Enzo Mari

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Enzo Mari o della qualità politica dell’oggetto (1953-1973) di Alessio Fransoni © 2019 Postmedia Srl, Milano book design: Alessandra Mancini www.postmediabooks.it ISBN 9788874902392


Alessio Fransoni

ENZO MARI O DELLA QUALITÀ POLITICA DELL’OGGETTO 1953-1973

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Introduzione 01

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Prime ricerche 02

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Tra forma e programma 03

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Form follows process: Mari e la Danese

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Due mostre di Mari alla Danese 05

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Arte programmata 06

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Processo, lavoro e arte 07

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L’integrazione arte-industria: Nova Tendencija 3

08 130

La grande serie 09

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1968: il rifiuto possibile e le ultime Strutture

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Il lavoro inscritto 11

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“…la forza si riduce di fatto a situazione, o a forma”

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Bibliografia

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Elenco illustrazioni e crediti fotografici


Introduzione


Chi si accinga a scrivere di Enzo Mari si trova a dover fare i conti non con una, ma con più storie. La storia portante, la più celebrata, è quella del ‘designer’: oltre cinquant’anni di attività ininterrotta, cinque premi Compasso d’oro, molti oggetti in produzione per decenni, veri classici, indenni all’avvicendarsi delle mode. Meno ricordata, soprattutto nell’ultimo trentennio, è invece la storia dell’‘artista’, se si vuole intendere con questo termine chi realizza oggetti non destinati all’uso, ma alla mera contemplazione. È la storia di uno dei protagonisti della stagione della cosiddetta Arte programmata, o cinetica, o cinetico-programmata. Una stagione esemplare di un certo crepuscolo del Modernismo, e che va ogni volta recuperata alla memoria, e non solo per Mari, ma per tutti coloro che l’hanno vissuta con la medesima intensità. Nel suo caso il recupero è reso più difficile dalla predominanza dell’altra narrazione, la quale schiaccia la produzione ‘d’arte’ confinandola al decennio delle realizzazioni mature, dal 1958 al 1968, e ne attenua così la continuità con quanto è stato fatto prima e dopo in una medesima linea di ricerca, ante e post litteram. A queste si può aggiungere una terza storia: quella del Mari che vede nell’avvento storico del disegno industriale un portato diretto dello spirito del socialismo, il Mari dell’impegno ideologico, dell’occupazione della Triennale del 1968, del rifiuto di esporre alla Biennale di Venezia e a Documenta dello stesso anno. E poi ancora il ‘controdesigner’ (così, anche se impropriamente, nella mostra Italy: The New Domestic Landscape al MoMA nel 1972), il progettista intransigente delle proposte programmatiche di comportamento professionale e politico, dove politica è, senza mezzi termini, lotta di classe. Nella maggior parte dei numerosi studi che lo riguardano, alcuni davvero ottimi, e che non trattano solo di design, le prime due storie appaiono perlopiù giustapposte, o intrecciate in modo meccanico, la terza, quando considerata, è ridotta a un contrappunto aneddotico. Lo scopo di questo saggio è di farne una storia unica, in modo che la figura di Mari sia restituita nella sua unitarietà. Nel momento in cui questo compito potrà dirsi riuscito, la sua opera potrà manifestare pienamente la sua specificità, che crediamo consista nell’essere una rappresentazione cristallina del limite metodologico di ogni approccio Enzo Mari

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che riposi su classificazioni tradizionali quali ‘arte pura’, ‘arte applicata’, ‘design’, o sulla pertinenza del medium, o su polarità critiche consumate dall’uso quali immagine / materia, concetto / realizzazione, oggetto / ambiente o altre. Attraverso Mari, si tratterà di individuare la specificità dell’arte in una certa sua “qualità politica”,1 nel suo collocarsi in una rete tensionale più larga, nella rete costituita dai rapporti generali tra le tre dimensioni della vita activa, lavoro, opera e azione così come descritte da Hannah Arendt.2 Il lavoro, ambito della vita e della sopravvivenza, concetto che, come vedremo, ha un’assoluta centralità per Mari; l’opera, ovvero l’istanza dell’essere-fatto o della produzione in generale; e infine l’azione, ossia la libertà e la politica: le tre dimensioni dell’antropologia arendtiana sono uno dei sistemi di coordinate di una fenomenologia alternativa, o meglio di una teoria politica dell’arte che altrove abbiamo tentato di delineare.3 C’è da dire che è Mari stesso a trasmetterci continuamente la preoccupazione che il suo lavoro, così come dispiegato nei vari campi e nelle sue varie manifestazioni, non venga percepito unitariamente, quindi correttamente. Già dal 1962, quando tiene a fare il punto sulla sua attività ‘multidisciplinare’ nella mostra Ricerche visive, strutture, design a La Strozzina (Firenze, Palazzo Strozzi, aprile-maggio 1962), ripetuta nell’autunno dello stesso anno a Zagabria (Muzej za umjetnost i obrt, 19 ottobre – 4 novembre). Nel 1967, poi, per la partecipazione al premio Compasso d’oro, presenta alla giuria documentazione riguardante un “certo elenco di esperienze”,4 che comprende oltre alle ricerche “su specifici aspetti del design” e “sulla pregnanza sociologica del design”, anche altre “ricerche individuali che nascono […] [dagli] interessi per i valori fondamentali delle strutture percettive”, tra cui troviamo anche fotografie di lavori afferenti alla produzione propriamente ‘artistica’, nonché note sulla sua partecipazione alle manifestazioni di Nuova Tendenza, che sintetizza con la formula “arti figurative come design”.5 Evidentemente l’unitarietà di intenti è apprezzata, tanto da ricevere uno dei premi riservati per la sezione Ricerche di design (è il primo Compasso d’oro della sua carriera, e forse il più significativo). ‘Ricerca’ è un termine guida per un percorso nel mondo di Mari, termine peraltro condiviso da un’intera generazione gravitante intorno 8


all’Arte cinetico-programmata, che combatteva la sua battaglia contro quello che si diceva il sistema mercificante e mistificante dell’arte, anche attraverso una precisa rinominazione delle professionalità: ‘ricercatori’, o ‘operatori estetici’, giammai ‘artisti’. Il punto di arrivo per Mari è Funzione della ricerca estetica, una mostra documentaria (Verona, Museo di Castelvecchio, febbraio 1970) e una pubblicazione (Edizioni di Comunità, Milano 1970), con le quali vuole fornire una classificazione complessiva e puntuale di tutta l’attività svolta fino a quell’anno. La classificazione è assai articolata, con livelli e sottolivelli (1, 1.1, 1.1.1 ecc.), ma si dirama di fatto in due sezioni principali ricondotte sotto il medesimo termine di base: Ricerca come verifica e Ricerca come progetto. In parole povere si tratta della solita divisione ‘arte’ / ‘design’, e alla prima, forse in maniera eccedente le sue intenzioni, sembra conferito un carattere strumentale. In ogni caso, come in tutti i lavori di sistematizzazione effettuati a posteriori, anche quando a farli è l’autore stesso, le etichettature, le inclusioni, gli accostamenti a volte sembrano forzati. La reductio ad unum sembra rispondere all’ansia che non ci sia niente che sia sfuggito al controllo ideologico e che possa risultare in qualche modo equivoco, più che evidenziare le familiarità sul piano del metodo.6 Ci vorranno altri trent’anni per avere un nuovo tentativo di restituire una visione unitaria della sua opera, stavolta non classificatorio, ma per mezzo di un nuovo concetto di sintesi, una parola d’ordine che attraversa tutta la sua attività dall’interno: lavoro. Ci riferiamo alla mostra Lavoro al centro (Triennale di Milano, 12 novembre 1999 – 9 gennaio 2000) e al relativo catalogo (testi di Antonio D’Avossa e Francesca Picchi, Electa, Milano 1999). Il modo in cui questo principio anima la sua intera poetica da sempre è ben riassunto in uno slogan di Mari che viene riportato sulla copertina del fascicolo di Triennale notizie (numero 6, ottobre 1999), dedicato interamente alla mostra e disegnato pagina per pagina dallo stesso artista: “Forma è ciò che è, non ciò che sembra, per questo è necessario parlare del lavoro che la realizza” 7

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‘Lavoro’ ha qualche parentela con ‘ricerca’: entrambe azioni dispiegate nel tempo, di carattere processuale; in questo senso la ricerca è in sé un lavoro. Ma puntando sul primo si sposta il riferimento dal mondo della scienza a quello dell’economia e dei suoi rapporti sociali. Alla verifica visiva dell’aderenza delle definizioni alle cose, le difficoltà tuttavia permangono, come del resto capita sempre nell’arte quando si vogliono conciliare punto per punto le dichiarazioni alle opere: la possibilità di ricomprendere nello ‘stesso’ il diverso darsi, come oggetti, di una Pittura degli anni Cinquanta, di una Struttura ‘programmata’ degli anni Sessanta, di un cestino gettacarte o di un portafrutta per la produzione in serie, sfugge tanto alle sottigliezze dell’arte classificatoria, quanto alla onnicomprensività di un’etichetta-manifesto, pur perspicua e poeticamente pregnante. L’altra modalità, meno nota e percettibile, in cui si è manifestata e si manifesta l’esigenza di Mari di offrire una percezione unitaria della sua opera è senza dubbio il suo ricchissimo archivio, già conservato nel suo studio storico di Piazzale Baracca numero 10 a Milano. L’artista registra da sempre in maniera puntuale tutto quello che esce dalla sua testa e dalle sue mani, e gli assegna un numero progressivo che riporta su un registro, numero che a sua volta rimanda a una cartella in cui si raccolgono tutti i materiali ad esso relativi: numeri di progetto cui corrispondono numeri di cartella, a oggi circa duemila. ‘Progetto’ è la terza parola chiave della sua reductio ad unum, onnipresente in tutti i suoi scritti, intesa come area di attività in Funzione della ricerca estetica, ricondotta alla sua base antropologica, come relazione fondamentale con l’esigenza di sopravvivere, nel suo più recente Progetto e passione (2001). Nella dimensione del suo archivio, ‘progetto’ è semplicemente l’unità di misura di un’attività omogenea e finalizzata, parola inseparabile dal suo numerale: progetto 1, progetto 2, progetto 3, in una successione paratattica, non gerarchica e anticlassificatoria, in cui il 116 (una Pittura), si trova semplicemente prima del 801 (una libreria), e del 1006 (una mostra come dichiarazione programmatica). Nel mare dell’Archivio Mari le carte, ordinandosi, si rimescolano, e si ritorna al punto di partenza. Oppure a un ‘nuovo’ punto di partenza, che permette di ritrovare una giusta distanza dalle classificazioni ereditate. 10


Senza cercare un altro modo seducente di legare la teoria agli oggetti, le parole alla materia, nei capitoli che seguono si tenterà di evidenziare i luoghi in cui il ‘lavoro’, per tornare allo slogan di Mari, sia generatore di forma, e la forma manifestazione del lavoro. Il discorso andrà sviluppato a partire dalle cose stesse, approfondendo alcune evidenze su un piano specificamente fenomenologico. Si riscontrerà ancora l’emergere di due direzioni di ricerca per Mari, ma che sono stavolta svincolate dalle definizioni disciplinari così come dalle trappole dell’analogia: una finalizzata a trovare ‘la formula’, il programma per la forma che riesce sempre e che resiste al tempo, l’altra tesa a chiarire la posizione dell’oggetto nel mondo, e di conseguenza dello spettatore rispetto all’oggetto, e dello spettatore nel mondo. La lettura formale potrà evidenziare come a queste due direzioni corrispondono due modalità di intervento nello spazio: una specie di scrittura, che si dà sulla superficie, e l’esplorazione della profondità, della sua rappresentazione, della sua illusività, dei suoi effetti. La conciliazione, che può risultare difficile da un punto di vista ideologico, ridiventa possibile quando si lavora nell’ordine di quella sorta di fenomenologia, per statuto sempre pronta a mettere in discussione i suoi strumenti e metodi, che è la storia dell’arte.

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01 Prime ricerche


“Trovavo alquanto algidi gli epigoni dell’Astrattismo. Il Neorealismo, dal punto di vista del linguaggio mi appariva solo una misera degradazione del Tintoretto. Dell’Informale conoscevo solo il proliferare di un comodo manierismo. Guardavo i maestri italiani del Novecento, Carrà, Sironi, De Chirico”.1 Quel guardare iniziale nientemeno che ai Metafisici, conoscendo la storia di Mari, può sembrare del tutto fuorviante. Eppure si tratta di un’annotazione che non può essere relegata semplicemente alla varia aneddotica di un ‘autoritratto dell’artista da giovane’, come a dire che da qualche parte un artista riconosciuto e storicizzato deve essere pur partito. Manteniamo questa come altre sue dichiarazioni come spie, antidoti permanenti al rischio di far scivolare la trattazione in facili schematismi evolutivi – concretismo-programmazione-design – per restituire alla ricerca la sua ampiezza e complessità. Utili, in modo insospettabile, a portarci dritti al punto. Corre l’obbligo di notare che all’incirca negli stessi anni cui si riferisce la dichiarazione citata, Argan in alcuni interventi collocava il design stesso in una storia dell’arte generale, inquadrandolo da una prospettiva del tutto originale. In un articolo su Casabella-Continuità del 1954, ad esempio, argomentava come il problema centrale del design non fosse, in fondo, che quello intorno al quale aveva ruotato l’intera arte moderna: il rapporto tra oggetto e spazio. Tale rapporto era stato risolto, secondo il critico, in termini di compenetrazione o di identificazione, come, rispettivamente, nel Cubismo-Futurismo e nel Neoplasticismo, o di stupore davanti “all’oggetto eccepito dallo spazio”, come nel Surrealismo2 e, aggiungeremmo noi, nella pittura metafisica. Si parta dunque anche da qui per sorvolare il periodo che va dal 1952 al 1958, anno in cui l’artista ventiseienne3 inizia la collaborazione con la Danese, trovando il luogo ideale in cui far vivere compiutamente nel lavoro una sintesi metodologica ormai compiutamente delineata. Sono anni fondamentali, di studio vorace, di immediata rielaborazione critica e produzione già originale. Numerose sono le componenti di questa fase: alcuni corsi all’Accademia di Brera, la frequentazione Enzo Mari

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02 Tra forma e programma


Nel 1955 Enzo Mari conosce Max Bill e Bruno Munari, segue conferenze di Gillo Dorfles, si avvicina al MAC: il suo nome compare tra i membri del movimento1 e dal 14 al 27 maggio di quello stesso anno partecipa alla collettiva Esperimenti di sintesi delle arti presso la Galleria del Fiore. La sua adesione è occasionale, mediata soprattutto dalla figura di Munari, ed è appena menzionata o addirittura marginalizzata nei suoi ricordi. Nel complesso sembra essere più interessato a ciò che accade ai margini o fuori dal MAC. C’è da rilevare che il movimento stava giocando un suo ruolo in quella Milano che negli anni Cinquanta stava diventando un punto di riferimento non solo nella produzione, ma anche nella riflessione teorica sul disegno industriale, e non solo a livello nazionale. Nella Triennale del 1954 aveva assunto un’assoluta centralità la Mostra dell’Industrial Design, affidata a Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Roberto Menghi, Marcello Nizzoli e Alberto Rosselli, anche se di fatto curata da Michele Provinciali e da Augusto Morello (allora dell’Ufficio Stampa dell’Olivetti). Da quella edizione si era preferito definitivamente il termine ‘design’, di origine nordamericana, per marcare l’affrancamento dalla logica dell’arte applicata, cui la formula ‘esthétique industrielle’, la più usata fino ad allora, finiva inevitabilmente per rimandare. In quello stesso anno viene creato il premio Compasso d’Oro e fondata la rivista Stile industria diretta da Rosselli, mentre già dal 1953 si pubblica Civiltà delle macchine edita da Finmeccanica e diretta da Leonardo Sinisgalli. L’ispirazione complessiva del programma della Triennale del 1954 risente comunque ancora fortemente del concetto lecorbusieriano di ‘synthèse des arts majeurs’, proponendosi di “1) riconoscere come uno dei problemi più vivi e attuali il nuovo rapporto di collaborazione determinatosi tra il mondo dell’arte e quello della produzione industriale; 2) riaffermare il rapporto unitario fra architettura, pittura e scultura”.2 E in quella occasione il Movimento Arte Concreta costruisce nel parco del Palazzo dell’Arte un prototipo di Casa sperimentale presentandola significativamente come opera collettiva di ‘sintesi’. È il punto culminante di tutte le iniziative che il MAC aveva promosso dal 1952 per indicare una possibile via di dialogo tra arte concreta e industria, tra le quali vale la pena citare le mostre Studi per forme Enzo Mari

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03 Form Follows Process: Mari e la Danese


Nell’estate del 1957 Mari prende parte alla mostra Colori e forme della casa d’oggi che si tiene alla Villa Olmo di Como (29 giugno - 1 settembre). L’esposizione, di oggetti e ambienti, vuole essere un’occasione per discutere in maniera interdisciplinare la forma del moderno abitare tra architettura d’interni, arte e design.1 Il suo contributo consiste in una grande struttura a sequenze di celle bianche e nere, che occupa un’intera parete (progetto 335). La mostra è però soprattutto un’opportunità per confrontarsi in modo ravvicinato con alcuni dei grandi maestri del disegno industriale. Secondo la sua testimonianza, l’unico ambiente a lasciare un segno su di lui è quello allestito da Achille Castiglioni insieme al fratello Pier Giacomo. Di certo lo colpiscono i prototipi di due sedie che rappresentano uno scarto evidente da tutto quanto vede a Villa Olmo: le celebri Mezzadro e Sella (1957), assemblaggi che riutilizzano parti già disponibili, già pronte, ‘readymade’ si potrebbe dire, e prelevate da altri contesti, un sedile da trattore per Mezzadro e una sella da bicicletta per Sella. Più che l’aspetto onirico o ironico, a Mari interessa quello costruttivo: si tratta di un gesto che si riverbererà immediatamente nella sua attività di designer, in particolare nella predilezione per l’uso di elementi prefabbricati. Ma Mezzadro e Sella non rappresentano solo una riflessione su una possibile pratica operativa. Sono la conferma che il disegno di oggetti d’uso può essere il campo in cui si può attuare una sintesi tra due istanze: non semplicemente tra il ‘bello’ e l’‘utile’, secondo il vetusto refrain, ma tra un linguaggio che aspira al livello culturale e intellettuale della grande arte e una certa, etica, istanza di realismo. Oppure, su quel piano fenomenologico che si va sempre più a chiarire, tra processo e forma, programma e spazio. L’istanza di realismo rappresentata dal design, con tutte le sue implicazioni, non si può dare se non si opera nel concreto della produzione. La possibilità di cimentarsi direttamente nella progettazione di oggetti funzionali e di misurarsi personalmente con tutti i suoi aspetti tecnici e teorici, si apre per Mari da lì a poco, grazie alla frequentazione con Munari, il quale lo presenta a Bruno Danese. La Danese è una vera impresa produttiva, anche se di tipo veramente particolare. La sua storia rappresenta un eccezionale caso

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04 Due mostre di Mari alla Danese


È con Quaranta vasi di ferro dell’aprile del 1959 che Enzo Mari inizia la sua collaborazione con Danese. Nell’ottobre dello stesso anno l’artista inaugura una seconda mostra, Strutture e ricerche, nella quale, come si evince dal titolo, non sono esposti oggetti d’uso, come i vasi, ma rilievi di legno e lamiera, veri modelli di pura ricerca estetica. Si possono considerare due momenti di un unico evento di presentazione, in cui due gruppi di oggetti, pur diversi per destinazione, si espongono come esiti di un medesimo approccio metodologico. I primi prototipi di vasi di ferro erano stati presentati a Danese, insieme al gioco dei 16 animali, al tempo della loro prima conoscenza. I contenitori in mostra sono divisi in due serie: Contenitori in lamiera saldata e Contenitori in ferro profilato. I primi sono in lamiera di ferro saldata ad ottone. La saldatura non pulita vuole essere un esplicito riferimento alle contemporanee esperienze dell’Informale in pittura, così come dichiara lo stesso Mari: “Quelli erano gli anni dell’informale: come ricercatore sono stato sempre lontano dall’informale, ma in questo caso pensavo che utilizzando una saldatura senza finiture in qualche modo questa potesse essere percepita dal pubblico come valore positivo […]. Il mio obiettivo era realizzare oggetti con tecnologie povere, che però non incontravano il gusto comune: credo di non aver mai strumentalizzato il gusto del fruitore, ma in questo progetto ho utilizzato un gusto allora comune per rendere vendibile l’oggetto”.1 I secondi sono invece realizzati utilizzando un semilavorato, un profilo di ferro a doppia T di diverse sezioni, variamente tagliato, piegato e saldato. La presentazione della mostra viene scritta da Lodovico Belgiojoso: “Enzo Mari, esponendo questi pezzi, realizzati in lamiera e con elementi di profilati in ferro, intende presentare degli oggetti d’uso, anche se alcuni di essi possono ricollegarsi a sue precedenti opere risultate da ricerche nel campo dei puri valori di ordine plastico. Il loro particolare interesse consiste proprio nell’aver conservato Enzo Mari

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05 Arte programmata


La mostra Arte Programmata del 1962 è l’evento che determina una svolta nell’attività artistica di Mari. Organizzata da Bruno Munari e Giorgio Soavi, allora all’Ufficio propaganda e sviluppo dell’Olivetti, la mostra si tiene nei locali in ristrutturazione del negozio dell’azienda alla Galleria Vittorio Emanuele II di Milano dal 15 al 30 maggio 1962 e vi partecipano, oltre a Munari e Mari, il Gruppo N (Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi, Manfredo Massironi) e il Gruppo T. Il testo in catalogo è di Umberto Eco. Dopo Milano la mostra parte per un tour prima nazionale, presso i negozi Olivetti di Venezia e Roma e la Galleria d’Arte Contemporanea di Trieste, poi internazionale: Düsseldorf (Olivetti-Ausstellungsräumen), Londra (Royal College of Art) ed infine gli Stati Uniti, in diverse istituzioni, con prima tappa a New York presso il Loeb Student Centre. La compagine degli artisti cambia leggermente: dalla mostra di Venezia si aggiungono Getulio Alviani e il GRAV, ma il gruppo francese non sarà presente alle tappe organizzate all’estero (Düsseldorf, Londra e Stati Uniti). Come è noto l’evento non solo dà un contributo decisivo alla diffusione dell’arte italiana di quel fronte di ricerca, ma contribuisce direttamente alla sua stessa definizione. Col titolo Arte Programmata era stato pubblicato alla fine del 1961 nell’Almanacco Letterario Bompiani, sempre per cura di Munari, un inserto illustrativo a corredo del testo di Eco Una forma del disordine. Nell’invitare gli artisti a realizzare il loro contributo per l’inserto, aveva chiesto di tener presente sia il riferimento all’informatica e alla cibernetica, sia il testo di Eco diffuso in anticipo, il quale, in un quadro teorico complessivo che rimandava al suo concetto di ‘opera aperta’,1 individuava in un’arte basata su una permutazione programmata l’aprirsi di un fronte di indeterminatezza di carattere completamente diverso da quello tipico della galassia informale: “[…] Fissato l’elemento di base e programmatene le permutazioni, l’opera non consiste nell’elemento meglio riuscito, scelto tra tutti gli altri, ma proprio nella compresenza di tutti gli elementi pensabili”.2 Tuttavia le illustrazioni pubblicate, così come le opere che saranno esposte alla successiva mostra, rispondono in maniera diversa allo Enzo Mari

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06 Processo, lavoro e arte


Nonostante le divergenze interne, dal 1962 Mari assume per un certo periodo un ruolo di collegamento tra i Gruppi N e T, nel tentativo di creare quasi un fronte comune. Dal settembre 1963 tra i tre soggetti c’è una collaborazione sostenuta da una forte unità d’intenti. Nel suo archivio si conserva una dichiarazione, non datata ma risalente al settembre-ottobre 1963, in cui si legge: “Il gruppo enne, il gruppo T ed Enzo Mari, dal settembre 1963, hanno deciso di stabilire una collaborazione più stretta, motivata da metodi e finalità di ricerca comuni. Danno, per questo, una documentazione comune della loro attività”.1 In una successiva lettera ad Argan del 16 ottobre 1963, ancora tutti insieme: “Egregio Professore, desidereremmo parlare con lei sugli ultimi sviluppi del nostro lavoro. Sperando che ciò possa interessarle, la preghiamo di fissare un incontro con alcuni di noi nel luogo e nel tempo che lei riterrà più opportuno. Biasi, Chiggio, Costa, Landi, Massironi, Anceschi, Boriani, Colombo, De Vecchi, Varisco, Mari”.2 Quell’anno Argan, che presiedeva sia Commissione inviti che la Commissione premi della IV Biennale Internazionale d’Arte di San Marino: Oltre l’Informale, era diventato l’indiscusso riferimento teorico e ‘politico’ per l’arte cinetico-programmata. La sua promozione di questa area di ricerca è in perfetta continuità con la sua riflessione degli anni Cinquanta sul design, e concorre a delineare un orizzonte critico e filosofico in cui si muove una generazione di artisti per i quali l’arte si configura o aspira a configurarsi come vero e proprio lavoro, nella sua varietà di significati. Che ci sia oppure no per l’arte, come aveva sperato Argan, la concreta possibilità di rinnovare il ciclo del lavoro dall’interno del mondo della produzione e inaugurare delle pratiche non alienanti, per diversi operatori e gruppi attivi in quegli anni il rifarsi al concetto di Enzo Mari

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07 L’integrazione arte-industria: Nova Tendencija 3


Nel contesto di Nova Tendencija l’influenza di Mari risulta decisiva soprattutto nella terza grande manifestazione organica collettiva, Nova Tendencija 3 (a Zagabria, alla Galerija Suvremene Umjetnosti e altre sedi, dal 13 agosto al 19 settembre 1965), alla quale non partecipa come artista, come aveva fatto nella precedente edizione del 1963, ma figura tra gli organizzatori insieme a Radoslav Putar, Vjenceslav Richter e Meštrović. Con più di cento artisti, Nova Tendencija 3 è l’ultima e più importante mostra organizzata dal movimento, ed è volutamente dedicata anche all’analisi e al bilancio di questioni discusse in quattro anni di attività. Queste sono riassunte nella problematica complessiva della divulgazione delle “esemplificazioni della ricerca”, ricerca che, come tale, costringe naturalmente ad allargare l’interrogazione anche agli aspetti sociali ed economici che la condizionano.1 La manifestazione è articolata in tre sezioni: - una rassegna storica di idee ed esemplificazioni di ricerca sulla percezione visiva, diretta da Putar; - una raccolta di contributi di varia natura, come scritti, progetti e modelli, che illustrano il tema generale, organizzata da Meštrović, Mari e Richter; - un concorso per un “progetto per la produzione in serie di un’esemplificazione di ricerca visuale”.2 Le prime due occupano le sale della Galerija Suvremene Umjetnosti e del Muzej za umjetnostii obrt (Museo delle arti e dei mestieri), i progetti presentati per il concorso sono esposti al Centra za industrijsko oblikovanje (Centro di estetica industriale). La seconda e la terza sezione sono aperte: il bando per partecipare viene spedito a tutti i membri e ad altri artisti segnalati, e pubblicato su alcune riviste. Il comitato organizzatore esamina le proposte ricevute e rigetta esplicitamente quelle che non corrispondono ai criteri stabiliti nel bando o, in sostanza, non sono “nello spirito” di Nuova Tendenza.3 L’evento nel suo complesso si propone di chiarire il rapporto del ricercatore d’avanguardia con il suo pubblico e definire la natura dell’esemplificazione, e su questo punto il contributo di Mari appare senza dubbio interessante. È infatti il suo scritto Divulgazione delle Enzo Mari

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09 1968: il rifiuto possibile e le ultime Strutture


Quando nel 1967 Mari presenta alla commissione esaminatrice del premio Compasso d’oro il materiale per la partecipazione alla sezione Ricerche di design, è chiaro che sotto il concetto di ‘ricerca’ finisce circa un quindicennio di esperienze in campi diversissimi. Se ne può avere un’idea leggendo lo scritto di presentazione del materiale, dal titolo Ricerche individuali di design, che può essere considerato anche una bozza di quella sistematizzazione che prenderà forma compiuta tre anni dopo nel suo Funzione della ricerca estetica: “Premesso che le condizioni migliori per una ricerca si dovrebbero trovare all’interno di istituzioni che, oltre a finanziarla, forniscano anche gli strumenti adeguati, e dato che il realizzarsi di queste condizioni è estremamente raro, ho dovuto limitare i miei contributi ai seguenti aspetti: […] A) Le strutture percettive. Attraverso la programmazione di sistemi dinamici di relazioni si individuano nuove possibilità di organizzazione spaziale. Le ricerche in questo senso, che proseguono contemporaneamente a tutt’oggi, sono state iniziate nel 1952. Ne do qui un breve elenco d’ordine generale: - rapporti fra colore e volume - variazioni tematiche - programmazione di elementi seriali - percezione dello spazio tridimensionale - cinematica della percezione visiva - analisi delle sovrastrutture connesse alle poetiche contemporanee. Di queste accludo una breve documentazione: A1) Variazioni tematiche. A2) Metodologia inerente la composizione programmata di parti prefabbricate. A3) analisi delle sovrastrutture connesse alle poetiche contemporanee.

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11 “...la forza si riduce di fatto a situazione, o a forma”


Tornando alla questione di struktur e gestalt, del passaggio dal continuum delle produzioni seriali alle figure di ‘ripiegamento’ o d’‘intensificazione’, dobbiamo riprendere e approfondire altri progetti di Mari che trovano nel giunto il luogo di massima significatività, e che portano alla completa maturazione la sua riflessione su questo elemento, tanto decisivo che potrebbe essere interpretato come vero centro di una ‘sistemica’ e di una poetica. Tra i progetti più emblematici a questo riguardo si deve menzionare quello per il divano-letto Day-Night (1971). Rifiutato dal primo committente, verrà alla fine prodotto da Driade nel 1974. La sua forma è il risultato di una serie di analisi sulle ragioni di questo tipo di mobile. Mari parte dalla constatazione che la formula del divano-letto è in sé un ‘mostro’: due mobili in uno, il divano e il letto, ognuno afferente alla sua specifica tradizione formale, montati in modo che l’uno contenga l’altro. L’aggregato ha normalmente la forma di un mobile contenitore: “Per usare questi divani come letti bisogna compiere operazioni abbastanza faticose, sventrando l’oggetto; il divano lussuoso per l’uso diurno è realizzato sulla base di coerenze formali o stilistiche, per l’uso notturno è realizzato con un’immagine che non solo non ha a che fare con l’immagine precedente, ma anzi non ha alcuna forma e nessun particolare adatto per la funzione notturna. Quindi la mia prima risposta a questo dato di fatto è di pensare ad un oggetto denotante contemporaneamente la funzione di letto e la funzione di divano. [...] Proviamo ad elencare separatamente le diverse scelte di progetto. Economia produttiva: ogni componente del letto deve essere realizzata con la tecnica più appropriata indipendentemente dal fatto che le tecniche possano essere molteplici o che le diverse tecniche implichino soluzioni formali diverse. Economia formale: la coerenza formale deve essere definita coerentemente a quanto espresso dal punto precedente. L’eventuale ‘inconsuetudine’ di forma che ne deriverà sarà una scelta formale significante o almeno un atto polemico contro l’attuale stile ‘Luigidesign’. La doppia funzione: questa deve essere espressa non Enzo Mari

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Pensieri sul design

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di Paul Rand

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Moda, design e sostenibilità

L’architettura del fallimento

di Kate Fletcher

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Progettare oggi il mondo di domani Ambiente, economia e sostenibilità

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