Yung Ho Chang

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Yung Ho Chang Luce chiara, camera oscura Rachaporn Choochuey e Stefano Mirti

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Yung Ho Chang. Luce chiara, camera oscura di Rachaporn Choochuey e Stefano Mirti © 2005 Postmedia, Milano © A come Architettura. Hans Ulrich Obrist Tutte le immagini (tranne diversa indicazione) © Atelier Feichang Jianzhu, Pechino

www.postmediabooks.it ISBN 88-7490-024-4


LA DIAGNOSI DI BUCAREST 7 Yung Ho Chang LUCE CHIARA / CAMERA OSCURA 13 Rachaporn Choochuey, Stefano Mirti A COME ARCHITETTURA 41 Hans Ulrich Obrist LA FINESTRA SUL CORTILE 61 Rachaporn Choochuey, Stefano Mirti DODICI PROGETTI 83 Rachaporn Choochuey, Stefano Mirti 01. Trace of Existence. Pechino 1998 02. Perspectival House. Friburgo 2002 03. Rice House. Matsudai 2003 04. Ke Da Ke Xiao. Londra 1998 05. Bamboo Wall. Bangkok e Venezia 1999-2000 06. Screen Wall. Parigi 2003 07. Beyond the Border. Tokyo 2004 08. Square Town. Vienna 1997 09. Street Theatre. New York 1999 10. Folding Clouds. Berlino 2001 11. Wall City. Pechino 2001 12. Camera. Parigi 2003

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Biografia 117 Bibliografia 121 Indice dei nomi 123


Pingod Sales Center - Art Museum, Pechino 2003


LA DIAGNOSI DI BUCAREST Yung Ho Chang

PREMESSA DEGLI AUTORI Yung Ho Chang e Lijia Lu sono in Italia all’inizio dell’ottobre 2004: Conferenze al Politecnico di Torino, poi visite a Interaction Design Institute Ivrea e Politecnico di Milano, incontri con gli studenti, piacevoli e appassionate discussioni sull’architettura classica e moderna, sull’arte contemporanea, sulla Cina e sull’Europa. Gli ospiti ripartono quindi verso Bruxelles per poi arrivare in Romania, meta ultima di questo tour europeo. All’improvviso veniamo a sapere che Yung Ho è in ospedale, sembra grave, a Bucarest, non si riesce a sapere molto di più. Stupore, preoccupazione, lo spiacevole sentimento dell’avere un amico nei guai senza sapere cosa fare. Poi arrivano nuove notizie, più rassicuranti. Yung Ho e Lijia sono tornati a Pechino, la situazione era meno grave di quanto sembrasse. La mostra è stata inaugurata e tutto procede per il meglio. Manca un ultimo pezzo: il testo che ci deve mandare per il libro sulle installazioni. Finalmente arriva l'email con l’allegato desiderato. No. Ci deve essere un errore. Forse si è sbagliato e ci ha mandato un file dei dottori. Che testo può esserci in un file che si chiama La diagnosi di Bucarest? Una volta aperto il file capiamo che non si tratta di un errore, è proprio il suo testo. Bloccato all’ospedale, le secche descrizioni di quello che si vede dalla finestra: osservazioni, considerazioni, pensieri. Hitchcock, James Stewart e Grace Kelly. Manca solo un omicidio e siamo nel set de: La finestra sul cortile. Che poi è anche il film di riferimento di questo libro, delle installazioni di Yung Ho Chang, della sua opera intera. Spazi delimitati, precisi, chiari. Narrazioni lineari, scritture precise, asciutte. Per capire è necessario concentrarsi in maniera assoluta, lo sguardo deve farsi più che attento. Guardare al mondo avendo la consapevolezza di non poter intervenire, sentendosi bloccati. La peculiare condizione dell’essere capaci di osservare, di elaborare pensieri, congetture, consequenzialità, ma al contempo di essere limitati, bloccati. È la condizione dell’architetto Chang nell’ospedale rumeno, ma è la condizione che accomuna la figura del designer contemporaneo, a prescindere dalla latitudine, longitudine, specifica disciplinare (architetto, industrial designer, grafico…).

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Leggendo la descrizione diYung Ho Chang, non possiamo non riconoscere delle linee guida. Il dover accettare una condizione non particolarmente piacevole, senza perdere il desiderio, il gusto, la volontà di cambiare il mondo. Il difficile (ma anche entusiasmante) esercizio di avere a che fare con una realtà ostile e non particolarmente pronta ad accettare i nostri tentativi di modifica. Ancora però provandoci. Ingegnandosi in mille modi diversi, escogitando trucchi, sistemi, accettando (o sollecitando) l’aiuto delle persone intorno a noi. Trasformare le nostre osservazioni in congetture e da lì muovere verso l’azione, modificando e trasformando il mondo che ci circonda. Possibilmente per il meglio. Avendo tuttavia l’accortezza di non dimenticare che a differenza di James Stewart noi viviamo in un mondo in cui il meglio è in genere nient’altro che il peggio, e che il peggio è meglio di qualsiasi altra cosa.

Camera, 2003-2005


LA DIAGNOSI DI BUCAREST

LA DIAGNOSI DI BUCAREST Arriviamo a Bucarest da Pechino il 23 ottobre, 2004 In precedenza, i materiali di Camera sono arrivati da Parigi. Comunicazione verbale: diventa limitata. Connessione internet: temporaneamente sospesa. La Bucarest rurale: primo hotel. In un piccolo palazzo, sul lato nord della città. Circondati da boschi, c’è un fiume. Sull’altro lato del fiume ci sono numerosi cantieri di nuove ville. Il Museo Nazionale di Arte Contemporanea della Romania (MNAC) nel Palazzo del Parlamento: due torri di vetro inserite nella facciata neoclassica rivestita in pietra, a riorganizzare la circolazione verticale. La circolazione dei visitatori del MNAC è stata pensata in maniera accurata: si inizia dal livello superiore e si procede andando verso il basso. Camera è al piano terreno. Camera: Polaroid, Leica, Nikon, Seagull, quattro installazioni per vedere film e video, esposte per la prima volta al Museo di Arte Moderna della città di Parigi nel 2003. Cornici in acciaio: controllate Cornici plastiche: un pezzo è rotto, riparazione impossibile, arrangiarsi. Cornici in legno: controllate. Pannelli in carta di riso: danneggiati. Alcune porzioni, come per esempio il soffitto, potrebbero essere rifatte con la carta telata trovata sul posto. Qui è impossibile trovare la carta di riso. Specchi: controllati Pannelli in compensato dipinti di bianco (usati come schermi di proiezione): mancanti. Verranno sostituiti con tela bianca. Pannelli in metallo zincato: danni vari, piegature e bolli. Uno o due pezzi sono stati forati, riparazioni saranno necessarie. Leica: chiudendo le estremità per definire le superfici di proiezione, si può pensare di utilizzare una tela bianca.

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Binari a soffitto per l’illuminazione del MNAC: potrebbero essere il punto in cui si aggancia il Seagull e i proiettori per le due sale. Proiettori: le lenti grandangolari non sono più necessarie Raggi X: controllo dell’immagine, si riscontra un’ombra. Ultrasuoni: visualizzazione interna. Tomografia al computer: ispezione sezionata. Si conferma l’ombra, il trattamento è necessario. Costole sul lato destro: quattro rotte. Polmone destro: perforato, viene inserito un sistema di drenaggio dei liquidi. Il sistema si compone di un tubo per l’aria, una cannula per lo scarico dei fluidi corporei, un serbatoio di raccolta del liquido. Polso sinistro: fratturato, stabilizzato in un'ingessatura che andrà portata per un periodo di 30 giorni. Tagli e scorticature sulle gambe e sulla testa: controllate e trattate. Schiena: a circa 3mm dalla spina dorsale sono inserite microcannule plastiche per l’anestesia e per i medicinali per lenire il dolore. Avambraccio destro e parte posteriore della mano destra: sono inserite microcannule plastiche per iniettare i farmaci. Pressione sanguigna: controllata regolarmente. Visione: temporaneamente sfuocata. Mobilità: ridotta, ad un certo punto diventa estremamente limitata l’unico movimento possibile è quello delle dita della mano e del piede. 3 giorni dopo: Mobilità: gradualmente riacquisita Visione: riacquisita la capacità di mettere a fuoco. Presa una mappa della città: La pianta generale dell’ospedale: 4 ali in diagonale, che partono dall’area centrale quadrata. La pianta generale del Palazzo del Parlamento: 4 ali in diagonale, che partono da dall’area centrale quadrata.

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6 giorni più tardi: Il drenaggio è rimosso dalla parte destra del torace e vengono dati dei punti di sutura alla ferita. La periferia di Bucarest: un edificio isolato. Secondo hotel. Vicino a quello che era il Ministero della Cultura e al piedistallo vuoto di quella che fu una statua di Lenin. Connessione Internet: ripresa. Il centro di Bucarest: parte di un isolato di periferia. Terzo hotel, dalle finestre della stanza al secondo piano: edifici multipiano, negozi, insegne, luci, persone, automobili… Due auto si scontrano sul Viale della Libertà di fronte al Palazzo del Parlamento intorno alle 19:00, il 24 di Ottobre 2004. Una persona era in un auto, non ferita. Quattro persone erano nell’altra auto. Mihai O: direttore del MNAC nonché autista. Costole rotte. Lijia L: nel sedile posteriore destro, si riscontrano tagli e lividi sulla faccia. Anche, dolori nella parte destra del torace. Gabriella P: nel sedile posteriore destro, ecchimosi facciali non gravi. Ero seduto nel sedile davanti, a destra. Sono stato costretto a letto per 3 giorni. Sono stato senza i miei occhiali da presbite per 4 giorni. Sono stato in ospedale per 6 giorni. Camera ha aperto alle 17:00 del 29 Ottobre 2004, come parte dell’inaugurazione generale del MNAC. PS: Durante il mio soggiorno a Bucarest ho sempre indossato una giacca chiamata Scarface. PS bis: La mostra è un’esperienza.

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Yung Ho Chang nel suo ufficio. Pechino 2004. Foto: Stefano Mirti


LUCE CHIARA / CAMERA OSCURA Intervista Rachaporn Choochuey e Stefano Mirti

Primo pomeriggio del 10 Maggio 2004. Siamo nel parco dell’antico Palazzo Estivo Imperiale. Di fronte a noi c’è l’Atelier Feichang Jianzhu, l’ufficio di Yung Ho Chang. Nella periferia senza fine di Pechino il taxi arriva di fronte a un parco enorme, con svariati laghi, isole, fossati, viali, le rovine degli edifici antichi, originariamente gloriosi. Nell’angolo settentrionale di questa versione orientale della Villa Adriana, in quelli che erano gli edifici di servizio, troviamo lo studio di Chang. Si tratta di un edificio basso, a un piano, lungo una cinquantina di metri. Di fronte alla costruzione ferve una grande attività. Operai, falegnami che tagliano assi, incollano pezzi, lavorano di pialla, martello, sega e cacciavite. Non si capisce se lavorano agli arredi interni dello studio o a qualche installazione. Entriamo nello studio. Molti architetti giovani e Lijia, la moglie, perno di tutte le attività progettuali dello studio. Chang è tornato il giorno prima da un viaggio negli Stati Uniti. Quando arriviamo è impegnato di fronte al suo computer, cerca di finire di scrivere una lettera importante, le telefonate sul suo cellulare si susseguono. Abbiamo letto nella tua biografia che hai studiato architettura in Cina. Esatto, per tre anni. Ma senza arrivare alla laurea. L’aspetto più interessante è che il mio era il primo anno di corso dopo la Rivoluzione Culturale1. Le università vennero chiuse dal 1966 al 1976. Dopo la riapertura, nel 1979, andai a Nanchino, all’Istituto di Tecnologia di Nanchino - la più antica scuola di architettura di tutta la Cina - e vi rimasi per tre anni. Come mai non sei arrivato alla laurea? Ad un certo punto ho smesso per andare a studiare all’estero. Quanto dura un corso di laurea in architettura in Cina? Allora si trattava di quattro anni, ma adesso sono cinque.

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Quindi, appena hai avuto l’opportunità sei andato negli Stati Uniti, non hai mai finito la scuola a Nanchino? No. Volevo proprio andarmene via. Per te [ndr: rivolto a Rachaporn Choochuey] immagino sia stato diverso. Hai studiato a New York ma sapevi che saresti tornata a Bangkok. I miei pensieri, invece, erano quelli dell’emigrante. Gli Stati Uniti erano una terra promessa, il luogo delle opportunità. In quel periodo in Cina non esisteva il concetto di studio di architettura privato. Gli studi privati vennero cancellati per cinquant’anni. Prima di parlare dei tuoi studi negli Stati Uniti, siamo curiosi in merito alla tua carriera di studente nell’accademia cinese. Com'era l’insegnamento a quei tempi? Devo dire che era molto interessante. Specialmente se lo confrontiamo con il sistema di educazione che abbiamo adesso in Cina. L’educazione ricevuta in quel momento, appena dopo la Rivoluzione Culturale, era libera da ogni elemento ideologico. Era il più possibile tecnologia senza nulla di più. Gli elementi che servono per costruire un edificio. Nessuna classe di teoria dell’architettura, molto poco anche in termini di forma e composizione. Il tutto si incentrava su come far stare assieme un edificio: le funzioni, le finestre, le porte, come ordire i mattoni. Diciamo un’architettura moderna senza la modernità. Direi che si è trattato di una buona introduzione perché al giorno d’oggi gli studenti vengono sommersi da una miriade di possibilità formali diverse, devono scegliere tra Herzog & de Meuron o Frank Gehry, in una confusione assoluta. Nel mio caso fu diverso. Ovvio, perché non c’era mica da scegliere. Possiamo dire che non era architettura, infatti non c’era nulla che facesse riferimento al mondo delle idee. Ma si è trattato di una buona introduzione alla disciplina. Dal nostro punto di vista però, quando ci spostiamo per Pechino, non possiamo non notare l’elevata qualità degli edifici costruiti in quel periodo. Vista da fuori sembrerebbe un sistema dove l’università era in grado di formare una generazione intera di architetti cinesi molto capaci. Probabilmente, anche più di una generazione. Per noi, andare in giro per Pechino è molto interessante. Non solo per i quartieri con le tipologie tradizionali degli hutong2, ma anche per i quartieri costruiti nel trentennio che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta. Concordi? In termini di qualità architettonica, il meglio viene fuori dai tardi anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. In questo momento, noi stiamo

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lavorando ad architetture che sono molto lontane da quel tipo di neoclassicismo. Ma in termini di qualità edilizia, non siamo ancora in grado di sorpassare quel periodo. E adesso, in che maniera si formano gli studenti? Il sistema è ancora quello attraverso il quale sei passato tu? Non più. Venne spazzato via durante il periodo in cui ero negli Stati Uniti. La prima volta che ho sentito parlare di Mies van der Rohe è stato durante il mio secondo anno a Nanchino. Per quello che noi potevamo sapere, credevamo che gente come Mies, come Le Corbusier fossero la contemporaneità, l’architettura che in quel momento era costruita in Occidente. Non pensavamo che fossero giovani architetti, ma secondo noi questa era l’architettura nuova. Quando ci parlavano di loro li credevamo ancora operativi. Immaginate dunque lo shock quando nel terzo anno ci venne spiegato che non solo si trattava di gente morta, ma che addirittura le loro idee erano considerate obsolete. Eravamo già negli anni Ottanta, le idee postmoderne iniziavano a farsi strada. Possiamo dire che si è trattato di tre periodi drasticamente distinti in soli tre anni. Questa è stata la mia esperienza nell’università cinese. La storia era parte dei programmi di studio? Seguii un unico corso sulla storia dell’architettura cinese. Un grande corso. Quali erano i temi, cosa si studiava? Come funzionava un corso di storia dell’architettura cinese? Il tutto era organizzato in maniera abbastanza cronologica. Da un certo punto di vista era dunque tradizionale, però si toccavano molti argomenti diversi: dall’artigianato alle poetiche, tutti temi assenti quando si parlava di architettura contemporanea. Poi, dopo tre anni, decidi di andare negli Stati Uniti. Eri nel primo gruppo di persone a cui venne concessa l’emigrazione? Sì. Senza paura di sbagliare credo di essere stato il primo cinese a studiare architettura negli Stati Uniti dopo la Rivoluzione Culturale. E tua moglie, eravate già assieme durante quegli anni?

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Non ero ancora sposato. Lijia è più giovane di me. Ci siamo incontrati nel 1987 quando già insegnavo. Anche lei è un architetto. Lei ha studiato prima in Cina, in una scuola di architettura ad Harbin. Ci siamo conosciuti qui in Cina. Lei era il direttore di questa rivista, Architect. Ci hai detto prima che anche tuo padre è un architetto. Lavorava in un ente ministeriale molto importante. Possiamo immaginare che lui fosse contento di questa tua scelta di fare l’architetto. Ci sono state influenze e pressioni da parte sua? In gioventù, la mia vera passione era la pittura. Dopo la Rivoluzione Culturale volevo studiare la pittura ad olio. È importante sapere che allora (parliamo degli anni Sessanta) c’erano due cose che un giovane poteva imparare a casa: la musica e la pittura. Molti ragazzi erano bravi a dipingere, ma in confronto a loro non lo ero affatto. Alla fine, non ebbi neanche il coraggio di provare l’esame di accesso all’Accademia di Belle Arti. Una volta scartata l’accademia, pensai che avrei fatto qualcosa di simile: disegno industriale per esempio. Ma anche in queste discipline c’erano decine e decine di studenti di talento che si infilavano dappertutto. Arrivai a un momento in cui non sapevo più cosa fare. Mi sentivo perso. Però, sapevo che andare all’università era molto importante: non dimenticate che nessuno aveva potuto frequentare l’università nei dieci anni precedenti. Non volevo assolutamente perdere questa opportunità. L'importante era studiare, non era di cruciale importanza cosa studiare. Quello fu il momento in cui intervenne mio padre. Disse: "Non sei bravo nelle discipline scientifiche (in effetti andavo malissimo), non sei sicuro di avere le abilità necessarie per diventare un artista. Perché non provi a studiare architettura?". Quindi tuo padre sostiene questa tua scelta. In seguito, cosa pensarono i tuoi genitori di questa tua decisione di andare negli Stati Uniti3? Quella è una storia completamente diversa. L’università risultò abbastanza impegnativa e difficile. Non ero molto bravo nel dipingere, ma nel disegno tecnico ero ancora peggio. Dopo tre anni iniziavo a trovarmi meglio, iniziavo ad adattarmi al sistema. Detto francamente: non avevo alcuna ambizione o desiderio di andare all’estero. Quella fu un’idea di mio padre… Questo è interessante…

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Sì, molto. Da giovane, lui aveva realmente avuto fede nel Comunismo. Quando ebbe l’opportunità di andare a studiare all’esterno, lui preferì restare in Cina. Immaginate, siamo nel 1949, i comunisti hanno appena preso il potere, un periodo di grandi cambiamenti. In quel momento lui pensò che fosse meglio rimanere e così fece. E se ne pentì molto. Così, appena la Rivoluzione Culturale finì, il suo primo desiderio fu quello di spedire me e mio fratello a studiare all’estero. All’inizio non ero per nulla convinto. Mio fratello invece è il tipo di persona che è molto bravo nel fare, nel costruire. Diciamo che è il normotipo dell’ingegnere. Ma a causa della Rivoluzione Culturale non ebbe la possibilità di frequentare le scuole superiori. Che invece io riuscii a fare. Come mai tu hai fatto le scuole superiori e tuo fratello invece no? Perché tutte le scuole superiori vennero chiuse alla fine degli anni Sessanta. Quando lui finì le medie non esistevano più le superiori. Non ebbe alcuna possibilità di seguire lezioni di matematica, scienza. Tutte quelle nozioni indispensabili per poter fare l’esame per entrare nella facoltà di ingegneria o in una qualche facoltà scientifica. Alla fine studiò economia, non per reale passione ma piuttosto per esclusione. Un po’ come me, anche lui non sapeva esattamente cosa fare. Un suo amico gli disse: "Ma se non sai cosa fare, perché non fai economia?". E tuo fratello adesso, è ancora via? Non è più tornato indietro, adesso vive a Los Angeles. Ricordate quando raccontavo di essermi trasferito a Los Angeles nei peggiori momenti dell’epidemia della SARS? Ecco, stavo da mio fratello. Tornando a tuo padre, l’architetto (è un tema che ci intriga). È ancora vivo? Sì, adesso ha 92 anni. È fiero delle cose che hai fatto e che stai facendo? È soddisfatto del tuo percorso? Posso dire che adesso è felice. Cosa vuole dire ‘adesso’? Quando sono tornato in Cina per aprire il mio studio, lui pensava che fossi diventato pazzo. Non apprezzava assolutamente i miei esperimenti

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d'avanguardia. Dal suo punto di vista si dovevano fare cose sensate, non cultura sovversiva. Questa è la Cina, la società cinese. Non so in Tailandia, magari è la stessa cosa. Qui per certo siamo in un posto molto conformista. Puoi spiegarci meglio questo punto? Cosa vuol dire che fare dei progetti d’avanguardia è come essere sovversivi? Ma rispetto a quale tipo di valori? Quelli del Partito Comunista? Quelli tipici della cultura tradizionale cinese? Stiamo parlando di politica o di soldi? In effetti si può dire che si tratta di una miscela di valori cinesi tradizionali e riferimenti marxisti. Alla fine, un pensiero libero e indipendente è sempre considerato pericoloso, difficile da accettare. Al momento, l’unico parametro per il successo in Cina è il denaro. Il denaro come parametro di misura del successo è un valore con il quale non mi riconosco e, da questo punto di vista, non sono un buon cinese. Arriviamo al punto, ero tornato, era circa il ’95, e mio padre mi comunica che è irrimediabilmente deluso da me. Tutte le cose che stavo facendo non erano quello che lui considerava architettura: avere un grosso studio, accettare commesse importanti, cose del genere. Nulla di tutto questo faceva parte della mia vita professionale, per quanto mi considerassi un architetto tradizionale. Ancora adesso lui non capisce esattamente quello che faccio, ma ora è tutto più facile, perché ci sono stati dei riconoscimenti, ho avuto modo di essere intervistato alla televisione, in alcuni talk show, in altri programmi. Tutti eventi importanti in termini di impatto. Quelle cose per le quali amici e parenti gli telefonano congratulandosi. Finalmente, possiamo dire che adesso è felice. [risate] Ci parleresti del tuo percorso professionale? Come si diventa ‘pronti’ per l’architettura? Non so come spiegarlo. Diciamo che c’è una parte di fortuna, o meglio, non è fortuna, è piuttosto destino. Quando ho iniziato l’università negli Stati Uniti c’era un professore che arrivava dall’Architectural Association di Londra. Un sudafricano, abbastanza pazzo. Allora mi trovavo in Indiana, alla Ball State University. All’inizio del semestre gli studenti dovevano scegliere uno studio4, come si fa in tutte le scuole americane. Dunque, dovevamo scegliere e c’era quest’uomo, Rodney Place, con un accento inglese molto marcato. A quell’epoca ero a malapena in grado di capire l’inglese americano, e non riuscii a capire nulla di quello che aveva detto. Per districarmi dovetti chiedere allo studente seduto vicino a me una traduzione di quello che il professore stava dicendo. Attraverso la sua traduzione riuscii a percepire qualcosa che ancora non sapevo.

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E siccome percepisci qualcosa che non conosci, allora scegli il suo studio? Tutto sembrava così esotico! [risate] Era vestito in maniera molto elegante. Un uomo molto interessante, ma non avevo alcun indizio sulle sue idee. Inizio a frequentare le sue lezioni, con estrema difficoltà. Posso dire che è stato un passaggio cruciale per la mia formazione. Mi ha fatto capire che avrei potuto imparare l’architettura nella maniera a me più congeniale, come volevo io. Non avrei dovuto diventare un architetto come gli altri, ma potevo diventare un architetto autonomo, fatto a modo suo. Se questa è la tua definizione di ‘destino’, dobbiamo dire che è una definizione che ci piace molto! Quindi, questo professore sudafricano, Rodney Place, è la figura di riferimento nella tua formazione? Esattamente. Non sono sicuro di averlo apprezzato appieno durante quel periodo. Era un personaggio abbastanza intenso e irascibile. Arrivava dall’Architectural Association, un amico stretto di Zaha Hadid. Qualche giorno fa ero con Bernard Tschumi e anche lui si ricordava Rodney dall’Architectural Association degli anni Settanta. A parte tutto, era in grado di tirarmi fuori le idee. La cosa più impressionante era il modo in cui lui parlava. Stupefacente. Insegnava in un modo molto difficile ma al tempo stesso interessante. Come funzionava il suo metodo? Aveva un ristretto numero di diapositive. Non saprei dire quante, forse due dozzine. Nei seminari, mostrava queste diapositive, sempre le stesse, volta dopo volta. C’erano delle cose di Marcel Duchamp, dei lavori di Bernini, alcuni dipinti del primo Rinascimento. Molto poca architettura. Se c’erano immagini di architettura si trattava sempre di edifici pre-moderni. Metodo interessante… Ci faceva vedere alcuni dipinti del primo Rinascimento e ci chiedeva cosa riuscivamo a vedere. Per esempio, ci faceva vedere una scultura di Bernini e chiedeva cosa vedevamo in questa scultura. All’inizio mi sembrava una stupidaggine, non riuscivo a prendere questi esercizi sul serio. Senza contare che ero molto timido e che il mio inglese non era così buono. Diciamo che non avevo tutto questo piacere nell’alzare la mano e azzardare risposte. Allora lui mi chiedeva: ‘Cosa pensi?’ e io articolavo

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qualche risposta. Rodney è il tipo di persona che riesce a fare facce realmente espressive. Riuscivo a percepire la sua faccia scontenta, depressa a causa delle patetiche risposte che davo. Allora cercavo di fare meglio, articolando meglio i miei pensieri, sforzandomi molto. Alla fine mi incuriosii per davvero a queste immagini, da dove arrivavano. Con grande sforzo riuscivo a dire frasi del tipo: ‘Forse riesco a vedere questo o quello…’. Fino a che si arrivava al vero e proprio momento magico, perché naturalmente tutti eravamo interessati a quello che pensava lui, quello che lui vedeva in quelle immagini. Ovviamente lui non ci diceva nulla. E quale era la sua giustificazione per non dirvi nulla?

Giovanni di Paolo

In maniera molto semplice, non ci era dato di sapere. Mi ricordo bene che alcuni studenti si arrabbiavano molto. Gente che arrivava a dire: ‘Che cosa pensi TU, Rodney? Sembra che qualsiasi cosa diciamo non va bene, allora magari ci dici tu quello che vedi, così finalmente capiamo!’. Ma ancora, lui non proferiva parola. Non avremmo mai sentito il suo pensiero in merito. Molti anni dopo, finita la scuola da tempo, avevo ottenuto la mia prima cattedra alla Ball State University. Stavo attraversando le grandi distese tra l’Utah e il Nevada, un posto completamente deserto. Un deserto assoluto. Non so come, ma a un certo punto, una di quelle immagini dei maestri del primo Rinascimento affiora nella mia testa. San Giovanni che va nella Selva di Giovanni di Paolo, un pittore del primo Rinascimento senese. Ecco, all’improvviso quel dipinto ritorna alla mia mente e sono in grado di capirne il significato, a tanti anni di distanza da quelle lezioni, come una rivelazione improvvisa. Solo che a quel punto non ebbi più bisogno di sapere cosa pensasse Rodney di quel quadro. Questo è stato il momento in cui la mia mente ha iniziato a essere quella di un architetto

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indipendente. È interessante il fatto che riesca a ricordarmi il momento preciso in cui c’è stato l’inizio del mio essere architetto. Questo accadeva durante i tuoi anni universitari. È affascinante pensare che sebbene tu abbia studiato negli Stati Uniti, la figura chiave della tua formazione sia stato un professore sudafricano che arrivava dall’Architectural Association. In termini generali possiamo dire che ti sei formato attraverso il sistema britannico, non quello americano. Sì. E inoltre dovete considerare che la mia innocenza era assoluta. Non avevo alcuna idea di cosa significasse A.A., cosa fosse l’Architectural Association5. Come funziona il tuffo in questo mondo completamente nuovo? Non tanto dalla Cina agli Stati Uniti, quanto piuttosto la scoperta di questo nuovo e misterioso mondo fatto di arte, architettura, approcci concettuali. Che colpo. Cosa voleva dire tutto questo per il giovane studente arrivato da Pechino? Era un insieme molto interessante. Rodney ci portò tutti in viaggio a Cranbook, Michigan, credo fosse il 1982. Là incontrammo un uomo, un piccoletto simpatico e gentile. Chiacchierai a lungo, per quanto poteva permettere il mio inglese. Ovviamente senza sapere che lui era Daniel Libeskind… E dal periodo successivo, a Berkeley, ci sono ricordi significativi? Da un certo punto di vista, Berkeley è stato il momento in cui ho messo insieme e connesso le varie parti che avevo imparato e sviluppato alla Ball State University. Anche lì ho trovato dei grandi insegnanti, persone molto interessanti. Il mio relatore di tesi per esempio, Stanley Saitowitz, un architetto molto bravo. Così come Rodney Place, anche lui viene dal Sud Africa. Pensate un po’, arrivo negli Stati Uniti dalla Cina e trovo due grandi insegnanti in due università diverse e si tratta di due sudafricani. Anche questo può essere definito ‘destino’. Un’altra figura importante per la mia formazione è stato uno svedese, Lars Lerup. Di ognuno di loro mi ricordo una frase, un insegnamento specifico. Le puoi condividere? Quando ero con Rodney, poco per volta iniziavo a migliorare, a capire meglio cosa dovessi fare. Tutto procedeva per il meglio, avevo anche fatto alcuni studi sui ragazzini in bicicletta nella città. Poi, a un certo punto Rodney mi dice una cosa molto importante. Lui sentiva il mio 21


Bamboo Wall, Cities on the Move, Bangkok 1999


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materiali, nuove sfide. Per esempio, quando abbiamo fatto il soffitto della Utopia Station alla Biennale di Venezia del 2003 alla fine il risultato ci ha lasciato soddisfatti. Non so se avete avuto modo di muovere le barre: c’era una molla a fare da collegamento ai montanti e ai fogli plastici del soffitto. Si può dire che è stupido, però ancora ha a che fare con due idee molto importanti: da un lato si lavora sul concetto di architettura ‘morbida’, dall’altro si lavora sull’idea di architetture potenzialmente movibili. Adesso facciamo installazioni o mostre in termini continuativi, da questo punto di vista mi piacerebbe molto avere uno studio inteso come laboratorio; un laboratorio dove si sviluppano idee per l’architettura e per l’urbanistica. Cities on the Move è stata dunque la tua prima mostra? Non proprio, in verità è stata la seconda. Ma la prima fu un tale fiasco che tendo a rimuoverla. [ride] Fu per la Biennale di Gwangju in Corea, credo la seconda edizione di quella Biennale. Per quel progetto lavorai molto in profondità, ma alla fine il concetto risultò talmente opaco che i visitatori non riuscivano a capirlo. Quindi Cities on the Move è stata l’occasione per entrare in contatto con Rem Koolhaas, Hou Hanru, Obrist e il resto del gruppo? Non proprio. Koolhaas non l’ho realmente incontrato in quell’occasione. Quando ero studente e leggevo testi teorici, saggi come quelli di Anthony Vidler, era per me sempre una grande fatica seguire il loro discorso. Ma quando ho letto Delirious New York di Koolhaas, invece capivo tutto molto bene. La maniera con cui lui scrive, il suo senso dell’ironia, lo humor, tutti questi elementi che riuscivo a prendere e comprendere. Molte delle sue considerazioni, specialmente quelle in merito alla Generic City erano il tipo di esperienza che anche io provavo (almeno in parte). Un altro autore che amo molto è Robin Evans, morto una decina di anni fa. Se non avete mai letto nulla di lui dovreste assolutamente leggere i suoi testi. Ci puoi parlare di lui? Robin Evans è stato il maestro di Rodney Place. Questo non lo sapevo perché Rodney non me ne aveva mai parlato. Poi mi capita di leggere alcune cose scritte da Evans. Mi piace molto perché lui appartiene a quella tradizione di persone che scrivono da architetti, e non da accademici. Lui era anche in grado di disegnare, diagrammi e rendering per aiutare a spiegare meglio le sue idee. Non si riferiva ad altri libri, non citava altri autori, piuttosto ne analizzava le immagini da architetto.

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Risistemazione del giardino all'esterno dell'Atelier Feichang Jianzhu


LUCE CHIARA / CAMERA OSCURA

servizio del Vecchio Palazzo Imperiale Estivo, con l’orto, i computer, le stampanti… questa è la tua realtà. Avresti potuto scegliere di diventare un architetto a Los Angeles. Allora, sicuramente, percepiresti la realtà in una maniera diversa. La realtà è continuamente tradotta grazie a questi grandi testi, ai grandi teorici. Si prende la realtà originale e lungo la via le cose sicuramente cambieranno. Diciamo che amo molto Las Vegas, ci vado come ci potrebbe andare il tipico cinese. Purtroppo non nel senso che sia un buon giocatore, tutti i cinesi sono ottimi giocatori. Io sono a Las Vegas, vedo gli show, mi diverto, sembra di guardare un film di Hollywood, chi non si divertirebbe? Poi però, per capire l’intera situazione dal punto di vista intellettuale ho bisogno che qualche grande teorico mi aiuti a interpretarla. Venturi e Scott Brown su Las Vegas, Koolhaas su Manhattan. C’è qualcuno che sta operando un tentativo simile su Pechino? Non ancora, ma potrebbe mancare poco. La realtà cambia di continuo, e in Cina tutto succede con grande rapidità. Noi arriviamo qui e il tuo studio sembra una fabbrichetta, un cantiere. Tutti che corrono, lavori di ogni tipo. State facendo una ristrutturazione o è una condizione abituale? Sono sempre preso da questo grosso dilemma. [ride] Cosa vogliamo fare nel giardino di fronte allo studio? Mi piacerebbe vedere un giardino in piena fioritura. Poi però ci sono molti lavori da fare e il tutto diventa alla fine un cantiere senza troppi fiori… Le persone fuori stavano lavorando alla ristrutturazione dello studio, però adesso si tratta dei lavori per le installazioni per la prossima mostra. In questo momento stanno lavorando alla cucina mobile. Infatti, quando siamo arrivati ci stavamo per l’appunto domandando di cosa si trattasse. Questi mobili di compensato, colossali. Dunque non è per una casa reale, è per una mostra temporanea… Sì, comunque c’è sempre qualcosa da fare qui. Ma, abbiamo comprato grandi quantità di sementi di fiori e verdure. In effetti, non riusciamo ancora a risolvere questa ambiguità, se usare lo spazio come giardino o come workshop… E come si fa ad ottenere uno spazio così bello? Si affitta?

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The Tall Window, Pechino 2002

sviluppare nuovi (e diversi) tipi di architettura. Ho un bel po' di architetti stranieri nel mio studio e so di altri che sono in altri studi. Per tutti loro c’è qualche osservazione generale che si può fare. In primo luogo devono capire che l’architettura è un mondo che richiede molta più pazienza di altre discipline come, ad esempio, la grafica e l’arte. Cosa intendi? Che devono ipotizzare di stare qui per un lungo periodo. Un anno non è sufficiente. Tre o quatto anni, almeno per vedere un edificio interamente costruito. Un altro aspetto importante è la lingua. Sia da un punto di vista pratico che da un punto di vista culturale. Bisogna essere in grado di capire qualcosa del mondo intorno a noi, altrimenti non può funzionare. Lo sapete anche voi, se uno viene qui per un periodo lungo, tre, quattro anni, non sarà in grado di comprendere granché. L’ultimo architetto straniero che abbiamo avuto qui in studio è stato con noi per

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The Tall Window, Pechino 2002

più di quattro anni, però l’insieme per lui era molto frustrante. Se c’era una riunione dove si parlava di temi interessanti, se si raccontava una barzelletta lui non capiva cosa stesse succedendo. È sempre così. Se poi questo diventa davvero un problema, dipende dalla persona, da che tipo di esperienza si vuol fare. Adesso negli Stati Uniti, molte università offrono corsi di lingua cinese. Quando ero in Giappone l’ultima volta, dopo la conferenza di presentazione uno studente mi ha fatto la stessa domanda. Gli ho risposto che la prima cosa era trovarsi un corso di lingua cinese. Se intendiamo l’Europa, gli Stati Uniti e il Giappone come un triangolo, dove posizioniamo la Cina? Al centro? Fuori? Da un punto di vista puramente culturale è molto strano. Siamo in una posizione unica. La mentalità collettiva è molto simile a quella che c’è negli Stati Uniti. Che da un certo punto di vista fa paura. Però,

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Yung Ho Chang nel suo ufficio. Pechino 2004. Foto: Stefano Mirti


A COME ARCHITETTURA Intervista Hans Ulrich Obrist

Volevo farti alcune domande. Ho già le vecchie interviste da cui si può stralciare, ma adesso mi sembra un buon momento per fare un’altra registrazione. Mi piacerebbe iniziare con "A come Architettura". C’è stata, si può dire, una lunga storia di idee anti-architettoniche, alcune sviluppate da personaggi come Cedric Price, ma anche lo stesso Rem Koolhaas sembra adesso rifiutare quel campo di azione. Mi domandavo dunque qual è il tuo rapporto con il terreno dell’architettura: "A come Architettura". "A come Architettura" oppure "Anti-Architettura". [ride] Diciamo che la mia posizione è un po' diversa. Quando ero negli Stati Uniti, facevo sicuramente parte degli ‘anti’, ma quando sono tornato in Cina, ovviamente, mi sono state offerte una serie di opportunità abbastanza differenti. Almeno così si può dire. Al momento - posso dire solo al momento - sono all’opposto degli ‘anti’, sono più indirizzato nell’intendere l’architettura come l’azione del costruire, però in effetti non posso realmente limitarmi a questa definizione. Diciamo che costruire gli edifici è il nocciolo, ma sarei pronto a costruire praticamente qualsiasi cosa. Ieri stavo lavorando su un’automobile. Che tu ci creda o no, si tratta di un progetto organizzato dalla Volkswagen qui in Cina. Ho realizzato degli schizzi su un’automobile già costruita, ma penso di poterla trasformare in qualche modo, facendola tornare al suo stadio di disegno. Questo processo è all’opposto del tipico costruire, eppure è come se si trattasse di un edificio. Per cui penso che l'idea di interrogare l’architettura sia molto importante, ma per il momento è un’operazione che preferisco sospendere. Magari la riprenderò in seguito. Questo ci porta a "B come Building" (edificio). È una domanda che ti faccio visto che ne stai costruendo svariati. Possiamo dire che per arrivare da una posizione ‘anti-architettonica’, adesso sei abbastanza inserito nei processi di costruzione degli edifici. Quando ci incontrammo tu eri appena all’inizio dei primi cantieri, avevi costruito poche case ed erano passati sette o otto anni da Cities on the Move, dove avevi costruito una biblioteca su ruote. Ora hai un incredibile catalogo di lavori

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Yung Ho Chang

costruiti. Dunque, mi domandavo se tu potessi parlare un po’ della "B come Building", di tutti i cantieri, tutti gli edifici su cui stai lavorando. Sono così tanti che non riesco più a starti dietro. Prima di tutto, quando ci vedremo in ottobre, ti mostrerò tutto quello su cui siamo stati impegnati perché cambia molto dal lavoro degli ultimi anni. È pazzesco: data la velocità con cui si lavora qui in Cina, sembra che un'intera carriera sia sottoposta a grandi accelerazioni, e quindi sono quasi pronto per andare in pensione. Tutto cambia in fretta e negli ultimi dieci anni sembra sia successo di tutto. Tornando al ‘costruire’, stavo proprio riflettendo su una cosa che ritengo molto importante dopo anni di pratica. Quando insegnavo negli Stati Uniti, ma anche quando ero studente a Berkeley, c’era questo grande dibattito sul progetto e sulle sue responsabilità sociali. C’erano singole persone e istituzioni come Berkeley e MIT, che pensavano che l’architettura fosse un atto di auto-coscienza, che il design sia sempre in antitesi rispetto alle tematiche sociali. Ma in Cina, proprio perché stiamo attraversando questa transizione culturale – con tutte le incertezze ad essa legate – in effetti possiamo dire che costruire e progettare sia un servizio nei confronti della società. Credo si tratti di un’attitudine che in Occidente si fatica molto ad accettare, è sempre stato un concetto tremendamente difficile da far passare. Bernard Tschumi aveva affrontato questo nodo in passato, anche altri, in modi diversi. Ma al momento in Cina è evidente che questa ambizione sociale e l’interesse per il design possono coesistere, e tutto questo non fa che rendere l'atto del costruire ancora più interessante. Costruire inteso come attenta e preziosa realizzazione di un oggetto è un conto, ma c’è anche un altro aspetto, quello della produzione di massa, che implica un coinvolgimento critico nei processi economici. Mi sembra di poter dire che si tratta di una storia completamente diversa. Dunque adesso abbiamo due "C". "C come Cars" (automobili) e "C come Carriera". Mi interessa sapere di più sulle automobili. Buckminster Fuller diceva che una macchina andrebbe intesa come servizio e non come proprietà. Quindi si potrebbe pensare anche alle abitazioni in termini di servizio e non di proprietà. Uno non dovrebbe possedere una macchina, quanto usarla piuttosto come servizio. Mi domandavo se mi puoi raccontare della tua automobile, e dalla "C" saremmo dunque pronti a passare alla "D", "D come Design". Ovvero, tutto l’insieme che si riferisce all'essere architetto, al tuo coinvolgimento in diverse attività progettuali. Progetti, design, di automobili, di altri oggetti: design come processo. La risposta può essere che le automobili dovrebbero essere uno strumento d’uso così come lo sono un paio di scarpe o una bicicletta. Però adesso

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A COME ARCHITETTURA

sono diventate uno status symbol e allora non si tratta più di avere o non avere l’auto, quanto piuttosto di che tipo di macchina guidi. Questo succede perché le persone iniziano a diventare poco pratiche rispetto all’auto. Questo è quello che sta capitando in Cina, si possono capire le ragioni: è sempre la stessa storia. La gente non aveva l’opportunità di possedere autoveicoli e all’improvviso c’è un’invasione di milioni di auto in una città che era pensata per cavalli e carretti. In effetti, penso che all’origine le auto fossero pensate per facilitare la vita delle persone, ma adesso sono diventate una delle più grosse difficoltà con cui la gente si trova a lottare. Mi sembra che questo sia un aspetto quasi tragico rispetto a questa interessante invenzione da parte di scienziati e ingegneri. In pratica, ora ho dei sentimenti contrastanti nei confronti dell’auto. Penso che in termini generali, un possibile sistema per Pechino sarebbe quello di fermare le nuove immatricolazioni di auto private, però bisognerebbe nel frattempo impostare un programma serio di trasporti pubblici, specialmente la metropolitana, altrimenti la città smetterà di funzionare. Adesso la città non funziona affatto. Abbiamo costruito tutti questi viali e non ci sono più strade. Ovviamente, abbiamo costruito i viali per le auto, non per le persone. D’altro canto, c’è una maniera diversa di guardare alle automobili che, senza arrivare a risolvere completamente il problema, lo potrebbe perlomeno migliorare. Penso ai modelli prodotti in passato dalla Fiat, la Mini, le Smart e ad altre utilitarie. Erano automobili fatte per città dalle strade antiche, strette, come Roma. Automobili che quando sono parcheggiate occupano metà dello spazio dei modelli più grossi. Per motivi a me ignoti queste utilitarie non arrivano in Cina. Abbiamo grosse Buick, altri modelli enormi, americani ed europei. Tutte auto che amplificano il problema. "D come Densità". Abbiamo tutte le "C" dall’ultima intervista registrata in occasione del catalogo fatto per la mostra Camera. Quindi passiamo a "D come densità". Saltando "design"? Sì: design e densità. Allora parlerò prima di densità. Per quanto ne so, la densità è quel qualcosa che fa la qualità reale della città. Senza densità, non c’è città. È un tema su cui gli architetti hanno pensato e discusso per quasi un secolo. Pensa allo zoning, alla città intesa come parco sviluppata da Le Corbusier. In qualche modo quando adesso andiamo a rivedere quelle idee capiamo che c’è un certo piacere elementare, di base, che ha a che vedere con la densità. La gente va in giro a fare shopping: quello è

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Screen Wall, 2003


A COME ARCHITETTURA

il motivo per cui si decide di vivere in città, ci si può fermare, bere un tè o un caffè e così via. Comunque sia, a prescindere da dove arrivi, se mettiamo da parte l’aspetto legato al piacere, rimane l’altro aspetto, quello più problematico. Pensiamo al concetto di strada in rapporto agli assi di scorrimento veloce. I viali, i grandi assi, sono infatti più ampi e più larghi. A Pechino sono estremamente larghi, e di nuovo si tratta di operazioni fatte per le sole automobili e non per le persone. Diciamo che senza densità non si può camminare e allora si tratterà di una città morta. Poi c’è il design. In effetti volevo proprio dirti che rispetto a questo tema, ho sempre avuto dei dubbi e non credo che si stiano risolvendo. Comunque sia, penso che il design, il progetto, non siano lo scopo dell’architettura quanto piuttosto un mezzo. Sebbene alcune delle discipline intese come design – pensiamo per esempio al fashion design o al disegno industriale o anche al design d’interni – siano pensate in termini di puro progetto. Penso che il vero scopo del design sia legato allo sforzo che l’architetto fa nel raggiungere un qualcosa di più sostanziale. Dal mio punto di vista, se un architetto riesce a mettere anche le tematiche sociali in un elemento di architettura, in un edificio, allora in quel momento il design diventa lo strumento che utilizzerà. A quel punto, il design in quanto tale non è più così importante. E questo anche se alcuni architetti sono effettivamente molto bravi nel progetto. A volte ci limitiamo a guardare al design, al progetto, facendoci sfuggire il programma concreto dietro questi lavori. "E come Exhibition". Sostanzialmente ci conosciamo grazie alle mostre, a partire dal tuo allestimento per Cities on the Move. Uno degli aspetti che penso siano più sottostimati nell’architettura è il mondo dell’exhibition design. È un tema che difficilmente trovi nei libroni patinati pubblicati in tutto il mondo. "Esporre" va inteso come realtà sperimentale radicale, come progetti dalla vita limitata, spesso di uno o due mesi. Senza contare tutto il mondo dei dispositivi di allestimento ed esposizione. Ogni mostra che ricordiamo – come suggerisce Richard Hamilton – ha effettivamente inventato una maniera di mostrare le cose, che si tratti della mostra surrealista curata da Duchamp, o la mostra di architettura The Street di Jean Leering. Volevo dunque chiederti se ci puoi parlare di "D come Display" e di "E come Exhibition". Ci spieghi il rapporto tra l’exhibition design e le tue attività professionali e dell'importanza di questo rapporto. Stiamo parlando dell’utilizzo delle mostre come vero e proprio laboratorio per sviluppare idee architettoniche e urbanistiche. Una cosa che mi sembra interessante è l’affermazione fatta l’anno scorso a Venezia dall’architetto giapponese Tsukamoto dell’Atelier Bow-Wow. Lui diceva

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YUNG HO CHANG

però ci avverte del pericolo del rifiuto di possibilità legate a un dialogo di tipo globale, e introduce questo termine: mondealité come dialogo globale che potrebbe condurre a forme non omogeneizzate (implicite nei postulati della globalizzazione attuale). Mi domandavo se potevi parlarci di questi concetti. Questo termine francese in effetti mi è un po’ oscuro. Me lo puoi spiegare? Mondealité: "Monde" sta per "il mondo", da cui potrebbe essere tradotto come "dialoghi del mondo" che non sono forme omogeneizzate di globalizzazione. Un sistema che non implica l'omogeneizzazione. Stai dunque dicendo che un dialogo planetario potrebbe essere più generalizzato della stessa globalizzazione? Certo. Al momento c’è una forma di globalizzazione che è evidentemente omogeneizzata e in risposta a quel fenomeno c’è una risposta reazionaria che rifiuta qualunque tipo di dialogo. Questo capita in Europa, in particolar modo, ed è per questa ragione che sono molto interessato alle diverse negoziazioni descritte da Glissant. Lui le chiama mondealité, mi domandavo cosa pensi di queste differenti globalizzazioni. Per me la globalizzazione è un fenomeno molto interessante, questo non perché qui l’economia sia in pieno boom o perché la Cina stia diventando un soggetto più importante nelle dinamiche globali. Piuttosto, dal punto di vista professionale, quello che mi interessa è quale tipo di scambio culturale venga promosso dalla globalizzazione. È da dieci anni che sono in Cina, però sono uno che ha tratto beneficio dalle relazioni con colleghi e amici europei, americani e asiatici. Dal mio punto di vista, per capire la globalizzazione, per capire questo concetto grazie al quale il mondo non è solo un semplice meccanismo di produzione quanto piuttosto un luogo di opportunità, bisogna relazionarsi al fenomeno per cui le persone di tutto il mondo sono in grado di comunicare molto di più di prima. Questo tipo di dinamica rende il mondo completamente diverso. Da questo punto di vista, ogni qualvolta qualcuno afferma di essere un architetto, un artista o un teorico di una specifica regione, credo che debba anche riconoscere il fatto che lui (o lei) siano in grado di produrre idee derivanti da un dialogo inteso in termini globali. Non so quanto sia forte in Occidente questa attitudine anti-globalizzazione, ma credo che anche in Cina ci siano dei problemi come l'importazione della cultura popolare americana, i blue jeans, McDonald's e tutto il resto. A me interessano le idee che in questo momento sono generate dallo scambio globale.

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A COME ARCHITETTURA

Bene. Sei arrivato alla fine delle mie domande: "F come Forma". Si può osservare nel contesto delle arti figurative attuali, tra gli artisti più giovani, un certo ritorno alla forma. Stiamo cercando di capire se questo faccia parte di un pensiero neo-conservatore. Mi domandavo se una cosa simile stia capitando in architettura e quale è il tuo rapporto con la forma. Questa per me è una domanda difficile perché, in questo senso, sono più vicino al gruppo degli ‘anti-formalisti’. Quando parlavo delle mostre ho per l’appunto espresso quel tipo di idea. A me sembra che molti architetti, se non sono in grado di stabilire un’agenda precisa e una strategia di azione, diventano progettisti che concentrano le loro attenzioni esclusivamente sulla forma. In pratica, il formalismo prende il sopravvento sul dibattito. Da un certo punto di vista io ero in grado di lavorare come architetto senza alcuna enfasi sulla forma, ma oggi penso che la forma sia interessante e che questo renda difficile rispondere alla tua domanda. Forse tutto questo ha a che fare con il fatto che invecchiando mi interessa sempre più la tradizione, molto più di prima. Ci sono molteplici tradizioni e a me sembrano tutte importanti. Ovviamente c’è la mia eredità culturale personale, è ovvio, ho studiato la pittura occidentale per un certo periodo e non come alcuni studenti che indugiano nei lavori modernisti e - ovviamente - nell’arte contemporanea. Ho studiato la pittura del primo Rinascimento italiano, cose del genere. Io penso che ci sia una civiltà mondiale e un’eredità culturale che ci possono offrire idee. Hans Ulrich, certo che tu sai proprio come strizzare la gente! [risate]. Sei un tritatutto! Diciamo che adesso sono interessato alle forme e che le forme saranno influenzate dall'insieme del mio background culturale che è vario. In effetti una cosa interessante è che negli ultimi anni queste attenzioni sono emerse solamente nelle mostre. Hai visto come abbiamo lavorato per Camera; piccole architetture, miniature. Ma adesso inizio a pensare che forse sono in grado di fare quelle forme anche in edifici e progetti più importanti, ma intanto devo ripetere quello che avevo detto prima: spero di essere maturo abbastanza per non perdere l’attenzione per gli aspetti sociali. Poi c’è sempre questa combinazione con il pensiero concettuale riferito a tutte le cose. Vorrei piuttosto vedere interagire tutte queste dimensioni dell’architettura. Spero che non si tratti di un qualcosa che debba essere bianco o nero, che non si tratti di scegliere tra sminuire la forma o essere formalista. Ci deve essere una via di mezzo che mi piacerebbe percorrere. Così, tutto è nel mezzo. Ci sono ancora due o tre domande finali. "W come Weissenhof". Una delle mostre che mi hanno sempre affascinato è quella di Mies van der Rohe e degli altri architetti della Siedlung

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Sloped Floor, Zone of Urgency, Biennale di Venezia, 2003


A COME ARCHITETTURA

"T come Trans-disciplinare". L'idea di andare oltre la paura di definire il sapere è un qualche cosa che è profondo nel tuo lavoro. Tu hai stabilito molte relazioni con artisti, penso alle tue collaborazioni con Rang Yang Weh e altri, con la letteratura, con la musica. Credo che si tratti di qualcosa di importante. Ti ricordi quando abbiamo fatto Bridge The Gap a Kitakyushu? Sì. Tra l’altro, Akiko Miyake era qui poco tempo fa e abbiamo cenato assieme. Quella era una delle mie attività più trans-disciplinari o inter-disciplinari. Ma quello che è importante adesso, in un mondo postmoderno, è verificare che quelli che erano confini chiaramente marcati tra le diverse discipline, ora sono molto difficili da tracciare. Ho amici architetti che non sono affatto impegnati nella costruzione degli edifici, possono essere attivisti (come quello di Taiwan che hai incontrato, Hsia Chu-joe, era anche lui a Kitakyushu), o persone impegnate in ogni sorta di attività. Ma alla fine non è che uno debba fare un particolare sforzo per passare questi confini e diventare transdisciplinare. Piuttosto, il mondo è definito in maniera tale che è molto più difficile rimanere chiusi nel proprio ambito che uscirne fuori. Penso che ancora dieci anni fa si sarebbe trattato di una decisione e di uno sforzo cosciente, ma adesso - almeno per l’intellighenzia - diventa un’operazione semplice. Qualche giorno fa pensavo che forse in questo momento i confini sono troppo sfumati, forse abbiamo raggiunto il punto in cui ci siamo persi. Allora dovremmo impegnarci a ridefinire le nostre discipline in maniera più chiara così da poter avere un secondo giro di sovrapposizioni, trapianti e quant’altro. Qualche tempo fa ho avuto una conversazione con un filosofo di Pechino. Un ospite proveniente da Berlino gli aveva chiesto un’opinione su come i cinesi di oggi si riferiscono a temi come la bellezza. Conosco bene questo filosofo, è un amico, e abbiamo iniziato a parlarne. Era così piacevole e alla fine ci siamo resi conto che era come se avessimo parlato di questo tema per anni e anni. Ecco, un dialogo come questo una volta sarebbe stato difficile da immaginare. Tornando alla tua domanda, adesso sono di nuovo impegnato in molti progetti artistici. Per esempio la Triennale di Yokohama con Arata Isozaki. Si, ci stiamo lavorando. Credo tu conosca Jun Aoki, l’architetto giapponese che ha fatto i negozi di Louis Vuitton. Diciamo che siamo partner, lui è la parte giapponese

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Yung Ho Chang

SCORREVOLI. A volte abbiamo elementi scorrevoli come nel progetto Sliding Folding Swing Door. Un altro riferimento ai sistemi costruttivi tradizionali. SOFFITTI. A volte (come nel caso della Biennale di Venezia del 2003), il sistema della copertura superiore diventa l’elemento più importante di tutto il progetto. SUPPORTI LEGGERI. Usati in numerose occasioni per farci crescere il bambù. Le varie figure semplici (ovvero, come gli elementi precedentemente citati vengono aggregati per definire sistemi più complessi). TERRA. Usata come materiale da costruzione così come indicato dalle tradizioni locali. Per definire muri (o superfici di partizione) o in termini strutturali. Qui abbiamo un valore duplice. In primo luogo c’è un chiaro riferimento alle tecnologie costruttive tradizionali. Ma poi, la tecnologia tradizionale è trasformata e migliorata, qualcosa del tipo: ‘conosciamo bene la tradizione ma vogliamo migliorarla con iniezioni di sistemi tecnologici ignoti ai nostri antenati’. TUBI PLASTICI, CONDOTTE INDUSTRIALI. Spesse volte usate con il bambù naturale. Vedi alla voce BAMBÙ. VUOTO. Usato spesso in tensione con spazi molto densi e affollati. A volte capita che gli spazi vuoti siano organizzati in maniera tale da diventare assoluti. Agli occhi dell’osservatore occidentale superficiale, questo sembra essere riferito ad alcuni caratteri specifici della cultura orientale. Molto misterioso, molto affascinante proprio a causa di questo elemento di mistero.

Kitchen, Modern Style in East Asia, Pechino 2004


LA FINESTRA SUL CORTILE

Operazioni concettualmente più avanzate: APPENDERE. A volte abbiamo singoli elementi appesi, per esempio un light-box o l’intera installazione, oppure come i volumi in carta di riso nella mostra londinese: Ke Da Ke Xiao. COLLAGE. Si prenda qualche congegno tecnologicamente sofisticato, lo si mescoli con altri strumenti tecnologici semplici e si ha il punto di partenza di numerose installazioni. DENSITÀ. A volte i vari elementi sono usati in ambienti molto densi, aumentandone il numero fino a raggiungere condizioni particolari. Spesso, vicino a uno spazio denso di oggetti, soluzioni, significati ce n’è un altro vuoto. La tensione tra i due spazi (quello denso e quello vuoto) è garantita. Si potrebbe intendere questo tipo di operazioni come un riferimento ad alcune evidenti caratteristiche delle città asiatiche. IBRIDI. Mettere insieme un materiale naturale con un secondo materiale vistosamente artificiale o di sintesi. Per esempio: i giunti di gomma utilizzati negli schermi spaziali di bambù, oppure il bambù avvolto nei fogli plastici, ottenendo in genere un nuovo elemento che è maggiore della somma delle due parti. Nel caso del collage gli elementi originari rimangono vistosamente separati. Nel caso dell’ibrido il risultato è invece diverso: si ottiene una nuova figura o elemento lessicale in cui le parti originarie sono inestricabilmente sovrapposte. Le ibridazioni sono molto care a Yung Ho Chang. Ne abbiamo trovate di diverse, tutte molto interessanti.

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Yung Ho Chang

LABIRINTO. A volte le partizioni sono usate per definire labirinti nei quali le persone sono invitate a perdersi. A volte questo effetto si ottiene lavorando (in maniera inaspettata) con gli elementi orizzontali (con i tavoli per esempio). L’architetto ama le forme labirintiche. È impossibile non pensare alla struttura labirintica del sistema degli isolati tradizionali (hutong) della città cinese. PALCOSCENICO. Può capitare che i differenti elementi e materiali (le strutture di ponteggi di Cities on the Move a Vienna per esempio) siano concepiti come palcoscenici dove possono prendere vita happening e performance di vario tipo. Come detto precendentemente, ci piace guardare all’interezza di questo linguaggio come un insieme di congegni e apparecchiature sceniche. Un palco per il particolare teatro urbano presente nella testa di Yung Ho Chang. PIATTAFORME. L’organizzazione dello spazio avviene spesso con una piattaforma orizzontale a pavimento. A volte può essere mobile (come nel caso dello Street Theatre di New York), o organizzati in sistemi modulari (come per la Biennale di Venezia del 2003). PIEGARE. Spesso un elemento si piega su se stesso. Può essere un'intelaiatura o una porta, un soffitto, o addirittura un intero volume (come, per esempio, i mobili concettuali sviluppati per la mostra alla Fabbrica 798 di Pechino nel 2004). RICICLARE. Usare un materiale (o sistema tecnologico) dato in maniera inaspettata o inusuale. Gli scaffali fatti di ruote di biciclette della libreria Xishu (1996) per esempio. In questo preciso momento sembra essere una dichiarazione di progetto molto “politically correct”. SCATOLE (mettere oggetti nelle). Generalmente capita con il bambù, in quelle che sono scatole trasparenti posizionate in punti strategici (fuori da una fila di finestre, sui balconi) dei percorsi di fruizione. Molto spesso la scatola è trasparente (di vetro) o opalescente (policarbonato o altre plastiche). SCATOLE (CONCETTUALI). Di cemento, metalliche o di legno, definiscono spazi ‘platonici’, suggerendo agli utenti attività esistenziali elementari (sedersi, parlare, guardare). La scatola chiusa con una finestra sembra essere la figura archetipa di questo particolare linguaggio di progettazione. SCORREVOLI. In moltissimi casi abbiamo uno o più elementi che scorrono. Possono essere porte, finestre, partizioni verticali o altri elementi delle installazioni. What if Ora che abbiamo riflettuto e ragionato sul linguaggio di progettazione delle installazioni temporanee di Yung Ho Chang, forse possiamo capire

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LA FINESTRA SUL CORTILE

meglio alcune caratteristiche dei suoi lavori, le sue strategie per convogliare significato, le storie che ci vuole raccontare e come ce le racconta. Addirittura possiamo essere più ambiziosi e ipotizzare alcune possibilità riferite ai percorsi intellettuali più battuti dall’architetto. Storie, scenari. Quale è la differenza? Se diciamo che ieri andando a scuola abbiamo incontrato King Kong, si tratta di una storia. Uno scenario è invece la descrizione di un mondo tipo Jurassic Park, un ambiente nel quale esperimenti scientifici (andati male) generano animali terrificanti. Da questo punto di vista, uno scenario necessità il già menzionato: what if. Cosa succederebbe se… Il passaggio successivo è quello di parlare degli scenari più comuni che troviamo rappresentati nelle architetture temporanee di Yung Ho Chang e la tipologia di utilizzo delle sue installazioni intese come narrazione spaziale tridimensionale. Nelle dodici storie (ovvero i dodici progetti) che ci vengono via via raccontate analizziamo elementi (scenario tipico, installazione, congegno, storia), osservandole una dopo l’altra, saremo probabilmente in grado di capire meglio alcune delle ossessioni spaziali, concettuali e culturali di Yung Ho Chang.

1. Lars Lerup: “On Bucket & Bulldozers. The work of Yung Ho Chang and Atelier FCJZ”, in: Laurent Gutierriez, Valerie Portefaix (a cura di), Yung Ho Chang / Atelier Feichang Jianzhu. A Chinese Practice, Map Book Publisher, Hong Kong, 2003. 2. Dobbiamo ringraziare Lars Lerup perché quest'idea di approcciare il lavoro di un architetto a partire da un film ci sembra interessante. Yung Ho Chang può essere analizzato a partire dal capolavoro di Hitchcock. Ci potrebbero essere altre chiavi interpretative privilegiate? E se dovessimo pensare a un film per Rem Koolhaas? E per Louis Kahn? Scegliere un architetto e accoppiarlo con un film. Archigram & ‘Yellow Submarine’ (forse un po’ troppo ovvio)…

3. Street Theatre è una installazione di Yung Ho Chang con FCJZ presentata all’Apex Art di New York nel 1999. I curatori della mostra erano Hou Hanru e Evelyne Jouanno. 4. Da questo punto di vista va indicato il testo di Sanford Kwinter: ‘Architecture of Time. Toward a Theory of the Event in Modernist Culture’ (MIT Press, Cambridge Ma, 2001). La sua rilettura di Sant’Elia, Kafka e Bergson ci offre numerossisimi (e interessanti) spunti di riflessione. 5. Hou Hanru: “Between the ‘Usual’ and the ‘Unusual’. Some words on Yung Ho Chang and Atelier FCJZ”. In: Laurent Gutierriez, Valerie Portefaix, Hong Kong 2003. 6. Yung Ho Chang, “Programming Domesticity”. In: Laurent Gutierriez, Valerie Portefaix, Hong Kong 2003.

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01. Trace of Existence. Pechino 1998

02. Perspectival House. Friburgo 2002

03. Rice House. Matsudai 2003

04. Ke Da Ke Xiao. Londra 1998

05. Bamboo Wall. Bangkok e Venezia

06. Screen Wall. Parigi 2003

1999/2000


DODICI PROGETTI

07. Beyond the Border. Tokyo 2004

08. Square Town. Vienna 1997

09. Street Theatre. New York 1999

10. Folding Clouds. Berlino 2001

11. Wall City. Pechino 2001

12. Camera. Parigi 2003


Trace of Existence, 1998


DI YUNG HO CHANG E ATELIER

DODICI PROGETTI FEICHANG JIANZHU

Rachaporn Choochuey e Stefano Mirti

01. TRACE OF EXISTENCE. PECHINO 1998 Una porta per entrare nella luce, una porta per entrare nel buio. In Occidente esiste una dicotomia tra quelli che fanno e quelli che pensano. Riguardando le interviste e i commenti di Yung Ho Chang, forse questo fenomeno capita anche in Cina. Ma, a prescindere dalle latitudini e longitudini, il suo universo è quello dove per capire le cose c’è un grandissimo investimento in termini di ‘fare’. Tuttavia non è il ‘fare’ dell’artigiano, è un fare profondamente intellettualizzato, come fosse un cruciverba o un rebus in termini di congegno spaziale. Il ‘fare’ che possiamo osservare è un ‘fare’ che in prima istanza si domanda le ragioni stesse del nostro agire in quanto progettisti. ‘Fare’, ma cosa? E soprattutto, perché? Leonardo ci da una possibile indicazione: Dove lo spirito non lavora con la mano, non c’è arte. Alla quale ci sembra necessario aggiungere un secondo frammento, questa volta orientale, di Confucio: La mente superiore pensa sempre in termini di virtù. L’uomo comune pensa in termini di comfort. Prendiamo un elemento comune di organizzazione spaziale e trasformiamolo in un concetto astratto, esplorandone le sue possibili declinazioni linguistiche, mettendolo in tensione, forzandone i limiti (fisici e concettuali). In questo caso, l’esercizio viene fatto con una porta. Un portone metallico che si apre per scorrimento. Si apre e si chiude. Metallico. Nulla di particolarmente interessante o significativo: l’ingresso a un capannone industriale come migliaia di altri. Ognuno di noi è passato da una porta di questo tipo. Dalla luce all’ombra o viceversa. Esperimento progettuale. Lavorare sull’idea di ‘soglia’, soffermarsi a ragionare su cosa vuole realmente dire ‘entrare’ e sul gesto opposto, ‘uscire’. Alle due partiture metalliche originarie (lasciate peraltro nella loro condizione di elementi danneggiati e arrugginiti) si aggiunge una parte nuova, in legno, che anziché lavorare per scorrimento lavora per piegatura a scomparsa. Camminiamo lungo il muro in mattoni, adesso siamo di fronte all’elemento di chiusura. Un battuto inclinato in cemento ci conduce al diaframma metallico dalla superficie continua.

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02. PERSPECTIVAL HOUSE. SMALL IS OK. FRIBURGO 2002 Il mondo in una stanza. La seconda storia inizia esattamente dove è finita la prima. Se precedentemente si è ragionato sulla porta di un possibile mondo dove ogni gesto anche il più banale e apparentemente stupido acquisisce un nuovo significato, qui siamo in quel mondo. Un mondo costruito nella forma di una casa. L’idea di ‘abitare’ è stata scomposta ai suoi minimi termini possibili. Abitare diventa dunque mangiare, dormire, lavarsi. E studiare. Ognuna di queste attività è stata scomposta in termini di spazio autonomo. Una casa che è pensata e costruita in un insieme di attività umane, ognuna isolata ma dalla forte relazione con il resto delle parti. Ogni ambiente è un volume isolato. Dove non solo lo spazio, ma anche le funzioni legate a quello spazio sono state ridotte ai minimi termini. Sedersi, sdraiarsi, comunicare con il nostro prossimo. Guardare dentro e guardare fuori. Come se Donald Judd incontrasse Antonello da Messina e ricostruisse lo studiolo di San Girolamo togliendo tutto quello che non è più che essenziale. Spostandoci tra le varie stanze proviamo ad immaginare come sarebbe

Perspectival House, 2002


la vita espressa in termini di minimo comune multiplo (ottenendo dunque il massimo denominatore possibile). Dormire diventa il gesto di coricarsi su un ripiano sollevato. Il soggiorno è un grande spazio vuoto dove ci sono due sedute, una di fronte all’altra, a fronteggiarsi in maniera abbastanza minacciosa. L’abitare come rapporto a due, declinato in termini di confronto, polarizzazione. Lo spazio vuoto trasforma le due sedute in due totem, due oggetti misteriosi dove i visitatori esitano a sedersi. Se io mi siedo, do la possibilità a un’altra persona di sedersi di fronte a me, costringendomi a una relazione triangolare non necessariamente rassicurante (la mia persona, lo spazio e la seconda persona). Mangiare è ridotto a un piano che fa da tavolo. Niente sedie, niente ripiani, solo un desco spoglio. La tavola è parte del volume d’insieme definendo uno spazio in negativo al suo interno. Volendo, potremmo infilarci sotto il tavolo, ma saremmo inesorabilmente fuori dallo spazio abitabile. Questo mondo è inquietante perché non concede scampo, non esiste luogo in cui nascondersi. E se ci si nasconde non si ha alcuna possibilità di rientrare. Procedendo attraverso i vari ambienti siamo in un mondo di positivi e negativi. Il dentro che ospita nelle pieghe il fuori. Il fuori che diventa un dentro a scala più piccola, come se fosse una matrioska. Il giro prosegue. Arrivati alla fine lo rifacciamo una seconda volta. Questa volta lavorando solo sull’idea di prospettiva. Come suggerito dal titolo infatti tutto è stato pensato in funzione di una visione prospettica. I volumi non sono puri ma distorti secondo le leggi della prospettiva. Questa forzatura genera una forte tensione tra i vari volumi che compongono la casa. In questo mondo di essenzialità pura, i volumi distorti per forzare la prospettiva sono un gesto forte. Se sono forme platoniche, dei cinque sensi uno è chiaramente indicato essere quello privilegiato: la vista. La vista, elemento che ci farà da filo conduttore anche nei prossimi progetti. Un’ultima considerazione. Questa casa non prevede bambini. Non è per un single, non è per un gruppo, è un sistema a due. Che può espandersi e modificarsi a seconda delle esigenze, ma nella sua forma originaria è un universo che lavora sull’idea di coppia. 89


Rice House, 2003


DODICI PROGETTI

03. RICE HOUSE. MATSUDAI 2003 Siamo partiti dall’elemento porta, ora entriamo in questa abitazione concettuale. È giunto il momento di ragionare sul rapporto tra l’abitazione e il mondo circostante. La casa di prima è stata ridotta ancora. La serie di volumi in medium density ci sembravano essere il minimo sotto cui non si può scendere. Invece ci sbagliavamo, così non era. Un volume in grigliato metallico che in verità non è che una cornice tridimensionale. Due sedute alle estremità, una di fronte all’altra. Le sedute (a differenza della stanze della casa precedente) non sono quindi parte del volume generale. Definiscono uno spazio molteplice: davanti a loro, dietro di loro, sopra e anche (per quanto piccolo) sotto. La casa in quanto tale riquadra il paesaggio, fa parte del paesaggio in quanto posizionata sul lembo di una risaia che si apre su un’ampia valle. Tutto sembra essere pensato in termini di opposizioni binarie. Il metallo della struttura (se nel caso precedente si usava solo medium density, in questo caso si usa solo il grigliato) e gli elementi naturali che gli fanno da contorno. Le due sedute che di nuovo si fronteggiano. Il paesaggio verso la valle e il paesaggio verso la montagna. In più, c’è un ulteriore elemento di grande forza e importanza. La casa è posizionata su una risaia. Quindi abbiamo due condizioni possibili (di nuovo, due). La casa immersa nel verde del riso che cresce, oppure la casa che sembra galleggiare su un mare bruno. In questo secondo caso, l’oggetto casa acquisisce il significato simbolico di una imbarcazione, o forse, addirittura, di un’isola. Un elemento che si raddoppia ulteriormente riflettendosi nello specchio d’acqua. Una casa che sembra essere incardinata su due concetti molto precisi. Abbiamo di nuovo la forte presenza dell’idea di ‘visione’ alla quale si accompagna il tempo. Le stagioni che mutano (con le conseguenti trasformazioni di oggetto immerso nella vegetazione risicola o di oggetto che galleggia su un limaccioso mare di fango), le ore del giorno. Dato che la superficie è in grigliato, sin dal mattino presto il sole inizia a disegnare arabeschi giocando con la struttura. Forse è una casa per i contadini locali che alla fine della giornata di lavoro vengono qui, si siedono, e scambiata qualche parola osservano il paesaggio intorno che definisce il mondo da loro conosciuto. Potremmo anche descrivere il curioso view finder (mirino) messo in cima a un montante metallico. Per utilizzarlo ci si dovrebbe arrampicare sulla struttura stessa, operazione che sembra non poco complessa. Lasciamo dunque questo elemento nel suo misterioso mondo di possibili funzioni e modi di utilizzo. Però, non possiamo non pensare a una casa dove ci siano elementi misteriosi di cui nessuno conosce l’uso. Che chiaramente

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Camera, 2003

12. CAMERA. PARIGI 2003 All’artista, ci credo. All'opera no. Marcel Duchamp La filosofia marxista sostiene che il problema più importante non è capire le leggi alla base del mondo oggettivo in modo da spiegarlo. Piuttosto si tratta di applicare la conoscenza di queste leggi per cambiare il mondo. Mao Tse Tung Il desiderio di vincere, il desiderio di arrivare agli obiettivi, la necessità di sfruttare completamente il proprio potenziale assoluto… Queste sono le chiavi che apriranno la porta dell’eccellenza personale. Confucio

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L’arte degli affari è il gradino successivo che arriva dopo l’arte. Io ho iniziato come artista commerciale, ma voglio finire come artista degli affari. Andy Warhol Dal comunicato stampa della mostra: “Camera è una mostra nata dalla collaborazione tra l’architetto Yung Ho Chang e due tra i più importanti artisti cinesi contemporanei: il videoartista Yang Fudong e l’artista multimediale Wang Jian Wei. Nella sue esplorazioni della relazione tra architettura e video, Camera invita il visitatore a provare una serie di nuovi possibili approcci alla presentazione spaziale dell’immagine. Giocando sui due significati di ‘camera’ - ‘stanza’ nel senso latino del termine e macchina fotografica (inglese) - Yung Ho Chang ha disegnato quattro moduli architettonici, stanze di proiezione

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nelle quali i visitatori possono osservare ed essere osservati. Ognuno dei quattro spazi è chiamato in base a una casa produttrice di apparecchi fotografici - Polaroid, Leica, Nikon e Seagull - riferendosi a quattro aree geografiche chiaramente distinte: Stati Uniti, Germania, Giappone e Cina. Per ogni modulo l’architetto ha utilizzato materiali diversi. Fogli metallici per Leica, plexiglas per Polaroid; legno, metallo e specchi per Nikon e carta di riso per Seagull. I nuovi lavori video di Yang Fudong e Wang Jiang Wei sono stati creati specificatamente per ognuno dei moduli dove vengono proiettati”. In questo lavoro i contenitori spaziali diventano una cosa sola con la loro destinazione d’uso. Il gioco linguistico si fa completo giocando sulla tensione dei diversi significati della parola ‘camera’. Un gioco sottile, fatto di relazioni tra gli spazi e i visitatori, gli elementi architettonici (isolati e in relazione tra di loro), il visitatore nel suo duplice ruolo di osservatore e attore. Da un certo punto

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di vista si potrebbe dire che form follows function (la forma segue la funzione): ogni spazio è stato pensato e definito a partire dalla sua funzione d’uso. In verità è evidente che il paradigma utilizzato in questo caso è il form follows fiction (la forma segue la narrazione). Una narrazione aperta verso il visitatore, la sua percezione, il suo paesaggio mentale interiore. Il momento in cui parte il dialogo tra il paesaggio mentale del visitatore e i pensieri (spesso ossessivi e non spiegabili in termini puramente logici) è la chiave per comprendere la natura e la potenzialità degli spazi e delle architetture di Yung Ho Chang. La tensione tra i suoi ragionamenti (nonché desideri, paure, emozioni) più profondi e il mondo fisico che mano a mano contribuisce a definire la nostra percezione. Trattandosi (evidentemente) di ossessioni, non possiamo non finire queste dodici descrizioni con una citazione del maestro assoluto del genere. L’unica maniera per liberarmi delle mie paure è quella di farci dei film sopra. Alfred Hitchcock.

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Bamboo Shoots, Virgin Garden: Emersion, Biennale di Venezia, 2005 Installazione all'entrata del padiglione cinese temporaneo. Foto: Walter Aprile




YUNG HO CHANG BIOGRAFIA

1956 Nasce a Pechino 1974 Lavora in un cantiere edilizio a Pechino Studia architettura all’Istituto Tecnologico di Nachino 1981 Si trasferisce negli Stati Uniti 1983 Laura con lode in Science in Environmental Design, Ball State University 1984 Master in Architettura, University of California, Berkeley 1985-88 Insegna alla Ball State University 1986 Primo premio al concorso: Shinkenchiku Residential Competition, Japan Architect, Giappone 1988 Primo premio al concorso: From Table to Tablescape Design Competition, Formica Corporation 1988-90 Insegna all’University of Michigan 1990-92 Insegna all’università di Berkeley

1992-93 Fonda con Lijia Lu, l’Atelier Feichang Jianzhu Insegna alla Rice University 1996 Torna a Pechino 1999 Fonda la nuova scuola di Architettura presso l’Università di Pechino 2000 Vince il Premio 2000 UNESCO per la promozione delle arti 2002 Conferenze a Yale, Princeton, SCIARC, Chinese University of Hong Kong, Berlage Institute, Taipei Museum of Contemporary Art, Harvard, Cornell, Architectural League of New York Ottiene la cattedra Kenzo Tange alla Graduate School of Design, Harvard University 2004 Diventa capo dipartimento del Graduate Center of Architecture, dell’Università di Pechino 2005 Diventa direttore dell’Architecture School del MIT

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YUNG HO CHANG

OPERE 2004 Villa Shizilin, Pechino Hebei Education Publishing House, Shijiazhuang 2003 Pingod (Apple) Sales Center / Art Museum, Pechino 2002 Split House, Yanqing, Pechino 2001 Southwest China Bio-Tech Pilot Base, Chongqing

ATELIER FEICHANG JIANZHU Mostre e installazioni progettate e costruite da Yung Ho Chang e Atelier Feichang Jianzhu dal 1993 a oggi. MOSTRE MONOGRAFICHE SUL LAVORO DI YUNG HO CHANG E ATELIER FEICHANG JIANZHU (FCJZ): 1998 (HuiTuTian), lavori di archittettura, Ke Da Ke Xiao - Three Asian Practices, AA, London, con KNTA, Singapore e il Chi’s Workshop di Taipei; mostra di architettura, installazione e progettazione degli spazi; disegni, fotografie. 1999 Street Theater, Apex Art, New York; mostra sui lavori di architettura del FCJZ; installazione e progetto degli spazi, disegni, modelli. A cura di Hou Hanru ed Evelyne Jouanno. 2002 Six Crates of Architecture, Kenzo Tange

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Exhibition, Harvard University Graduate School of Design, Cambridge; mostra sui lavori di architettura del FCJZ: installazione, stampe digitali, modelli, website. 2003 Camera, Musee d’Art Moderne de la Ville de Paris, con Wang Jianwei, Yang Fudong; mostra interdisciplinare di architettura, film, video; installazione e progettazione dello spazio. A cura di: Hans Ulrich Obrist, Vivian Rehberg. 2004 Seung, H-sang & Yung Ho Chang - East Asian Architecture: Beyond the Border, Gallery MA, Tokyo; mostra di architettura; installazione e progettazione degli spazi, stampe digitali, modelli, strumenti da lavoro. A cura di: Shin Muramatsu.

MOSTRE COLLETTIVE 1988-90 Tampopo (design di oggetti concettuali), From Table to Tablescape (concorso di design bandito da Formica), 333 Gallery, Chicago e 91 Gallery, New York. Mostra itinerante dei risultati del concorso; disegni e oggetti prodotti da Formica. 1991 Voyeurism towards Architecture (conceptual architectural design), 3X3+9, Contract Design Center, San Francisco; installazione. Bike Story (progettazioni architettoniche concettuali), Poetic Construct, Contemporary Realist Gallery, San Francisco; mostra di disegni.


BIOGRAFIA

1996 Courtyard City, Unmapping the Earth, 2nd Gwangju Biennale, Corea; installazione e progettazione degli spazi, video, modelli. Selezionatore: Kyong Park. 1997 Square Town (Asian Town), Libreria, Cities on the Move, Secession, Vienna; mostra interdisciplinare; installazione progettazione dello spazio. A cura di: Hans Ulrich Obrist, Hou Hanru. Cities on the Move, CAPC Musee, Bordeaux e PS1, New York; poster. 1997 Pechino (progettazioni architettoniche concettuali), Firme, Kaishi: The Mirage City - Another Utopia, NTT Intercommunication Center, Tokyo; mostra di architettura; modelli. A cura di Arata Isozaki. 1998 Sliding Folding Swing Door, Trace of Existence: A Private Showing of China Contemporary Art ‘98, Art Now Studio, Pechino. Mostra di arte; installazione. A cura di: Feng Bo’yi, Cai Qing. Snake Legs, Cities on the Move, Louisiana Museum of Modern Art, Denmark; installazione e progettazione dello spazio. 1999 Snake Legs, Cities on the Move, Hayward Gallery, London; installazione. Bamboo Wall, Cities on the Move, Silpakorn University, Bangkok; installazione. Thirty Window Houses, Cities on the Move, Kiasma Museum of Contemporary Art, Helsinki; installazione. Urbanizing Bamboo, Città - Less

Aesthetics

More

Ethics,

mostra

online, Biennale di Venezia. A cura di: Massimiliano Fuksas. 2000 Bamboo Screen Doors, Scroll Table, città - Less Aesthetics More Ethics, Biennale di Architettura di Venezia; installazioni. A cura di: Massimiliano Fuksas. 150 Bamboo on the Roof, La Ville, le Jardin, la Mémoire 1998-2000, Villa Medici (Accademia Francese di Roma), Roma; installazione. A cura di: Laurence Bossé, Carolyn ChristovBakargiev, Hans Ulrich Obrist. New Shanghai Row House, Shanghai Spirit, 3rd Shanghai Biennale, Shanghai Art Museum; installazione e stampe digitali. A cura di: Fang Zengxian, Hou Hanru, Toshio Shimizu, Zhang Qing, Li Xu. 2001 Folding Clouds, Living in Time, Hamburger Bahnhof Nationalgalerie, Berlin; mostra d’arte; installazione e progettazione dello spazio. A cura di: Hou Hanru, Fan Di’an, Gabriele Knapstein. Palcoscenico, trapianto in sito, 4th Shenzhen Contemporary Sculpture Exhibition, He Xiangning Art Gallery, Shenzhen; installazione permanente. Curatore per la Cina: Huang Zhuan. 2002 Progettazione degli spazi con Youngjoon Kim, Office with Michael Lin, Progetto 1: Pause, 4th Gwangju Biennale, Corea; progettazione degli spazi. Direttore artistico: Wan-Kyung Sung. A cura di: Charles Esche, Hou Hanru.

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YUNG HO CHANG

Last Vendors, Project 4: Connection, Pause, 4th Gwangju Biennale, Corea; stampe digitali. Curatore del progetto: Chung Guyon. Corridor, Cement - Marginal Space in Contemporary Chinese Art, Chambers Fine Art, New York; mostra d’arte; installazione e stampe digitali. A cura di: Feng Bo’yi. Perspectival House, Small is OK, FriArt, Friburgo; mostra interdisciplinare; installazione e progettazione degli spazi. A cura di: Hou Hanru. Split House, Great Wall Commune, Pechino, Cina. Housing, Next, Biennale di Architettura; stampe digitali e modello. A cura di: Deyan Sudjic. 2003 Beijing Rings, Mobility: A Room with a View, First International Architecture Biennale Rotterdam, participazione del gruppo del Graduate Center of Architecture, Università di Pechino; installazione, video, stampe digitali. Curatrice: Francine Houben. Sloped Floor, Zone of Urgency, Sogni e Conflitti - La Dittatura dello spettatore, Biennale Arte di Venezia; progettazione spaziale. A cura di: Hou Hanru. Copertura flessibile, Utopia Station, Sogni e Conflitti - La Dittatura dello spettatore, Biennale Arte di Venezia; progettazione della struttura. A cura di: Molly Nesbit, Hans Ulrich Obrist, Rirkrit Tiravanija. Screen Wall, progetto architettonico, Alors, la Chine?, Centre Pompidou, Paris; mostra interdisciplinare; video, proiezione di diapositive, installazione.

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A cura di: Chantal Beret, Laurent Le Bon, Alain Sayag, Pi Li. House of Rice, Echigo-Tsumari Art Triennial, Matsudai Town, Japan; installazione permanente. A cura di: Fram Kitagawa. Six Crates of Architecture, Experiment / Exploration, An Opening Era, Celebrazione del quarantesimo anniversario della fondazione del Museo delle Arti Cinesi, Pechino; mostra d’arte; installazione, stampe digitali, modelli. Curatore della sezione: Fan Di’an. 2004 Beijing Morphing, E-W / N-S, Arc en Reve Centre d’Architectue, Bordeaux, France, con Sze Tsung Leong, Wang Jun, Graduate Center of Architecture, Università di Pechino; mostra di architettura; stampe digitali, progetto spaziale di FCJZ. Commissari: Francine Fort, Michel Jacques, curatore di sezione: Hou Hanru. Kitchen, Modern Style in East Asia 2004, Beijing Tokyo Art Project, Pechino; mostra interdisciplinare; installazione. A cura di: Feng Boyi, Kaori Tsuji. 2005 Urban Tools, Beyond, the 2nd Guangzhou Triennial, Guangdong Museum of Art, Guangzhou. A cura di: Hou Hanru, Hans Ulrich Obrist, Guo Xiaoyan. Bamboo Shoots,Virgin Garden: Emersion, Biennale di Venezia; installazione. A cura di: Cai Guo-Qiang.


YUNG HO CHANG BIBLIOGRAFIA

Questa bibliografia fa riferimento esclusivamente a testi non cinesi. 1987 “Bachelor Apartment”, Shinkenchiku, vol. 62/1, 1/1987. “Bachelor Apartment”, The Japan Architect, 358, vol.62/2, 2/1987. 1991 “Voyeurism Towards Architecture: Five Movements”, Concrete (export), n.2, Fall 1991. 1992 “Another Glass House”, The Japan Architect, vol. 5, 1/1992. 1995 “Kinderwindowgarden”, Korean Architects, 5/1995. “New Generation of Architecture: Yung Ho Chang”, Space, vol. 338, 12/1995. 1996 “1996 P/A Awards - Citation: Housing in China”, Progressive Architecture, 5/1996. 1998 “Yuan”, Slow Space, NewYork, Monacelli Press, 1998. “Xishu Bookstore, Beijing, 1995”, Design Book Review, 39, 1998. “#06 Beijing/ Yung Ho Chang”, The

Mirage City: Another Utopia, Tokyo: NTT, 1998. “Sliding/Folding/Swing Door”, “Atelier FCJZ”, AA Files, 36, 1998, copertina interna. "Ke Da Ke Xiao, Architectural Association", Architects’ Journal n.20, May 21 1998. 1999 Hou Hanru, “Micro-Urbanism’, Flash Art, n. 209, Nov/Dec 1999. “Practice in Beijing”, Asian Architecture Research - Reading the Asian Architecture: Trans-Architecture / Trans-Urbanism, Tokyo: INAX, 12/1999. 2000 "Cinq projets de Yung-Ho Chang", L’architecture d’aujourd’hui, n.326, (dossier : Musées d’ethnographie, Chine), Paris 2/2000. “Yung Ho Chang”, 7th International Architecture Exhibition LESS AESTHETIC MORE ETHICS - Biennale di Venezia, Marsillio, Venezia, 2000. “Morning Center of Mathematics, Chinese Academy of Sciences”, International Architecture Yearbook, Mulgrave: Images, 2000. "Three Project", Archis, 6/2000. Netherlands Architecture Institute

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Yung Ho Chang

“Urbanizing Bamboo”, a+t, n.16, Rotterdam 2000. 2001 Stanley Collyer, “Yung Ho Chang”, Competitions, vol. 10, n. 4, inverno 2000/2001. “Dense Urbanism and Miniature Cities”, Asian Architecture 2, Select, Singapore 2001. “Atelier Feichang Jianzhu Yung Ho Chang - Urbanizing Bamboo”, Monitor, 6, 2/2001. 2002 Wang Jian-Wei, “Art/Architecture/ Science”, Bridge the Gap?, Center for Contemporary Art, Kitakyushu 2002. “Chang”, Next - 8th International Architecture Exhibition - La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia 2002. Laurence Liauw, "Uncharted Territories", World architecture, October 2002, n.110, p.29-37. “Biomedical Institute in Chongqing”, Detail, 1-2/2002, 76-78. 2003 "Architecture in China", a+u Architecture and Urbanism, n.399, Tokyo December 2003. p70, p132, p138 “Time City, ps Thin City”, 32 Beijing New York, 1, Princeton Architectural Press, 2003, 24. “Split House”, Space, vol. 422, 1/2003. Hans Ulrich Obrist, “Yung Ho Chang, in conversation with Hans Ulrich Obrist”, Camera, Paris: Paris Musees, 2003. Laurent Gutierrez, Valerie Portefaix, Lars Lerup, Ruan Xing, Hou Hanru, Yung Ho Chang: Atelier Feichang Jianzhu—A Chinese Practice, Map Book Publishers, 2003.

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Deyan Sudjic, "Pechino: Il Grande Balzo in Avanti. Uno speciale sulla ricostruzione della capitale cinese", Domus, n.864, Milano 2003. "Archi culte en Chine pop: C. HsuehYi, S. Ban, G. Chang, Y. Ho Chang, K. Kuma, A. Ochoa", L’architecture d’aujourd’hui, n. 344, Paris, 2/2003. 2004 Laurent Gutierrez, Valerie Portefaix, “Yung Ho Chang/ Atelier Feichang Jianzhu. A Chinese Practice/ Une pratique chinoise”, L’architecture d’aujourd’hui, n.352, Paris 05/2004. Seung, H-sang, Seung, H-sang, Yung Ho Chang- Works: 10x2, TOTO, Tokyo 2004. 2005 Matt Steinglass, "Foreign Growth", Metropolis Magazine, New York, gennaio 2005. Azby Brown, "Yung Ho Chang", Kateigaho, Tokyo, primavera 2004. Daniel Elsea, "Chang Yung Ho’s New Chinese Architecture", Metropolis Magazine, New York, marzo 2005. John Tancock, “Boxes: Recent Works by Yung Ho Chang”, Chambers Fine Art, New York 2005. Yung Ho Chang, "Pechino guarda avanti", in "Waiting for China", Illywords, n. 12, Trieste 2005.


INDICE DEI NOMI

Adorno, Theodor 51 Aoki, Jun 59 Archigram 39n, 81n Atelier Bow-Wow 46 Bernini 19 Bloch, Ernst 51 Cage, John 23 Chu-joe, Hsia 57 Confucio 85, 109, 111 da Messina, Antonello 88 Deng Xiao Ping 39n di Paolo, Giovanni 20 Duchamp, Marcel 19, 23, 31-33, 46, 50, 103, 111 Evans, Robin 30-31 Fudong, Yang112 Fuller, Buckminster 42 Garnier, Tony 51 Gehry, Frank 14 Gibson, William 62 Glissant, Edouard 52 Hadid, Zaha 19, 22, 39n Hamilton, Richard 45 Hanru, Hou 29, 41, 46, 55, 103, 105 Herzog & de Meuron 14 Hitchcock, Alfred 7, 61, 63, 81n, 113 Isozaki, Arata 55, 59 Jiakun, Liu 55 Jouanno, Evelyne 105 Judd, Donald 88 Kahn, Louis 81n KNTA Architects 93 Koolhaas, Rem 22, 29, 31, 33, 39n, 41, 81n, 99, 101

Kwinter, Sanford 81n Lao-Tzu 105, 109 Le Corbusier 15, 45 Lenin 11 Leonardo 85, 101, 109 Lerup, Lars 21, 23-24, 61, 81n Libeskind, Daniel 21 Lim, William 55 Lu, Lijia 7, 11, 13, 15-16 Mao Tse Tung 39n, 97, 111 Mateo, Josep LluĂ­s 50, 55 Mihai, Oroveanu 11 Miyake, Akiko 57 Noguchi, Isamu 70 Obrist, Hans Ulrich 29 Peter Cook 39n Place, Rodney 18-20, 21, 22, 27, 30, 31 Price, Cedric 41 Queneau, Raymond 97 Saitowitz, Stanley 21, 22 Scott Brown, Denise 33 Tschumi, Bernard 19, 42 Turrell, James 31 van der Rohe, Mies 15, 54, 95, 99 Varela, Francisco 50 Venturi, Robert 33 Vidler, Anthony 29 Vuitton, Louis 59 Warhol, Andy 112 Weh, Rang Yang 57 Wei, Wang Jian 112 Workshop Chi 93 Zhongyang, Sun 24

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POSTMEDIABOOKS

Immagini d’architettura Architettura d’immagini Conversazione tra Jacques Herzog e Jeff Wall a cura di Cristina Bechtler postmedia 2005

Da un fotografo ci aspettiamo delle immagini - dice Herzog - ma forse non era previsto che anche l’architettura cominciasse a pensare in termini d’immagine. Da una parte Jacques Herzog ritiene che l’architettura sia fatta per essere sperimentata, dall’altra un artista come Jeff Wall cerca di comprendere come trarre vantaggio dagli eventuali errori nelle sue fotografie. Ecco le premesse di un’affascinante conversazione nella quale si parla di arte e architettura, degli elementi comuni alle due discipline quali tempo e narrativa, delle facili insidie dell’estetizzazione dell’immagine, del rifiuto del postmoderno, del rapporto con i localismi, dell'equilibrio tra contemporaneità e tradizione. Gli architetti traggono spesso ispirazione dall’arte contemporanea, non solo dalla sua presenza tattile, fisica e dal trattamento fantasioso dei materiali, ma anche dall’investigazione analitica che opera sulla società. Arte e architettura si ritrovano in un dialogo reciprocamente fruttifero.L’architettura più innovativa proponesoluzionicheincorporanostrategieartistiche; mentre il contenuto di molta arte si può spesso mettere in relazione a dati architettonici. Cristina Bechtler


POSTMEDIABOOKS

Essenza e forma L’architettura in Cina dal 1840 ad oggi Peter Rowe e Seng Kuan isbn 88-7490-019-8

Immateriale/Ultramateriale Architettura, progetto e materiali Toshiko Mori isbn 88-7490-014-7

L'arte nell'era postmediale Marcel Broodthaers, ad esempio Rosalind Krauss isbn 88-7490-020-1

Gerhard Richter La pratica quotidiana della pittura Hans Ulrich Obrist isbn 88-7490-007-4

Le parole di Bruce Nauman Janet Kraynak isbn 88-7490-018-X

Design & Crime Hal Foster isbn 88-7490-003-1

Index Architettura Archivio dell'architettura contemporanea Bernard Tschumi e Matthew Berman isbn 88-7490-017-1

Tacita Dean Emanuela De Cecco isbn 88-7490-015-5

Postproduction Come l'arte riprogramma il mondo Nicolas Bourriaud isbn 88-7490-016-3 Scritti su Starck Valérie Guillaume isbn 88-7490-012-0 Manuale per giovani artisti Damien Hirst e Gordon Burn isbn 88-7490-011-2 Parallax. Architettura e percezione Steven Holl isbn 88-7490-013-9

Rem Koolhaas Verso un'architettura estrema Sanford Kwinter e Marco Rainò isbn 88-7490-001-5

postmedia next Il ritorno del reale L'avanguardia alla fine del Novecento Hal Foster isbn 88-7490-025-2 Arte, architettura e disagio nella cultura moderna Anthony Vidler isbn 88-7490-026-0


Finito di stampare nel mese di settembre 2005 presso La Cittadina, Gianico

tutti i diritti riservati / all rights reserved vietata la riproduzione non autorizzata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia

postmedia books Milano www.postmediabooks.it


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