Arte in movimento. Gli anni Settanta in Campania

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Questo libro raccoglie ed amplia gli esiti del ciclo di seminari Arte in movimento. Gli anni Settanta in Campania, promosso dal Dipartimento di Lettere e Beni Culturali dell'Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli", tenutosi presso il suddetto Dipartimento martedì 25 e venerdì 28 ottobre 2016. Il volume è stato realizzato con il contributo della Ditta Cobor s.a.s di Napoli e con il patrocinio del Dipartimento di Lettere e Beni Culturali dell'Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli".

Comitato scientifico Anna Barbara (Politecnico di Milano) Cristina Casero (Università di Parma) Emanuela De Cecco (Libera Università di Bolzano) Luca Peretti (Yale University) Roberto Pinto (Università di Bologna) Carla Subrizi (Sapienza Università di Roma)

Arte in movimento. Gli anni Settanta in Campania a cura di Luca Palermo © 2018 Postmedia Srl, Milano In copertina: Andrea Sparaco, Con il Vietnam nella ricostruzione, 1976 www.postmediabooks.it ISBN 9788874902187


Arte in Movimento Gli anni Settanta in Campania a cura di Luca Palermo

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PARTE PRIMA Saggi storico-critici 9 Le ragioni di un progetto

Luca Palermo 13 Gli sconfinati anni Settanta. Qualche

nota introduttiva Gaia Salvatori

21 La critica d’arte in Italia negli anni

Settanta: un decennio di militanza Maria Giovanna Mancini

33 Lo strano caso della Galleria Inesistente

Luciana Berti 43 Vite ambulanti

Stefano Taccone 55 Riccardo Dalisi. Dall’architettura

dell’imprevedibilità alle derive di una nuova civiltà delle macchine Giuseppe Coppola 77 Il nuovo teatro a Napoli: le cantine

come modello di scrittura scenica Salvatore Margiotta 95 Appunti per una storia della fotografia

a Napoli negli anni Settanta Luca Sorbo 105 Da Proposta a Proposta. Ipotesi di

intervento tra Napoli e Caserta Luca Palermo


PARTE SECONDA Testimonianze d’artista 121 Quei formidabili anni Settanta

Gabriele Marino 125 Riflessioni sugli anni Settanta

Ernesto Jannini 137 Anni Settanta. Controversie sociali

dell’arte Franco Cipriano 159 Sperimentazione didattica ed

operatività estetica nel sociale Giuseppe Rescigno 183 Il Gruppo Salerno 75: note per

un’arte responsabile Antonio Davide 189 Gli anni Settanta. Uno spettacolo

partecipativo poetico-politico Antonello Tagliafierro

PARTE TERZA Appendice 195 Intervista a Livio Marino

Luca Palermo



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SAGGI

STORICO - CRITICI

Le ragioni di un progetto Gli sconfinati anni Settanta. Qualche nota introduttiva La critica d’arte in Italia negli anni Settanta: un decennio di militanza Lo strano caso della Galleria Inesistente Vite ambulanti Riccardo Dalisi. Dall’architettura dell’imprevedibilità alle derive di una nuova civiltà delle macchine Il nuovo teatro a Napoli: le cantine come modello di scrittura scenica Appunti per una storia della fotografia a Napoli negli anni Settanta Da Proposta a Proposta. Ipotesi di intervento tra Napoli e Caserta



Le ragioni di un progetto Luca Palermo

Nel corso del 2016 numerose università italiane hanno dedicato studi ed approfondimenti alla situazione storico-artistica e sociale del decennio Settanta del secolo scorso. Da una fruttuosa sinergia tra la Sapienza Università di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, l’Università degli Studi di Parma, e l’associazione culturale ArtCityLab, nei giorni 12 e 13 ottobre si è tenuto, presso il suddetto ateneo milanese, un convegno, Arte fuori dall’arte. Incontri e scambi fra arti visive e società negli anni Settanta, che ha avuto il merito, forse per la prima volta in territorio italiano, di fare il punto sul decennio in questione indagandone le ragioni ad esso sottese, le metodologie artistiche messe in campo, l’editoria, il cinema etc. A tale convegno, curato da Cristina Casero, Elena Di Raddo e Francesca Gallo, si sono accompagnati, in vari atenei ed istituzioni nazionali, alcuni eventi collaterali volti ad evidenziare, con maggiore enfasi, sfaccettature del decennio Settanta che avrebbero meritato un più ampio spazio di riflessione rispetto a quello che le due giornate milanesi hanno potuto offrire loro. Tra essi il Festival ArtsOutsideArts organizzato dall’associazione culturale ArtCityLab in occasione della quale, per tutto il mese di ottobre, sono stati dislocati per la città di Milano, lavori storici di Fernando De Filippi e Ugo La Pietra; dal 30 settembre al 29 ottobre lo CSAC, Centro Studi e Archivio della Comunicazione, dell’Università di Parma ha proposto Amore e rivolta, un ciclo di incontri dedicati agli anni Settanta e ad alcune figure che hanno affiancato o incrociato le ricerche dello CSAC a partire dalle prime


mostre; la mostra La parola agli artisti. Arte e impegno a Milano negli anni Settanta curata da Cristina Casero ed Elena Di Raddo ed allestita presso il Museo d’Arte Contemporanea di Lissone; la mostra Claudio Cintoli – Luigi Di Sarro – Ettore Innocente. Oggetti: astrazioni, utensili, sistemi, disegni, a cura di Carlotta Sylos Calò, a Roma, presso il Centro Luigi Di Sarro (20 ottobre-18 novembre); la mostra documentaria (a cura di Maria Giovanna Mancini) Filiberto Menna. La linea analitica dell’arte moderna, 1975. Archeologia di un discorso critico, allestita presso la Fondazione Menna (Roma-Salerno); l’esposizione fotografica di Giovanna Dal Magro Milano e gli anni Settanta. Le piazze (a cura di Elisabetta Longari) presso lo Spazio Underground di Milano e il ciclo di seminari Arte in Movimento. Gli anni Settanta in Campania curato da chi scrive e svoltosi, il 25 e il 28 ottobre 2016, presso il Dipartimento di Lettere e Beni Culturali dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”. Tali seminari sono stati tanto un momento di riflessione teorica e confronto portato avanti da storici dell’arte, da artisti attivi nel decennio in questione e dal pubblico presente quanto il punto di arrivo di un ragionamento iniziato sul finire dell’anno precedente (ottobre 2015) e conclusosi nel marzo del 2016 con l’allestimento, in un immobile confiscato alla criminalità organizzata sito in Casapesenna (CE), della mostra Ars Felix. Gli anni Settanta all’ombra della Reggia, curata da chi scrive con il supporto del Dipartimento di Lettere e Beni Culturali dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, il cui obiettivo fu quello di riaccendere i riflettori, attraverso opere e documenti inediti, su una realtà territoriale, come quella casertana, troppo spesso messa in ombra da quello che accadeva nella vicina Napoli. Da tali esperienze, dall’attenzione mediatica ad esse posta e dall’interesse suscitato in chi ad esse ha preso parte, si è avvertita la necessità di storicizzazione delle stesse attraverso la messa a punto di un volume, che dai suddetti seminari muove e trae il titolo, che facesse il punto su quanto artisticamente prodotto e teorizzato in quel decennio nella regione Campania. I saggi che lo compongono,


infatti, non riguardano soltanto le arti visive tout court (Gaia Salvatori, Luciana Berti, Stefano Taccone, Giuseppe Coppola, Luca Palermo) e la prassi critica ad essa relativa (Maria Giovanna Mancini), ma vogliono inquadrare la questione anche dal punto di viste fotografico (Luca Sorbo) e teatrale (Salvatore Margiotta). Inoltre, per avere una visione d’insieme delle problematiche artistico-sociali poste in essere nel decennio in questione, i saggi redatti dagli storici dell’arte sono accompagnati da una serie di scritti preparati appositamente per il volume in oggetto da alcuni protagonisti della scena artistica campana degli anni Settanta: Franco Cipriano, Antonio Davide, Giuseppe Rescigno, Ernesto Jannini, Antonello Tagliafierro, Gabriele Marino e Livio Marino Atellano. Il volume non ha la pretesa di esaurire un dibattito complesso ed eterogeneo quale risulta essere la prassi e la metodologia artistica che, dalla fine degli anni Sessanta attraversa tutto il decennio successivo per esaurire la sua spinta propulsiva con l’avvento degli anni Ottanta; esso vuole, piuttosto, essere un momento di riflessione in grado di avviare nuovi stimoli e nuovi indirizzi di ricerca; un punto di partenza per ulteriori studi; una base dalla quale partire per la messa a punto di inedite rotte di indagine sul decennio oggetto di studio.


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Gli 'sconfinati' anni Settanta: qualche nota introduttiva Gaia Salvatori

La circostanza che ha spinto a proporre a Santa Maria Capua Vetere una giornata di studi, Arte in movimento. Gli anni Settanta in Campania in connessione con il convegno milanese Arte fuori dall’arte. Incontri e scambi fra arti visive e società negli anni Settanta, può essere colta come un duplice invito: alla messa a fuoco dei possibili fili che legano esperienze coeve in ambiti fra loro distanti, ma anche ad una rinnovata considerazione di qualche problema storiografico e metodologico sollecitato proprio dalla natura e dai luoghi di quelle esperienze artistiche difficilmente contenibili in ‘confini’ sia disciplinari che geografici. In ogni caso si tratta di fare i conti - seppur si parli di storia alquanto recente - con una memoria che non può essere concepita come un deposito di ricordi, ma che, in quanto problema del presente, possiamo cogliere in tutta la sua natura paradossale, riconoscibile nel «crescere della dimenticanza nell’epoca delle memorie espanse»1. Mi sembra significativo che tanto ci venga ricordato da Paolo Rosa (nel 2003 protagonista di un laboratorio con gli studenti proprio a Santa Maria Capua Vetere), storico esponente di un Laboratorio, poi Fabbrica della Comunicazione militante che, a metà degli anni Settanta a Milano, si era dedicato a studiare forme e tecniche della comunicazione di massa per imbastire, in alternativa, attività di «controinformazione»2. L’arte negli anni Sessanta-Settanta (come ribadiva Paolo Rosa) tendeva a confondersi con la comunicazione, all’alba di una vera e propria «rivoluzione comunicativa» vivendo una «definitiva incrinatura dei confini, in corrispondenza del potere acquisito dai media

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La critica d’arte in Campania negli anni Settanta: un decennio di militanza Maria Giovanna Mancini

Raccontare in brevi battute l’attività dei critici d’arte attivi sul territorio campano negli anni Settanta è compito assai complesso. Come accade ogniqualvolta si prova a raccontare un insieme magmatico, è necessario operare scelte ed esclusioni. Al di là della necessità, e del diritto alla cronaca rivendicato in alcuni casi dagli accadimenti, per provare a raccontare l’attività dei critici attivi negli svariati centri della regione si è scelto di guardare ai contatti, agli scambi e alla rilevanza dei discorsi locali e nazionali attraverso la lente della situazione napoletana. Il decennio degli anni Settanta si apre con l’eco della voce squillante di Lea Vergine che dalle pagine dell’almanacco Bompiani avverte della crisi deflagrata nel rapporto tra arte, artista e pubblico1. Quale sia il ruolo della critica all’alba del nuovo decennio che si apre subito dopo gli avvenimenti del Sessantotto nelle parole di Lea Vergine è assolutamente chiaro. Se l’arte ha lasciato ormai le rive rassicuranti di un rapporto ben normato tra oggetto, artefice e pubblico per assumersi il compito di essere partecipe della «lunga rivoluzione della vita quotidiana», il critico non può che prendere parte, ma non in maniera subordinata, a questo processo. Egli deve «accelerare il processo di deflagrazione dei 'sistemi'»2, secondo la posizione radicale espressa in quegli anni da Lea Vergine. La verve polemica3 della critica non si esaurirà affatto al volgere della stagione incendiaria degli anni Settanta: infatti, Lea Vergine, napoletana di origine, vigile e militante presenza nel panorama nazionale, condurrà un’instancabile attività di scrittura, pubblicando su quotidiani e periodici come attestano le corpose raccolte dei suoi articoli, che continua ancora oggi e che abbraccia le arti visive, il design e l’architettura. La riflessione

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Galleria Inesistente, Risveglio del Vesuvio, volantino diffuso prima dell’azione, 1969

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Lo strano caso della Galleria Inesistente Luciana Berti

La Galleria Inesistente è stato un collettivo di artisti che ha operato a Napoli dal 1969, composto da Vincent D’Arista, Bruno Barbati, Giannetto Bravi, Maria Palliggiano, Gianni Pisani, Errico Ruotolo. La sua storia travagliata, come è innato nella stessa natura della forma collettiva, mossa da improvvise folgorazioni, sia personali che corali, è stata finora oggetto di pochi studi. Un primo intervento è stato inserito nelle pagine di La contestazione dell’arte. La pratica artistica verso la vita in area campana. Da Giuseppe Desiato agli esordi dell’arte nel sociale, saggio di Stefano Taccone nel quale è stata proposta una ricognizione preliminare delle azioni realizzate dalla Galleria Inesistente. Particolare merito ha il testo di Italo Barbati, fratello di Bruno, scritto negli anni Ottanta ma inedito, che è, a oggi, fonte imprescindibile di notizie che altrimenti sarebbero cadute in oblio. Italo Barbati ha pazientemente raccolto stralci di giornali, appunti, ricordi personali e altrui, offrendo il prezioso materiale per la monografia La Galleria Inesistente. Pratiche artistiche di un gruppo anonimo tra gli anni Sessanta e Settanta, di cui sono l’autore. Il testo rappresenta uno dei tentativi di sistematizzazione e storicizzazione della produzione del gruppo e, proprio per questo, è forse il più riuscito tradimento dei presupposti dai quali ha preso avvio questa storia. Alla Galleria Inesistente si allude frequentemente in ambito storico-artistico di area campana, in particolare ogniqualvolta si torna a discutere delle ricerche d’avanguardia che hanno animato Napoli negli anni Sessanta e Settanta. Allusione, peraltro, sempre passeggera

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Claudio Massini, Fiori nelle mani, 1975-1976, azione urbana, sedi varie

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Vite ambulanti Stefano Taccone

Mediamente più giovani di circa dieci-quindici anni rispetto ai membri degli altri gruppi campani dell’arte nel sociale della seconda metà degli anni Settanta, provenienti da esperienze disparate ed avendo già ognuno più o meno alle spalle una sia pur breve attività condotta individualmente, verso la fine del 1974 Marta Alleonato, Carlo Fontana, Annamaria Iodice, Ernesto Jannini, Claudio Massini, Silvio Merlino, Roberto Vidali e Giuseppe Zevola. Questi giovani, essendosi incontrati nell’ambito della Cattedra di pittura dell’Accademia di Belle Arti di Napoli di cui è titolare Armando De Stefano, coadiuvato dal suo assistente Crescenzo del Vecchio, si riconoscono repentinamente su un terreno comune che prevede da una parte la fuoriuscita nello spazio urbano, onde instaurare, attraverso le loro azioni ed oggetti effimeri, un dialogo potenzialmente aperto a chiunque si trovi a passare, magari per caso, nei pressi del loro raggio d’azione, e indipendentemente dal suo livello culturale, e dall’altra la liberazione di una vena fantastica, fiabesca, visionaria, che attinge chiaramente all’immaginario di una tradizione popolare in bilico tra sacro e profano. Nasce così il gruppo degli Ambulanti, inizialmente denominato Humor Power Ambulante data l’associazione del più anziano Del Vecchio, già fondatore appunto dell’Humor Power. Se le loro attitudini si situano evidentemente in polemica con un fare artistico ancora imperniato sulla produzione e sulla esposizione di oggetti in spazi 'protetti', come lo studio e la galleria, con tutte le annesse implicazioni mercantili, essa si estende non di meno a tutte quelle operazioni di arte di propaganda che negli anni immediatamente precedenti sono tanto in voga nel mondo, in

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Riccardo Dalisi, Disegno|design di Capua, intervento urbano sulla facciata della Chiesa di Sant’Eligio, maggio-giugno 2011, foto di Bruno Cristillo.

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Riccardo Dalisi. Dall’architettura dell’imprevedibilità alle derive di una nuova civiltà delle macchine Giuseppe Coppola

I. SOLVE ET COAGULA Non uno spazio fisico, ma un testo: tra gli innumerevoli materiali visivi e letterari prodotti dai surrealisti, il luogo più famoso nel quale collocare gli oggetti per studiarne le relazioni è il tavolo operatorio sul quale si consumava l’incontro casuale tra un ombrello e una macchina da cucire descritto da Lautréamont, incontro erotico di un ombrello-fallo con un corpo-di-donnamacchina-da-cucire. Luogo in cui – secondo Breton e Max Ernst – si rendeva possibile la totale compenetrazione degli amanti e la loro conseguente trasmutazione chimica in un corpo androgino; luogo in cui, secondo Lino Gabellone1, il tavolo settorio rappresentava invece la minaccia occulta che circoscrive la perdita di identità psichica e la decostruzione dei corpi.1

Il ricongiungimento amoroso da un lato, la dispersione del corpo e la proliferazione delle identità soggettive dall’altro: sono questi i limiti estremi entro i quali si svolgeva la ricerca surrealista sull’oggetto e questi gli scenari che il surrealismo consegnava come testamento alla società post-industriale, che si trova oggi a fronteggiare una crisi epocale, a dover rivedere i rapporti tra produzione, distribuzione e consumo e a confrontarsi di nuovo con gli oggetti sul piano simbolico, misurandosi con gli spazi dell’abitazione, della città, di un testo che non è più soltanto storico o letterario, ma è il sistema globale della comunicazione e della circolazione delle immagini che accomuna il design, l’architettura, la moda, l’arte; che rischia di caratterizzarsi

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Appunti per una storia della fotografia a Napoli negli anni Settanta Luca Sorbo

I profondi mutamenti sociali che hanno luogo alla fine degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta determinano una profonda influenza sul mondo della comunicazione visiva e, in particolare, sulla fotografia. Fondamentali in questi anni sono le riflessioni di Ugo Mulas, che analizza le ambiguità del linguaggio fotografico con le sue famose verifiche. Nel 1973 scrive: «Sognata per lunghi anni dai suoi inventori come portatrice di verità e quindi come liberazione per l’uomo della responsabilità di rappresentazione della stessa, [la fotografia]in breve si trasforma nel suo contrario; proprio per la fiducia che chiunque ripone nella sua oggettività, nella sua meccanica imparzialità, la fotografia si presta a fare da supporto alle operazioni più ambigue»1. Comincia così a svilupparsi la consapevolezza della necessità di un nuovo linguaggio fotografico e di una nuova responsabilità del fotografo che deve assumersi la responsabilità di fornire una propria interpretazione della realtà. Il fotografo non è più solo testimone, ma diviene parte attiva e le sue immagini diventano uno strumento di lotta politica. Uliano Lucas2 sottolinea che con lo svilupparsi del dibattito politico nel ‘68 si forma una nuova generazione di giovani che vede nella fotografia uno strumento che può influenzare il mutamento sociale. Anche Mario Cresci indica che il fotografo è sempre responsabile della sua visione e non è mai uno spettatore neutro3. Profonda è anche l’influenza della Concerned Photography americana, in cui l’autore non è mai esterno alla scena ed esprime in modo evidente il suo punto di vista. Nel 1973 c’è anche la mostra Combattimento per un’immagine a cura di Daniela Palazzoli e Luigi Carluccio, allestita alla Galleria Civica di Torino, che indaga per la prima volta in Italia il complesso ed articolato rapporto

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I negri, da Jean Genet, regia di Gennaro Vitiello, 1969. Archivio Girosi 76 Arte in movimento


Il Nuovo Teatro a Napoli. Le cantine come modello di scrittura scenica Salvatore Margiotta

Nel contesto del Nuovo Teatro italiano1, il periodo compreso tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta si contraddistingue per la nascita e la proliferazione di nuovi spazi. Quello che verrà considerato come un vero e proprio “boom” dell’avanguardia teatrale – un’inchiesta di Sipario del ’73, emblematicamente intitolata Il boom teatrale di Roma, censirà trentuno spazi solo nella capitale – non è però solo questione di carattere quantitativo2. A partire dagli anni Settanta, il panorama del teatro di ricerca si presenterà infatti maggiormente strutturato, rispondendo ad un’organizzazione a cui verranno attribuite funzioni sempre più precise. I gruppi di recente formazione appaiono sempre più orientati verso una gestione complessa e consapevole degli spazi e la cantina diventa, allora, l’espressione di una vera e propria poetica teatrale, la scelta di una precisa strategia artistica. Rispetto al decennio precedente – durante il quale questi luoghi rappresentano principalmente «una maniera per opporsi al vecchio teatro»3, incarnazione del totale rifiuto della scena ufficiale, delle sue strutture organizzative e produttive, gerarchie artistiche e professionali – le ‘cantine’ cominciano invece ad affermare ora una peculiare specificità artistico-operativa. Spazio polivalente, laboratorio, luogo in cui si condensa la controcultura underground, la ‘cantina’ non è più solo 'il teatrino', la piccola sala, ma uno spazio che si reinventa a seconda delle esigenze drammaturgiche. Di conseguenza, è la stessa definizione di 'avanguardia' a venire profondamente trasformata: da strategia che intende infrangere qualunque norma, investendo tutti gli aspetti dell’esistenza, sembra diventare ora messa a punto di un moderno codice altro4.

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Disegno inedito di Crescenzo Del Vecchio, 1964

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Da Proposta a Proposta: ipotesi di intervento tra Napoli e Caserta Luca Palermo

Gli sviluppi di rinnovate metodologie di intervento artistico in Campania nei decenni Sessanta e Settanta partono da piattaforme di natura politica e arrivano ad investire problemi più strettamente connessi alla società, all’economia, alla scuola, alla cultura e alle attività espositive. Nonostante si ambisse ad un decentramento culturale capace di andare a riempiere quei vuoti che, inevitabilmente, si erano creati, questa situazione non fece altro che accentuare ancor di più le distanze tra centro, nel nostro caso Napoli, e periferia, Caserta e le altre province della regione. Per tale ragione, Terra di Lavoro, nel secondo Cinquantennio del Novecento, risulta essere l’ambito territoriale che, in Campania, più marcatamente mira alla conquista di una sua identità. Se nell’immediato dopoguerra alcuni tentativi di aggregazione artistica cercarono di dare nuove linfa ad una situazione artistica in stallo, è a partire dagli anni Sessanta che il contesto artistico e culturale casertano vive il suo periodo di massima effervescenza e vitalità guardando con grande attenzione e curiosità a quanto accadeva in ambito regionale, nazionale ed internazionale e stabilendo contatti continui e fruttuosi con altre realtà culturali. Napoli, inevitabilmente, diventò punto di riferimento per gli artisti casertani, ma allo stesso tempo modello cui guardare per andare oltre. Nel dicembre del 1966, in seguito ad un acceso dibattito avvenuto presso la galleria casertana il Braciere diretta da Vincenzo Carpine, Crescenzo Del Vecchio, Andrea Sparaco e Gabriele Marino, si fecero portavoce di quel movimento di rinnovamento che prenderà corpo intorno al Gruppo Proposta 66 Terra di Lavoro. In tale occasione Andrea

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Quei formidabili anni Settanta Gabriele Marino

«Per quei numerosi napoletani che trovano sibillini i nostri giochi per una politica dell’arte, per quei signori accademici critici e simili che hanno da sempre rinunciato ad interpretarli, ecco, a distanza di diversi lustri, una nuova smentita. Non è questo un incontro basato su accordi e/o contropartite né un tentativo di far quadrare i conti. Chi non è dentro questo manifesto-documento, nemmeno con tutto il tempo che ha avuto di ravvedersi, non c’entra niente. Assolutamente niente con le meravigliose storie dell’arte e della cultura della nostra città da dopoguerra ad oggi». Con queste parole fu presentata la mostra La scuola di Napoli, allestita, sul finire degli anni Settanta, più precisamente nel 1978, alla Galleria Numerosette d’arte attuale di Napoli. Tale incipit, congiuntamente a tantissime altre prose nel tipico stile di scrittura e di parlato di Luca (Luigi Castellano), caratterizzò il modus operandi che, tra anni Sessanta e il decennio successivo, fu tipico di un manipolo di artisti ed intellettuali di varie generazioni, dal Gruppo 58 al Gruppo Studio P.66, passando per Barisani, Colucci, Bonito Oliva, Bugli, Caruso, Diodato, Dentale e numerosi altri. Questo linguaggio di Luca, per molti astruso e, per i benpensanti, al limite del Dada, era il marchio di fabbrica di questo artista che sarebbe più opportuno definire agitatore culturale. Tanto nella sua scrittura, quanto nel suo parlato, Luigi Castellano poneva un’enfasi senza uguali nel capoluogo campano che, il più delle volte, appariva a noi artisti, sonnacchioso. Dei suoi proclami si riempivano le pareti dell’angusto studio di Via San Tommaso d’Aquino al ponte Tappia di Napoli. In questo luogo, ogni sera, quasi inevitabilmente, si intavolano dibattiti e discussioni al limite del litigio che, puntualmente, si stemperavano in interminabili riunioni in quella che qualcuno all’epoca definì la “Buca” di Luca. 121


Enzo Salomone e Gennaro Vitiello (a destra) foto di Giuseppe Farace

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Riflessioni sugli anni Settanta Ernesto Jannini

Per la mia formazione culturale ed umana gli anni Settanta sono stati fondamentali. Dal punto di vista artistico quegli anni furono caratterizzati dalla forte spinta ‘indipendentista’dei gruppi di ricerca e di singoli artisti, che dimostrarono piena autonomia operativa rispetto al mercato. È pur vero che la vita di quelle spinte generose fu breve, bruciata da un lato, dalle antitesi sorte al loro interno e, dall’altro, dalla debolezza di una politica che non permise alle energie nascenti di manifestarsi in pienezza e con il sostegno economico concreto che quella crescita pure richiedeva. Ancora oggi, per le mille e non giustificate ragioni che conosciamo, la politica fa fatica ad armonizzare la dimensione economica con i principi della carta costituzionale: sostenere, cioè, una ‘visione alta’in cui inserire il destino culturale ed artistico della nostra collettività. Va però riconosciuto agli enti locali di quegli anni il merito dell’abbrivio, di un primo impulso verso quel ‘decentramento culturale’che iniziò ad irrorare di nuova linfa culturale le periferie del nostro territorio nazionale. È altrettanto vero, però, che per sostenere la ricerca facevamo ricorso all’autofinanziamento. Lavoravamo con pochi soldi in tasca. Allora non c’era il ‘crowdfunding’. Negli anni Settanta, con alle spalle i frastuoni e le tensioni del sessantotto, cercavamo la strada per esprimerci e questa passava soprattutto, attraverso l’‘immersione nel sociale’. Inoltre bisognava ‘conoscere’ stando in mezzo alla gente: era questo il paradigma imperante.

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dell’opera nel tempo e nello spazio è un’opzione come un’altra. Le scelte artistiche e culturali sono sempre circostanziate, relativamente circostanziate, non rispondono a princìpi dogmatici ed assoluti. La ‘materia’ dell’arte, come si è visto, in particolare nella seconda metà del secolo breve, non è racchiudibile nell’univocità del concetto di sostanza durevole; non ci sono criteri universali e motivi sufficienti per sostenere tutto ciò. L’arte prodotta dagli Ambulanti era questa. Era ‘libera’ essenzialmente nelle sue incondizionate modalità operative. Certamente ciò che conta, in tutti i casi, anche nelle operazioni più noetiche-concettuali, è la qualità della tensione che si mette in campo, l’attenzione al linguaggio e, innanzitutto, la necessità spirituale che muove quell’azione. Il rischio del fallimento, della non riuscita, è sempre presente nel processo creativo, sia nelle poetiche sociali che in quelle più strettamente connesse all’espressione della poetica del singolo artista. E questo ha a che fare sempre con il processo creativo che si sviluppa grazie alla libera assunzione di un ‘limite’ spaziale, temporale, materiale o noetico. In fondo anche la musica, il teatro, una gara sportiva, hanno una durata stabilita, dopodiché non resta fisicamente nulla. Ciò che conta è l’esperienza, il suo portato. Il pluralismo delle modalità espressive non può che essere una conquista di libertà comunicativa di una cultura. I linguaggi artistici sono paradigmatici della complessa struttura della coscienza, che nel suo sviluppo alterna fasi apparentemente contrastanti.

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Anni Settanta Controversie sociali dell'arte Franco Cipriano

Se l’eccedenza è nella discontinuità del tempo storico come controversia 'critica' del presente (risuona l’arresto nel continuum del tempo che indica Walter Benjamin nelle tesi di filosofia della storia) gli anni Settanta ne rappresentano un problematico exemplum, tempo del crocevia degli esiti possibili/impossibili del destino dell’arte. Se l’idea di un passato come simulacro temporale è di uno storicismo di archiviazioni, l’azione critica 'rivoluzionaria' assume in sé l’opera rivelatrice ('apocalittica') del tempo-ora, nel balenìo del gesto 'decisivo' che spezza il tempo storico omogeneo. L’arte contemporanea negli anni Settanta è movimento di rivelazione della frammentazione sociale delle forme espressive che declina le sue estreme conseguenze nella destrutturazione delle coordinate del lavoro artistico, individuale e produttivo. Si frattura la coesistenza tra potere e cultura ed esplode, nel punto più 'avanzato' di critica dell’ideologia sociale, il conflitto tra lavoro artistico e sistema capitalistico. Nel contesto di produzione e di diffusione delle vicende dominanti dell’arte, l’artista è parte del dispositivo di consenso delle rappresentazioni del potere (Gimpel). Nel tempo della negazione e del contropotere, dell’incertezza del soggetto e insieme di una soggettività operaia che chiede nuova espressione (Tronti), l’artista cerca la via di un risarcimento sociale e politico della sua presenza. In uno stato di sospensione delle evolutive fenomenologie del divenire delle arti, il moto ‘di contestazione’ è un contraccolpo al senso stesso dell’operare artistico. L’avanguardia di per sé non appare in una dialettica negativa di rottura delle rappresentazioni del dominio culturale ‘borghese’. Il passaggio è a un ribaltamento di ruolo, di sottrazione dell’azione artistica alla gestione istituzionale e

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Sperimentazione didattica e operatività estetica nel sociale Giuseppe Rescigno

L’intima connessione tra la pratica sociale dell’arte e l’insegnamento è stata sottolineata spesso negli scritti di Enrico Crispolti. Il territorio dell’operatività estetica, secondo il critico, non è soltanto quello urbano ed extraurbano, ma comprende anche le istituzioni. Nella scuola, ad esempio, l’operatore culturale, superando la duplicità assurda fra insegnante ed operatore, può esprimervi un’attività socialmente produttiva con conseguenze non soltanto strettamente scolastiche, ma proprio inerenti la prospettiva di un presenza concreta nella scuola quale struttura culturale disponibile per il territorio sociale che direttamente lo riguarda. Il mio impegno, relativo ad attività sperimentali su temi ambientali nella scuola, ha inizio già prima della costituzione del Gruppo Salerno 75. I temi principali delle mie esperienze muovono dall’intento di una lettura dell’ambiente in chiave interdisciplinare collegata ad una progettualità tesa a ricercare punti di contatto tra la nozione scolasticamente intesa e la sua valenza creativa. Tale strategia si profila nel mio lavoro a partire dai primi anni di insegnamento in una scuola dell’agro nocerino-sarnese, ambiente in cui il precoce avviamento al lavoro nei campi dei ragazzi fa passare in secondo ordine il loro impegno scolastico. Siamo nel 1970, a San Marzano sul Sarno, patria dell’omonimo pomodoro, vero e proprio 'oro rosso' dell’economia di quel territorio. È la difficoltà di relazionarmi con quelle scolaresche su discipline a loro affatto congeniali, come la matematica e le scienze, a stimolare in me un approccio poco convenzionale per quell’insegnamento, trasferito in parte all’aperto alla ricerca di modalità propositive e spunti originali nei quali quei ragazzi potessero identificarsi. Gli inizi sono carichi

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che punteggiano le sperimentazioni (drammatizzazioni, composizioni grafiche e pittoriche, il manifesto nella ricerca sull’inquinamento, ecc.), ma anche dal modo - anch’esso puntuale e rigoroso - in cui è progressivamente documentata l’esperienza, sul piano grafico, fotografico, filmico: che è poi un modo per farla ripensare dai ragazzi stessi, per favorire in loro una presa di coscienza del processo seguito oltre che per conservare una efficace documentazione del 'prodotto' nelle sue fasi successive. Guardando il lavoro dall’esterno si rimane colpiti per quanto è poco 'scolastico', lontano cioè dal modo tradizionale di fare scuola, per la presa che offre sui fatti, sugli strumenti e le tecnologie, sulla realtà naturale e sociale, sugli interventi dell’uomo, sulle responsabilità politiche. Certo, questo potrebbe diventare normale lavoro didattico se gli insegnanti per primi, con i ragazzi, recuperano abilità organizzative e progettuali, fiducia nelle possibilità di conoscere ed intervenire sul reale, se la struttura della scuola diviene più flessibile negli spazi e nei tempi, se si stabilisce una continuità tra la scuola e l’ambiente circostante, che offre problemi (da affrontare) e risorse. Ed è fondamentale che gli insegnanti, spesso per necessità pendolari e culturalmente estranei all’ambiente in cui insegnano, capiscano invece la rilevanza e l’utilità educativa-sociale di conoscere tale ambiente nel suo spessore storicoculturale, anche per utilizzare (così come spesso risulta dal lavoro di Rescigno che è tornato ad insegnare nel suo paese), la capacità, le conoscenze intuitive e non riflesse, il patrimonio di conoscenze quotidiane di cui i ragazzi sono inconsapevoli portatori. Non si tratta di prendere queste ricerche didattiche come modello – peraltro di difficile imitazione per la indubbia maestria con cui sono condotte – e meno che mai riprodurle come tali: piuttosto, esse possono servire a indicare, al di là dei contenuti specifici che peraltro sono di largo interesse sociale, una metodologia didattica in senso lato e un atteggiamento generale nei confronti del lavoro didattico e delle sue possibilità educative (in senso forte) che ci sembra essenziale che si diffonda largamente tra tutti gli insegnanti che vogliono cambiare la scuola. * Schede di Enrico Crispolti e Clotilde Pontecorvo in G. RESCIGNO, Sperimentazione didattica e praticabilità sociale, Mercato S. Severino 1978..

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Il Gruppo Salerno’75 (Antonio Davide, Ugo Marano, Giuseppe Rescigno): Note per un’arte responsabile Antonio Davide

Già negli anni Settanta la società post-industriale evidenziava un divenire artificiale del contesto ambientale e un evidente perdita di contatto con il mondo naturale e si viveva ormai in una realtà che stava modificando la qualità delle nostre relazioni sensoriali. In questo senso, lo spazio urbano con i suoi luoghi e suoi segni ci sembrò allora, la scena più prossima e stimolante per il nostro lavoro. Esiste infatti, una qualità emotiva dello sguardo e dell’ascolto, così come una dimensione ancestrale del tatto e dell’odorato che l’arte può far riemergere per potenziare i sensi nell’esplorazione e nella riappropriazione dello spazio urbano e del territorio (vedi installazione / performance La Città suonata realizzata agli “Incontri di Martina Franca” nel 1978 da me e U. Marano). Alla base dei nostri progetti di ‘riappropriazione urbana’, vi era la convinzione di una ‘funzione’ dell’arte capace di disincagliare un diffuso e appiattito senso della percezione della realtà. Pensavamo al lavoro dell’arte come ad una pratica generatrice di flussi creativi che intercettano e destabilizzano le rappresentazioni dominanti, immettendosi nel sistema nervoso della società in una sorta di conflittualità permanente. Noi del Gruppo Salerno ‘75 avevamo la consapevolezza ‘politica’ del nostro lavoro, nel senso di un’arte che si fa politica nel suo farsi, nel suo articolarsi alla realtà urbana e territoriale. Convinti che l’arte, autonomamente dalla politica, produce un evento di riconfigurazione dei comportamenti e delle sensibilità collettive, che ‘l’atto politico’ si configura e si struttura nel creare le condizioni dell’evento creativo e che aggreghi una partecipazione plurale e diventi rivelatore di segni e visioni inedite e di possibili percorsi di ricerca e di sensibilità.

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Antonello Tagliafierro (a destra nella prima foto e a sinistra accosciato nella seconda) durante l'Intervento Napoli a Piedi con il Collettivo Lineacontinua, 11 giugno 1978

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Gli anni Settanta. Uno spettacolo partecipativo politico-poetico Antonello Tagliafierro

Sul finire degli anni Sessanta dalla Francia si diffonde rapidamente in tutta Europa una significativa protesta scaturita da una ormai rinnovata società prettamente consumistica che ha come scopo il modellare le nuove generazioni verso valori legati al danaro e ad una struttura completamente capitalistica. Un consumismo che esercita una forte pressione sul desiderio di potere, generando egoismi ed affievolendo il concetto di amore e di eguaglianza. Ne consegue che si va delineando un sistema burocratico oppressivo ed una mancanza di libertà. Le nuove generazioni iniziano a mettere in discussione i diversi aspetti del sociale fra quali il sistema del lavoro, il funzionamento della macchina scolastica, ponendo, tra le altre cose, un forte accento sulle discriminazioni razziali. Sono, questi, i temi ricorrenti che fermentano la contestazione. Questo fenomeno universalmente conosciuto come 'il sessantotto' coincide storicamente anche con la espansione delle culture pop e hippie, vere filosofie dell’amore e della libertà. In questo clima di forti agitazioni sociali e culturali, la mia generazione si andava formando ed io iniziavo ad abbracciare l’arte come forma espressiva e come strumento liberatorio, fermamente convinto che il lavoro artistico oltre ad essere uno strumento in grado di contribuire e/o modificare il corso della storia, sarebbe potuto diventare uno dei pochi veri tramiti per il raggiungimento di forme di libertà, diversità e bellezza: elementi, questi, indispensabili ad un sano sviluppo della società. Dai primi anni Settanta il dibattito artistico verte, appunto, sul ruolo che l’arte potrebbe e dovrebbe rivestire nella società. Siamo in pieno periodo di conquiste sociali: tra le altre, nel settantaquattro grazie alle

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Locandina/invito per l’incontro con Enrico Crispolti sul tema Impegno e Decentramento svoltosi presso l’Associazione culturale Lineacontinua il 30 marzo 1976

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Intervista a Livio Marino Luca Palermo

Sin dalla seconda metà gli anni Sessanta, Livio Marino si avvicina alle proposte artistiche del Gruppo Proposta 66 di Napoli, portando avanti una ricerca che si muoveva tra sperimentazioni neo-dada e esperienze affini alla pop-art. L’attenzione verso pratiche artistiche pregne di impegno sociale confluite prima nel Gruppo P. 66 Terra di Lavoro e, in un secondo momento, nel collettivo La Comune 2, porta Livio Marino, durante gli anni Settanta, a preferire all’oggetto artistico in quanto tale momenti performativi e happenings che riescano a coinvolgere il pubblico e a rendere l’artista un vero e proprio operatore culturale. Nel 1976 è tra i fondatori del collettivo Lineacontinua che, idealmente, porta avanti le sperimentazioni avviate con il Gruppo P. 66 Terra di Lavoro.

Gli anni Settanta in Terra di Lavoro. Cosa sono stati e come ci si relazionava con quanto accadeva, negli stessi anni, nel resto della Campania e in Italia? Già sul finire degli anni Sessanta entrai a far parte del Gruppo P. 66 Terra di Lavoro, diventato, in un secondo momento, Comune 2; tali esperienze per me furono bruscamente interrotte dal servizio militare che, allontanandomi dal territorio, non mi permise di prendere parte attiva a esperienze successive come, ad esempio, il gruppo Junk Culture che prese vita a Caserta nei primi anni Settanta. Al rientro dal servizio militare tentai immediatamente di riprendere il filo che si era interrotto qualche anno prima e lo feci frequentando assiduamente lo studio di Andrea Sparaco. Si avvertiva che qualcosa stava cambiando; ci si incontrava con altri artisti come Paolo Ventriglia, Carmine Posillipo, Giovanni Tariello, tutti afferenti alla Junk Culture; si cominciavano

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Un momento dell’operazione Ăˆ scoppiata la primavera, Liceo Artistico di Aversa, 21 marzo 1980

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Livio Marino durante l’operazione È scoppiata la primavera, Liceo Artistico di Aversa, 21 marzo 1980

La questione per me si pose più avanti negli anni; coincise quasi con il mio pensionamento da insegnante. Lavorando come docente nei licei artistici mi sono sempre considerato parte di un collettivo i cui membri erano, di volta in volta, gli alunni che formavano le mie classi. A loro ho sempre cercato di trasmettere l’utilità etica e sociale dell’arte e con loro ho progettato diverse operazioni estetiche e sociali. Con i miei alunni ho, dunque, continuato ad affrontare poeticamente questioni ed urgenze di natura socio-politica. Ricordo, ad esempio, l’operazione È scoppiata la primavera presso il Liceo Artistico di Aversa: si trattava di un intervento strutturato in più momenti: un fiume di fiori, fuoriuscito da un buco sul soffitto, invadeva i corridoi dell’edificio; io invitai tutti a togliersi la maschera dietro la quale ci si nascondeva per non affrontare i problemi; i miei studenti seminavano, nel cortile della scuola, fiori di plastica per la cui produzione si sfruttava il lavoro in nero dei giovani e si usavano colle dannose per la salute; infine, in un cortile adibito a parcheggio, ricoprimmo le auto con teli recanti fiori colorati. Le motivazioni erano da ricercare in alcune delle problematiche più urgenti del territorio: dalla pericolosità dell’edilizia scolastica allo sfruttamento legato al lavoro nero, passando per l’attenzione all’ambiente e all’ecologia.

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postmedia

UNI

L'exforma Arte, ideologia e scarto di Nicolas Bourriaud postmedia books 2016 108 pp. isbn 9788874901777

Artisti di carta Territori di confine tra arte e letteratura di Roberto Pinto postmedia books 2016 216 pp. isbn 9788874901722

Il pragmatismo nella Storia dell'Arte di Molly Nesbit postmedia books 2017 116 pp. 39 ill. isbn 9788874901791

Fallimento di Teresa MacrĂŹ postmedia books 2017 172 pp. 46 ill. isbn 9788874901845


Arte fuori dall’arte Incontri e scambi fra arti visive e società negli anni Settanta di AA.VV. postmedia books 2017 300 pp. 106 ill. isbn 9788874901982

Roberto Daolio Aggregati per differenze (1978-2010) di AA.VV. postmedia books 2017 216 pp. 17 ill. isbn 9788874901760

Infrasottile L'arte contemporanea ai limiti di Elio Grazioli postmedia books 2018 198 pp. 79 ill. isbn 9788874901999

Il museo come spazio critico Artista-Museo-Pubblico di Alessandro Demma postmedia books 2018 116 pp. isbn 9788874902026


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