Perdi il tempo, lo ritrovi. Un Cristo decomposto sulle braccia, piroette, le MIE lame Wilkinson arruginite, che in realtà non le vendono più, ma quelle erano state sufficiente per mesi. Occhi offuscati, scivola sul suo stesso liquido, su di me. Rotta, Piove grondante sul parquet. Non posso farci niente io, non ho mani, solo due lame. E non c'è luce di rossi soli caldi o di lampade artificiose qui, all’improvviso. C'è freddo Rosso Sangue in pozze di gocce, in pezzi di gocce. E' andata. Noemi Venturella
IL FORNO Mi
trascinavo stanco e debole senza poter prendere sonno. Era la mezzanotte e decisi di sfogliare un libro che mi conciliasse il sonno. Sulla soglia dei miei quarant'anni, nessuno oltre me ad animare questa casa. Solo il ricordo della mia mamma, Lenore, portata via in cielo, dopo che le dedicai tutta la vita, trascurando qualsiasi altra compagnia femminile. Ad un tratto sentii come un picchettio, un bussare lieve. “Lenore” sospirai “quanto mi manchi! Sei tornata atrovarmi”. Era dicembre ed era freddo e per riscaldare la stanza decisi di accendere il forno, in mancanza di altre fonti di riscaldamento che mi confortassero. “E' qualcuno che bussa alla porta, nient'altro, nessun fantasma” mi dissi per calmarmi. Ma portando il mio corpo dinanzi l'uscio, una volta apertolo, vidi solo il buio del pianerottelo. Di nuovo un'inquietudine mi assalì “Lenore, forse ho sentito il tuo nome? O sono io che lo pronuncio?” E tornando in cucina di nuovo udii quel picchiettare lieve. Sarà il vento, pensai. Mi avvicinai così al forno per accertarmi che fosse spento. Aprii lo sportello. Una forte energia mi lanciò distante, il forno emise scintille e poi fulmini, e al suo interno apparve un vortice nero pieno di tanti puntini luminosi. Sembrò che il cielo stesso, colpevole di aver preso mamma Lenore, si fosse messo in prigione, nel forno, per scontare la giusta pena per questo grave misfatto. Nella mia casa grigia, sui miei vestiti grigi, si propagò una luce strana. Le manopole del forno, accese come i due occhi del diavolo, mi fissavano. Lo sportello si apriva e si richiudeva come la bocca di Cerbero. Sei un mostro, dissi – ma la mia vita non l'avrai. Forno spettrale, che vieni dal buio, dimmi, qual'è il tuo nome? E il forno disse: Mai più! Che meraviglia provai a sentir quel forno dire qualcosa che non capii bene. Ma non disse oltre, il forno. Così rimasi incredulo a fantasticare cosa significasse tutto ciò. Disse il forno: Mai più! Guardavo il forno da lontano e mi sembrava che mi richiamasse dentro di sé dentro quel gorgo di stelle che aveva in bocca. Malvagio!Ti manda il Cielo! Gridai – lasciami riposare e prender sonno! Mangia il frutto dell'oblio e dimentica Lenore affinchè io possa sposarmi. Disse il forno: Mai più! Messaggero, dissi implorando – che prendi possesso della mia casa e della mia mente, dimmi, per bontà divina, c'è almeno una moglie per me nel tuo inferno?
Disse il forno: Mai più! Messaggero, ripetei – dimmi, in nome di quel cielo scintillante che porti in grembo, potrà un giorno la mia anima triste trovare una dolce vergine come Lenore? Disse il forno: Mai più! Forno o diavolo, torna fra i fulmini e le tempeste che ti hanno risvegliato e lasciami alla mia solitudine! Disse il forno: Mai più! E là, senza più muoversi, rimase fisso a guardare con i suoi occhi accesi, e i raggi della loro luce proiettarono un'ombra sul pavimento, e sentii che la mia anima non sarebbe stata libera, mai più. Mi decisi allora ad entrare nel forno. A carponi mi misi, iniziai così a camminare verso quel cielo, verso quel gorgo di stelle e, da esso venni risucchiato e sputato via, in un altro luogo. Disse il forno: Mai più! Mai più menzogne, mai più Lenore, mai più altre donne. Vuoi forse per me una vita di ascetismo? Chiesi allora alla voce. Disse il forno: Mai più! Sei stato già abbastanza solitario... Ma come te lo devo spiegare? Come? Mi guardai attorno per capire dove fossi giunto. Vidi un'arcobaleno di colori, di gente felice e solidale e mi sentii stranamente attratto da un uomo coi baffi. Forno! Ma niente niente... Disse il forno: ...fussi 'nù poco ricchione? Bravo! Adesso che l'hai capito sei libero dai fantasmi, libero di vivere pienamente la tua vita. Mi risvegliai nella poltrona in cucina, con il libro aperto sulle gambe. Il forno davanti a me era spento e grigio come sempre. “E' stato tutto un sogno?”. Sentii bussare alla porta. Scusi l'orario - era il mio vicino – ma ho perso le chiavi e non riesco ad entrare a casa. Può darmi il mazzo di scorta che le ho lasciato? Il mazzo, dice? Di scorta, dice? Ma si figuri, prego entri, non stavo affatto dormendo, le offro qualcosa. Il ritratto di Lenore, in camera da letto, chiuse gli occhi per non guardare. Ma non fu quella la cosa più strana di quella notte. Davide Francesco Torres
POLVERE Villa
Scabia non faceva bella mostra di sé, seminascosta tra le sterpaglie che l’avevano aggredita. Era disabitata da almeno venti anni. Il professor Rickett in verità era maestro elementare, lo chiamavano professore i suoi vicini di casa per rispetto e i suoi amici per sfottò. Villa Scabia era appartenuta alla zia di suo padre e adesso era sua. Un’eredità di cui avrebbe fatto a meno, lui, abituato alle comodità cittadine, ma visto che era l’unico erede, alla fine l’idea di possedere una villa con giardino lo aveva solleticato, dopo una risistemazione indispensabile dell’esterno e dell’interno, che non sembravano per niente abitabili. Entrò dal cancelletto cigolante e si fece strada lungo quello che doveva essere il vialetto d’accesso, prima che i rovi lo invadessero. Il silenzio lo circondava, insieme al grigio sporco di una vegetazione mummificata che a stento riusciva a mantenersi in vita incuneando le radici tra le pietre. Girò con qualche difficoltà la chiave di ferro pesante nella serratura e aprì in portone d’ingresso. La prima cosa fu un odore fortissimo di muffa, di una casa che non ha preso respiro da decenni, l’istinto fu di aprire le imposte delle finestre per lasciare entrare luce e ossigeno in quegli ambienti. Il giorno ebbe libero accesso e mise in evidenza il grande salotto in stile liberty con i mobili ancora tutti al loro posto, ricoperti da teli bianchi che ne rivelavano le forme, come se la zia si fosse allontanata da pochi giorni. Un divano a tre posti, due poltrone, un tavolino, e quella che sembrava una grande credenza con lo specchio, le sagome bianche di quella mobilia avevano l’aspetto di fantasmi imbalsamati. Il pavimento della stanza era ricoperto da uno strato soffice uniforme di lanugine, ogni passo produceva uno sbuffo di pulviscolo sottile, ma nessun rumore. Là! dietro il divano qualcosa si mosse di scatto, un guizzo veloce e ovattato. Là! Il professor Rickett ebbe un sussulto e indietreggiò, urtando una piccola consolle che si afflosciò sul pavimento, al suo posto rimase un mucchietto di polvere coperto dal telo bianco. D’impeto sollevò allora il lenzuolo che ricopriva il grande divano e questo franò in una gran nuvola mentre l’aria diventava irrespirabile. Scoprì gli altri mobili, le poltrone il tavolino la credenza, i mobili non c’erano, erano soltanto costruzioni perfette di lanugine polverosa custodite sotto i teli, mummie di mobili che si sfarinavano al minimo urto. In pochi secondi di frenesia, la stanza fu ridotta a un ammasso di stracci e polvere. Il professore respirava a fatica, si spinse verso l’uscita per trovare aria pulita, sentì qualcosa che gli solleticava una caviglia, nella nebbia del pulviscolo tagliata dai raggi del sole, riuscì a intravederne uno due dieci, poi sempre di più, erano acari della polvere enormi, della grandezza di un coniglio, con i loro rostri e le loro zampette irte di peli, si arrampicavano sui suoi pantaloni, corazzati e determinati. Il professor Rickett, con la gola piena
di polvere, agitava le braccia in modo sconnesso nel tentativo di scrollarseli di dosso, gli acari della polvere sono animali testardi. Quando a Villa Scabia trovarono il cadavere del professore, gli agenti di polizia cercarono di capire perché fosse composto e disteso sul pavimento che risultava ricoperto da una lanugine fitta, al centro di una stanza con i mobili nascosti da lenzuola bianche. Intorno non c’erano tracce, sembrava che la casa fosse disabitata da decenni, eppure il professore era sparito da soli tre giorni. Anche il corpo era coperto da un telo bianco. Il poliziotto più giovane ne sollevò un lembo e il professor Rickett si sfarinò sotto i suoi occhi, in una nuvola soffocante di polvere. Raimondo Quagliana
OFFRI E SOFFRI Io odio Halloween, a me mi piace la festa dei morti. Quelli belli, veri, quelli che li metti dentro a una cascia al cimitero dove i beccamorti ti trovano un posto neanche fossero i migliori posteggiatori abusivi di “Palemmo”. Quelli che se cerchi bene li vedi attraverso i pilastri dei fabbricati fine anni ’80. Sono loro che reggono questa città, la mia, lapidata e infiorata periodicamente. Io odio tutte quelle bancarelle trasformiste stagionali, dalle quali adesso sventolano le streghe sdentate dagli occhi baluginanti e le scope in mezzo alle cosce. Le zucche vuote, poi hanno un fascino agrodolce, ce ne sono tante in giro e le maschere anche di quelle ne ho viste tante da quando sono nato. Ne ho una anch’io. Dalla mia faccia però non si scolla e allora me ne metto una nuova di zecca stasera per l’occasione. Da quando c’è questa bella stronza festa americana, io posso andare in giro una notte all’anno indisturbato e seminare l’odio e il dolore che covo dentro. Posso bussare alla tua porta, graffiare con le mie unghie sporche e lerce, facendole stridere come gesso sui vetri, graffiandoti i nervi sottopelle. Facendoti rizzare il pelo. Quel pelo sullo stomaco che io non ho mai avuto ma che mi cresce tutto in una notte. Questa. Quella delle zucche zuccherate. Ero il più piccolo della mia classe, il più brutto. Disperatamente solo. Tutti hanno un compagno di banco, io no, ogni bambino in maniera diversa è amato dalla sua maestra, non io. Durante la ricreazione quando gli altri non erano occupati a tirarmi la terra addosso perché restavo punito in classe, io mi arrampicavo sulla cattedra mi calavo i calzoni e pisciavo dentro la borsa della cara maestra se ero più ispirato dentro al bicchiere che teneva sempre lì mezzo pieno e in bella vista. Un giorno mi scoprì e mi picchiò a sangue col righello di metallo, il suo strumento didattico preferito. Per giorni mi rimasero sulla pelle lineette e numerini piccoli, come me. Misuravano il mio dolore. La odiavo, ogni giorno di più. La odio ancora. Ho indossato il mio lenzuolino nero lucente dal teschio sorridente. Lei mi aspetta. E’ vecchia adesso e in pensione, ha preso l’abitudine di far entrare i teneri pargoletti che bussano alla sua porta inzuccati e americanizzati. “Trick or treat?” Offri o soffri? Offre, lei offre caramelle e dolci di croccante che prepara con le sue sordide mani, quelle stesse che mi hanno quasi strappato le orecchie, quelle con le quali mi toccava solo per picchiarmi. Soffri. Io soffro, ma non piango, ho ricacciato tutto dentro, all’altezza del cuore un grumo greve e nero che pur non aumentando di dimensioni diviene via via sempre più pesante. Il male di vivere, il desiderio di uccidere. E’ questo ciò che ha nutrito la bestia nera dentro di me, anche quando la mia vita è cambiata e ho girato il mondo, anche quando nessuno pareva notarmi più di tanto. Che gioia! Bussano con le loro manine piccine, da sotto i grandi cappelli a cono sfuggono treccine bionde, i buchi nei sorrisi e nei calzini corti. Io ho il mio sorriso senza carne immutabile e idiota, quello della morte. Io sto zitto, mi
accodo. Eccola la maestra, vecchina mite e raggrinzita, la sua risata fasulla di dentiera a me non m’incanta. M’insinuo come un ratto veloce e nella festosa concitazione sono già in casa, ho trovato un anfratto. Lei distribuisce dolci e carezze, sembra così materna. Io aspetto nella sua tana. Tra poco saremo soli. Lei ed io, il ratto si trasformerà in gatto. Adesso quel grumo nero che mi cova nel petto è caldissimo, sento il torace pulsare, mi risale fin sino alla bocca, come bile che vuol travasare. Secerne dalle narici, il mio ghost lenzuolino è umidiccio, l’odore è strano metallico. Ecco il segnale: un colpo secco poi uno due scatti di chiavistello il cinguettio è cessato. Siamo adesso grumo e la maestra. Metallo e carne secca. Sangue nero e la vecchia pallida di morte. Mi ha visto, si blocca, ritrova la voce falsa e gentile appena allarmata. “bambino cosa fai qui?” Ti sei smarrito? Vieni ti accompagno dagli altri!” Io non muovo un muscolo, anche se avverto che quella cosa nera ha cominciato a scivolarmi attraverso i calzoni, si forma una piccola pozza scura ai miei piedi. La vecchia adesso ha paura nel suo sguardo il dubbio. Si avvicina, mi strappa il lenzuolo di dosso ed io appaio in tutta la mia bellezza. Lei vede la mia testa calva, le mie braccia corte, le dita tozze, quasi senza palmo, le mie gambette storte. Certo, sono un po’ cambiato, ma non mi sono allungato di molto. I muscoli, quelli sì, me li sono fatti nelle gabbie pulendo lo sterco degli amici del caravanserraglio. Sono una piccola incudine. Compatto. Adesso lei è di pietra, sul viso si poggia appena l’ombra di un sorriso di dileggio quello della reminiscenza. Io scatto. Le lacero di netto quel sorriso che riposa la notte in un bicchiere. Maneggio bene il mio stiletto. Sono agile, sono un animale da circo. Per lei lo sono sempre stato. Devo far presto il mio cuore nero si sta disperdendo dagli orifizi, gocciola inesorabile, si fonde agli umori della vecchia cattiva maestra. Voglio il suo cuore ancora pulsante e tra un dolcetto e l’altro della vendetta faccio pasto. Adele Musso
BAGNO DI SANGUE Era il crepuscolo, il sole tramontava presto, la brezza marina portava l’odore delle alghe putride fino ai piani alti delle case, dove i bambini vomitavano una sera sì e una sera no. Le luci della città iniziavano ad accendersi, non tutte, c’erano sempre dei lampioni fulminati in quella zona, forse conseguenza di una scelta precisa dell’autore per creare l’atmosfera giusta. Dopo una giornata all’aria aperta, correndo da un ufficio all’altro, cercando di sgusciare tra le auto per non farsi ammazzare sulle strisce pedonali, Emoticann rientrava spossata e l’unica voglia impellente era anche quella più banale, una doccia tiepida e poi il divano comodo. Almeno una volta al giorno si interrogava sul perché di quel nome bizzarro che le aveva appioppato sua madre quando era nata, trentasette anni prima, quasi trentotto, era un nome poco comune, anzi mai sentito, un nome del cazzo. Solo pochi intimi la chiamavano Emoticann, alcuni colleghi la chiamavano Ticann, altri preferivano Cann, i più pigri la chiamavano Ann. Questo nome la faceva arrabbiare molto, e nel corso dell’adolescenza non erano stati pochi gli episodi di rissa, scatenati da storpiature anagrafiche e scherzi di vario genere. C’è una cosa che di solito succede in tutti i film, nel momento in cui il protagonista si spoglia ed entra nel box-doccia, un uomo penetra in casa passando dalla finestra e si nasconde dietro una tenda del salotto. In questo caso, la finestra era chiusa, la tapparella abbassata, l’uomo dovette percorrere tutto il perimetro esterno della casa e provare dalla porta di servizio sul retro. La porta dava direttamente nella cucina, con i coltelli sul piano di lavoro in granito. - Perfetto, pensò l’uomo, questo è un posto sicuro e tranquillo, aspetterò qui. Il sapone che Emoticann aveva comprato all’emporio cinese sapeva di salvia e rosmarino. L’uomo avvertì l’aroma che invadeva la casa insieme al vapore ed ebbe un fremito. Strinse nel pugno libero un lembo della tenda pesante che lo nascondeva alla vista. Emoticann finì di cantare un pezzo a caso degli Abba, si risciacquò sotto un getto d’acqua tiepida, indossò l’accappatoio, si spostò nella camera da letto, cominciò a cospargersi il corpo di olio profumato. Nell’ombra della cucina l’uomo cercava di captare il minimo rumore che gli facesse intuire la posizione della donna all’interno della casa e cosa stesse facendo, ma il ronzio continuo del motorino dell’autoclave copriva ogni suono. Doveva cambiare nascondiglio. Emoticann cominciò a vestirsi, era una donna minuta e agile, non ci impiegava mai più di tre minuti. L’uomo guardò l’orologio e ne approfittò per spostarsi nel bagno e intrufolarsi nella doccia. Emoticann entrò in cucina e si preparò la cena, qualcosa di leggero. L’uomo, dopo tre ore che stazionava nella doccia era già stanco. Era indispensabile
agire al più presto, non c’era molto tempo. Goran Bregovic, “Polizia Molto Arrabiata”, risuonò facendo vibrare i tramezzi sottili. La donna gridò a sé stessa: Marcolto! che poi era il nome di suo marito, si erano sposati a novembre di tre anni fa, lui stasera era fuori città per lavoro, anche lui con il suo nome del cazzo. Uscì di scatto dalla cucina e corse in bagno dove aveva dimenticato il cellulare che suonava a volume massimo. L’uomo nel bagno gli era preso un mezzo colpo allo scatenarsi della suoneria balcanica, sperava di non essere scoperto, altrimenti sarebbe saltato tutto. Il vapore rendeva viscide le pareti e il pavimento di ceramica. Entrando in bagno, Emoticann si accorse che il box-doccia era chiuso e un’ombra scura si muoveva al suo interno, Emoticann sussultò scivolò sgraziatamente e finì lunga per terra, senza procurarsi la minima contusione. L’uomo nella doccia sentì lo schianto della caduta e si agitò. Vuoi vedere che questa qui si fa male da sola? pensò, e si precipitò fuori per accertarsene. Poggiò il piede sulla saponetta alla salvia e rosmarino, planando dritto verso il bidet e contro lo spigolo di questo fine pezzo di design, l’uomo si spaccò la testa e ci rimase secco. Emoticann, ancora stordita per la caduta, si voltò lentamente e si accorse che le sue dita sguazzavano in una pozzanghera di sangue caldo che si spandeva a vista d’occhio, se lo sentì salire alle tempie anche se non era il suo, tutto il bagno era devastato da schizzi di sangue, e anche lei, dopo la doccia appena fatta. Poi vide gli ultimi sussulti dell’uomo di mezza età in giacca e cravatta, con la testa aperta, che la guardava con gli occhi verdi e assenti, nella mano destra tre rose rosse. - Cazzo, Marcolto, pensò stizzita, sei il solito stronzo. Raimondo Quagliana
IL CAPITANO ITALIANO E LA CASA DELL’EBREO Tra
fumi d'alcool e diverse altre alcune cose occorse in questa primavera spiazzante, satura di eventi: bombe che alzano asfalto, lenzuola sbandierate al vento intinte di rosso come il sangue dei morti ammazzati, cortei umani e catene umane, strette le mani l'una all'altro come nel girotondo dell'asilo, non mancano i mazzi di rose di S.Rita, le donne in nero, ma anche in rosso, giallo e a colori che affollano il chiostro quattrocentesco di S. Agostino, e i preti affannati a benedire. Faccio un sogno. Non so l'alcool, o l'agitazione derivata dalle scene vissute, ma sogno e sono consapevole che non lo è. Sono in un edificio scuro, dapprima non vedo bene, scendo i gradini e la sala è illuminata da vetrate. Intravedo bene solo la luce filtrata, poi nulla, tutto è avvolto da una nebbiolina che appanna i contorni, attorno a me non ci sono persone, nè arredi. Solo carta. Carta, inspiegabili quantitativi di carta collocata lungo i muri delle stanze. In cumuli, pacchi, carpette, registri, faldoni, dentro scrivanie, scaffali, scanzie... Le percorro tutte in fila le stanze, sono infilate una dentro l'altra come nelle case antiche e tutte sono invase da cumuli di carta ingiallita, impolverata. Gli stivali mi coprono fino alle ginocchia e una divisa scura mi tiene il corpo irrigidito, il cappello da ufficiale mi serra le tempie, e istintivamente porto la mano alla fondina della Beretta MAB 38. Questo è il mio alloggio, una stanza con i miei effetti personali, la mia pipa, i miei classici di guerra, il mio cognac e i sigari da fumare in assoluto relax. Non sopporto intrusi, nè agguati. La guerra è lontana, i dispacci raccontano degli stati maggiori, i bombardamenti su Londra, le trincee in Normandia, le deportazioni. Ma è lontana. Talmente lontana. Ma qualcosa l'ho messa a segno anch'io: ho messo le mani su quello sporco ebreo qui a due passi dalla caserma. Villa Ahrens sconfina il suo giardino sulla porta d'ingresso della caserma, si sente il padrone di tutto, questo sporco ebreo semita. Si sono venduti il corpo di Cristo e sarebbero capaci di vendersi il cuore a pezzi. Usurai e avari. L'ho stanato come un lurido topo di fogna, nelle cantine della Villa. Il ficus ha ramificato fin dentro le finestre della caserma ed è apparso quell' omino biondo, gesticolando. - Sono il giardiniere di villa Ahrens, quel ficus appartiene al giardino della villa non può abbatterlo. Ho pensato per un momento che aveva ragione. Sono italiano io, non sono tedesco. Amo la bellezza e sono pronto a chiudere un occhio, anche due se di mezzo c'è una bella donna che mi apre le cosce. E quella donna potrebbe essere la signora bionda che vedo nascosta tra le tende. Mi fremono le narici per l'odore che zaffa malgrado la distanza. Mi fremono i muscoli che vorrei scaricare dentro quel corpo di burro. Una bella mattanza. I giardini e la villa appartengono ad un tedesco ebreo, Ahrens, dicono che la moglie sia di una bellezza teutonica. Gli ha promesso la mano con un
telegramma: ja. Una sola parola, simbolo della parsimonia e avarizia. Uno spreco dire di più. Chiedo di incontrarla, non abbatterò il ficus solo se mi riceverà. Le restano poche possibilità per non accettare, deve essere carina con chi le toglierà il marito, la casa, gli averi, il vino, i tessuti, le perle. I commerci che quello squallido unto ebreo porta avanti, ma la guerra ha fermato ogni cosa. Deve essere carina per forza, le perle non le riempiono il bicchiere, le trine dei colletti si consumano, le sete perdono lucentezza. Mi accoglie con stile. Ma la freddezza è di questo popolo, niente potrà scalfirla, la bellezza non l'attenua. Sarà azzurra e bionda e come un tenero agnello sacrificale cederà al nemico forte e sinuoso. Sono italiano, non tedesco, la piegherò con la seduzione e la stritolerò tra le mie spire. Scendono le scale, i passi pesanti divengono felpati, le baionette in armi passeranno da parte a parte chi si opporrà, fino alla pesante porta che chiude le cantine. L'odore di vino satura ogni cellula dell'olfatto, ma non copre quella del sudore diaccio di paura. Avrà sentito i passi, il trambusto, le voci. - Gradisce un pò di vino Ahrens?- la voce le trema ma non lo sguardo. Limpido e offuscato in fondo mentre corruccia le sopracciglia. Cosa sarà? Resterò intrappolato nelle sue bionde e azzurre spire? Il serpente diventa cardellino?! Le sfioro il polso mentre mi porge il bicchiere e le rimando - Il vostro commercio di vini con la guerra ha avuto un tracollo! Non fa una grinza. Indugia sul mio polso. E accendendo un sigaro, lei una sigaretta, attraverso i fumi ci misuriamo, con quanta certezza in ambedue non è dato sapere. Le cameriere vengono ammotolite, spinte contro i muri, imbavagliate, legate e allontanate verso stanze remote. Gli uomini, senza un grido, abbandonano la casa, correndo. Dietro la porta pesante si consuma il terrore dell'uomo. - Solo a una condizione - lei dice- Che mio marito sia salvo! La mattanza può ora iniziare, lei si offre al sacrificio nuziale. Lancio il berretto a visiera dalla finestra, fa un volo elegante cadendo, sarà il segnale, io non lo vedo già. Gli uomini in attesa dietro la pesante porta, non fiatano, attendono. E' maggio, l'odore di rose è come ogni anno. Si intreccia la festa di S.Rita alle rinnovate celebrazioni delle stragi. La benedizione delle rose e le stragi. "La scuola adotta un monumento" quest'anno ci porta alle ville e il mare. Palermo è in festa, anno 1998, sono passati cinque anni. Le visite ai luoghi adottati dalle scuole sono intensissime: le ville della Piana dei Colli, case e ville patrizie del '700, disseminate nella piana delimitata dai colli Gallo, Billiemi e Monte Pellegrino. Oggi visiterò villa Adriana detta del Cassaro e poi anche detta "Bordonaro" da Adriana Bordonaro che ne fu proprietaria. La brochure che il giovane studente mi porge con un sorriso recita: Negli anni prossimi alla seconda guerra mondiale la zona fu interessata dallo stanziamento dell'Esercito che vi realizzò dei magazzini e una caserma; anche la villa venne occupata dalle truppe per un breve periodo. Poco distante da villa Adriana sorge Villa Ahrens un tempo appartenuta ad un ebreo tedesco dedito alla produzione di vini e al commercio di tessuti. Il fregio
con l'uva sul portico ne è testimonianza. Durante la guerra fu confiscato l'edificio e perse, oltre alla casa, i commerci cui si era dedicato. Si racconta che la moglie, una nobildonna tedesca, rispose alla sua proposta di nozze con un telegramma: ja. L'ultima delle eredi conserva ancora il telegramma dentro un monile appeso al collo, come portafortuna. Dopo la confisca l'edificio divenne proprietà dell'esercito ed archivio di questo. Lo è ancora oggi. Chissà perché penso ad un sogno di tanti anni fa, nitido malgrado il tempo passato, in cui il sogno sembrava realtà, e una villa e un ufficiale...ed io...ero dunque... Non è possibile!!! Clotilde Alizzi
ROSSO SANGUE BORGOGNA Abbazia di Saint-Bertin, Francia 8 Giugno 1940 Non fu la pioggia battente né il vento sferzante contro la finestra della cella a destare dal sonno Fra Zènobè, bensì il fragore dei colpi inferti sul duro legno della sua porta. La voce concitata di Fra Xavier gli fece capire all’istante che il loro tempo era giunto al termine, il momento tanto temuto era arrivato. Dovevano scappare, immediatamente, e non per salvare i loro corpi né tantomeno le loro povere anime, ormai perdute e condannate da tanto tempo. Avevano un orrido segreto da celare, da far scivolare nell’oblio, mai sarebbe dovuto finire tra le mani nere delle SS. Scapparono come due indemoniati, il loro saio ondeggiava in una macabra danza attraverso i corridoi del convento. Tutti i fratelli usciti dalle celle correvano terrorizzati, nessuno era concretamente preparato all’arrivo della Wermacht pur sapendo da settimane che il destino della regione e quindi dell’abbazia era segnato. Fra Zènobè e Fra Xavier raggiunsero i sotterranei, superarono un’entrata nota soltanto a pochi eletti e con enorme fatica spostarono il pesante lastrone di pietra che copriva l’accesso a una cripta segreta. Nessuna anima benedetta da Dio vi aveva messo mai piede senza dover poi riemergerne corrotta e irrimediabilmente perduta. Si guardarono negli occhi, e ricolmi di triste rassegnazione si calarono nella cripta, il buio che li avvolgeva li faceva sentire ancora più indifesi, ma ormai non aveva più nessuna importanza. Con enormi sforzi riuscirono a rimettere a posto il lastrone di pietra sopra le loro teste e cominciarono a scendere verso l’abisso. Fra Xavier accese una lampada a olio che rischiarava appena le umide scale di dura pietra. Ormai da sopra non giungeva più alcun rumore, erano lì da soli per compiere l’ultimo passo del loro empio cammino cominciato decenni prima. Alla fine delle scale che sembravano non finire mai, si aprì davanti ai loro occhi una grande camera orridamente ormata, sculture e opere immonde la arredavano, ed era quanto di peggio un’anima corrotta dal male potesse produrre. Tre giacigli di pietra sorgevano ai piedi di un nero altare, proprio sotto una parete divorata dall’umidità, il fetore di muschio e di disfacimento era insopportabile. Con esitazione Fra Zènobè scavalcò la pietra che circondava un sepolcro e vi si distese. Ebbe un moto di ribrezzo nel sentire la dura e umida pietra sotto la testa. Fra Xavier fece altrettanto nella sepoltura a lui destinata. Così si trovarono a entrambi i lati del nero giaciglio più grande, unico oggetto in quella cripta che appariva assolutamente intonso, senza che la corruzione del tempo gli avesse arrecato alcun danno. Le ultime parole che Fra Zènobè udì prima di scivolare nell’oblio furono di Fra Xavier che implorava il perdono di Dio per la sua anima, ma alle sue orecchie suonarono più come una bestemmia che come un sincero pentimento. Dopo solo buio.
Montpellier, Francia 10 Ottobre 2012 Fu con allegro stupore che Didier De Guy, aprì la spartana busta che aveva appena tirato fuori dalla cassetta della posta, un invito a trascorrere un’intera settimana presso un’abbazia da poco restaurata era quanto di meglio potesse desiderare per cercare di finire quel romando giallo che ormai giaceva sulla sua scrivania più immobile di un paraplegico cui avevano sottratto la sedia a rotelle. <Affinché la vostra mente e il vostro corpo si riconcilino con la natura sul sentiero del Signore>, a Didier era sembrata un po’ stucchevole come frase da stampare su un invito, ma non era il tipo da rifiutare una vacanza gratis, ci sarebbe andato, anche se il foglio fosse stato pieno di errori grammaticali, cavolo se ci sarebbe andato, non fosse altro per non subire le martellanti telefonate del suo editore, che gli stava alle calcagna peggio di un cane rabbioso. Saint-Bertin, Francia 25 Ottobre 2012 Sceso dall’aereo, Didier impiegò diverse ore e svariate bestemmie prima di trovare la strada per l’Abbazia. Quando la sua vescica fu sul punto di esplodere, la sua bocca trattene una maledizione nel vedere dinanzi a se il corpo principale di quella che sembrava essere la sua destinazione. Maestosa! Era l’aggettivo che gli venne in testa, appena la vide, ma l’urgenza di urinare non gli permise di indugiare in altre osservazioni, almeno non in quel momento, pensò. I frati lo accolsero con gentilezza ma con una freddezza di sguardi che non si aspettava. Dopo essersi sistemato e rinfrescato gli fu comunicato l’orario dei pasti e le diverse regole cui attenersi. Dettami che si promise di rispettare. Scese nel grande salone adibito ai pasti e fece la conoscenza di Fra Zèbèno, un uomo minuto dai modi duri, di poche ma decise parole. Si presentava con due occhietti piccoli ed esageratamente sporgenti, delle labbra sottili, un naso davvero inesistente e un cranio privo di capelli ma attraversato da vene bluastre che sembravano sul punto di esplodere. Nel breve intervallo in cui vi dialogò, Didier ebbe la sensazione che quegli occhi lo scrutassero nel profondo. Al pari degli altri frati, pur essendo chiaramente il capo della baracca, Fra Zèbèno aveva un’aria di durezza che sembrava andare oltre a quello che richiedeva il suo ruolo. Didier provava un pungente disagio nel sostenere quello sguardo, chiese soltanto se fosse l’unico ospite dell’abbazia. Gli fu spiegato che ogni settimana erano invitati due uomini di cultura affinché potessero esprimere dei pareri scevri da pregiudizi sulla vita che conducevano i frati. Al contempo confidavano che una volta terminata l’esperienza, presso l’abbazia, potessero diffondere al mondo esterno l’importanza della loro opera di divulgatori e servi della parola di Dio. Si affrettò a terminare la discussione e prese posto a tavola. Davvero un astuto modo di farsi pubblicità, anche la religione ormai è
entrata nel business, pensò Didier non senza una punta di sarcasmo. Durante la cena gli dissero inoltre che François Merrote, uno storico di origini catalane, che avrebbe dovuto dividere con lui il soggiorno presso l’abbazia, li avrebbe raggiunti solo con qualche giorno di ritardo dovuto a un contrattempo. La cena diversamente da quanto immaginava fu abbondante e il vino, uno splendido Borgogna non mancò di riempire più volte il suo bicchiere e di offuscare i suoi pensieri. Terminato il pasto, con grande fatica riuscì a raggiungere la sua cella, e senza nemmeno svestirsi piombò sul letto in un sonno profondo. I seguenti tre giorni trascorsero scanditi dalle stesse consuetudini, leggera colazione la mattina, passeggiata nel vicino bosco e pranzo. Durante una delle sue lunghe e abituali passeggiate lungo il perimetro dell’abbazia aveva notato una piccola costruzione adiacente al muro di cinta. Sempre alla ricerca di nuovi spunti per il suo romanzo che continuava a languire sul tavolo della sua cella, si avvicinò alla casa, e si diresse verso la finestra di quella che sembrava la cucina. L’abitazione aveva un’aria infelice, dava la sensazione di essere disabitata da molto tempo, il giardino prospicente era pieno di erbacce e dappertutto vi erano segni di disfacimento. Fece attenzione nel non inciampare su alcune assi di legno abbandonate sotto la finestra e avvicinato il naso sul vetro per guardare meglio all’interno, vide il riflesso di un uomo, alle sue spalle. Si voltò di scatto, spaventato, e lo vide lì, immobile, a pochi metri da dove si trovava lui. Era vestito con una divisa da giardiniere, goffamente stretta al petto che sembrava quasi sul punto di esplodere. Notevolmente sproporzionato, con un viso squadrato dal colorito cadaverico, lo sguardo vacuo perso nel vuoto e apparentemente privo di pensieri. Didier rimase alquanto interdetto alla vista di questo gigante che nella mano destra teneva una pala, mentre la sinistra era chiaramente sporca di terra fino al gomito. Quasi scusandosi gli chiese se quella fosse casa sua, ma non ottenne nessuna risposta. Decise di togliere il disturbo e senza distogliere lo sguardo dall’uomo di fronte a lui indietreggiò cercando di non inciampare, farfugliando qualcosa che nella sua testa doveva sembrare una specie di saluto. L’uomo continuò a fissarlo come se Didier fosse trasparente, senza dire una parola, e probabilmente senza nemmeno pensarla. Guadagnato il sentiero, Didier si allontanò con passo svelto. Sicuramente sarà il ragazzone beota tuttofare che aiuta i frati nei lavori più pesanti, pensò, “vada a farsi fottere, a momenti mi pigliava un infarto”, biascicò a mezza bocca guardandosi di tanto in tanto alle spalle e ripromettendosi di evitare quel tratto di bosco da ora in avanti. Fece ritorno in abbazia e non proferì parola a nessuno dell’incontro. Nei giorni seguenti oltre a non fare progressi nel suo lavoro notò con disappunto che aveva un colorito pallido e ogni mattina al risveglio soffriva di mal di testa persistente e un sempre maggiore senso di spossatezza, non sapeva se imputarlo al troppo cibo o allo splendido Borgogna, ma il vero fastidio proveniva da un pungente dolore alla base della schiena, non riusciva proprio a capirne l’origine. Al tatto avvertiva come un solco, una specie di
buco, ma gli venisse un colpo se riusciva a vederlo, l’unico specchio presente nella sua cella era talmente piccolo e inchiodato in alto che a malapena ci si poteva specchiare per radersi. Arrivato al penultimo giorno di permanenza, si ripromise che non avrebbe bevuto neppur un goccio di quel fantastico Borgogna che i frati servivano generosamente. Il pomeriggio recuperate in parte le forze, decise di fare una passeggiata nel bosco, sempre evitando accuratamente di finire nei pressi della casa del giardiniere o cos’altro fosse. Rinfrancato dall’aria fresca, dopo un paio d’ore, fece ritorno all’abbazia. Imboccato il sentiero che conduceva al grande ingresso, vide un taxi fermo nello spiazzo. Ne scese un uomo sulla sessantina, capelli quasi completamente bianchi, indossava un completo marrone che doveva aver visto tempi migliori, pensò subito che dovesse trattarsi dello studioso di cui gli avevano parlato. Didier rallentò il passo evitando momentaneamente l’incontro col nuovo arrivato. Era stanco e l’ultima cosa che desiderava era profondersi in stucchevoli quanto odiosi salamelecchi col nuovo arrivato. Pochi minuti dopo stava salendo le scale che lo conducevano alla sua cella quando notò che la porticina dei una cella che si trovava alcuni metri più in basso della sua era leggermente socchiusa. Lo strano simbolo che era stampato proprio sopra la maniglia lo aveva incuriosito fin dal primo giorno, non capiva cosa potesse avere a che fare con un’abbazia il simbolo di un drago. Inoltre il fatto che fino ad allora fosse stata sempre chiusa appariva come un invito irrinunciabile a dare una piccola sbirciatina all’interno. Spinse la maniglia, aprendo ancor di più la porta cosi che potesse guardare dentro senza dover entrare. All’inizio non vide nulla, i suoi occhi dovettero abituarsi all’oscurità per qualche secondo, finché non scorse la figura di un frate inginocchiato nell’angolo di questa che appariva come una cella stretta ma profonda. Si sporse ulteriormente per vedere meglio e apri quasi completamente la porta, fino a che la luce non irruppe nella stanza tanto da vedere chiaramente la figura di un frate incappucciato, e inginocchiato in un angolo con la testa china e le mani giunte. Non ebbe nemmeno il tempo di richiudere la porta e andare via che il frate si girò, lo guardò con due occhi che a Didier sembrarono due piccole spie rosse. Lo vide alzarsi e correre verso di lui, il frate lo spinse fuori dalla stanza con violenza, rischiando di farlo cadere giù dalle scale e dopo chiuse la porta con grande forza. Didier riuscì a stento a mantenere l’equilibrio e a reprimere un conato di vomito causato dal fetore nauseabondo che aveva sentito in quella frazione di secondo a contatto col frate. Non comprendendo appieno cosa fosse successo si allontanò turbato e tornò nella sua stanza, era troppo stanco per indagare ulteriormente, ma si ripromise di fare qualche domanda se gliene fosse capitata l’occasione. Quella sera a tavola conobbe lo studioso appena arrivato, un trombone saccente cui avrebbe volentieri dato un pugno in bocca pur di farlo tacere. Didier cercò di non bere, nonostante l’insistenza dei Frati, che stranamente quella sera erano più taciturni del solito. Pensò che forse il frate puzzone dagli occhi rossi potesse aver raccontato qualcosa. Decise che non gliene fregava un accidente e che non vedeva l’ora di mandarli tutti al
diavolo e tornarsene a casa. Finse di bere il suo vino per non essere molestato dai frati e lasciò il tavolo prima della fine per non venire tormentato ulteriormente dalle domande del professore universitario. Salendo le scale ebbe un attimo di esitazione nel passare accanto alla porticina con il drago stampato sopra e corse nella sua stanza. Quella notte non riusciva a prendere sonno, era la prima volta da quando si trovava lì, e il suo unico pensiero era di scappare via, al diavolo i frati, il giardiniere muto e il loro fottuto delizioso Borgogna. Quando si svegliò, erano le due di notte, glielo disse l’orologio che teneva sul comodino, era contento di essersi svegliato, stava facendo un incubo terribile, era sudato, e aveva ancora in testa quel dannato frate dagli occhi rossi o quello che diavolo fossero. Si alzò per andare in bagno quando sentì un rumore, come un fruscio che proveniva dal corridoio. Non capiva cosa fosse, e non aveva il coraggio di aprire la porta. Dopo che non sentì più nulla, Didier, trovò la forza di aprire e guardare nel corridoio, all’inizio non vide capì cosa avesse generato quel suono, ma la vista della porticina totalmente aperta in fondo alle scale lo paralizzò completamente. Si era sempre considerato un uomo coraggioso, ma dopo l’episodio pomeridiano non era più sicuro di niente. Rientro, si vestì in fretta e uscì nel corridoio, nonostante la paura voleva capire che cosa stava accadendo. Uscì, richiuse piano la porta alle sue spalle e camminò rasente al muro, tenendosi il più lontano possibile dalla porticina aperta in fondo alle scale. Arrivato davanti a quella maledetta stanza, risentì quel fruscio provenire dall’alto, qualcuno stava scendendo nella sua direzione, fu assalito dal panico, era troppo lontano per tornare nella sua camera, l’unica possibilità era entrare nell’orrida cella. Con suo grande sollievo la stanza era vuota, eccezion fatta per un saio gettato per terra. Nascosto dietro la porta, vide passare una decina di frati incappucciati, scendevano verso il grande salone principale. Ormai deciso a non tornare indietro sui suoi passi afferrò il saio per terra e lo indossò. Provando ribrezzo per la terribile puzza di marcio che emanava, si calò il cappuccio sulla testa e seguì i frati. Guardando da una finestra che dalle scale dava sul chiostro, capì che si stavano raccogliendo tutti nella cappella principale. La cosa lo inquietava e incuriosiva allo stesso tempo, ma decise che avrebbe proseguito ugualmente. Superò non privo di ansia ma senza problemi il portone d’ingresso, il suo travestimento funzionava a meraviglia. Appena varcata la soglia della cappella, vide una scena che, senza dubbio lo avrebbe tormentato per il resto dei suoi giorni. La cappella era illuminata da tantissime candele e da un grosso braciere acceso, tutti i frati erano incappucciati, stavano in piedi immobili come statue e fissavano un altare che non era più quello che aveva avuto modo di vedere in quei giorni, adesso era coperto da un drappo nero ornato da disegni disgustosamente blasfemi. Ciò che lo colpì maggiormente era la presenza di due Frati in piedi, entrambi dietro l’altare. Erano completamente nudi, i loro orribili corpi erano straziati da profondi tagli e ferite, alcune di queste brulicavano di migliaia di piccoli vermi bianchi. Didier ebbe la sensazione di vedere due corpi viventi in decomposizione ed era sicuro che uno dei due
fosse Fra Zèbèno, il suo capo solcato da profonde vene blu gorgonzola non concedeva dubbi. Recitando dei versi incomprensibili il frate accanto a Zèbèno prese dall’altare un coltello dalla lunga punta sottile. Didier era terrorizzato all’idea di venire scoperto, e nonostante il fetore che emanava, stringeva a se il saio con forza. Il frate si mosse in avanti, brandendo il coltello sopra la testa. Soltanto in quel momento Didier si accorse della presenza del professore universitario. Era proprio vicino al braciere, riverso su una lastra di marmo poggiata su di un altarino. Anch’egli completamente nudo, sembrava sul punto di essere immolato nel nome di chissà quale oscuro rito pagano. Didier chiuse per un attimo gli occhi più per ribrezzo che per paura, e sentì il rumore del coltello bucare la schiena del professore, pensò che un cacciavite che buca un divano di pelle avrebbe potuto produrre lo stesso rumore. Aprì gli occhi facendosi coraggio, e vide un fiotto di sangue sgorgare dalle costole del professore finendo sul viso e tra i denti neri di Fra Zèbèno, che rideva con uno sguardo perverso, un’espressione che mai aveva visto prima sul volto di un uomo. A Didier venne in mente il dolore alla base della schiena che lo aveva afflitto dal secondo giorno in quella fottutissima abbazia, le tessere del mosaico stavano trovando la giusta collocazione. La debolezza, il foro che al tatto non sembrava rimarginarsi, il frate dagli occhi rossi. Chiuse gli occhi e si portò una mano sul viso. A cosa serviva quel sangue? E soprattutto a chi era offerto? La cosa che lo tormentò di più fu il chiedersi quanto del suo sangue era stato versato senza che lui ne avesse memoria. Fu a quel punto che accadde qualcosa che lo lasciò stupito, quel turbinio di pensieri sommato alla vista di ciò che accadeva attorno a lui, lo destò di botto. Lo stato di torpore che si era impossessato della sua mente e del suo corpo dalla prima notte passata in quel postribolo di dannati stava svanendo. Si strappò di dosso il saio e corse verso l’altare. Né i due frati che dirigevano l’orrendo rito, né tutti gli altri, si accorsero di lui. Con un calcio rovesciò il braciere, urlando di rabbia e paura, con quanto fiato avesse in gola. Le braci ardenti investirono alcuni frati che stavano in prima fila, il loro saio prese immediatamente fuoco, le urla si sommarono a quelle di Didier che si avventò sul corpo del professore, scuotendogli la testa cercando di svegliarlo. Gli strillò di svegliarsi, di scappare, ma non ottenne nessuna risposta. Il gesto dello scrittore, e la caduta del braciere fece sì che tutti rimasero imbambolati dalla sorpresa. Fu uno dei due frati orrendamente sfigurati a fare la prima mossa, urlando qualcosa d’incomprensibile verso Didier, che alzando la testa vide due occhi rossi carichi di un odio così potente e antico che lo fecero rimanere senza fiato. Senza perdere altro tempo, lasciò il professore al suo destino e si girò per scappare via, approfittando del caos che era scoppiato a causa del braciere che cadendo aveva appiccato un incendio ai tendaggi. Didier riuscì a passare indenne tra le file dei frati che cominciavano a reagire sferzati dalle urla belluine che provenivano dall’altare. Arrivò davanti al portone, si rese conto che non sarebbe potuto uscire da lì, non c’era nessuna maniglia e sembrava chiuso dall’esterno, senza scoraggiarsi corse verso la navata laterale, e senza
esitare coprendosi il volto con il braccio si lanciò contro una vetrata. L’impatto fu micidiale, Didier la attraversò e cadde all’esterno, si rialzò con le mani e il volto sanguinante, ma la paura non gli fece avvertire alcun dolore, sapeva solo che doveva correre, ed anche il più velocemente possibile se voleva riportare il culo intatto a casa. Le urla dei frati arsi vivi e dei due santoni in putrefazione gli rimbombavano nelle orecchie mentre cercava una via di fuga tra i corridoi bui dell’abbazia. Riuscì non senza inciampare almeno un paio di volte a raggiungere l’ingresso principale, aprì il portone e contro ogni sua più rosea aspettativa vide che l’auto noleggiata all’aeroporto di Parigi era ancora al suo posto, dove era sempre rimasta per tutta la settimana, sotto un enorme albero di castagne. Salì a bordo, ringraziò Dio per aver deciso giorni prima di lasciare le chiavi appese e le girò di scatto, la macchina parti al primo colpo, maledetti film, che ti fanno vedere sempre il contrario pensò, compì rapidamente manovra e imboccò a tutta velocità il sentiero che lo separava dal cancello principale, fortunatamente sempre lasciato aperto anche la notte. Dentro di se sentiva di avercela fatta, era a pochi metri dalla salvezza. Accelerò, teneva stretto il volante tra le mani. Il vetro che s’infranse in un trasparente mosaico gli sembrò una scena al rallentatore, la macchina che sbanda, la frenata, il corpo del giardiniere che finisce sul cofano, sembrava tutto lontano, lento, addirittura finto. Solo un miracolo evitò all’auto di finire la corsa contro un albero. La pala dell’inserviente si era conficcata a due centimetri dalla testa di Didier, contro il montante dell’auto, mentre il cervello, e Didier si stupì che ne avesse uno, era completamente spalmato tra i resti del parabrezza e del cruscotto. Scese di corsa dall’auto per liberarla dal corpo morto conficcato nella sua auto. Non fu facile rimuovere un colosso di oltre 150 kg, ma ce la fece, e questa volta rimessa in moto l’auto e ripartito a tutta velocità non trovò nessun altro nascosto nel buio a impedire la sua corsa verso la libertà. Abbazia di Saint-Bertin, Francia 1 novembre 2012 Non pioveva e non c’era vento quella notte, a differenza di sessantaquattro anni prima Fra Raviex, non buttò giù la porta di Fra Zèbèno, non arrivò correndo o ansimando, per la verità non disse neppure una parola, nemmeno un gesto, il rumore delle sirene, le luci rosse e blu intermittenti che entravano dalle finestre non lasciavano spazio alle parole. I due frati seguirono la stessa strada, di quella notte di tanti anni prima, quando invece della polizia ai cancelli c’erano gli invasori tedeschi. Quelli che un tempo erano stati due uomini impauriti, ma già corrotti dal male, adesso erano due esseri immondi che la paura la incutevano senza subirla. Spostarono la grande pietra e scesero nel buio, nessuna torcia a rischiarare il loro cammino, la vista dei loro occhi rossi vomitati dall’inferno vedeva ben oltre l’oscurità. La cripta era rimasta immutata nel tempo, il disfacimento e la corruzione avevano già raggiunto il loro apice da tanto tempo, niente sarebbe potuto cambiare in
peggio, Fra Zèbèno e Fra Raviex ancora una volta si preparavano a entrare in un oscuro letargo in attesa di tempi migliori. Scesero l’ultimo gradino e si avviarono verso il grande giaciglio nero, insieme con fatica tolsero la lastra di marmo che copriva il grande sarcofago. L’essere che era al suo interno girò gli occhi senza palpebre per fissarli, il suo corpo, o meglio il suo scheletro era ricoperto parzialmente da muscoli e da parti di pelle, le vene e i tendini rivestivano un ammasso di organi in via di formazione, i due frati non riuscivano a sostenere lo sguardo di quell’essere che li fissava con tutto l’odio del mondo. Non poteva parlare, la sua bocca era priva di lingua e i denti totalmente formati non avevano labbra a proteggerli. Fra Raviex disse: “Oscuro Signore, abbiamo fallito, non siamo riusciti a donarle tutto il sangue di cui aveva bisogno, torneremo nel nostro oblio, in attesa che anche questa tempesta passi”. Insieme a Fra Zèbèno richiuse il sepolcro ed esattamente come tanti anni prima occuparono posto nelle loro gelide tombe. Stavolta fu Fra Zèbèno a pronunciare le ultime parole prima di sprofondare nel buio. “Torneremo prima di quanto immagina, oh mio Signore della notte, abbiamo ripulito ogni traccia, fatto sparire il corpo e cancellato ogni prova, torneremo, e dopo tanti secoli finalmente risorgerà”. Buio. Boulogne-Sur-Mer, Francia 10 Ottobre 2013 La segretaria bussò dolcemente alla porta della preside, entrò come di consuetudine senza aspettare una risposta e lascio una lettera sulla scrivania. La preside prese la busta, inforcò gli occhiali e lesse il mittente “Abbazia di Saint-Bertin”, fece una smorfia di stupore e continuò a leggere. “Gentile Preside della Scuola Media di Saint Patrick, invitiamo Lei, il corpo docente e gli alunni della vostra scuola presso la nostra abbazia per una settimana di totale riposo…<Affinché la vostra mente e il vostro corpo si riconcilino con la natura, sul sentiero del Signore>"... Davide Musso
LUNA PIENA Una
luna di madreperla, grande come un piatto da portata al centro della tavola del cielo scuro, brilla tremula e silenziosa nella notte: lei la vede nello specchietto retrovisore, mentre torna a casa da una serata votata all'autodistruzione. Non avrebbe voluto litigare – non lo vorrebbe mai, mansueta e buona com'è – ma ci sono giorni, sere, notti, in cui sembra inevitabile. Anche mentre gridava, poche ore prima, sapeva di essere nel torto; lui, che cercava di arginare con parole ragionevoli lo sbocco improvviso della sua rabbia, era rimasto seduto sul divano, con la testa di Argo, il loro cane lupo, appoggiata sulle gambe. Avevano lo sguardo smarrito di quei naviganti che, nella tempesta, pregano che l'albero maestro non ceda sotto le raffiche del vento. Alla fine lei era uscita sbattendo la porta, lasciando quegli occhi tristi dietro di sé. La luna era poco sopra l'orizzonte, piena, gonfia, con il suo sguardo incredulo. E ora che sta rientrando a casa, rintronata da tre ore di discoteca e superalcolici, sa che non lo troverà in salotto ad aspettarla. Il perimetro di foglie gialle attorno a un rettangolo vuoto – lo spazio dove lui aveva parcheggiato la sua macchina – è la traccia indelebile della sua partenza. Vorrebbe chiamarlo, ma sa che non risponderebbe; e sa anche che se rispondesse, lei non saprebbe che dirgli. Le donne vivono sotto il giogo del ritmo lento della luna. Mentre apre la porta, sente gli ululati lugubri dei cani del quartiere che rimbalzano di casa in casa. Argo ha il terrore di quei lamenti: quando c'è la luna piena, si nasconde da qualche parte, e non si fa più trovare. Le gira la testa – ha bevuto troppo. Va in bagno, si strucca un occhio, ma non ha la forza di pulire l'altro. Si cambia l'assorbente, e intanto fissa il proprio viso allo specchio, chiedendosi se davvero dimostra i suoi trent'anni. Rinuncia a lavarsi i denti; spegne il telefono, si sposta in camera. Odia il silenzio della solitudine, l'eco delle stanze, il respiro della casa. E il riscaldamento è rimasto acceso, sembra di essere in una serra. Apre le finestre e lascia che entri l'aria umida del novembre appena iniziato, ma ha ancora caldo: si toglie il pigiama e il reggiseno e li lancia su una sedia vicino alla porta. I cani insistono con il loro canto misterioso. Si butta a letto, chiude gli occhi e pensa a lui. Vorrebbe che fosse lì, a farle l'amore: ha voglia di mordicchiargli le labbra, i lobi delle orecchie, il collo muscoloso. A volte lui le dice, scherzando, che sembra un lupo mannaro. Si alza un filo di vento. Da sotto il letto arriva un rumore. Allunga la mano, e la lingua calda di Argo gliela lecca. Sente il suo fiato caldo e buono, e le pare di essere meno sola. “Argo, fifone, va tutto bene, va tutto bene...”. Dalle finestre entra la luce bianca della luna. Quando si addormenta, i cani hanno già smesso di ululare. Si sveglia dopo una notte di sogni confusi, e le sembra di avere un'incudine appoggiata sulla testa. Fuori le strade sono immerse in una nebbia collosa. Perché ha litigato? I buoni motivi del giorno prima sono mozziconi di cicche
spente. Dopo aver indossato una maglietta di lui, barcolla verso la cucina. Mette su il caffè, scalda due fette di pane, tira fuori dal frigo la marmellata e il burro. Guarda il calendario, e vede che la luna piena è passata: le cose andranno meglio, si dice. Accende il cellulare. Due messaggi di lui. Spegne il fuoco del caffè e legge il primo: “Ti è passata?”; poi, mentre la porta della cucina cigola dietro di lei, legge il secondo: “Ieri ho portato Argo con me. Gli manchi”. Paolo Zardi
MALEDETTI TRASLOCHI Era un ferragosto come tanti. Il giorno perfetto per traslocare. Nessun ficcanaso o seccatore in vista. Una donna sulla cinquantina dall’aspetto scialbo e anonimo attendeva l’arrivo dell’ascensore all’ultimo piano. Aveva ammassato un discreto numero di scatoloni contro la parete scalcinata. Mentre accatastava pacchi di libri e foto, ricontrollava attenta i post-it colorati. Parevano una teoria ondeggiante di lingue mute in attesa di emettere un verdetto. Entrando e uscendo dall’ascensore, ogni tanto la donna si scrutava allo specchio. Aveva lo sguardo vuoto e la testa curva e accartocciata come sotto un carapace millenario. I vicini dovevano essere tutti in ferie, ma ogni tanto si udiva il raspare sordo di qualche gatto che, sentendola passare, cercava di attrarre la sua attenzione. Prendendo fiato, si fermò a fissare il portoncino blindato del vicino di fronte e provò pena per la bestiola solitaria. Allungando il collo nel tentativo di appiattirsi, si ritrovò carponi a sbirciare sotto l’uscio, ma al di là della fessura non percepì che uno sciamare di ombre. Stette senza respirare per qualche minuto. All’improvviso avvertì una zaffata maleodorante provenire dalla fessura. Una gabbia invisibile di congetture si affollò nella sua mente del tutto ordinaria. Si alzò a fatica reggendosi alla maniglia di ottone. Il sudore del suo palmo molliccio, a contatto col metallo freddo e duro, parve saldarsi come in un sigillo di cera bollente. Il caldo torrido e soffocante del pianerottolo sempre più asfittico pareva l’anticamera di una camera oscura, forse un luogo di morte anonima e destinata alla cronaca nera. Cercò di scacciare l’afrore pesante che le intasava le narici. Frugò in tasca un piccolo ventilatore portatile e se lo cacciò sotto il naso. Allontanandosi dalla porta chiusa, le parve di udire un rantolo. Poi la solita apatia riprese possesso di lei. Ciabattando con pesante lentezza, riprese a scivolare dentro e fuori l’appartamento intessendo mille bave di pensieri obliqui e inafferrabili. Dalla balaustra stretta e poco illuminata, saliva un’ultima rampa di scale che portava in soffitta. Nonostante l’avesse già ispezionata minuziosamente nei giorni precedenti, sentì l’urgenza inesplicabile di dare un’ultima occhiata al sottotetto prima di lasciare il condominio. Mentre strisciava madida di sudore schiacciandosi contro le pareti sferiche, la donna avvertì un tonfo sordo e attutito, come di coperte o tappeti arrotolati e sbattuti a terra. Non ebbe il coraggio di aprire il chiavistello e tornò indietro. Un silenzio carnivoro le ingoiò il cuore. Tornò sui suoi passi come stordita e ricominciò il suo andirivieni dall’appartamento all’ascensore, cercando di mettere a fuoco una sottile sensazione di pericolo che si era impossessata di lei. Possibile che. . . No, era certa che il condominio fosse deserto e anche l’impresa di pulizie aveva sospeso il servizio per ferie. Con le tempie che le pulsavano all’impazzata, entrava e usciva dalle stanze accertandosi che fosse tutto in ordine. Non le restava che spegnere i contatori. China con la torcia in mano
armeggiava con la chiusura della leva del gas. Il gatto del vicino aveva preso a raspare più insistentemente e persino i canarini della Ratti si erano messi a strepitare sguaiatamente. Niente, la leva non girava. Era tentata di lasciarla aperta e fuggire, tanto la sensazione di disagio stava montando. Ripensava a quell’odore acre dall’appartamento e a quel rumore sordo in soffitta. Che stupida a inquietarsi per così poco. D’estate il cibo marcisce con facilità e di sicuro i vicini avevano dimenticato di buttare l’immondizia prima di andare in ferie... Quanto a quel tonfo sinistro in soffitta, di sicuro qualcosa di pesante era caduto a terra, chissà, magari era stato appoggiato male. Diede un’occhiata fuori per accertarsi che non fosse iniziato a piovere. Il meteo aveva annunciato uragani in zona. Notò che nel parcheggio c’era un’auto mai vista. Una Volvo piuttosto malridotta e infangata. Riprese ad armeggiare frenetica sulla leva tentando di ricordare se avesse mai visto prima quella macchina. Ormai abitava lì da dieci anni e conosceva vita morte e miracoli del vicinato. Click. La leva era si era chiusa alla fine. Tirò un sospiro di sollievo. Stava per uscire, quando si accorse di non avere con sé le chiavi del nuovo appartamento. Imprecando pensò che ora era costretta a risalire. Nonostante l’affanno, preferì prendere le scale. Ogni volta che un ascensore si apriva e lei era sola, aveva una sensazione di profonda paura e disagio. Forse era rimasta impressionata da qualche film visto da bambina. Non vedeva l’ora di uscire all’aria, di andarsene da quel luogo che ormai non aveva più nulla di familiare. Mentre transitava dal primo piano, sentì un rumore metallico. L’ascensore stava salendo. Doveva essere entrato qualcuno. Fece immediatamente dietro fronte e decise di scendere. Il portoncino di vetro si chiuse di colpo dietro di lei quasi falciandole la nuca. Fuori, l’aria era torva e piena di pioggia. Si affrettò verso l’automobile e caricò tutte le sue cose alla bell’e meglio. Prima di salire in auto, alzò lo sguardo e le parve di vedere un’ombra dietro il vetro crepato dell’abbaino. Decise di attendere in auto. Si accese una sigaretta e nel frattempo provò a chiamare un amico. Dava occupato. Fu un’attesa snervante. Chi poteva essere salito? D’un tratto, sentì tamburellare sui vetri. Si girò e vide un paio di poliziotti in divisa farle cenno di uscire. Si ritrovò muta e lenta, come dentro un piano sequenza alla David Lynch. Dilatata come in una digressione apparentemente priva di senso. Sentiva che qualcosa le stava irrimediabilmente sfuggendo. “Lei abita qui?” la interrogò uno dei due agenti. “Sì, sto traslocando.” “Può gentilmente indicarci il suo appartamento?” Accartocciando il mozzicone nel posacenere dell’auto, la donna si sentì sollevata per la presenza dei poliziotti: avrebbe potuto finalmente recuperare le chiavi della nuova abitazione. Mentre salivano in ascensore, i poliziotti spiegarono di aver ricevuto una segnalazione anonima. La donna sentì il loro sguardo inquisitore. Arrossendo, si schernì e disse che non aveva idea di chi
potesse aver telefonato. . . apparentemente il condominio era vuoto. Salirono fino all’ultimo piano e la donna li fece entrare. “Non posso offrirvi nulla purtroppo. Ho imballato tutto.” Si scusò desolata. “ Non si preoccupi. Possiamo dare un’occhiata in giro?” Chiese uno dei due. “Prego, fate pure.” Rispose lei mentre controllava ogni stanza per capire dove avesse potuto lasciare le chiavi. All’improvviso, le vide luccicare sotto per terra dietro l’uscio d’ingresso. Le raccolse e quando ne sentì il peso, vide che ne mancavano un paio. La copia che aveva fatto fare per sicurezza e che non aveva ancora lascato a nessuno. Cercò di ricordare se poteva averle messe da qualche parte per sicurezza. Intanto i due poliziotti erano saliti in soffitta. Li sentiva trascinare qualcosa di pesante. . . Rigirava le chiavi in mano sempre più tesa. Non vedeva l’ora di andarsene. Dopo pochi minuti, uno dei due poliziotti ricomparve e la guardò perplesso. “Venga con me.” Le intimò Le fece strada e la portò nella parte del sottotetto più basso. Nella penombra sotto delle travi marce, intravide un fagotto arrotolato. “Ma è assurdo. . . ” Commentò con un filo di voce. Sotto un fascio di luce viola che penetrava dal tetto spiovente, si notava a malapena un fantoccio impagliato riverso su un fianco, con uno squarcio all’altezza della tempia sinistra. “L’aveva mai visto prima?” Le chiese un poliziotto. Non riusciva a rispondere. Aveva la lingua impastata e le gambe molli. A malapena riuscì a mormorare che no, non aveva mai visto quell’uomo. . . Ma riferì dei rumori sospetti avvertiti proprio qualche ora prima. Date le circostanze, fu costretta a seguire i poliziotti in caserma per stendere un verbale. Era molto tardi quando la rilasciarono. Era come sotto l’effetto di un narcotico. Montò in macchina e si mise in strada. Quello che lasciava era un mistero ineffabile e che voleva seppellire dietro sé. Ma nei meandri della memoria, qualcosa di sfuggente e obliquo la torturava. Qualcosa ch forse avrebbe dovuto ricordare. Dal centro alla periferia, procedeva incolonnata a passo di lumaca. Il bollettino meteo non lasciava sperare nulla di buono. Non vedeva l’ora di rintanarsi nel suo nuovo attico e dimenticare se stessa. Girando la chiave nella toppa, ebbe la sensazione che la serratura fosse troppo stretta. Rimase qualche minuto a tentare di aprire. Fuori infuriava un uragano da tregenda. Scoraggiata, si sedette un attimo sopra uno degli scatoloni che aveva scaricato. Dal lucernario, si accese un fascio di luce spettrale che sembrò durare un’eternità. Poi il buio. Stava pensando di dover chiamare un fabbro vista la situazione. Non ci voleva. All’improvviso si ricordò della chiave mancante. Proprio in quel preciso istante, la porta si aprì:
“Ti aspettavo, baby.” Sussurrò una voce melliflua. Il mattino dopo la ritrovarono sgozzata nell’androne. Accanto al suo corpo sfigurato c’era un fantoccio impagliato con due bottoni neri al posto degli occhi e una coltellino infilzato nel petto. Bea Ary
THIS IS HALLOWEEN Mi toccano subito le mani, sbuffano il mio nome, qualcosa o qualcuno sopra la mia testa. Spingono indietro il naso, io gli occhi e il mio vaffanculo suonerebbe alto tra i cori argentini del don't cry for me. Mi divaricano le braccia come se spalancassero una porta. Entrate pure, cosa vi offro? Non aspettavo nessuno, non mi interessa. Intanto vi accolgo sotto le dita umide della mia bocca, del mio pannolino caldo. Accomodatevi, sarebbe bello avervi tutte insieme qui, mi interesserebbe molto il pensiero di sapervi in molte a gesticolare forte per dirmi che debbo aspettare che arriva il peggio: falangi di sorrisi ruvidi, meravigliose promesse di cotone sulla faccia. Dovrebbe piacermi di più di quest'autunno di carta crespa infilato sotto le mie unghia lunghe che tracciano i solchi di rigurgito su questa bavaglia dove si legge“Amore di nonna”. In questa precisa maniera ringrazio, spalmando me stesso sulla loro sapienza professionale mentre mi sodomizzano i sensi sotto questo felpone che non si apre a questo caldo di questa stanza calda come la Madonna che non mi aiuta mai, neanche a farmi sapere per bene che non sento altro. Solo il mio the fresco dentro una cannuccia, Ne tiro boccate lunghe. Ne tossisco fuori una buona metà. E' fatta e finita. Mi spingono una zucca contro gli occhi. L'ho fatta io, di pallini arancio e colla. Sembra un caco. Urla che non serviamo a un cazzo. “Basculalo indietro”.E' finita davvero. Torno a casa un po'. Rina Bono
GUARDATE BENE CHI C'E' PRIMA DI APRIRE Dietro la soglia della porta aspetto e spio all'occhiello. Arriveranno tutti non vedono l'ora che cominci la festa di Halloween. La festa che faccio ogni anno nel vecchio casale di famiglia, per divertirci, per rivederlo. Mancano due ore precise. Quando arriva parcheggia sempre la sua auto di fronte al grande albero sotto al quale avrei voluto fare l'amore la prima vola che lo incontrai. Apre lo sportello esce fuori il suo cd dall'autoradio, si guarda intorno con fare preoccupato e goffo, scende dalla macchina che una marmotta uscita dal letargo sarebbe più veloce. È buio. La luna è a metà. Gli alberi non si muovono. Non c'è vento. Bussa piano, una sola volta. Non importa, io so chi è: è lui. Lo attendo e lo faccio fuori. Ci penso dallo scorso Halloween. Apro la porta, mi sorride non faccio in tempo a salutarlo che il suo sangue è sulla mia mano sul suo collo sul mio viso sulla sua testa sui miei capelli sulle sue braccia sulle mie dita sulla sua bocca sulle mie labbra sulle sue gambe sui miei piedi...sulle sue scarpe. Ferro rosso : sangue che scola ovunque. Non basta. Comincia a vomitare e la bava gli si colora, gli schizzi cangianti finiscono giù in pezzettini colorati ; lui diventa paonazzo. Mi sorride adesso. È la notte di Halloween e lui pensa che si tratti di uno scherzo, crede che il coltello allo stomaco glielo abbia infilato per finta. Per un attimo anche io ne dubito e allora tiro fuori la lama e sferro un altro colpo. Tanti colpi. Avanti e indietro, avanti e indietro fino alle viscere. Le vedo cadere sul pavimento pulito, smetto. È sdraiato per terra: i suoi occhi immobili fissano solo me. Scruto i suoi villi intestinali, hanno una forma piatta, una piccola protuberanza e sono scuri, strano per un tipo chiaro di pelle come lui. Raccolgo tutto possono servire. Ho inventato un nuovo gioco da fare questa notte che le streghe apprezzano e gli spiriti aleggiano. No! non vorrei avergli fatto un favore senza volerlo. L'ho ucciso e liberato dal dolore. Gli ho regalato un dolce momento di agonia. Tronfio se ne andrà in giro per dire a tutti che la notte di Halloween indossa un costume da morto che pare vero. Mi guarda ancora. Dolcetto o scherzetto? Non lo saprai mai. Antonella Tarantino
NERO Tutto era nero quando prese coscienza. Non riusciva a capire dove si trovasse, circondato da tenebre. Provò a tastare intorno a sé piano, con circospezione, per capire meglio. Niente. Ovunque era circondato da una sostanza umida, fibrosa ma compatta. Provò a muoversi. Con molta fatica cercò di muovere il capo. Pochissimo spazio. Buio. Un odore dolciastro. E un’umidità soffocante. Buio. Tutto era buio e senza direzioni. Senza un sopra né un sotto, senza un est né un ovest. Tentò di muovere il corpo, ma qualcosa lo bloccava. Quella sostanza viscosa e dolciastra, ovunque, intorno. Insisté a muoversi un poco. Comprese che contraendo e rilasciando i segmenti del corpo, allungandosi e comprimendosi riusciva ad avere la sensazione di un poco di spazio. Forse era un’illusione, perché non c’era possibilità di movimento lì intorno. Ma provò ancora. Piano, piano, ritmicamente. Si strinse e allargò, si contrasse e allungò. Piano, piano. Un’infinitesima porzione di spazio si fece intorno a lui. Continuò ancora, con quelle contrazioni che non si potevano chiamare movimenti. Ma a poco a poco riuscì a spostare, o forse a schiacciare, piccole porzioni di sostanza davanti a sé. Senza sapere dove lo portasse, lento ma caparbio continuò a scavarsi un cunicolo. Fu un lavoro stremante di forza e pazienza, ma l’istinto l’aiutò. A forza di spingere, a poco a poco qualcosa accadde: davanti a lui la parete apparentemente infinita si ammorbidì, si assottigliò, si squarciò. Emerse nel vuoto. Si spinse sempre strisciando e scivolò lungo una superficie convessa. Cosa avrebbe trovato in fondo, non sapeva. Ma si lasciò scivolare a valle. Tutto era buio, anche lì, ma c’era spazio. Un lievissimo, apparente, bagliore rossastro. Sul fondo trovò un’altra sostanza ancor più viscosa, e ancor più appiccicosa. Calda, magmatica, cerosa. E un odore di cenere che non prometteva niente di buono. Fece un lungo giro strisciando sul fondo per evitare quel lago bollente. La superficie curva riprendeva a salire dall’altra parte. Non aveva scelta, riprese a salire anche lui. A fatica, inerpicandosi, ricadendo, rotolando, ricominciando. Quel muro liscio, viscido, non dava appigli. Insisteva, cadeva, riprovava. Saliva. Saliva. Sentì qualcosa. Nella superficie compatta del muro si apriva una fenditura orizzontale. Seghettata, acuminata, scabrosa. Parevano denti. Un ghigno feroce. Non si soffermò a capire meglio, salì ancora, spingendosi con tutte le forze. Spingendo in alto il capo e tirandosi dietro il corpo. Arrancando. Incontrò un’altra fenditura, profonda. Una forma quasi triangolare. Forse un altro tunnel? E dove l’avrebbe portato? Avanzò ancora verso l’alto. Percepì più su la presenza di un’apertura più grande, circolare, ampia, da cui si sentiva passare l’aria.
Non si sentiva per niente rassicurato, ma lentamente, disperatamente salì. A quell’altezza vi erano due fori gemelli. Tondi, larghi. Vuoti. Due orbite vane e desolate. Buio. Buio e silenzio ovunque. Buio. Nero e buio anche in quelle orbite vuote e mute. Era tardi. Era tardi. Era tardi ormai. Quando il bruco riuscì a uscire dalla zucca, la festa di Halloween era finita. Isolaria Pacifico
LUNGO IL BAYOU
Il bayou scorre lento nel pomeriggio afoso della Louisiana, bagna una grande tenuta il cui padrone si è risposato di recente; la prima moglie è morta, ed è stato proprio il bayou a portarsela via. I miei occhi percepiscono un’immagine chiara e nitida, ma quello che la mia mente fatica a comprendere è il punto di osservazione; è del tutto fuori dell’usuale, poi realizzo che sto avendo una visione, è come mi trovassi sul fondo del fiume guardando all’insù: la luce filtra attraverso delle canne, le foglie degli alberi gettano ombra sulla superficie; c’è una donna che spinge la testa di un’altra sott’acqua, tenendole un grosso bastone premuto sulla gola. È la nuova moglie che uccide la prima; in quel momento capisco che la donna vuole eliminare anche la figlia dell’altra. Ora sono in una barca ormeggiata lungo lo stesso bayou: è di un mio zio che si chiama Angus ma per tutti è solo “Manibuche”; a bordo c’è anche una mia specie di cugino. C’è ressa sottocoperta, l’agitazione tra l’equipaggio è troppa per far finta di nulla ma mio cugino rimane indolente e scocciato a ciondolare sull’amaca nella sua cabina. Cerco di scoprire che cosa succede, e torno sulla tolda; qualcuno cerca di uccidermi lanciandomi un mocassino acquatico sui piedi. Capisco di avere acquisito un paio di nozioni importanti, decido di trarne vantaggio al fine di cambiare gli eventi perché la conoscenza è potere; non so come accada, però d’improvviso mi ritrovo all’istante prima di incontrare l’equipaggio, con la differenza che so quello che accadrà (o dovrebbe accadere) nuovamente di lì a breve. Mio cugino brucia bastoncini di cannella nella sua cabina per veder chiaro nella situazione, cialtrone com’è combina un guaio buttandone troppi su di un incensiere la cui forma ricorda quella del piatto di una bilancia, fissato con delle catenelle ad un supporto; io sistemo tutto e aggiungo grani di incenso, lui è svogliato e si butta sul letto. Decido di osservare da più lontano gli eventi, e mentre cammino sulla riva del fiume stano con un bastone un serpente nascosto sotto il fango, se ne va senza farmi nulla. Mi rendo anche conto di trovarmi anche sulla barca, in quello stesso momento, dove ho la forma di una donna grassa con i capelli lunghi e la pelliccia; noto che da un ampio foro sotto l’ascella destra della pelliccia mi si vede una tetta flaccida e quasi appuntita; sto per dire qualcosa… Mauro Melon
LA SCUOLA DI HELENA Ogni
volta che guardo quel grande edificio abbandonato all’angolo della strada, un brivido mi corre lungo la schiena. Si dice fosse una scuola elementare, poi chiusa dopo l’incidente. Cerco di superare l’angolo più in fretta che posso per andare verso la scuola due isolati più avanti. Ma ogni mattina è un incubo terribile che si ripete. Dicono che sono una bambina timida e riservata: in effetti non ho amici. Spesso ho chiesto ai grandi di quell’incidente, di cui a River Queen nessuno parla mai, ma loro sono sempre molto evasivi. Si dice siano morti in tanti quel giorno; qualcuno lo aveva pure predetto per via di quella cometa e di quella luna rossastra portatrice di sventura. Oggi ne ricorre l'anniversario e piove leggero da un cielo grigio e cupo. La strada mi sembra più lunga del solito, l'aria umida e triste. Ecco mi avvicino all’edificio e già mi batte il cuore a mille. Tiro dritto con la cartella piena di libri e quaderni. Stavolta però qualcosa attira la mia attenzione: il cancelletto che porta allo spiazzo desolato è aperto. Qualcosa di sinistro aleggia lì attorno e mi costringe ad entrare. Mi avvicino con curiosità e titubanza, non posso farne a meno: sono anni che faccio sempre la stessa strada. E’ tutto diroccato: la palazzina tetra, anni cinquanta, con le imposte in legno, cade a pezzi. Attorno, i resti di un giardino con alberi spogli e rinsecchiti e qualche pozzanghera perché è novembre e spesso pioviggina. Mi avvicino e mi sembra familiare quella porta aperta e l’ingresso con a terra i mattoncini marroni e neri. Mi pare quasi di sentire la voce dei bambini. Un cavallo a dondolo con la testa mozzata sta all’inizio delle scale di fronte all’ingresso. Che strano….si muove, forse per via della corrente d’aria che c’è. Comincio a salire; ho come la sensazione di sentire qualcosa ma l’unico rumore certo è il vento che sibila tra i vetri rotti delle finestre. I miei passi provocano scricchiolii sulla scala ma mi appoggio al passamano di legno. Quanta polvere, quante ragnatele. Ecco sono al primo piano. Dentro le aule vuote ci sono ancora le lavagne impolverate, i banchi, l’abbecedario, le cartine geografiche penzoloni. Decido di entrare nella seconda aula a destra. Ora mi siedo proprio qui accanto alla finestra, a primo banco, come un gesto abituale. “Ciao cara - dice ad un tratto una voce femminile. Mi giro di scatto e vedo una donna in fondo all’aula. Emetto un grido di terrore, esco dalla stanza e mi precipito per le scale. Ad un tratto tutto diventa nero, si sente il frastuono dei tuoni e fuori piove fortissimo. La scala mi sembra infinita. Inciampo su qualcosa: è il cavallo con la testa mozzata che rimane riverso a terra. Mi rialzo e corro verso la porta. -Dove vai, piccina?- Un omone alto e grosso mi si para dinnanzi. Lo guardo atterrita, sembra ferito: del sangue sul lato sinistro della tempia gli ha sporcato anche parte della giacca a quadri marroni. Mi giro per cercare un’altra uscita ma sento un vociare sommesso e mi accorgo che c’è gente
attorno a me. Nella penombra intravedo dei bambini e la donna che un attimo prima stava sopra; ecco che si avvicina verso di me sorridente. Indietreggio, ma lei, guardandomi dolcemente, mi prende la mano. Adesso ricordo bene che anche quel giorno pioveva. Qualcuno, alto e grosso, cercò di proteggerci dal quel folle con la pistola... “George – dice la maestra - adesso puoi chiudere la porta. Anche Helena è tornata”. Maria Luisa Florio