Roberto Daolio Aggregati per differenze a cura di Davide Da Pieve, Lara De Lena, Roberto Pinto, Caterina Sinigaglia
postmedia books
Gli scritti di Roberto Daolio Roberto Pinto 7 1. Comportamento e performance
Il corpo, il concetto, l’ambiente
La settimana della performance
1. Arte povera e Azioni povere 31
1. Il corpo
2. Il corpo 39
Marina Abramovic e Ulay, Imponderabilia 13
3. Il concetto 46
Renate Bertlmann, Deflorazione in 14 stazioni 14 Ben D’Armagnac 15 Geoffrey Hendricks, Tronco 16 Hermann Nitsch, O. M. Theater - Azione n. 56 18 Fried Rosenstock, Hic et Nunc 19 2. I sensi Vito Acconci, Installazione 20 Heinz Cibulka, Kompost 21 Giovanni Mundula, Erosione 22 Michele Sambin, Autoritratto per quattro telecamere e quattro voci 23 Franco Vaccari, Spazio privato in spazio pubblico/Installazione 24
“Tutte le arti tendono alla performance” 53 Marcello Jori 56 Critica ad arte 56 Una Generazione Postmoderna 58 Dai Nuovi-nuovi a una generazione postmoderna 60 Corpi in transito 66 Aperture 69 Abitare la metamorfosi 75
2. Molteplicità dei linguaggi Enrico Castellani 81 L’ebrezza del colore 82
Giuliano Sturli, L’uomo-albero/ Il Segno magico 25
Presi per incantamento (La nuova fotografia internazionale) 84
3. La parola
Emanuela Ligabue 88
Vincenzo Agnetti, Il corpo del reato 26
Visioni da Hemingway: Brolli, Igort, Mattotti, Ricci 89
4. La ricerca dell’identità Norma Jean Deak e Massimo Mostacchi, Passé simple 27
Fumetto & altro 90 New Machine Voice 97
Luigi Mainolfi, Senza Titolo 29
L’itinerario inedito di Minarelli 98
Reese Williams, Sonance Project 29
American beauty 99
Vettor Pisani, Il coniglio non ama Joseph Beuys 30
Viki a Correggio, Pier a Bologna e altrove 102
3. Corpo a corpo con gli artisti
More than this 147
Goldoni/Wal 107
Marco Samore: domestica 154
Il giovane artista emergente 109
Per Germano 155
Antonella Mazzoni 110
Orizzonte 156
Stagione 1987/88, Neon 111
Vere e false partenze (ovvero ostacoli, salti, scarti e... la mossa del cavallo) 157
Cattelan, Mussini, Tozzi 112 Il re crede di essere nudo 115 Alessandro Pessoli 117
4. Arte relazionale e site-specific
La pelle, il cuore 118
Provoc’Arte 163
Bell’Emilia, la pattuglia degli under 30 119
Linee della discontinuità. Appunti 164
I Ragazzi della Via Emilia. Si attinge a tutto ciò che è scoperta 121
Out of order/out of place 168 Accademia in Stazione 176
Gabriele Lamberti, Andrea Renzini 122
Moto da luogo 177
Al volo 123
Sabrina Mezzaqui. Pensieri in sottofondo 179
Faccia a faccia 128 Alessandro Rivola 130
Sabrina Torelli. Complanari 180
InTeRzOnE 131
Claudia Losi 182
Patrizia Giambi 132
Alessandra Andrini 183
Luigi Ontani, Luciano Bartolini, Eva Marisaldi 133
Area d’Azione 184
Leonardo Pivi 135 Giovani artisti italiani 137 Alessandra Tesi 138
Il flâneur e la dama 186 Chiara Pergola, sCulture 187 Little (big) constellation 188
Gianluca Cosci 140 Francesco Bernardi, Cuoghi & Corsello 142 Andrea Pazienza 143 Lettera di Roberto Daolio, Delos Agosto 1997 144
Tra critica e poetica, la parola slegata dall’immagine Davide Da Pieve 191 In via di apparizione Caterina Sinigaglia 197
Spazi indefiniti 145
Lo sguardo in azione Lara De Lena 203
Arte domestica - Breve storia del Giappone in tre quadri e 93 parole 146
Bibliografia 211
Gli scritti di Roberto Daolio Roberto Pinto
Nato a Correggio nel 1948 e scomparso a Bologna nel 2013, Roberto Daolio è stato una figura centrale nel panorama della critica e della curatela italiana e di cui è facile constatare l’importanza attraverso la sua multiforme e complessa attività ma che, allo stesso tempo, per la sua indole schiva e mite, non sempre è stata considerata quanto meritava. A partire dagli anni Settanta, infatti, il percorso di Daolio si incrocia con alcune tra le più interessanti sperimentazioni artistiche soffermandosi in particolare su chi aveva programmaticamente oltrepassato i confini tradizionali della disciplina sconfinando nei territori limitrofi del fumetto, del teatro o della musica. Da un punto di osservazione privilegiato, la Bologna dei decenni finali del secolo, si dedica, dunque, a commentare le trasformazioni della cultura visiva e a promuovere almeno tre diverse generazioni di giovani artisti tramite le mostre da lui curate, gli scritti, che hanno contribuito a far luce sul loro lavoro, e l’intensa attività di insegnante, come docente di antropologia culturale presso l’accademia di Belle Arti. Soprattutto, però — e ritengo che questa sia una delle ragioni della sua unicità — credo che tutti lo abbiano apprezzato per la sua capacità di dialogare e di confrontarsi con gli altri senza mai anteporre se stesso alle proprie o alle altrui argomentazioni e, allo stesso tempo, per essere stato perfettamente in grado di sostenere fino in fondo, emotivamente e intellettualmente, la sua posizione critica. Se nel mondo dell’arte è consuetudine, per i curatori come per gli artisti, che la soggettività e l’egocentrismo siano i prerequisiti per mettere in mostra il proprio sé — ancor prima dei prodotti del proprio ingegno — questa evidenza non scalfisce Daolio che ha invece sempre avuto un atteggiamento sottilmente, dolcemente, sovversivo, favorendo, qualora fosse necessario, l’ascolto al fare. Per Daolio, infatti, credo fosse fondamentale il processo di comprensione non soltanto dell’oggetto artistico, ma anche della progettualità e dell’emotività che l’artista mette in gioco con le sue opere. Questo atteggiamento, unito alle sue indubbie capacità di analisi dei processi creativi, l’ha reso interlocutore privilegiato, a volte unico, per generazioni di artisti e di critici (e forse anche di altri protagonisti della scena artistica) che hanno potuto dialogare con lui sicuri che non ci sarebbero stati fraintendimenti di sorta e, soprattutto, che le proprie idee, dopo un lungo colloquio, ne sarebbero uscite chiarite. Grazie alla sua empatia, Daolio si è anche distinto come un importante talent scout proponendo, in largo 7
anticipo rispetto agli altri, artisti che di lì a poco avrebbero ricevuto riconoscimenti italiani e internazionali. L’idea di pubblicare questo libro su Roberto Daolio nasce all’interno di un più ampio progetto di studio sul lavoro del critico emiliano che vede coinvolti su piani diversi la Scuola di Specializzazione in Beni Storici Artistici dell’Università di Bologna, il MAMbo, l’Accademia di Belle Arti di Bologna e la famiglia di Daolio, il fratello Stefano e Antonio Pascarella il compagno di una vita di Roberto. Quest’ultima, in collaborazione con l’Accademia, ha promosso l’istituzione del Premio Roberto Daolio per l’arte pubblica “Plutôt la vie... Plutôt la ville” (cfr. Bentini, Gianuizzi, Romano: 2015 e 2017), e ha donato la collezione di Roberto — costituitasi negli anni con opere donate dagli stessi artisti — al MAMbo. La Scuola di Specializzazione si è unita al progetto fornendo il proprio contributo attraverso la schedatura delle opere d’arte e la sistematizzazione e lo studio dell’archivio dei suoi scritti. Davide Da Pieve, Lara De Lena e Caterina Sinigaglia — con la collaborazione anche di Vincenzo Pezzitola, soprattutto nella catalogazione delle opere —, tutti studenti (ora ex) della Scuola di Specializzazione in Beni Storici Artistici dell’Università di Bologna, hanno collaborato attivamente con la dottoressa Uliana Zanetti, responsabile dell’attività espositiva e collezioni dell’istituzione bolognese, e nella realizzazione del primo nucleo dell’archivio di Roberto Daolio. Grazie ai documenti dell’archivio è nato il presente volume che raccoglie una selezione dei testi d’accompagnamento alle esposizioni, stampati in cataloghi o in semplici fogli di presentazione, o che erano stati riprodotti su riviste e giornali a partire dal 1977. Un insieme di pubblicazioni, dunque, molto difformi tra loro e accomunate dalla circostanza di non essere facilmente reperibili e che nella loro interezza costituiscono uno spaccato di rara efficacia della situazione artistica italiana a cavallo tra XX e XXI secolo grazie proprio all’indiscutibile acume di Roberto Daolio nell’individuare le principali emergenze dell’arte attuale. Nel presentare il suo lavoro piuttosto che ricorrere a una mera scansione temporale abbiamo preferito raggruppare i testi in quattro aree tematiche — Performance e comportamento, Molteplicità dei linguaggi, Corpo a corpo con gli artisti, Arte relazionale e site-specific — perché ci sembra possano raccontare meglio la sua figura. Come è facile intuire, il nostro intento è stato soprattutto quello di rendere omaggio alla figura di questo critico e curatore, dalla mente brillante e di persona dai modi gentili e appassionati, da poco venuto a mancare. Raccogliere i principali suoi scritti ci è sembrato oltre che doveroso nei suoi confronti, importante per le tante persone, soprattutto i più giovani, che hanno potuto leggere soltanto frammenti dei suoi testi e che così avranno la possibilità di apprezzare in pieno il suo lascito. Allo stesso tempo ci rendiamo conto che questo volume si configura come una sorta di tradimento della natura di Roberto Daolio, schiva e dialogante al tempo stesso, dato che lui non avrebbe 8 Aggregati per differenze
mai pensato a una silloge dei suoi scritti. Probabilmente avrebbe vissuto con fastidio un’operazione simile, l’avrebbe percepita come un tentativo di “monumentalizzazione” del processo partecipativo dell’arte di cui lui era certamente un protagonista. Tuttavia, ne sono certo, Roberto Daolio sarebbe contento che i testi conclusivi, così come la scelta degli scritti da pubblicare, siano il frutto del lavoro di tre giovani studiosi che hanno preso a cuore il suo insegnamento. Nella compilazione di questo libro abbiamo cercato di rispettare nel limite del possibile i testi così come si presentavano nella loro veste originale, ovvero ci siamo limitati a uniformare alle norme editoriali comuni questi scritti nati per essere pubblicati in contesti diversi, alcuni più ufficiali e accademici — come l’intervento a un convegno o un catalogo museale — altri più informali e divulgativi, come possono essere una recensione su un giornale o un approfondimento critico lasciato sul pieghevole di un’esposizione. Colgo l’occasione per ringraziare tutti gli artisti, gli amici, gli studenti e i collaboratori di Roberto Daolio, oltre ai già citati Stefano Daolio e Antonio Pascarella, che in maniera generosa ed entusiasta ci hanno aiutato in questo percorso. In particolare vorremmo ricordare Mario Gorni e Jacopo Simi che ci hanno accompagnato nella realizzazione di una serie di interviste ai compagni di strada di Daolio; e non ultimo Gianni Romano, editore di questo libro e amico di Daolio, che ha deciso fin dall’inizio di contribuire a questo progetto con la stampa del presente volume.
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1. Sconosciuto e Roberto Daolio, Per/for/mance: settimana delle performance art americana, Teatro Affratellamento, 1980 2. Francesca Alinovi e Roberto Daolio, Rauschenberg, Museo d’arte moderna Ca’ Pesaro, 1975 3. Roberto Daolio, Rauschenberg, Museo d’arte moderna Ca’ Pesaro, 1975 4. Roberto Daolio alla Settimana internazionale della performance con l’installazione di Nitsch, giugno 1977
1. Comportamento e performance
La
settimana della performance
1. I l
corpo
Marina Abramovic e Ulay Imponderabilia (durata: 90 minuti) Continuando la collaborazione iniziata quasi un anno fa alla Biennale di Venezia, Marina Abramovic e Ulay effettuano la loro ricerca sul corpo e con il corpo seguendo la definizione di “art vital” da loro stessi scelta. In «movimento continuo e senza fissa dimora» come dichiarano nelle brevi indicazioni che correlano l’assunto programmatico iniziale, affidando l’orchestrazione estemporanea dei loro eventi rispondendo esclusivamente alle esigenze psico-fisiche del loro flusso vitale. In questa performance o meglio “evento” intitolato Imponderabilia, la loro attenzione si è spostata sull'importanza dei fattori appunto imponderabili di un determinato comportamento umano e inoltre sulla loro rilevanza estetica. L'uno di fronte all'altra, completamente nudi e alla distanza di circa quaranta centimetri, si sono posti all'entrata principale della galleria, costringendo il pubblico che desiderava entrare a passare attraverso il piccolo spazio che li divideva. Nel momento successivo, il pubblico dopo essere transitato tra i due corpi nudi volgendo le spalle all'uno o all'altra, veniva indirizzato nel salone centrale dove, a fianco di un “disegno-concetto” raffigurante in sintesi la situazione dell'ingresso, due video trasmettono in diretta le immagini del passaggio tra i due artisti immobili. Come è possibile notare l'azione di per se stessa è priva di connotazioni violente e scioccanti, delegando semplicemente al pubblico il ruolo di protagonista effettivo: per passare, per entrare nel museo è indispensabile decidere chi fronteggiare e in questa scelta è concepito il momento imponderabile dell'azione. Per la prima volta i due operatori hanno scelto la passività, l'immobilità quasi ipnotica e si sono lasciati andare alla volontà del caso. Si possono tuttavia individuare due livelli di lettura diversi che non si annullano vicendevolmente bensì si integrano nella struttura del lavoro. Il primo è legato alle precedenti esperienze, sia di Marina in modo particolare, che di Ulay, sulle indagini analitiche dei limiti delle proprie possibilità biologiche, fisiologiche e psicologiche sottoposte a stimoli artificiali o naturali (come nel nostro caso il fatto di costringersi a rimanere nudi, in piedi per un notevole lasso di tempo, sopportando il contatto, lo sfregamento continuo di diecine e diecine di persone). Il secondo livello, riguarda esclusivamente il comportamento (provocatorio, indotto ) del pubblico, che si trova contemporaneamente nel ruolo di “soggetto” mentre decide di passare tra i due corpi e di “oggetto”, appena giunge nello spazio centrale e scopre di essere stato ripreso dalle telecamere. Dicevamo come si completino questi due livelli di lettura, proprio in funzione del brusco passaggio da un'esperienza reale, fisica, di vero e proprio contatto 13
e ben definito nei suoi termini di costruzione accurata e puntuale: l'artista, “eroe da camera”, deve uscire dalla sua solitudine e dalla sua separatezza per andare incontro e progettare un intervento concreto sul sociale e sul politico, rimanendo lontano però da “tutte le parole” che vacuamente costituiscono un'ideologia dell'arte. Un altro aspetto strettamente collegato alla problematica contemporanea è il rifiuto, ormai consolidato, di una supremazia, di un primato del visivo nell'arte; a favore invece di altre categorie sensoriali e nel caso specifico, la voce, la comunicazione orale non vincolata alla rappresentazione teatrale codificata in generi e sotto-generi. L'azione scenica pura e semplice, in uno spazio non predeterminato e adeguato a una specifica funzione, ma libero e gestito dalla presenza degli oggetti e dall'impatto sonoro della voce, è il termine conclusivo della ricerca in atto. Nel processo istituzionalizzato della visione scenica correlata ai gesti e alle provocazioni linguistiche, sembra a prima vista mancare la sostanza di una corporeità esplicita e dimostrativa; ma la relazione tra una fase concettuale e il suo risvolto reale, “terreno”, si esplica nell'impianto dialettico di un unico discorso sull'essere dell'artista nei confronti del mondo e nei confronti dell'arte stessa. Il corpo, non essendo altro che un mero strumento per capire e far capire che «ogni problema artistico è un problema che riguarda tutto e come tale non deve essere guardato né con distacco né con ironia». Schede artisti in La performance oggi: settimana internazionale della performance, Bologna, 1-6 giugno 1977, a cura di F. Solmi, R. Barilli, F. Alinovi, R. Daolio, M. Pasquali, Pollenza Macerata, La nuova Foglio, 1978.
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Il
corpo , il concetto , l ’ ambiente
1. Arte povera e Azioni povere Alla fine degli anni Sessanta con la sistemazione da parte di Germano Celant, sotto la definizione di Arte povera, di diversi artisti italiani e stranieri, abbiamo una sistematica visione d'insieme dei problemi di una ricerca artistica che, mentre mette in crisi lentamente il vincolo con l'oggetto, si apre al coinvolgimento e all'azione vera e propria in uno spazio che non appare più necessariamente privilegiato a priori, ma si trasforma nella processualità degli interventi. Il classico processo di trasformazione da un materiale neutro e amorfo in oggetti e opere qualitativamente connotati, viene azzerato e annullato: il materiale primario il più delle volte viene presentato per quello che è, senza manipolazioni e trasformazioni di sorta, al massimo lo si lascia libero di alternarsi seguendo le peculiari caratteristiche fisiche o chimiche che lo contraddistinguono. La primarietà di questi materiali non è solamente da leggersi nel senso della loro naturalità, bensì anche in quella di ordine tecnologico semplice, come le resistenze elettriche, i tubi al neon, le serpentine frigorifere, ecc. Tecnologia povera dunque, ed estremamente flessibile come uso e fruizione: l'assenza di complessità strutturali conferma il legame costante degli operatori estetici con la quotidianità e con la banalità eccentrica del vivere comune. I procedimenti fisico-concreti di Boetti, Fabro, Kounellis, Paolini, Pascali, Prini, (protagonisti della prima mostra di Arte povera presso la galleria La Bertesca di Genova nel 1967), sono emblematici di una situazione in fieri che coinvolge la materialità più esasperata e densa assieme alla estrema rarefazione delle proposte puramente mentali. Il rapporto osmotico arte-vita più che come ricerca viene sviscerato al presente nelle sue componenti portanti. Lo stesso impulso al concentrato di materia si radicalizza nella fermezza di una presentazione immediata: la convergenza di una vita integrata in tutte le sue componenti muove l'occasione per un discorso radicale che annulla i confini e si impone come momento qualificante. La nozione di comportamento estetico annulla ogni distanza e abbatte i muri delle stanze privilegiate dell'arte; la dimensione sociale di una riqualificazione sul piano estetico si impone sul modello privato di una tradizione chiusa nelle sue aristocratiche brame di presunta inalterabilità. Il passaggio non sempre lento e graduale dalla scelta dei primi lavori “poveri” della mostra di Genova, alla sistemazione teorica più ampia che avverrà nei mesi e nell'anno successivo (1968), si pone storicamente come anello di congiunzione tra l'Informale “caldo” degli anni '40-'50 e quello “freddo” post-sessantottesco, condensato quest'ultimo alla dimensione illusoria e virtuale del quadro a favore invece della realtà, «non tanto di oggetti, di cose, quanto di processi, di atteggiamenti; o di cose in quanto portatrici di processi e di atteggiamenti; questo del resto secondo la vocazione 32 Aggregati per differenze
Una Generazione Postmoderna Disincanto, libertà, esercizio laico di un piacere sottile e intrigante del fare (non solo nell'accezione di una manualità totalizzante e coinvolgente) sono le caratteristiche più evidenti di una generazione di artisti che consegna a un proprio destino “epocale” l'indifferenza dei procedimenti e delle classificazioni linguistiche. Predisporre l'esercizio dell'arte sull'onda di valenze espressive che si accavallano e si ripetono incessanti provoca una specie di saturazione ma, al tempo stesso, galvanizza l'istintualità di una provocazione non finalizzata e priva di rigori “moralistici”. La velocità e la simultaneità in cui si consumano e bruciano esperienze e confronti, rendono frenetica e indispensabile la disposizione a sondare un terreno non tanto in profondità quanto in ampiezza ed estensione. I comportamenti in questa vasta landa di cui si conoscono a perfezione le stratificazioni, devono essere mutevoli e rapidi, curiosi e trasversali, morbidi e circolari. Il sondaggio in estensione è un sondaggio leggero ed elegante che non scalfisce ma accarezza e sollecita affettuosamente tutta la superficie di contatto. Emergono e si evidenziano contrapposizioni morbide e non acuminate, contrasti ellittici più che diretti e immediati, tanto da sollecitare l'uso di una terminologia frastagliata che si insinua nelle pieghe dei significati univoci per corromperli e corroderli. Lungo e attraverso la parabola di una nuova continuità con il passato delle “origini”, si aprono alla circolarità soffice dello sguardo, gli accumuli di immagini e di pensieri smussati e ammorbiditi dalla flessuosa partecipazione tecnologica a un livellamento costante. Nella pluralità delle dimensioni possibili per, una partecipazione disinvolta alla realtà del tempo presente, l'arte si sottrae al destino di un privilegio di verità. Lo sgretolarsi di una coesione di stampo ideologico tratteggia e disegna una debole divisione nei susseguirsi dei tempi. Antiche enfasi combattive si disarmano nella domestica proliferazione di riferimenti ricchi e banali, raffinati e di maniera, arcaici e neomoderni. Ovvie distanze vengono prese e misurate da tutto ciò che risulta troppo esplicito, “narrato” o immediato. E, ancora una volta, gli artisti convogliati in questa sede nella prospettiva “iconica”, instaurano e combattono un elegante torneo di forme morbide e suadenti che giocano irriverenti con il passato, riletto in chiave ironica e ambigua, e con il presente futuro, che consente loro tale atteggiamento di disincanto e di voluta noncuranza. La necessità di combinare luoghi tra loro distanti solamente nella pesante e pedante iterazione stilistica, non appartiene a questi eleganti campioni dal tocco fresco e disinvolto e a questi instancabili esploratori di universi paralleli e attuali. La giustificazione a ripensare i termini di un prelievo aderente all'urgenza di una
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Corpi in transito Inserendo con i media elettrici i nostri corpi fisici nei nostri sistemi nervosi estesi, istituiamo una dinamica mediante la quale tutte le tecnologie precedenti che sono soltanto estensioni delle mani, dei piedi, dei denti e dei controlli termici del corpotutte queste estensioni comprese le città-saranno tradotte in sistemi di informazione. Marshall McLuhan (da Understanding Media, 1964) Se la Realtà Virtuale è in grado di catturare l'attenzione ancora prima di averla provata, è perché, più di ogni altra scoperta tecnologica, essa incarna la tendenza verso l'integrazione. Derrick de Kerckhove (da Brainframes, 1991).
Da molti punti di vista, come se si potesse essere in grado di moltiplicare le prospettive in tutte le direzioni e non solo dall'interno all'esterno e viceversa, la centralità del corpo sembra attraversare tutti i gradi e i livelli di sensibilità circoscritti dall'inquietudine del mutamento e dal processo di dispersione dell'esperienza. A ogni nuovo procedimento e a ogni nuova intrusione nei campi del sapere tecnologico, combinato all' ineludibile dimensionalità estetica, si avvertono come necessità le urgenze multiple di dare vita a nuovi parametri e a nuovi criteri di definizione sia del corpo e dell'individuo, in rapporto con il sociale, che dell'identità piena della persona. Accanto a queste urgenze che attraversano i territori congiunti delle conoscenze e delle mutazioni antropologiche in atto, non più sui tempi lunghi delle periodizzazioni “storiche”, ma sempre più ravvicinate agli scarti brevi delle generazioni, si pongono le considerazioni di una mancata corrispondenza o coincidenza delle strutture. Il riflesso comportamentale subisce dunque una tale modificazione che difficilmente si possono utilizzare i modelli del passato, anche solo per cercare di ri-disegnarne le mappe. Le stesse procedure e invenzioni metaforiche e retoriche, capaci di trasportarci negli spazi astratti delle congiunzioni più felici dell'immaginazione attiva, sembrano in grado di parafrasare il “senso” fisico della realtà solo cogliendone l'aspirazione alla fuga e all'allontanamento. Tuttavia in questo prendere le distanze è possibile paradossalmente scorgere un tentativo, o meglio, un'attitudine a imprimere un valore euristico alla proliferazione metaforica dei linguaggi dell'arte. Accanto alle contaminazioni, agli ibridi del senso “comune”, violati ed enfatizzati dalla volontà prospettica dei mutamenti di sensibilità si realizzano delle nicchie di compensazione nelle quali la definizione o la “costruzione” dell' -io-, congiunto al suo doppio metaforico e artistico, si riallaccia ai legami insolubili di una metamorfosi sensoriale. Le risorse immateriali che vengono a valere quanto quelle materiali, almeno sul piano inclinato della cosiddetta civiltà postindustriale, cominciano a modificare la consistenza stessa del reale. 67
5. Enrico Serotti e Roberto Daolio, Neon, 1991 ca. 6. Roberto Daolio nel suo studio, 1978 ca. 7. Roberto Daolio all’Accademia di Belle Arti di Bologna, 1990 ca. 8. Roberto Daolio e Marcello Jori, Marcello Jori, Galleria de’ Foscherari, 1977
2. MolteplicitĂ dei linguaggi
Enrico Castellani Esistono artisti che sembrano destinati per un curioso e singolare capriccio dei tempi e della cronaca (non certo della storia) a rimanere isolati e solitari, anche al di là delle scelte più intime e personali. Ed è il caso di Enrico Castellani, di cui con la consueta cura e attenzione monografica la Pinacoteca Comunale di Ravenna ha allestito un'ampia rassegna, affidando l'analisi del percorso critico e del relativo volume-catalogo (Ed. Essegi) ad Adachiara Zevi. Artista solitario, si diceva, ma soprattutto alieno dalle mode divoratrici e caparbiamente ancorato a una intensa e colta poetica. Una sfida al tempo che si organizza e si realizza nei ritmi e nelle cadenze, sempre uguali e sempre diversi, delle superfici monocrome. Una ricerca spaziale che contiene in sé i germi di una espansione coinvolgente ma controllata. Come se la geometria dei rilievi misurasse le pause e gli intervalli delle tele sull'onda lunga di un effetto percettivo in cui convivono piani reali e altri puramente virtuali. Nella Superficie nera in rilievo del 1959 è già evidente l'interesse di Castellani per una superficie scandita esclusivamente da tensioni e da contrasti interni, anche se gli aggetti e le rientranze scandiscono uno spazio irregolare o “casuale“. L'intento di annullare qualsiasi tipo di gestualità pittorica e anche di partecipazione “rappresentativa“ si risolve nella più asettica stesura monocromatica. La creazione assieme a Manzoni di Azimuth (1959-60) costituisce per Castellani l'unico momento, rapido e bruciante, di “lavoro collettivo“. Andare “oltre la pittura“, superare l'esclusiva dimensione del quadro, sfondare le barriere e scavalcare i limiti rappresentativi significa, in quegli anni, avvicinarsi a un'analisi del fare artistico sempre più serrata ed esclusiva. Avviene una sorta di raffreddamento e di azzeramento nei confronti delle pulsioni e del magma vitalistico della precedente stagione informale. Per Castellani la via da seguire è quella misurata e consapevole della simmetria. Una simmetria che non si limita all'accattivante corrispondenza geometrica dei vuoti e dei pieni, delle sporgenze e delle rientranze ma si anima a ribaltare nello spazio una dinamica continuità di riferimenti. La superficie si dilata anche oltre la rigida fissità del telaio per flettersi in morbidi angoli arrotondati e in sporgenti “baldacchini“ smussati. L'incastro dei piani gioca con l'imperativo della struttura fisica e al tempo stesso trasforma il dato materiale in puro elemento di citazione formale. È evidente che le fertili “contraddizioni“ che dilatano e muovono le superfici non possono esaurirsi a livello di “quadro“ o di “quadro-oggetto“ da parete. E Castellani affronta lo spazio “reale“ e coinvolgente dell'ambiente attraverso soluzioni coerenti e strutturate in modo tale da «renderlo (lo spazio) percettibile e sensorialmente fruibile» (Apollonio, 1967, p. 78). Per la mostra di Foligno del 1967 (Lo spazio dell’immagine, dedicata alla realizzazione di “ambienti”) concepisce uno spazio contratto e simmetrico
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9. Giacinto Di Pietrantonio, Roberto Daolio, Maurizio Cattelan, Neon, 1991 10. Roberto Daolio, conferenza, Accademia Belle Arti di Bologna, 1989 ca. 11. Roberto Daolio e Maurizio Cattelan, Neon, 1991
3. Corpo a corpo con gli artisti
Il giovane artista emergente Mi si chiede un contributo, un breve contributo, non tanto su di un argomento sublimamente futile e frivolo, come ormai imperversa da tutte le parti, con grande (falso) disappunto dei soliti interpellati e grande (autentica) indifferenza di chi legge, ascolta o guarda! No, questa volta l'occasione è serissima e degna di nota perché riguarda il Giovane Artista Emergente e di conseguenza il suo lavoro che deve essere visto, conosciuto, esposto (altrimenti di “emergente”, cosa rimane, se non una non troppo sopita voglia e un’altrettanto “palese” e legittima aspirazione a dichiararsi “artista” e basta?). Tre condizioni essenziali e tutt’altro che facili da raggiungere per il nostro G.A.E. (Giovane Artista Emergente) che appartiene a una specie numerosissima e in costante “via di apparizione”. Gallerie private, pubbliche, musei e istituzioni varie non è che si dimostrino insensibili, a parole e in linea di principio, nei confronti della ricerca artistica emergente. Tuttavia all'atto pratico gli spazi privati, giustamente e necessariamente connessi alle leggi del mercato, non risultano molto disponibili al rischio del giovane inedito o quasi. Lo stesso dicasi per gli spazi pubblici, che, a parte qualche reale eccezione, tendono a proporre iniziative di ampio respiro storico su figure e movimenti conosciuti: limitando grandemente lo spazio d'azione sul contemporaneo che spesso in termini di immagine e di risonanza dei mass-media non paga a sufficienza. È vero anche che mai come oggi assistiamo al proliferare di iniziative, in campo espositivo, estremamente variegato e non più concentrato solo nei grandi centri urbani. Tuttavia il problema rimane, in quanto è o sarebbe necessario un diverso atteggiamento e una diversa sensibilità di base nei confronti di chi si affaccia al complesso mondo dell'arte con la sola arma del proprio lavoro. Non si tratta di mielosa retorica o di facile demagogia ma piuttosto di un senso di imbarazzo e di impotenza che coglie anche chi scrive quando si trova di fronte a un valente G.A.E. che chiede lumi e indicazioni pratiche. Di conseguenza sono favorevole e auspico iniziative a livello pubblico (ma anche privato), che possano sviluppare una serie di indagini informative sulle ricerche dei giovani artisti. Indagini necessariamente selettive e da non chiudere in uno stretto ambito locale ma da estendere e allargare attraverso una rete di scambi a livello nazionale e internazionale. In Biennale giovani Faenza, a cura di C. Cerritelli, Faenza, Faenza editrice, 1984.
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riversare nelle dinamiche tecnologiche più avanzate l'accento ironico e intelligente di uno scarto e di una ibridazione acuta e graffiante. Con Roberto Orlandi entra in gioco la teatralizzazione degli oggetti e la loro messa in scena sulle tavole levigate del paradosso linguistico e assieme lo svelamento, rigorosamente kitsch, di un processo destrutturante tra il desiderio e la fiaba, tra la qualità del reale e l'enfasi della rappresentazione. A concludere questa prima e completa stagione, una mostra complessa e non priva di suggestioni e di rapporti concettuali multipli tra immagine e scrittura simbolica, tra elementi misteriosofici e proiezioni emblematiche di motivi grafici a dimensione ambientale e pittorica, di Milton Principessa. In Flash Art n. 146, 1987.
Maurizio Cattelan, Pietro Mussini, Tommaso Tozzi Quando ci si muove e si indaga nel presente, con la voglia l'accortezza e la curiosità necessarie a non lasciarsi sfuggire il senso di una variazione e di un mutamento, non è difficile ritrovarsi a dover annodare fili e allacciare trame non sempre duttili all'intreccio. E proprio la non facilità dei nodi e magari l'eterogeneità dei materiali rendono più vario e avvincente il tentativo. Così come il ritrovare frammenti o segmenti precedentemente non inseriti e lasciati in sospeso, può consentire procedimenti e sviluppi inattesi. Di fronte alle aree di ricerca più attuali e di conseguenza alle attenzioni che gli artisti delle ultime leve rivolgono nei confronti dell'oggetto, dell'installazione, del processo mentale o dell'atteggiamento creativo in generale, filtrato o meno dalla tecnologia quotidiana, si avvertono attitudini e vere e proprie formalizzazioni tese a modificare e ad alterare rapporti genealogici. Il che significa anche nutrire una sorta di lateralità nei confronti della storia per coltivare meccanismi di disponibilità artificiale come alternativa alla citazione, alla ripetizione e alla possibilità di esplorare vie e percorsi paralleli. In quanto è possibile riconoscersi in vantaggio sull'ordine stabilito, sia dal punto di vista dell'elaborazione linguistica che dalla ricostruzione motivata di un codice. In questo modo la pluralità degli accessi a un qualsiasi modulo di presentazione qualifica e istituisce una diversa percezione dell'arte all'interno di un sistema di accettazione e di riconoscibilità. La messa in opera di estrose potenzialità estetiche e, al tempo stesso, rigorosamente funzionali (se solo, come crediamo, si ampia il concetto di funzione alle direzioni libere del piacere) degli oggetti e delle situazioni d'arredo linguistico di Maurizio Cattelan, rende avvertibile il senso di distanza o la frattura con l'accattivante mistificazione di un rapporto impersonale. Ribaltando la carica eversiva e seducente 112 Aggregati per differenze
Anche Tommaso Tozzi non può sottrarsi completamente come la intrusione subliminale potrebbe lasciare supporre. La sua 'assenza' e la sua 'presenza' anonima danno voce a un’immagine libera e pericolosa come la vita nella società tecnologica: Hacker-Art. In Strategie, catalogo mostra, Bologna, galleria Neon, 1990.
Alessandro Pessoli Complesso, variegato e a volte ricco di sorprese e di efficaci contrappunti, il lavoro di Alessandro Pessoli sembra acquisire una consapevolezza e una capacità di indagine dal taglio molto personale e lucido. Qualità, queste, non sempre riscontrabili, assieme al rischio e alla volontà di non omologarsi all’ultimo seducente trend, di tanti altri esponenti della sua giovanissima generazione. L’aspetto analitico di una tradizione per tanti versi vincente e riaffiorata, quasi più per storico destino che per le abili mosse dell’intero sistema, rimette in discussione i termini di un apparato espressivo agitato nei contrasti delle immagini, dei materiali e delle inevitabili contaminazioni. Certo i riferimenti poveristici o più evidentemente concettuali non vengono palesati da Pessoli con l’intenzione dichiarata di un “omaggio” o di una, più o meno esasperata, citazione. No, il versante del riscatto si insinua a separare la qualità dell’impegno dallo scavo di superficie. La dimensione simbolica dalle trame evanescenti dell’errore. Il ricalco iconografico dal progressivo allontanamento e distacco per via di sovrapposizioni e di fogli-schermi traslucidi. Ciò che può apparire diretto e immediato subisce la “velatura” di una distanza che non può essere solo temporale o “storica”. Ma diventa piuttosto di contrappunto ambivalente, di misura doppiata, per offrire l’occasione di uno “spazio” tra individuale e sociale, tra oggettivo e soggettivo, tra apparenza divulgata e standard produttivo. Così come il disimpegno ludico, danzante sull’inclusione del “già fatto”, per allusioni dirette all’impossibilità di connettere Beuys, Merz e Boetti, si trasforma in transito ideale per dare significato alle trasfigurazioni di immagini “a perdere”. Per Pessoli il libro, il quaderno-diario, i “falsi” collage in cui si insinua l’effetto del ritaglio da sollevare, i disegni forati da leggere controluce o gli ultimi “arazzi” di grossa lana colorata, dove l’immagine cresce e si confonde nei nodi e nei punti di aggetto, sono stazioni emblematiche di una consapevolezza piena e al tempo stesso determinata. Coltivata negli interstizi di un sapere visivo non disgiunto dalla performatività dei linguaggi in via di dissoluzione o di riproposta continua. E dove, attraverso l’apparente superficialità di uno scavo, si svelano gli strati di una rappresentazione artificiale destinati ad alimentare altre e diverse forme di energia e di elaborazione vitale. In Lorenzo il Magnifico, giornale aperiodico a cura di A. Beccattini e D. Montanari, n. 7, 1989.
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nell'ovvietà delle convenzioni o di un feroce autoritratto in chiave di schedatura giudiziarioantropologica, raccorcia le distanze di un uso puramente linguistico delle relazioni private e autoriflesse. Per indagare invece sui processi distintivi di una forma di identità collettiva da affrontare sul piano dell'impegno e, forse, anche della denuncia Accanto a una lettura in chiave sociologica, ma non per questo riduttiva nei riguardi di una forma di esperienza maturata come valore esistenziale, si legittima la persistenza di un cambiamento prospettico nei confronti di quella realtà banalizzata e banalizzante che si riproduce al di fuori di qualsivoglia qualificazione artistica ed estetica. Nell'affrontare questo processo di partecipazione e di attivazione forzata, Cosci raggiunge con lucidità e determinazione, una sorta di punto di non ritorno. Posto come limite, forse, tra delimitazione di un ambiente da abitare con tutta l'energia e il disagio dello esserci e l'estensione di un tale progetto, praticato nella realtà, a non conformarsi al pregiudizio delle attese e delle aspettative. In Gianluca Cosci, Istituto italiano di cultura, Salonicco, Institut francais, Saint-Etienne, Ecole des beaux arts, Bologna, Comune di Bologna, Assessorato alla cultura, Quaderni del triangolo 21, 1995.
Francesco Bernardi, Cuoghi & Corsello Con queste mostre abbinate prosegue l’intelligente attività della sezione Spazio Aperto della Galleria d’Arte Moderna dedicata alle giovani generazioni sotto la curatela attenta di Dede Auregli. Francesco Bernardi riconferma il suo ruolo di acuto osservatore di una realtà ricostruita e in un certo senso risemantizzata, attraverso uno sguardo obliquo e indagatore. “Arreda” e abita il piccolo giardino interno con una tavola imbandita di trofei di frutta fresca, ma al tempo stesso ne impedisce la visione e l’accesso. Una cortina di piante ricopre la vetrata e solo attraverso i piccoli pertugi tra un ramo e l’altro è possibile osservare la scena immobile. In un secondo momento alla realtà dell’istallazione si sostituisce la “seconda” realtà di una fotografia in trasparenza collocata sulla medesima vetrata. L’appostamento e la durata sono in questo caso sospesi e l’attenzione viene spostata all’interno di un processo di conservazione e smaterializzazione. Rimane la pelle, la “pellicola” di un evento così come ne può rimanere la traccia o la prova, in attesa di una ricostruzione mentale e indiretta. Ancora lo scarto e la differenza tra reale e reale, avviene utilizzando le telecamere di controllo del museo. Ponendo un immagine fissa davanti a esse (e di un altro luogo) ecco che la percezione di ciò che vediamo e che sappiamo si ribalta nell’inganno e nella finzione. Così come la riproposta di una stanza-set arredata di tutto punto, attende lo scoccare di un flash della macchina fotografica su cavalletto, per rivelarsi come “teatro” di un evento di attese e di vissuto.
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Cuoghi & Corsello come sempre riescono a sorprendere per l’efficacia di un allestimento che trascina il gioco e l’emozione sul terreno non facile della messa a nudo degli stereotipi del “recupero” e della contaminazione estetica. Ecco allora l’incidente, il car crash con la Pantera Rosa come protagonista e con l’automobile vera e vissuta a trasportarci in un inter-regno costruito di porzioni e di frammenti di vita reale assemblati dentro l’urgenza del quotidiano. E tuttavia connessi e intrecciati a una grande capacità di reinvenzione: dove cadono barriere e distinzioni tra natura e artificio, tra uso e riuso e soprattutto tra condizioni di esistenza formalizzate e opposizioni ricche di una “potenza” estetica primaria e vitale. In questo modo il mixaggio tra azioni e reazioni, tra comportamenti e stati psichici, individuali e relazionali, si trasformano in un linguaggio completo e rappresentativo. Tecnologia rivista e ricreata nel senso dell’assemblage ludico e sofisticato nell’invenzione, materiali recuperati al piacere di un eterogeneo kit di sopravvivenza, fotografie e sonorità per riscrivere attitudini e competenze, partecipano di un ordine simbolico capace di adattarsi e di estendersi alla complessità del mondo e della vita tout-court. In Flash Art, n. 206, 1997.
Andrea Pazienza Questa antologica vera e tra le più complete che si siano viste dell’insieme variegato e tuttavia omogeneo dei lavori di Pazienza, incide un segno forte nella memoria e nella storia culturale di questa stordita città, a vent’anni da un sempre più “lontano” e sfuocato ’77 e al quasi decennio della troppo prematura uscita di scena di Paz. Segnali forti non tanto in senso celebrativo, quanto per la possibilità di pigiare il tasto “rewind” del video registratore dei tempi recenti per rivedere e riscrivere “storie” che ancora sanno di nuovo. (A proposito, Rewind è anche il titolo di una serie di mostre vivaci e curiose per “cenni” di decenni che si è appena conclusa presso il Campo delle Fragole). Ebbene anni Settanta e anni Ottanta, la fine dei primi e buona parte dei secondi, rivivono nello slang figurato e impaziente dei fumetti, delle tavole e delle illustrazioni di un loro protagonista indiscusso e partecipe di un clima irripetibile. La sola concomitanza degli eventi e il sorgere repentino del cosiddetto Nuovo Fumetto Italiano, non bastano a riallacciare i fili e le fila di una trama individuale così ricca e così variegata. Pazienza rimane nel suo eclettico vagare entro i confini frastagliatissimi di un genere, il solo capace di centrare la sintesi di un’enfasi geniale tra parola (e scrittura) immagine e vita. Tra segni alterati di una eccitazione fremente di foga espressiva e suadenti transiti contrapposti all’unico destino riconosciuto alle metamorfosi dell’arte. dall’interno di un’idea del fare che si nutre e che si contamina di una “sola moltitudine” di esistenze, energicamente espressa e controllata nella capacità di riproduzione e di comunicazione dell’immagine. Andrea si pone nella condizione di riflettere il mito totalizzante dell’artista. E proprio in un momento di recuperi 143
12. Emilio Fantin, Trekking, 1992 13. Cuoghi Corsello, Lettera per Roberto Daolio, 1990 14. Emilio Fantin, Trekking, 1992
4. Arte relazionale e site-specific
Provoc’Arte All’interno della pratica artistica contemporanea e negli sviluppi delle diramazioni che ne definiscono i diversi e molteplici campi di intervento, si assiste a una sempre più rapida e costante assimilazione dei processi costitutivi e ideativi dell'azione come differenza e come alterità. Normalizzati gli avanzamenti o le punte e le spinte più eversive si ha l'impressione che sistema sociale, da un lato, e sistema dell'arte, dall'altro, si siano integrati a tal punto da rendere vani i tentativi di dissociazione o di de-legittimazione condotti sia con i mezzi tradizionalmente delegati allo scopo che con quelli provenienti da una extra-territorialità oramai consolidata e fatta rifluire nei 'ranghi'. Può ancora esistere una 'provocazione' che, sebbene indirizzata e motivata in termini progettuali, sia in grado di abitare, almeno per un breve lasso di tempo, i luoghi che abitudine e dimenticanza hanno costretto all'assenza? È quanto rimane sospeso ma non 'irrisolto' all'interno di questa proposta di Artegiovane 1991 e al pieno successo del suo svolgimento effimero sì, ma capace di darsi una memoria tangibile (auspichiamo) non solo nelle pagine che seguono e nella implicita parzialità di una documentazione ma anche nella constatazione e nella presa di coscienza delle diverse esigenze espressive 'provocate'. Dove, pure nella contraddizione linguistica e in certi casi concettuale, non si esaurisce l'esigenza di modificare la realtà: sia sottolineandone le valenze estetiche 'dirette' e quasi private della mediazione, sia rovesciandone i termini e le categorie definitorie per evidenziare limiti e i confini troppo limitati. Lo spazio della provocazione, spesso smontato linguisticamente di qualsiasi carica 'eversiva' o molto più prosaicamente liberatoria, può essere riconquistato sul piano di una sistematica scorrevolezza del quotidiano. Allontanati e respinti i recinti e i circuiti consacrati dell'agire artistico e della connessa produzione oggettuale e testuale, nonostante gli sconfinamenti riscoperti e rivisitati a ogni scarto generazionale, si fa strada una molteplicità di prospettive tale da rimettere in causa e in gioco i ruoli topici dell'omologazione e dell'indifferenza. Le escursioni nei luoghi non praticabili del reale perché destinati a una funzionalità programmatica e rispondente alle esigenze di un modello di vita iper-reale, già configurano una rinuncia alternativa e salvifica. Tuttavia il margine e la lateralità, da sempre consentiti all'arte nelle attese di un nuovo da configurare come 'tradizione' e ripetizione, sebbene differente, possono illuminare nella ricercata 'banalità' del qui-eora un lato in ombra, un angolo nascosto. Le immagini che si sostituiscono alle immagini senza soluzione di continuità e quasi obbedendo all'imperativo di scivolare senza lasciare tracce, realizzano un continuum asettico e imperturbabile. L'interruzione e l'intervallo, più ancora del dislocamento, possono riuscire a materializzare una intercapedine di senso artistico e un presunto 'vuoto' denso di valori e di qualità non illusorie. A tutti i movimenti affidati alle sollecitazioni sinestetiche, per via di una flessibilità progettuale più aderente alla utopia che alla tensione utopica, corrispondono constatazioni di
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Tra critica e poetica, la parola slegata dall’immagine Davide Da Pieve
Per rileggere i primi testi critici realizzati dal giovane Roberto Daolio è significativo ripercorrere l’intreccio di suggestioni provenienti dai suoi studi universitari, dalle sue frequentazioni e, più in generale, dalla vivacità artistica riscontrabile nel capoluogo emiliano tra gli anni Sessanta e Settanta. Bologna è una delle mete più ambite dai giovani italiani: da un lato agevolati dal periodo di benessere, dall’altro stimolati dai modelli stranieri, cominciano a lasciare il nucleo familiare per spostarsi nei grandi centri. La generazione dei nati intorno agli anni Cinquanta può essere inoltre considerata come la prima cresciuta insieme alla diffusione degli schermi e dei mezzi di comunicazione di massa. Bologna è attraversata da queste spinte e si rivela immediatamente molto attenta ai cambiamenti che i nuovi mezzi andavano impartendo, mostrando grande apertura nei confronti dei nuovi fermenti artistici. Roberto Daolio, a queste date, è un semplice studente, un grande lettore e frequentatore di cinema giunto a Bologna dalla vicina Correggio per seguire i corsi del neonato DAMS, fondato nel 1971 per il volere di alcuni docenti dell’Università, tra cui Renato Barilli, Umberto Eco, Adelio Ferrero e Benedetto Marzullo. Immediatamente egli si appassiona alle novità e segue attentamente gli esiti di un panorama artistico sempre più eterogeneo e multimediale. Nel corso degli anni Sessanta in città va attenuandosi il corso della pittura informale e alcuni giovani artisti vanno raggruppandosi intorno allo Studio Bentivoglio già dal 1965. Essi mostrarono linguaggi e atteggiamenti stilistici diversi tra loro, tra cui, le installazioni e performance di Vasco Bendini, le prime anticipazioni della stagione poverista con la produzione di Pier Paolo Calzolari e l’esordio nella veste di performer di Luigi Ontani, avvenuta nel 1969. In più questo luogo è frequentato da altri artisti che risiedono in città, per esempio Concetto Pozzati. Lo stesso Daolio ha individuato nello sviluppo delle attività legate allo Studio Bentivoglio un importante giro di boa, e, in un breve e denso saggio del 2001, lo descrive come il centro di produzione artistica intorno a cui si muovono gli artisti che apriranno la stagione neoavanguardistica bolognese (p. 69). Inoltre, in questo periodo di gran fermento, si organizzano in città mostre fondamentali, come quella dell’Arte Povera alla galleria ‘de Foscherari, avvenuta pochi mesi dopo la prima esposizione alla galleria genovese La Bertesca. Certo, per comprendere il quadro generale del periodo, non dobbiamo dimenticare le spinte determinanti mosse dalle sperimentazioni linguistiche condotte dal Gruppo ’63, grazie alle quali si verificò un’equilibrata e consapevole rottura nei confronti del passato. Al Gruppo ‘63 parteciparono molti insegnanti del DAMS, tra cui Renato Barilli, Umberto Eco, Fausto Curi, Gianni Celati, Lamberto Pignotti: nomi determinanti per la formazione 191
primi body artist. Questo testo intrattiene inoltre una forte continuità con un intervento pubblicato negli atti del convegno: Arte: utopia o regressione? (p. 164), curato da Lea Vergine nel 1991, nel quale Daolio si interroga, più in generale, su alcuni spostamenti e fenomeni sorti in ambito artistico in seguito alla diffusione dei mezzi di massa, senza limitare il campo d’indagine alla performance. In entrambi i testi avanza una riflessione sui cambiamenti della consistenza della realtà stessa; in essa è ora riflessa l’impossibilità di trovare «centri o periferie», come, del resto, accade anche oggi con la rete. Da queste parole pare che la nozione di «villaggio globale», espressa da McLuhan allo scadere degli anni Sessanta, diventi, agli occhi di Daolio, sempre più palpabile. Questi ultimi brani, come, del resto, tutti i suoi testi, realizzati per brochure, riviste, cataloghi, monografie, LP, t-shirt e libri d’artista, sono luoghi di una scrittura autosufficiente, lirica ed evocativa che continuerà a caratterizzarsi per la totale assenza di riferimenti a immagini e per le puntuali e raffinate analisi. Tale aspetto, insolito per un critico d’arte, si potrebbe anche pensare di rapportarlo a una propensione che discende dal clima concettuale, di marca kosuthiana, riscontrabile nella volontà di evocare immagini mentali attraverso la scrittura. L’assenza delle immagini nel lavoro critico di Daolio potrebbe quindi essere figlia, in un certo di senso, dell’aver vissuto (e di essere cresciuto) all’interno di un clima culturale determinato da riflessioni che comprendono lo statuto stesso dell’arte, dove gli aspetti mentali e progettuali dell’opera prevalgono su tutti gli altri. In questi primi testi di Daolio leggiamo un’impostazione critica strutturata a partire dall’esperienza diretta dell’opera, e che continuerà a caratterizzarsi nelle successive pubblicazioni, maturando ulteriormente la liricità e la forza della scrittura a sfavore dell’immediatezza dell’immagine. Questa vuole essere una semplice premessa all’attività più matura di Roberto Daolio, ripercorribile oggi attraverso la sua ampia produzione scritta. Nel corso degli anni Ottanta egli lavorerà sempre più in autonomia, affiancando all’attività di critico e insegnante quella del curatore, da cui prenderanno forma le prime esposizioni di artisti italiani che andranno a suggestionare il panorama artistico italiano e internazionale.
1. Nel testo Out of order (1995, p. 168) Roberto Daolio già utilizza il termine “relazione” in una direzione di senso molto simile a quella che Bourriaud proporrà in (1998), Esthétique relationnelle, Dijon, Les presses du réel. Inoltre sarà lo stesso Daolio a sottolineare la continuità tra Body Art, Arte Relazionale e Arte Pubblica nel saggio Bologna contemporanea, dentro e fuori in Weiemair, P. (a cura di) (2005), Bologna contemporanea 1975-2005, Bologna, Damiani Editore, pp. 25-26.
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2. Per un maggiore approfondimento si veda Besacier, H., Orlan (a cura di) (1981), Symposium international d’art performance, atti del convegno, Lyon, Loi 1901, pp. 29-30. 3. Il primo articolo che firma per “Flash Art” è Daolio, R. (1981), Tutte le arti tendono alla performance, “Flash Art”, n. 104, p. 53. 4. A questo proposito Daolio menziona come spartiacque il film di Gerry Schum sulla Body Art. Si veda il testo contenuto in questo volume a pp. 69-74.
In via di apparizione Caterina Sinigaglia
La lunga e felice carriera di Roberto Daolio attraversa più di trent’anni di arte bolognese e non solo. Tuttavia un breve periodo è stato cruciale nell’evoluzione del suo percorso professionale. Proprio in concomitanza con il passaggio da un decennio all’altro, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, si assiste a un salto di qualità rispetto al suo ruolo nell’ambiente artistico italiano. Nel corso degli anni Ottanta, infatti, inizia a farsi strada un sentire differente, che si proietta direttamente nel futuro e che anticipa decisamente le tendenze degli anni a venire. A Bologna e nel resto del mondo questo momento di passaggio è segnato da una ritrovata apertura e dalla volontà di superare i confini di genere, mezzi e discipline. La città felsinea è un terreno ricco di tendenze e movimenti diversi, l’ideale per il proliferare di nuove ricerche artistiche e osservatorio privilegiato per chi avesse la voglia e l’intuito di prestarvi attenzione. Tra questi sicuramente si annovera Daolio che, con il suo sguardo attento, influenza da vicino ciò che accade in città. Un segnale che aiuta a comprendere quanto il contesto fosse pronto ad accogliere le novità, è la nascita di uno spazio autonomo, diverso dai luoghi canonici in cui fruire l’arte: la galleria Neon, fin dagli esordi un luogo spontaneo in cui operare liberi dalle necessità del mercato e dalle pressioni istituzionali e che si pone come luogo di condivisione, di scambio di idee e di esperienze. La galleria nasce ufficialmente nel 1981 ma chiude dopo poco, in seguito alla tragica morte di Francesca Alinovi. Lo spazio riapre nel 1987-88 e nel corso degli anni, attorno a esso, si crea una congiuntura particolare per cui i critici, i curatori, i galleristi, gli artisti che vi gravitano attorno finiscono per instaurare, quando si presentano le condizioni adatte, dei rapporti destinati a durare a lungo e a produrre collaborazioni che influenzano la vita e la carriera di tutti coloro che sono coinvolti. Roberto Daolio frequenta la Neon già dalla sua nascita e riscontra da subito molte affinità con il direttore della galleria: Gino Gianuizzi. Entrambi presentano una decisa inclinazione nei confronti delle manifestazioni più innovative dell’arte contemporanea e un interesse per tutte le forme sotto cui si può presentare, con una propensione particolare per progetti sperimentali di interdisciplinarità, oltre che un marcato interesse nei confronti degli artisti emergenti. Questa affinità è confermata dalle parole del critico stesso che già in date precoci attribuisce allo spazio appena riaperto uno “spirito vigile, attento e possibilmente ‘libero’”, in Neon, stagione 1987/88 (p. 111). Se l’insegnamento presso l’Accademia di Belle Arti fornisce a Daolio un punto di vista privilegiato sull’attività degli artisti in erba, il suo gusto e il suo intuito gli permettono di individuare i casi più promettenti e interessanti. Sul finire degli anni Ottanta egli 197
primi passi in una collaborazione, quella con Roberto Daolio, che li accompagnerà nell’arco di tutta la loro carriera. Allo stesso tempo l’evento ha una notevole rilevanza per la Galleria d’Arte Moderna anche a causa delle iniziative analoghe nate in seguito. Nuova officina bolognese rappresenta il primo vero tentativo realizzato a livello istituzionale di fare il punto sulla situazione artistica contemporanea bolognese per quanto riguarda artisti giovani. Nonostante il museo collaborasse da anni sia con l’Università che con l’Accademia, infatti, difficilmente si trovano esempi precedenti a questo in cui tale interesse venga concretizzato in maniera così ordinata e puntuale. A seguire la collettiva del 1991 ci sarà poi Aperto ‘95. Out of order (p. 168), curata ancora una volta da Daolio in collaborazione con la GAM e che include già dei nuovi “acquisti” nel panorama bolognese (Yumi Karasumaru, Sabrina Mezzaqui, Alessandra Tesi). Infine il museo deciderà di riservare ai giovani un’attenzione più continuata e più specificatamente promozionale, dedicando una porzione dell’edificio in modo permanente alle mostre realizzate per il progetto Spazio Aperto. A partire dal 1997, infatti, l’iniziativa viene coordinata da Dede Auregli e si appoggia a una Commissione scientifica della quale il critico farà parte in maniera costante. Come ricorda egli stesso qualche anno più tardi in Bologna contemporanea dentro e fuori, le istituzioni rispondono sempre più alla sua idea di quello che dovrebbe essere il loro ruolo nei confronti dei giovani artisti. L’officina dunque sembra essere al crocevia di esperienze che producono una eco negli anni a seguire e allo stesso tempo evento che simboleggia l’apice dell’attività di Daolio in questa fase della sua carriera. I pochi anni analizzati in questo breve e certamente poco esaustivo excursus rappresentano il momento in cui il critico e curatore inizia a coltivare un’attività sempre più autonoma, a indirizzare la sua attenzione maggiormente nei confronti dei giovani, a fare esperienza sul campo partecipando agli eventi più rilevanti che hanno luogo a Bologna, continuando sempre a scrivere su giornali, riviste, cataloghi, fogli di sala. Insomma il frenetico e costruttivo lavoro svolto a cavallo dei due decenni rappresenta uno snodo fondamentale per la sua formazione ed è utile per capire come le modalità operative che adotta e le relazioni che intesse si pongono alla base della sua attività anche negli anni a venire.
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Lo sguardo in azione Lara De Lena
Per Roberto Daolio l’arte nello spazio pubblico coincide con la produzione e lo sviluppo di uno spazio attivo di partecipazione. In lui l’entusiasmo e la voglia di misurarsi con una nuova dimensione partecipativa dell’arte – sviluppati negli anni di formazione – non hanno perso vigore con la maturità e l’acquisizione di maggiori conoscenze; le idee alla base di ogni suo progetto si sono ordinate, focalizzate su obiettivi sociali e antropologici e allo stesso tempo hanno mantenuto il loro carattere rivoluzionario e utopistico. Tra i saggi presenti in questa raccolta, i testi che fanno riferimento a progetti di Public Art sono stati scelti allo scopo di approfondire il suo impegno a favore dell’arte pubblica, che per Daolio può davvero definirsi tale solo quando nasce da un’osservazione dai tempi lunghi, trae ispirazione dallo spazio circostante e attiva un coinvolgimento fisicamente percepito. Attraverso la successione di questi scritti è possibile ricostruire l’impegno del critico a favore di questo fronte dell’arte, che ha caratterizzato, in particolare, l’ultimo periodo del suo lavoro. Si parte dall’esperienza della rassegna sammarinese Provoc’Arte nel 1991, nella quale Daolio è membro della giuria, e di cui si è scelto di riportare il testo da lui curato in catalogo (p. 163) e il suo intervento all’interno del simposio Arte: utopia o rivoluzione? curato da Lea Vergine e pubblicato l’anno seguente (p. 164). Realizzata nell’ambito della IV edizione di Artegiovane nella Repubblica di San Marino, Provoc’Arte cerca un coinvolgimento tra opera e luogo. La scelta di utilizzare zone di “vuoto” architettonico e sociale inedite all’esposizione di opere d’arte, segue la riflessione socio antropologica che negli stessi anni avanza in merito alla visione e fruizione degli spazi urbani1. La rassegna, che vede la presenza di moltissimi giovani artisti emergenti provenienti da diverse nazioni, occupa spazi espositivi inediti per la città e vanta l’intera progettazione delle opere come completamente avulsa dalla dimensione dello studio d’artista. Sottraendo il fatto artistico ai suoi miti elitari, con Provoc’Arte, attraverso opere concepite in situ, si cerca di favorire un dialogo tra l’artista e il pubblico, occupando quelle fette di spazio che si liberano tra un utilizzo e un altro e oppongono all’uso meramente materiale dei luoghi una nuova prospettiva di sguardo. La strada verso la conoscenza non segue un percorso lineare ma frammentato: il frammento, residuo della meccanizzazione dell’agire, per Daolio può anche essere letto come strumento per scardinare il sempre-uguale e dare voce alle diversità che convivono nei nostri spazi dell’agire. La visione lucida e appassionata di Roberto Daolio ricalca, a mio avviso, sotto molti aspetti l’analisi degli spazi contemporanei di Zygmunt Bauman, che in Modernità liquida introduce il tema della fruizione degli spazi pubblici come specchio delle trasformazioni della nostra epoca. Bauman osserva come per ciascun individuo «lo spazio pubblico non è molto più che un maxischermo su cui le
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Roberto Daolio, 1985 ca.
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(Plutôt la ville) in Py, F., Danfetis, D. (a cura di)
Benjamin, W. (1971), Immagini di città, Torino, Einaudi. Bentini, M.R., Gianuizzi, G., Romano, M. (2015), Premio Roberto Daolio per l’arte pubblica “Plutôt la vie...Plutôt la ville”, Bologna, Lupetti.
Passage. La sculpture dans la ville, Symposium Europeen, Bologna, Accademia di belle Arti di Bologna. Daolio, R., Romano, M. (2005), Accademia in Stazione. Catalogo della mostra (Bologna, stazione centrale, 10-30 luglio 2003, 8-29 luglio 2004 e progetti 2005, Bologna, Organizzazione eventi. 211
Fameli, P., (2015), “Fatti dello studio Bentivoglio”,
Crediti immagini
in Intrecci d’Arte, n. 4/2015, p. 74. Gentili, C. (1985), Anniottanta. Una mappa per gli anni Ottanta, Milano, Mazzotta. Gianuizzi, G., Montanari, D. (2016), Portrait of
Copertina: Roberto Daolio, Mambo, 2011 (Per gentile concessione di Mili Romano)
the artist as a young dog. 1985-1995, Ravenna, Danilo Montanari editore. Ilardi, M. (2004), Bologna, la metropoli rimossa,
Guardia: Roberto Daolio, appunti, Archivio Daolio (Stefano Daolio, Antonio Pascarella)
monografia n. 7 della rivista Gomorra, Territori e culture della metropoli contemporanea, Roma, Meltemi.
1/2/3/6/7/8/9/10/11/13/15 Per gentile concessione di Antonio Pascarella
Panzeri, F., Picone G. (1994), Tondelli. Il mestiere di scrittore, Ancona, Transeuropa. Politi, G. (1991), “È questa l’arte giovane?”, in
4 - Mario Gorni (quella della settimana della performance Antonio Pascarella)
Flash Art, n. 158, ottobre-novembre, p. 9. Romano, M., (2003), aRITMIe. Ultime visioni
5 - Enrico Serotti
metropolitane, Bologna, Clueb. Romano, M., (2014), Con la città che cambia.
12/14 - Emilio Fantin
Percorsi e pratiche di Public art, Acireale, New L’Ink. Santarelli, G. (2012), 051. 2012-1970. Bologna, identità e memoria, Bologna, Bononia University Press. Spadaro, A. (1999), Pier Vittorio Tondelli. Attraversare l’attesa, Reggio Emilia, Edizioni Diabasis. Torresin, B. (1988), “Automi e lamiere”, in La Repubblica, 13 dicembre, p. VII. Weiemair, P. (a cura di) (2005), Bologna contemporanea 1975-2005, Bologna, Damiani Editore.
212 Aggregati per differenze
15 Yumi Karasumaru
Yumi Karasumaru, Il ritratto di Roberto, 2017 25 x 25 cm, china, matita e acrilici su tela
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