Cindy Sherman

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Cindy Sherman a cura di Joanna Burton Š 2019 Postmedia Srl, Milano Traduzione dall'inglese di Antonio Fedele Book design di Federica Mutti Copertina: Shirin Laghai, Art/Life Reflects Life/Art, 2018 Tutte le foto: courtesy Cindy Sherman tranne diversa indicazione First published by The MIT Press Š 2006 Massachusetts Institute of Technology www.postmediabooks.it ISBN 9788874902200


Cindy Sherman a cura di Joanna Burton

con saggi di Johanna Burton, Norman Bryson, Douglas Crimp, Abigail Solomon-Godeau, Hal Foster, Annette Michelson, Rosalind Krauss, Laura Mulvey, Craig Owens, Kaja Silverman, Judith Williamson e una postfazione di Cristina Casero

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L’impulso allegorico 7 Verso una teoria del postmodernismo, Parte II Craig Owens L’attività fotografica del postmodernismo 29 Douglas Crimp Al centro degli eventi: immagini di “donna” 41 nella fotografia di Cindy Sherman Judith Williamson Degna di cornice: rilettura critica di Cindy Sherman 55 Abigail Solomon-Godeau Cosmetica e abiezione: Cindy Sherman 1977-1987 65 Laura Mulvey Museo delle cere 85 Norman Bryson Cindy Sherman: Untitled 99 Rosalind Krauss Come affrontare lo sguardo 149 Kaja Silverman Osceno, Abietto, Traumatico 179 Hal Foster Il corpo come tabula rasa 201 Johanna Burton

Cindy Sherman 225 postfazione di Cristina Casero



L’impulso allegorico Verso una teoria del postmodernismo, Parte II Craig Owens

Noi scriviamo per dimenticarci di un fatto che conosciamo anticipatamente, cioè la totale opacità delle parole e delle cose o forse, il che è forse anche peggio, perché non sappiamo se le cose devono o non devono essere comprese. Paul de Man, Allegories of Reading

Ecco il principio di un’allegoria, una breve parabola della lettura che deriva dal capitolo introduttivo di Americans on the Move1 di Laurie Anderson: Mentre guidi di notte può succederti di pensare che forse sei nella direzione totalmente sbagliata. Quando hai girato lì prima... eri tanto stanca ed era così buio e pioveva e tu hai preso quella strada e l’hai seguita per un pezzo e poi ha smesso di piovere e il cielo ha cominciato a schiarirsi e tu ti sei guardata attorno e ogni cosa ti era del tutto estranea. Sai benissimo di non essere mai stata in quel posto prima d’ora e alla stazione di servizio ti fermi e ti sembra stranissimo chiedere “Mi scusi, potrebbe dirmi dove sono?”...

Questo brano con immagini di guida (questa è la metafora che Anderson utilizza per indicare la coscienza: “Sto nel mio corpo nello stesso modo in cui la maggior parte della gente sta alla guida della macchina”) e di oscurità ricorda l’inizio della Divina Commedia (“Nel mezzo del cammin di nostra vita/Mi ritrovai per una selva oscura/ che la diritta via era smarrita... Io non so ben ridir com’io v’entrai,/ tant’era pieno di sonno a quel punto/che la verace via abbandonai”)2, o piuttosto quello stato di perplessità con cui si aprono molte allegorie. E il guidatore notturno della Anderson incontra ben presto il suo Virgilio sotto le sembianze di una grassa scimmia, che rivela che la sua confusione è il risultato della sua incapacità di “leggere i segni” – un’incapacità che non viene, comunque, attribuita a un

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pittura espressionista astratta contenga realmente il seme della sua stessa allegoria. 13. Krauss Rosalind, “Rauschenberg and the Materialized Image” in Artforum n.13, dicembre 1974, p. 37 14. Barthes Roland, “La morte dell’autore”, op. cit. 15. Krauss, “Rauschenberg,” p. 41, corsivo mio. 16. Il riferimento è a un altro saggio nello stesso numero di October (N.d.T.) 17. Foucault Michel, “Fantasia of the Library,” in Language Counter-Memory, Practice, Cornell University Press, Ithaca 1977, p. 92 [trad. ingl.: Donald F. Bouchard and Sherry Simon] 18. Husserl Edmund, Ideas, Collier, New York 1962, p. 270 [trad. ingl.: W. R. B. Gibson] 19. Derrida Jacques, Speech and Phenomena, Northwestern University Press, Evanston 1973, p. 104 [trad. ingl.: David B. Allison] 20. Derrida Jacques, “Structure, Sign, and Play in the Discourse of the Human Sciences”, in Writing and Difference, University of Chicago Press, Chicago 1978, pp. 282 e segg. [trad. ingl.: Alan Bass] 21. de Man, Allegories of Reading, p. 242 22. Ibid., p. 275 23. Donato Eugenio, “The Museum’s Furnace: Notes toward a Contextual Reading of Bouvard and Pécuchet,” in Harari Josue V. (a cura di) Textual Strategies, Cornell University Press, Ithaca 1979, p. 223 24. Crimp Douglas, "Pictures", Artists Space, New York 1977, p. 26 25. Levi-Strauss Claude, “The Structural Study of Myth”, in Structural Anthropology, Basic Books, New York 1963, p. 229 [trad. ingl.: Claire Jacobson and B. G. Schoepf ] Levi-Strauss comunque sembra considerare questa sospensione della contraddizione come perfettamente logica: “Lo scopo del mito è quello di fornire un modello logico

capace di superare una contraddizione (un’impresa impossibile se, come succede, la contraddizione è reale)”. R. Krauss, comunque, lo ha correttamente descritto come “paralogico” (“Grids” in October n.9, estate 1979, p. 55. Per il carattere allegorico dell’analisi strutturalista, cfr. Fineman Joel, “The Structure of Allegorical Desire”, October n.12, estate 1980, pp. 47–66 26. Barthes Roland, “The Third Meaning: Research Notes on Some Eisenstein Stills”, in Image—Music—Text, p. 66. [trad. ita.: "Il terzo senso. Note di ricerca su alcuni fotogrammi di Eisenstein" in L'ovvio e l'ottuso. Saggi critici III, Einaudi, Torino 1985] 27. Ibid. 28. Ibid., p. 54 29. Ibid., p. 56 30. Ibid., p. 61, corsivo mio. 31. de Man, Allegories of Reading, p. 292 32. Barthes, “The Third Meaning,” p. 60 33. Ibid., p. 64 34. Jacques Lacan, “The Function of Language in Psychoanalysis”, in The Language of the Self, Delta, New York 1975, p. 11 [trad. ingl.: Anthony Wilden] 35. Roland Barthes, "Change the Object Itself", in Image Music Text, Fontana Press, 1977, p. 167 [ed. orig.: R. Barthes, Mythologies, Éditions du Seuil, Paris 1957]


L’attività fotografica del postmodernismo Douglas Crimp

È una concezione dell’arte feticistica e sostanzialmente anti-tecnica con cui i teorici della fotografia si sono accapigliati per quasi un secolo, naturalmente senza pervenire al benché minimo risultato. Perché altro non hanno fatto che accreditare il fotografo davanti a un tribunale che avevano già ribaltato. Walter Benjamin, Breve storia della fotografia

Che la fotografia avesse rovesciato il tribunale dell’arte è un fatto che il modernismo trovò necessario reprimere; così potremmo affermare con accuratezza che il postmodernismo costituisce un ritorno del rimosso. Il postmodernismo rappresenta una rottura precisa con il modernismo, con quelle istituzioni che modellano l’ideologia modernista e sono suoi prerequisiti. Possiamo fin da subito dare un nome a queste istituzioni: innanzitutto il museo, poi la storia dell’arte e infine – in un senso più complesso, dal momento che il modernismo dipende sia dalla sua presenza sia dalla sua assenza – la fotografia. Il postmodernismo è dispersione dell’arte e sua pluralità, e con questo non intendo pluralismo. Il pluralismo implica l’illusione che l’arte sia libera: libera da altre pratiche e istituzioni ideologiche; libera, sopra ogni altra cosa, dalla storia. Se tale illusione di libertà può essere sostenuta, è perché ogni opera d’arte viene considerata assolutamente unica e originale. Contro il pluralismo degli originali intendo parlare della pluralità delle copie. In un saggio del 1979 intitolato "Pictures", in cui ritenni utile per la prima volta impiegare il termine postmodernismo, provai a descrivere a grandi linee il contesto in cui si inserivano le opere di un gruppo di giovanissimi artisti che stavano iniziando ad esporre a New York1. Feci risalire la genesi delle loro preoccupazioni a ciò che era stato spregiativamente etichettato come teatralità della scultura minimalista

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finisce per cedere il passo alla stranezza, mentre un’involontaria e indesiderata dimensione fittizia torna a invaderle. Isolando, ingrandendo e giustapponendo frammenti di immagini commerciali, Prince ci indica il modo in cui esse sono invase da questi fantasmi della finzione. Concentrandosi direttamente sulla merce-feticcio, usando lo strumento sovrano del feticismo delle merci, le fotografie rifotografate di Prince assumono una dimensione hitchcockiana: la merce si fa indizio. Potremmo dire che ha acquistato un’aura; che però, adesso, è funzione non della presenza ma dell’assenza, recisa da un’origine, da un creatore, dall’autenticità. Nel nostro tempo l’aura è diventata soltanto una presenza: vale a dire, un fantasma.

1. Crimp Douglas, “Pictures” in October n.8, primavera 1979, pp. 75–88. Questo saggio è una versione riveduta e corretta del catalogo per l’omonima esposizione da me organizzata per Artists Space, New York, nell’autunno del 1977. 2. La famosa condanna della teatralità della scultura minimalista si trova in Fried Michael, “Art and Objecthood”, in Artforum, n.10, giugno 1967, pp. 12–23 3. Benjamin Walter, “The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction”, in Illuminations, Schocken Books, New York 1969, p. 221 [trad. ingl.: di Zohn Harry] 4. Benjamin Walter, “A Short History of Photography”, in Screen, n.1, primavera 1972, p. 18 [trad. ingl.: di Mitchell Stanley] 5. Ibid., p. 19 6. Ibid., p. 7 7. Benjamin, “Work of Art”, p. 221 8. Benjamin, “Short History”, p. 20 9. Ibid., p. 21 10. Rose Barbara, American Painting: The Eighties, Thoren-Sidney Press, Buffalo 1979, n.p.

11. Il “terzo significato” della fotografia è formulato in Barthes Roland, “The Third Meaning: Research Notes on Some Eisenstein Stills”, in Image—Music—Text, Hill and Wang, New York 1977, pp. 52–68 [trad. ingl.: Stephen Heath] 12. Mi riferisco a Szarkowski John, Mirrors and Windows: American Photography since 1960, Museum of Modern Art, New York 1978 13. Levine Sherrie, dichiarazione inedita, 1980 14. La teoria di Weston secondo cui la fotografia deve essere previsualizzata è espressa in diverse varianti in tutta la sua cospicua opera. Compare per la prima volta non più tardi del suo “Random Notes on Photography” del 1922. Cfr. Bunnell Peter C. (a cura di), Edward Weston on Photography, Peregrim Smith Books, Salt Lake City 1983 15. Cfr. Barthes Roland, “Rhetoric of the Image”, in Image—Music—Text, pp. 32–51


Al centro degli eventi: immagini di “donna” nella fotografia di Cindy Sherman Judith Williamson

La mattina, quando frugo nel guardaroba, non mi trovo semplicemente di fronte alla scelta di che cosa indossare. Mi trovo a dover scegliere delle immagini: la differenza fra un tailleur elegante e una salopette, fra una gonna di pelle e un abito in cotone non è soltanto una differenza di stile e tessuto, ma di identità. Ognuno di noi sa benissimo che per tutta la giornata sarà visto in modo diverso a seconda di cosa indossa; una donna apparirà come un particolare tipo di donna con una particolare identità che esclude le altre. La gonna di pelle nera sembra annullare l’innocenza fanciullesca, la salopette unta di grasso tende a escludere la raffinatezza, come il tailleur elegante il femminismo radicale. Ho desiderato spesso di indossarli tutti l’uno sull’altro o di apparire simultaneamente in ogni completo possibile, per poi dire: “Come osate pensare che una qualsiasi di queste sia la vera me! Inoltre, vedete, io posso essere tutte loro”. Mi sembra che questo sia esattamente ciò che ottiene Cindy Sherman con la sua serie di Film Stills e, successivamente, Untitled Film Stills. Sottoporre allo sguardo dell’osservatore tutte quelle superfici in una sola volta è un modo eccellente di rispedire le immagini della “Donna” al loro posto. Le foto di Sherman impongono all’osservatore di fondere immagine e identità, cosa che alle donne capita di continuo. Come se il vestito sexy nero ti facesse essere una femme fatale. Quella della femme fatale è, appunto, un’immagine; affinché abbia un qualsiasi significato, occorre un osservatore. Inoltre è solo una delle schegge dello specchio, staccata, per esempio, da “brava ragazza” o “madre”. Sherman sfrutta questo fenomeno tendendolo contemporaneamente in due direzioni; ecco cosa crea la tensione e l’acutezza della sua opera.

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profondità e interezza. Capire questo significa che noi donne non dobbiamo per forza rimanere intrappolate nel cercare di “essere” la profondità dietro una superficie, e gli uomini potrebbero una buona volta sbatterci la testa contro e smettere di credere in quello spazio riflesso. L’opera di Sherman è più di un’arguta parodia di immagini mediatiche di donne o di una serie di autoritratti in cerca di identità. Le due cose sono completamente confuse, come lo sono la raffigurazione della femminilità e l’esperienza che ne abbiamo tutti. Altri potrebbero tentare di aprirsi un varco in quel groviglio di specchi, invece il modo in cui Sherman lo mette in luce serve a continuare a ruotare con maestria quel caleidoscopio in cui a fare la differenza sono alcuni frammenti di immaginazione.

1. Jean-Louis Baudry, “The Mask” in “Writing, Fiction, Ideology”, Afterimage UK (Spring 1974), pp. 22–39. 2. Michael Starenko, “What’s an Artist To Do?” Afterimage US (January 1983), pp. 4–5. 3. Waldemar Janusczak, “Here’s Looking at You, Kid”, The Guardian, 19 maggio, 1983. 4. Els Barents, Introduction to Cindy Sherman, in Cindy Sherman, Stedelijk Museum, Amsterdam 1982, p. 10, Schirmer/Mosel, Münich 1982 5. Ibid., p. 14.


Degna di cornice: rilettura critica di Cindy Sherman Abigail Solomon-Godeau

In un celebre saggio sul racconto di Henry James Il giro di vite, il teorico letterario Shoshana Felman dimostrò come gran parte del discorso critico su quell’opera richiami, uguagli e addirittura ricrei inconsciamente i problemi narrativi e di natura psicologica da essa sollevati. In maniera analoga, diversi saggi recenti che elogiano l’opera di Cindy Sherman danno prova di avere un rapporto simile ma – come suggerirò – revisionistico con il loro oggetto di studio. Infatti, a differenza delle tendenze al rispecchiamento del commento a James, la critica a Sherman presenta una forma di capovolgimento riflesso, e di conseguenza alcuni elementi dell’opera di Sherman finiscono per essere trasposti proprio in ciò che vorrebbe mettere in discussione1. Così, per esempio, se molti osservatori sono rimasti colpiti dal fatto che le fotografie di Sherman sembrano essere soprattutto interessate alle problematiche della femminilità (come ruolo, come immagine, come spettacolo), interpretazioni più recenti le trovano evocative di allusioni alla “nostra comune umanità”2, rivelatrici di “una progressione attraverso i deserti della condizione umana” [sic]3. Letture di questo tipo potrebbero benissimo essere descritte come invertite, nella misura in cui gli aspetti più prominenti e snaturanti delle foto di Sherman sono completamente negati (favorendo in questo modo interpretazioni ancora più blande) o, cosa più interessante – se non più perversa – metamorfizzati esattamente in ciò che non sono, come quando Thomas Kellein chiude il suo saggio con la citazione biblica “Pelle per pelle; tutto quanto ha, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita!”. L’arte di una donna la cui opera da molti anni si è occupata delle costruzioni della femminilità è qui risolta a livello testuale con un’invocazione esclamativa alla mascolinità. Postmedia Books

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critica, quando addirittura non relegato nell’oblio, sono tutti quegli elementi dell’opera che la differenziano dalle altre. Sembrerebbe che solo allora la forma d’arte così integralmente legata a termini secondari svalutati (mascolino/femminile; cultura alta/cultura di massa; pittura/fotografia; apparenza/essenza; e in ultimo, ma non per importanza, presenza/assenza) sia considerata indiscutibilmente, e trionfalmente, degna di cornice.

1. Una notevole eccezione alle revisioni critiche qui discusse è il saggio di Laura Mulvey su Sherman incluso in questo libro, “A Phantasmagoria of the Female Body: The Work of Cindy Sherman” (1991). 2. Arthur C. Danto, “Photography and Performance: Cindy Sherman’s Stills,” in Untitled Film Stills: Cindy Sherman (Schirmer/Mosel, Munich e Rizzoli, New York 1990). 3. Thomas Kellein, “How difficult are portraits? How difficult are people!” in Cindy Sherman, catalogo, Kunsthalle Basel: 28 marzo–20 maggio, 1991). 4. JudithWilliamson,“Images of ‘Woman’ The Photographs of Cindy Sherman”(1983). In questo libro. 5. Versione diversa del saggio di Douglas Crimp pubblicato con il titolo di “Pictures” October 8 (Spring 1979); da leggere anche il suo saggio “The Photographic Activity of Postmodernism” (1981), incluso in questo libro; e “Appropriating Appropriation”,in Image Scavengers, catalogo (Institute of Contemporary Art, Philadelphia 1982).

6. Craig Owens, “The Discourse of Others”, in Hal Foster (a cura di), The Anti-Aesthetic (Bay Press, 1983) in italiano in L'antiestetica. Saggi sulla cultura postmoderna, Postmedia Books 2014; “From Work to Frame”, in Implosion, catalogo (Moderna Museet, Stoccolma 1987). 7. L'importante distinzione tra un'analisi delle immagini delle donne e un'analisi della donna come immagine è stata fatta per la prima volta dalla storica dell'arte Griselda Pollock. 8. Peter Schjeldahl, “The Oracle of Images,” in Cindy Sherman, catalogo (The Whitney Museum of American Art, New York 1987), p. 7. 9. Danto, op. cit., p. 10. 10. Schjeldahl, op. cit.,p. 9. 11. Danto, op. cit., p. 13. 12. Ingrid Sischy, “Let’s Pretend”, The New Yorker, 6 maggio 1991, p. 96. 13. Ibid., p. 87.


Cosmetica e abiezione: Cindy Sherman 1977-1987 Laura Mulvey

Quando andavo a scuola, cominciava a disgustarmi la religiosità o la sacralità dell’arte, volevo creare un qualcosa con cui le persone potessero identificarsi senza dover prima leggere un libro a riguardo. Così che chiunque potesse apprezzarlo, pur non comprendendolo appieno; ne avrebbe comunque ricavato qualcosa. Ecco perché volevo imitare qualcosa che avesse a che fare con la cultura e prendermi gioco della cultura stessa. — Cindy Sherman1

Le opere di Cindy Sherman sono fotografie. Sherman non è una fotografa, ma un’artista che usa la fotografia. Ogni immagine è costruita intorno alla rappresentazione fotografica di una donna. E ciascuna di queste donne è la stessa Sherman, che è simultaneamente artista e modella, trasformata, come un camaleonte, in un glossario di pose, gesti ed espressioni facciali. Mentre la sua opera andava sviluppandosi, tra il 1977 e il 1987, si verificò uno strano processo di metamorfosi. Il pastiche postmoderno apparentemente semplice e accessibile mutò gradualmente in immagini complicate, ma ancora accessibili, che pongono problematiche serie e provocatorie per l’estetica femminista contemporanea. Tale metamorfosi offre una prospettiva nuova, che altera, con il senno di poi, il senso delle sue creazioni precedenti. Per meglio esaminare le implicazioni critiche di questa alterazione di prospettiva è necessario mettere in crisi la posizione esplicitamente non teorica o addirittura anti-teorica della stessa Sherman. Paradossalmente è proprio perché la sua opera è priva di accenni a teorie, chiarimenti o indicazioni linguistiche che la teoria finisce per avere libera giurisdizione. L’opera di Sherman rimane vicina all’enigma, ma non come mistero insolubile, bensì come provocazione

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Museo delle cere Norman Bryson

Una prima immagine della fine del XIX secolo. I visitatori giunti al museo Grévin di Parigi devono aver avuto l’impressione di trovarsi al ballo dell’ambasciata o di essere all’Opera. La vasta anticamera, un suntuoso salone in stile Luigi XV con un magnifico lampadario centrale e alle pareti dipinti su tavola in finto rococò, conduceva al primo tableau: Le Foyer de la Danse1. Qui, un manichino in dimensioni naturali della grande diva Mme. Rose Caron, con il costume che aveva indossato per il balletto del Faust, poteva essere ammirato al centro della scena durante la chiamata alla ribalta circondato da dive minori, che gli intenditori avrebbero saputo identificare con Mlle. Sandrini (nel ruolo di Cleopatra), Mlle. Chabot (nel ruolo di Psiche) e Mlle. Invernizzi (nel ruolo della regina della Nubia). Proseguendo, i visitatori arrivavano a un’installazione che rappresentava lo zar e la zarina appena accolti a bordo della nave Marengo a Kronštadt nel 1891, insieme a una larga schiera di vari ammiragli, ufficiali navali e membri del gabinetto intenti a ricevere l’entourage imperiale. La scena successiva commemorava l’Esposizione di Parigi del 1889 e includeva le sensazionali danzatrici di Giava vestite di costumi autentici, nonché la replica di un’intera strada del Cairo, con tanto di mercanti gesticolanti all’entrata dei loro negozi, giovani dei bar e mendicanti. A poca distanza, le cere erano disposte in una scena ancora più esotica: i Sacrifici umani del Dahomey, in cui il re indigeno Behanzin, circondato dalle sue mogli, viene rappresentato nell’atto di ordinare l’uccisione rituale di uno dei suoi schiavi (secondo la ricostruzione dei testimoni oculari). Negli episodi seguenti, gli orrori confinati all’Africa si facevano più vicini a casa e gravitavano intorno al trauma

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Cindy Sherman: Untitled Rosalind Krauss

FILM STILLS Alcuni mi dicono che ricordano il film da cui è tratta una mia immagine, quando io, in realtà, non avevo in mente alcun film. — Cindy Sherman1

Ecco una storia curiosa: un critico recensisce una presentazione che Cindy Sherman tiene sulla propria opera davanti al pubblico di una scuola d’arte. Vengono mostrate delle diapositive dei suoi Film Stills – le fotografie in bianco e nero in cui proietta, da regista e da attrice, un assortimento di immagini filmiche degli anni Cinquanta – e accanto a ciascuna di esse, continua il critico, vengono proposti i veri fotogrammi delle pellicole su cui erano basate le sue immagini. Quel che emerge dal raffronto, dice il critico, è che “virtualmente ogni singolo dettaglio sembrava essere giustificato: anche i bottoni delle camicette o il taglio dell’inquadratura, perfino la profondità di campo della macchina fotografica”2. Nonostante il critico sia turbato da ciò che il confronto rivela sulla natura pedissequa del metodo di Sherman – la puntigliosa meticolosità della copia – egli è sicuro che l'obiettivo dell'artista, quando ci troviamo di fronte alle Untitled, sia farci riconoscere l’originale, seppure non tanto come fonte in attesa di essere riprodotta ma piuttosto come memoria che aspetta di essere ricordata. Spiega così che l’osservatore, che normalmente vede un solo Untitled, “inizi a ricordare l’immagine originale del film”. Inoltre, scrive che chi osserva non ricordi precisamente “il film vero e proprio” allora “si trattava di un trailer; e se non era neanche questo, allora poteva trattarsi di un’immagine trovata nella recensione di un giornale”. Postmedia Books

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Come affrontare lo sguardo Kaja Silverman

Dalla pubblicazione de La Società della Spettacolo di Guy Debord, va di moda affermare che la nostra dipendenza dall’immagine è aumentata rispetto alle epoche storiche precedenti. In numerosi passaggi di quel testo, Debord attribuisce ai nostri predecessori un’immediatezza esistenziale che a noi manca, dichiarando: “Tutto ciò che un tempo era vissuto direttamente è passato in una rappresentazione”1. Eppure, in realtà, non è mai esistito un momento storico in cui l’accesso all’identità e al mondo non fosse mediato dalla rappresentazione. Quando Lacan afferma che “noi siamo degli esseri guardati, nello spettacolo del mondo”2 si riferisce sia a noi sia alle nostre controparti medievali o rinascimentali. E sin dalla nascita dell’arte rupestre è attraverso le immagini che vediamo e siamo visti. Ciò che ci distingue dalle generazioni precedenti non è tanto la nostra ossessione per il visivo, quanto il fatto che ne attribuiamo la responsabilità alla macchina fotografica. Nel provocatorio Per una filosofia della fotografia, Vilem Flusser riprende il lamento di Debord per la scomparsa del referente all’interno della rappresentazione. Tuttavia questo lamento parte dal presupposto che le immagini che si frappongono tra noi e il mondo abbiano una natura essenzialmente fotografica; che, quando guardiamo qualcosa, lo facciamo attraverso una sorta di mirino immaginario. Inoltre questo mirino organizzerebbe ciò che vediamo in relazione alla quantità e alla logica formale delle rappresentazioni fotografiche a cui abbiamo accesso nella nostra cultura; in relazione al “programma” della “scatola nera”3. “Le immagini hanno lo scopo di rendere il mondo accessibile e immaginabile per l’uomo” scrive Flusser. Tuttavia, pur facendolo, si frappongono tra l’uomo e il mondo. Sono create per essere mappe, ma diventano schermi. Invece di presentare il mondo all’uomo, lo rappresentano, prendono il suo posto, al punto che l’uomo vive in funzione

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Osceno, Abietto, Traumatico Hal Foster

Nella teoria e nell’arte contemporanea, per non parlare della narrativa e dei film odierni, assistiamo a un cambiamento generale nel modo di concepire la realtà: dal reale inteso come effetto della rappresentazione al reale inteso come evento traumatico. Possiamo esaminare tale cambiamento da diversi punti di vista; tuttavia, dal momento che esso rivela la sempre più diffusa svolta verso la psicoanalisi all’interno della cultura critica, vorrei qui delinearlo nello specifico in relazione alla discussione di Lacan sullo sguardo ne I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Si tratta di un testo conosciuto, molto citato ma poco compreso (così poco che arrischierò un altro sommario). Per esempio, lo sguardo maschile potrebbe anche esistere, e senza dubbio lo spettacolo capitalista viene costruito da quella prospettiva, ma nel seminario di Lacan c’è poco spazio per argomenti di questo tipo. Infatti qui lo sguardo non è affatto incarnato in un soggetto, o almeno non direttamente. Un po’ come Sartre ne L’essere e il nulla (1943), Lacan distingue tra la visione (o l’occhio) e lo sguardo, e un po’ come Merleau-Ponty ne La fenomenologia della percezione (1945) colloca questo sguardo nel mondo. In Lacan, dunque, come per il linguaggio così per lo sguardo: esso esiste prima del soggetto, il quale, “guardato da ogni angolazione”, non è che una “macchia” nello “spettacolo del mondo”1. Così collocato, il soggetto di Lacan avverte lo sguardo come una minaccia, come se lo interrogasse, e accade dunque che “lo sguardo, qua objet a, può venire a simbolizzare la mancanza centrale espressa nel fenomeno della castrazione”2.

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Il corpo come tabula rasa Johanna Burton

I Era questo il suo mestiere, cancellare tutte le precedenti caratteristiche di aspetto e portamento e diventare una tabula rasa, una lastra corporea libera da ogni passata sembianza. Aveva una crema sbiancante che si spalmava praticamente dappertutto, per depigmentarsi. Si tagliò un po’ di capelli, poi diventò quasi brutale quando se li decolorò. Voleva arrivare a vedere nello specchio la classica persona invisibile, la persona che si impara a fingere di non vedere, priva di ogni normalità, un’apparizione sinistra nell’elettricità notturna di ogni gabinetto pubblico. — Don DeLillo, The Body Artist1

Una sparizione e una persistenza: è così che finiamo per interpretare la protagonista delineata da Don DeLillo nel suo romanzo del 2001 The Body Artist. Eppure “delineata” non è forse l’espressione corretta, perché in fondo suggerisce un qualche tipo di profilo. Invece, l’autore tratteggia una sorta di penombra umana, ora definita e ora vaga, creando una figura che non è davvero protagonista, a meno di non ricorrere a due delle definizioni meno convenzionali del termine: essere legati all’agonia come estremo drammatico (quindi spesso piacevole) da una parte e, dall’altra, ai movimenti causati dalle contrazioni di certi muscoli. Non che la storia di DeLillo sia priva di trama o di un personaggio principale (in realtà sono entrambi istantaneamente identificabili nel testo), ma essi esistono soltanto come preludi necessari alle loro lente e mirate dissoluzioni (o, meglio, trasformazioni narrative). La storia, se proprio vogliamo

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Veduta dell'installazione della personale di Cindy Sherman al MoMA, New York, 26 febbraio – 11 giugno 2012


Cindy Sherman postfazione di Cristina Casero

1. UNTITLED FILM STILLS O DEL PARADIGMA DELL’IMMAGINE POSTMODERNA

A più di quarant’anni dalla sua realizzazione, Untitled Film Stills è ancora oggi l’esito più noto e celebrato della ricerca di Cindy Sherman e molte letture critiche hanno in esso identificato tout court l’intero percorso dell’artista, che da quelle premesse si è svolto coerentemente, come vedremo, ma non senza significativi scarti, sia sul piano tematico sia su quello linguistico. Le Untitled Film Stills sono certamente opere molto interessanti e la loro originalità (per quanto il termine, in questo specifico caso, suoni un po’ paradossale) coniugata con la perfetta adesione alle istanze culturali emergenti negli anni in cui sono state realizzate, ne giustifica la duratura, e anche immediata, fortuna critica. Infatti la serie, realizzata tra il 1977 e il 1980, è composta da fotografie che, nella loro soltanto apparente semplicità, si sono subito offerte come oggetto di importanti riflessioni teoriche le quali, sviluppate lungo diverse ma spesso convergenti traiettorie, hanno tutte interpretato questa ricerca come esemplare e paradigmatica di quel frangente culturale: sin dai finali anni Settanta articolate letture critiche hanno inserito Sherman nel novero degli artisti più rappresentativi dei nuovi modi che si affacciano sulla scena artistica all’aprirsi della stagione del postmodernismo. Pur nella complessità e nella differenza di accenti e punti di vista, le linee interpretative del lavoro dell’artista che si sono imposte sono state fondamentalmente due: a quella che riconduce, appunto, al postmodernismo si è spesso affiancata, o in taluni casi più propriamente intrecciata, un'analisi del lavoro di Sherman condotta in relazione alle teorie femministe. Postmedia Books

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Di ciò dà esemplarmente conto questo volume, che raccoglie una serie di saggi pubblicati nell’arco di una ventina d’anni sulla rivista October, scritti tra il 1980 e il 2006. Essi restituiscono interpretazioni complesse, spesso riferite ai capisaldi teorici della critica poststrutturalista e psicoanalitica, da Barthes a Lacan, che forniscono validi strumenti per affrontare la ricerca di Sherman, con particolare attenzione, per ovvie ragioni cronologiche, a questo giovanile ciclo di opere. Il saggio di Douglas Crimp ci porta immediatamente al cuore della questione. Egli è una figura centrale per l’esegesi del lavoro di Sherman, a lui si deve la subitanea consacrazione dell’artista e il riferimento del suo primo importante lavoro all’estetica del postmodernismo. Sherman realizza i film stills dopo il suo trasferimento da Buffalo a New York e nel 1980 presenta alcuni di questi pezzi in occasione delle sue prime personali: a Houston, al Contemporary Art Museum, e alla Metro Pictures di New York. A testimonianza della particolare fortuna di queste immagini, bisogna ricordare che ancor prima di essere esposte, esse erano state oggetto di attenzione critica proprio grazie a Crimp, che vi colse subito quegli aspetti che gli fecero considerare Sherman una protagonista della Pictures Generation. Già nel 1977, infatti, egli dedica alcune importanti riflessioni a questa ricerca nel catalogo della ormai storica mostra Pictures1, in occasione della quale per altro Sherman non presenta alcun lavoro. Allestita all’Artists Space di Helene Winer, che nel 1980 avrebbe aperto la Metro Pictures, la galleria a SoHo con cui ancora oggi lavora Sherman, questa mostra segna l’avvento di una nuova generazione di artisti, che ragionano in termini innovativi rispetto alla tradizione modernista, introducendo importanti novità intorno alla natura e ai caratteri della rappresentazione, al concetto di originalità dell’opera e all’idea di autorialità. In quel fondamentale testo, in cui l’autore per la prima volta parla di postmodernismo, Crimp conduce un’analisi dell’opera di Troy Brauntuch, Jack Goldstein, Sherrie Levine, Robert Longo e Philip Smith di grande importanza critica. A partire dalla constatazione dell’immediatezza temporale tipica dell’arte modernista, che accade come esperienza, di natura quindi sempre performativa, anche quando solo implicitamente, Crimp riflette su come siano stati fondamentali


per questi artisti2 i caratteri di “ temporalità” e “presenza” tipici dell'esperienza teatrale che, pur pervadendo a fondo il loro lavoro, non si dimostra con troppa evidenza in quanto pienamente reinvestita nell’immagine3. Infatti, Se si può dire che molti di questi artisti hanno fatto esperienza nell'ambito della performance, come messo in evidenza dal minimalismo, essi hanno comunque iniziato a capovolgerne le priorità, traducendo la contingenza e la durata temporale dell'evento rappresentato in un 'tableau', la cui presenza e temporalità sono completamente psicologizzate; le performance diventano così solo uno dei tanti modi per "mettere in scena" un'immagine4.

L’immagine, dunque, riassorbe in sé una connotazione performativa che si traduce nella rappresentazione e in essa la flagranza della realtà resta soltanto nella dimensione dell’allusione, cioè in sostanza, dell’assenza (“the picture is an object of desire, the desire for the signification that is known to be absent”)5. Insomma, ciò che accomuna gli artisti della Pictures Generation non è la pratica di un medium specifico (attitudine tutta modernista), bensì “un nuovo senso dell’immagine come ‘picture’, cioè come palinsensto di rappresentazioni, spesso trovate ‘appropriate’, raramente originali o uniche”6, in chiaro rapporto con i media di massa. Siamo dunque a ragionare sul piano della finzione narrativa, della rappresentazione e soprattutto della sue strategie. Come precisa Crimp, non stiamo parlando di fonti visive ma di strutture di senso e sotto ogni immagine c’è un’altra immagine7. In questo quadro teorico Sherman appare, evidentemente, inserirsi da protagonista. Infatti, pur non essendo in mostra, Crimp le dedica spazio in catalogo, parlando dei suoi lavori dell’epoca: L'immagine in questione non è altro che una fotografia di Cindy Sherman fatta da Cindy Sherman, una delle serie più recenti in cui si veste in vari costumi e pose in una varietà di luoghi che trasmettono ambienti altamente suggestivi anche se del tutto ambigui. Non sappiamo cosa sta succedendo in queste immagini, ma sappiamo per certo che qualcosa sta accadendo e quel qualcosa è una narrativa fittizia. Non potremmo mai considerare queste fotografie diversamente da una messinscena. Si ritiene generalmente che la fotografia fissa sia una trascrizione diretta del reale essendo un frammento spazio-temporale;

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Cindy Sherman

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non si da più la certezza che quel corpo che si ha davanti sia quello di un uomo o quello di una donna. L’oscillazione tra le due categorie costituisce di per sé l’esperienza del corpo in questione. Quando queste due categorie vengono messe in dubbio, anche la realtà del genere entra in crisi […]68.

Al contempo, questa ricerca intorno all’identità condotta attraverso un album fotografico, richiama A Cindy Book, un album privato in cui Sherman raccoglie nel 1975 foto della sua infanzia disegnando con una matita i contorni delle proprie immagini, scrivendo poi ‘That’s me’, secondo un processo che Schor definisce di “autoaccertamento”69. Il corpo come testimonianza identitaria, quindi, è dall’inizio al centro del pensiero di Sherman, che con il suo lavoro ha condotto una decostruzione di quel corpo concepito come portatore di una sola e granitica identità; tale operazione si manifesta pure quando l’artista entra nel territorio di quello che Julia Kristeva definisce l’abbietto, “ciò di cui è necessario che io mi liberi per poter esser davvero un io”70. Il processo di demitizzazione condotto da Sherman è infatti totale: investe l’idea del femminile, la compattezza identitaria, la linearità del linguaggio dei media e il rapporto tra autore e spettatore. Esso tocca il suo culmine quando l’artista guarda al “reale come elemento del trauma”, per usare le parole di Hal Foster71, quando cioè affronta l’abbietto, ponendosi sul registro dell’inespressivo72, del grottesco, del disgustoso. E del rimosso. Lo studioso americano ha approfondito questo aspetto della ricerca dell’artista analizzandone i caratteri in chiave lacaniana e procedendo nell’analisi sul filo dello spostamento dall’immagine-schermo all’oggetto-sguardo, un percorso che approda appunto all’annullamento del soggetto rappresentato. Secondo questo schema la tendenza verso la dissoluzione del soggetto e la lacerazione dello schermo conduce Sherman dai primi lavori, dove il soggetto è catturato nello sguardo, attraverso la parte centrale della sua produzione, dove è invaso dallo sguardo, fino alla produzione recente dove lo sguardo è cancellato, solo per ripresentarlo sotto forma di parti staccate di un manichino73. L’evoluzione descritta da Foster, però, non è così lineare, progressiva. Negli anni Duemila, Sherman è tornata a rappresentarsi


passando, nelle differenti serie, da una posizione più decisa di “dissoluzione del soggetto e lacerazione dello schermo” a soluzioni meno radicali. D’altro canto è proprio su tale labile equilibrio, sul continuo oscillare tra questi due poli, che si giocano il senso e l’efficacia di tutta la sua ricerca; da qui nascono il fascino e l’ambiguità delle immagini, nelle quali traspare sempre la sensazione di trovarsi su un crinale. Questo è veramente il cuore del lavoro di Sherman, la cui complessità e il cui spessore si fondano proprio sulla circolarità delle soluzioni espressive alle quale l’artista ritorna, con delle varianti, in fuga dagli schemi troppo rigidi, con una libertà che ne determina la portata originale e innovativa su diversi piani. Uno svolgimento lineare avrebbe negato il senso stesso di questa ricerca, la quale come si diceva in apertura di questo scritto si è svolta sempre secondo certe costanti ma non senza interessanti novità. L’artista si è mossa secondo un sentire preciso, un percorso personale, delle intenzionalità ben radicate, percorrendo un cammino che, come sempre accade quando si persegue davvero un obiettivo, comporta delle deviazioni, dei ritorni, degli scarti e dei rallentamenti, dei balzi e delle soste. Ma si arricchisce ad ogni tappa, facendosi ogni volta più interessante, significativo e completo.

1. Il saggio è stato ripubblicato nel 1979 sulla rivista October e a quella fonte si farà qui riferimento. 2. “Temporality and presence of theater has been the crucial formulating experience for a group of artists currently beginning to exhibit in New York” (Crimp Douglas, “Pictures”, in October, vol. 8 , 1979, p.77.) 3. “This experience that fully pervades their work is not, however, immediately apparent, for its theatrical dimensions have been transformed and, quite unexpectedly, reinvested in the pictorial image” (Ibidem). 4. Ibidem 5. Crimp 1979, op.cit., p. 83. 6. Krauss Rosalind, in Foster H., Krauss R.,

Bois Y.A., Buchloh B. H.D., Joselit D., Arte dal 1900, edizione italiana a cura di Elio Grazioli, Zanichelli, Bologna 2013 (ed. or. 2011), p. 624. 7. “Needless to say, we are not in search of sources or origins, but of structures of signification: underneath each picture there is always another picture” (Crimp 1979, op.cit., p.87). 8. Crimp 1979, op.cit., pp. 82-83. 9. La serie è composta da 83 stampe in bianco e nero, di formato ‘leggermente’ rettangolare. Sono senza titolo e numerate progressivamente. 10. Sherman Cindy, The Complete Untitled Film Stills, The Museum of Modern Art, New York 2003, p. 8.

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Contemporanee Percorsi e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta a oggi a cura di E. De Cecco e G. Romano Postmedia Books 2002 isbn 9788874900008

I due curatori hanno realizzato un lavoro di indagine e ricerca critica strutturato in quattro sezioni ben definite che aiutano il lettore, non necessariamente un addetto ai lavori, a godere appieno del materiale riportato. La parte introduttiva è affidata a due scritti, Trame: per una mappa transitoria, della De Cecco, e Pratiche mediali, di Romano, che analizzano da due ottiche distinte la produzione, i significati e i diversi contesti, nazionali ed internazionali, dell'arte vista al femminile. Contemporanee non deve essere frainteso quale gesto di difesa per una minoranza, bensì risulta essere un progetto nato dalla volontà di restituire a noi lettori un quadro generale, il più possibile completo, della presenza femminile dell'arte nel mondo dell'arte degli ultimi venti anni. Dalla lettura dei saggi emerge come l'arte delle donne non è più un'arte che parla esclusivamente delle donne ma invece ha assunto nel corso degli anni una connotazione sempre maggiore di arte personale, non di genere né tantomeno di sesso. __ Alberto Salvadori

Un titolo che ha creato una tendenza all'interno della scena artistica. Alla fine degli anni Novanta per molti non era ancora chiaro che le numerose donne nel campo dell'arte erano lì per restarci. Eppure bastava riflettere sulla storia dell'ultima parte del Novecento per capire che le artiste non solo hanno trasformato la loro assenza, ma l'arte stessa degli ultimi anni. Contemporanee è un’indispensabile strumento di approfondimento, un'indagine che ha significato quattro anni di ricerche, unico esempio italiano sul modello dei gender studies americani e inglesi. Contemporanee presenta documenti originali - spesso inediti - di una cinquantina di artiste, scritti dalle stesse interpreti oppure da importanti critici della scena internazionale quali Craig Owens, Nancy Princenthal, Dan Cameron, Katy Deepwell, Hans Ulrich Obrist, Francesco Bonami, Diego Cortez, Richard Shone, Roberto Daolio, Carlos Vidal, Ester Coen, Jerry Saltz, Ben Judd, Teresa Macrì, Roberto Pinto, Nancy Spector...


Azioni che cambiano il mondo Donne, arte e politiche dello sguardo

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Paola Mattioli Sguardo critico di una fotografa

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L'antiestetica Saggi sulla cultura postmoderna di Hal Foster (a cura di)

Fiamma Montezemolo Dell'inquietudine / Of Disquiet di Anna Cestelli Guidi

Moda, design e sostenibilità di Kate Fletcher

Bertille Bak La fiaba del reale

L'exforma Arte, ideologia e scarto

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Paola Mattioli Sguardo critico di una fotografa

Il radicante Per un'estetica della globalizzazione

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di Martha Rosler

Ketty La Rocca. Nuovi studi di di F. Gallo e R. Perna (a cura di)

Vite precarie I poteri del lutto e della violenza di Judith Butler

Ni una más. Arte e attivismo contro il femminicidio di Francesca Guerisoli

Antropologia della comunicazione visuale di Massimo Canevacci

Trame d'artista Il tessuto nell'arte contemporanea di Marina Giordano

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