SAVERIO VERINI
Roberto Fassone Quasi tutti i racconti
postmedia data
Roberto Fassone. Quasi tutti i racconti di Saverio Verini Š 2018 Postmedia Srl, Milano Copertina: Roberto Fassone, 0 0, 2016. Performance prodotta con il supporto di Straccetti & Rivoluzione e Fixer, Lecce. Foto Enrico Carpinello www.postmediabooks.it isbn 9788874902163
Roberto Fassone Quasi tutti i racconti Saverio Verini
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Un ramarro verde su un ramo marrone
Ho incontrato per la prima volta Roberto Fassone nel 2016, a Roma. Conoscevo già il suo nome – e alcune sue opere – da almeno un paio d’anni, tant’è che insieme alla curatrice Valentina Tanni decidemmo di invitarlo in occasione di Stop and Go1, mostra collettiva che presentava una serie di lavori realizzati a partire dall’utilizzo delle gif animate. Ed è stato nelle sale della mostra che è avvenuto l’incontro, proprio di fronte alla sua opera: una piccola proiezione che vedeva Fassone fluttuare a mezz’aria e senza soluzione di continuità nel corridoio di una casa, una levitazione surreale e vagamente inquietante – simile a una scena di un film horror, stemperata tuttavia da un abbigliamento, quello dell’artista, vicino al dress code dimesso di un universitario chiuso in casa per preparare un esame (anche se devo ammettere che l’accoppiata felpa-cappuccio mi ha sempre ricordato l’improbabile eroe protagonista del film Lo chiamavano Jeeg Robot)2. Magia, finzione, fisicità, un vago senso di ironia: Abra Cadabra, questo il titolo dell’opera, era un concentrato in bassa risoluzione della poetica di Fassone. Me ne resi conto solo più tardi, approfondendo il suo lavoro. Ricordo che allora a colpirmi fu soprattutto la “erre moscia” dell’artista, un rotacismo talmente accentuato da farmi chiedere se fosse vero e, soprattutto, come potesse fare performance – molte delle quali basate sull’uso della parola – con quell’apparente difetto.
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Ma andiamo con ordine. Di Roberto Fassone, nato a Savigliano (in provincia di Cuneo) nel 1986, si sa che “è un giocatore di basket, cresciuto nelle giovanili della Cierre Asti. A 18 anni disputa la sua prima stagione da senior nella Cascina Veneria; l’anno dopo gioca la migliore stagione della sua carriera, ricoprendo il ruolo di playmaker nelle fila del Basket Venaria, sempre in C2. Negli anni successivi veste la maglia della Monferrato Basket, Virtus Venezia, Fiamma Venezia e ritorna nella stagione 2014/2015 ad Asti, dove disputa la sua ultima stagione in serie D. Attualmente è free agent”3. Questo almeno è quello che emerge dalla sua biografia ufficiale: non un elenco di esposizioni in musei, riconoscimenti ottenuti e generiche frasi che tentino di delinearne la poetica, bensì il profilo di un giocatore di pallacanestro semiprofessionista. Già a partire da queste poche righe, di solito elaborate dagli stessi artisti con un approccio compilativo, si può capire la diversità di Fassone. Un desiderio spontaneo di non allinearsi e, insieme, di non prendersi troppo sul serio – e di non prendere troppo sul serio le convenzioni e i cliché cui il sistema dell’arte ci ha abituato. La biografia rivela anche un’altra ossessione, quella per il gioco. Gioco da intendere in senso letterale e talvolta fisico: nelle sue opere, Fassone ricorre spesso ad azioni ludiche, quando non addirittura sportivo-agonistiche (nella produzione dell’artista, in ordine sparso, si può assistere ad allenamenti di basket, gare di mimo, imitazioni in playback, tornei a eliminazione diretta per decretare nome e logo di una nuova galleria; e l’elenco potrebbe continuare a lungo). Questa disposizione al gioco, divenuta nel tempo una vera e propria strategia poetica, ha sempre accompagnato con grande
Abra Cadabra, 1 . IF animata, installation vie Roma. Foto Francesco asileo
presso smAR
polo per l’arte,
naturalezza Fassone; fin da quando, bambino, sottoponeva la propria baby-sitter – unica spettatrice di quelle estemporanee esibizioni – a dei miniconcerti in cui emulava le movenze, le pose e i tic di alcuni celebri frontman come Freddie Mercury, Prince o Bon Jovi4. In queste performance ante litteram si può rintracciare un’ulteriore costante nella produzione di Fassone: la capacità imitativa come strumento per avvicinarsi ai suoi miti e riferimenti. Fassone si nutre delle opere di altri artisti, se ne appropria, cerca di riprodurle e avvicinarsi ai meccanismi – materiali e concettuali – che ne hanno portato alla genesi.
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Syria è veramente una cantante di merda, 9. Performance installazione presso la Fondazione ervasutti, Venezia. Foto Riccardo anfi
Concettuale, troppo concettuale
Si potrebbe quasi dire che è tutta colpa di Yoko Ono. Nel 2009 Roberto Fassone, all’epoca studente del corso di Arti Visive allo IAUV di Venezia, si imbatté in Cleaning Piece III (contenuta nel libro Acorn, del 1996, prosecuzione della più nota raccolta Grapefruit, del 1964) che l’artista giapponese presentava alla 53a edizione della Biennale di Venezia1, occasione in cui venne peraltro insignita del Leone d’Oro alla carriera. Riferendosi a Grapefruit, Yoko Ono descrive così questa tipologia di lavori: “È una specie di istruzioni per l’uso, un piccolo manuale in cui davo indicazioni sotto forma di frasi che chiunque avrebbe potuto mettere in pratica per creare la propria opera d’arte. Ad esempio in una pagina scrivevo: guarda il sole fino a che non diventa quadrato. È un metodo per acquisire consapevolezza, per riuscire a visualizzare un’immagine”2. L’intervento, esposto ai Giardini della Biennale, aveva una configurazione molto semplice: una serie di fogli bianchi formato A4 allestiti a parete con frasi, brevi e immaginifiche, battute a macchina. Il minimo dell’impatto visivo, il massimo della carica concettuale. Un incontro folgorante per Fassone, che prese alla lettera l’invito di Yoko Ono contenuto in uno dei fogli: Prova a non dire niente di negativo su qualcuno. a) per tre giorni b) per quarantacinque giorni c) per tre mesi Vedi cosa succederà alla tua vita
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Fox with the Sound of Its Owl Shaking, 1 . Performance presso il Mart, Rovereto. Courtesy l’artista e FA A, Milano. Foto acopo Salvi
Con Fox with the Sound of Its Owl Shaking (altro gioco di parole: Box with the Sound of Its Own Making è infatti il titolo di un’opera di Robert Morris) Fassone sembra proseguire verso l’istituzione di un catalogo, rielaborato in forma personale, di opere particolarmente significative della produzione artistica contemporanea e legate tra loro da una comune tensione verso l’idea di gioco. La performance (proposta in vari contesti: nel 2016 al Mart di Rovereto; nel 2017 all’Archiginnasio di Bologna, in occasione di Arte Fiera, e a Palazzo Chigi di
Fox with the Sound of Its Owl Shaking, 1 . Performance presso Palazzo C igi, Ariccia, in occasione della fiera ranpalazzo. Foto Francesco asileo
Ariccia, nell’ambito della fiera Granpalazzo) è una raccolta di celebri opere d’arte che vengono analizzate, smontate e “agite” da Fassone. Nel raccontarle, l’artista ne offre delle descrizioni performative; la finalità sembra quella di possedere e penetrare le opere sia concettualmente che fisicamente, fino a incorporarle. Installazioni, sculture e video – oggetti con una loro “materialità” – si trasformano così in racconto e gesto; questo “scimmiottamento di opere” tornerà anche in altri lavori e testimonia l’importanza che Fassone attribuisce a
Una cosa divertente che vorrò fare ancora
Posso confermarlo: Fassone è davvero un giocatore di basket, e neanche male. Come ogni atleta che si rispetti, sa che lo sport è divertimento, sfogo liberatorio, ma anche disciplina e agonismo. In questo senso si può dire che Fassone affronti le sue performance come partite di basket. Mette in campo quella che il filosofo statunitense Bernard Suits definisce “lusory attitude” (l’essenza di chi si avvicina a un qualsiasi tipo di gioco): porsi o accettare delle regole e degli impedimenti nel “tentativo volontario di superare ostacoli inutili”1. Questo approccio ricorre in molte opere, che possono risultare di volta in volta ludiche, divertenti, ma anche permeate da una forte componente fisica, in alcuni casi addirittura agonistica. Ne è un esempio Ball Don’t Lie2 (esistono due versioni di questo video, una del 2015 e una del 2017), in cui l’artista chiama in causa il suo sport preferito, la pallacanestro (sfoggiando peraltro un invidiabile “mano”). Nel video, ambientato in un campo di basket all’aperto, l’artista, in tenuta sportiva, è impegnato in una sessione di tiri, mentre sullo schermo appaiono domande – ora esistenziali, ora ironiche – come “gli uomini metteranno mai piede su un altro pianeta?” o “esiste qualcosa dopo la morte?” o ancora “ci sarà una nuova stagione di Breaking Bad dopo la quinta?”. Se il tiro non centra il canestro la risposta alla domanda sarà negativa, se entra affermativa. La perentorietà dei quesiti stride con il carattere giocoso dell’azione, generando tensione e aspettativa nell’osservatore; in Ball Don’t Lie la palla da gioco diventa
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Charades, 1 . Installation vie , FA Foto Roberto Marossi
A, Milano. Courtesy FA
A, Milano.
Attraverso l’espediente di una gara di mimo, l’artista è riuscito a congegnare un gioco apparentemente innocuo, ma in realtà capace di trasmettere una tensione agonistica e dialettica che lega tutte le parti chiamate in causa (collezionisti, gallerista, artista), offrendo al tempo stesso una rappresentazione ironica (se non proprio sarcastica) del sistema dell’arte. Il ricorso alla mimesi è esplicito anche in Nothing Compares 2 Prince (2016), performance replicata in diversi contesti6 – forse il progetto che maggiormente assume i contorni dello spettacolo nella produzione di Fassone. Nothing Compares 2 Prince è un monologo scritto esclusivamente ricombinando estratti da testi di Prince: quarant’anni di canzoni che,
Nothing Compares 2 Prince, 1 . Performance prodotta da CROSS A ard in occasione dell’omonimo premio, Verbania. Foto Paolo Sacc i
Una di queste storie è vera (Collezione Giuseppe Iannaccone), Performance presso lo Studio Legale Iannaccone, Milano. Foto Riccardo anfi
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Raccontane un’altra!
Se, in un esercizio di sintesi forzata, dovessimo stabilire l’interesse ultimo dell’intera poetica di Roberto Fassone ci sarebbero pochi dubbi: raccontare storie. L’artista è affascinato dai racconti, si nutre di aneddoti che stimolano la sua curiosità (a prescindere dal fatto che siano reali o inventati) e che poi diventano a loro volta spunti per l’ideazione di opere in cui la componente narrativa e affabulatoria è preponderante. Una di queste storie è vera (2017) è probabilmente l’esempio più rappresentativo in questo senso. Proposta in due diverse occasioni (allo Studio Iannaccone di Milano nel 2017 e presso la Civitella Ranieri Foundation, in Umbria, nel 2018), la performance è una vera propria visita guidata tenuta da Fassone di fronte a gruppi di persone. Nello studio dell’avvocato Giuseppe Iannaccone, l’artista – in un ennesimo cambio d’identità – si finse un dipendente particolarmente appassionato di arti visive che, nel corso degli anni, era diventato uno dei responsabili della collezione di arte contemporanea presente nello studio. Vestito di tutto punto, di modo da rendere la situazione più credibile, accolse – presentandosi come Guido Baccelli – e successivamente guidò i visitatori in un tour attraverso sedici delle opere allestite negli uffici (da Paola Pivi ad Adrian Paci, da Marc Quinn a Kiki Smith). Con una particolarità: come anticipato in maniera piuttosto esplicita dal titolo, solo uno dei sedici aneddoti raccontati era completamente vero. Lo stesso spartito si è ripetuto anche nell’adattamento della performance presso la Civitella Ranieri Foundation, in un contesto ancor più fiabesco e carico di suggestioni (un castello immerso nel verde dell’Umbria, che da circa venticinque anni ospita un programma di residenze per artisti
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visivi, scrittori e compositori). Anche in Una di queste storie è vera altri artisti e altre opere d’arte (come accaduto in progetti come Fox with the Sound of Its Owl Shaking, The Importance of Being Context, Luce sempiterna della mente pura, Charades) diventano fonte d’ispirazione per Fassone, che si appropria del lavoro altrui in maniera solo apparentemente “parassitaria”, sfruttandolo come trampolino per dare un’ulteriore estensione a quelle stesse opere e, al tempo, per dar vita alla propria performance. Si potrebbe dire che, in generale, l’opera dell’artista è costituita proprio da quel “trampolino”, sul quale poggiano la sua peculiare capacità di osservare, far proprio ed estendere attraverso il racconto personale ciò che fanno altri autori, in un atto d’amore – insieme omaggiante e irriverente – per l’arte. In Una di queste storie è vera è centrale anche una questione di stringente attualità: la distinzione tra vero e falso e la loro diffusione1. Fassone si insinua negli spiragli tra queste due polarità, facendo scivolare il pubblico in una condizione di sottile ambiguità: qual è, tra le storie narrate, quella non inventata? Per tutta la durata della performance il pubblico è spinto a porsi questa domanda, rimanendo in bilico tra autenticità, falsità e verosimiglianza, mettendo così in discussione la credibilità dell’autorità – in questo caso la guida – che detiene il controllo della narrazione. Il crinale tra plausibile e improbabile che i partecipanti alla performance sono invitati a percorrere diventa un espediente per creare una situazione magica, paradossalmente alimentata dal fatto di sapere che solo una delle storie è vera; un incantesimo che non viene spezzato nemmeno al termine della visita, visto che l’unico episodio reale non viene rivelato. L’opera di Fassone
Una di queste storie è vera (Civitella Ranieri), 18. Performance presso la Civitella Ranieri Foundation, mbertide. Foto Marco iugliarelli
non intende ingannare il pubblico, ma rimettere al centro del discorso il potenziale magico dell’arte, il piacere di lasciarsi trasportare in una dimensione di stupore e sorpresa dove tutto può verificarsi2, allo stesso modo dello sciamano evocato da Italo Calvino che “alla precarietà dell’esistenza […] rispondeva annullando il peso del suo corpo, trasportandosi in volo in un altro mondo, in un altro livello di percezione, dove poteva trovare le forze per modificare la realtà”3.
Postfazione Pauli Accola Ci sono sedici barre di inchiostro Sono la linea di confine tra la crema e la merda Il mio rap e il vostro. Jake la Furia, Never Give Up, dall’album degli One Mic Sotto la cintura, 2005
Il bravo curatore di quella che lui stesso chiama piccola pubblicazione (ma che è in realtà un altissimo libello, come quelli di Sun Tzu o Bakunin), divide la propria trattazione in tre aree, che descriverebbero sinotticamente la produzione di Fassone. Come il mio più illustre (e giovane!) collega, procederò anch’io per trinità, non solo perché è questa una delle radici dell’Occidente – la trinità cristiana, certo, ma anche la più antica trinitas elementium – ma perché sembra attagliarsi bene al lavoro di Fassone, per cui il numero tre è allo stesso tempo ossessione e descrittore. E allora, in questo gioco di tre che si rincorrono, ecco le mie tre parole, da svolgersi, come il tema della scuola elementare, in una paginetta protocollata: “Artéma”, “hiphop”, “Bari”. In un noto intervento al festival di Pesaro, Pier Paolo Pasolini teorizzava l’esistenza del cinéma. Non già il cinema, che Pasolini amava e odiava in egual misura, ma il cinéma, con un dispettoso accento grave a far tutta la differenza del mondo. Il cinéma, pensava Pasolini, era per l’immagine in movimento quello che il fonema è per la lingua. La particella più piccola, l’unità minima,
Teresa Macrì
Pensiero discordante Postmedia Books 2018
La prima dissertazione concerne il pensiero. Che significa pensare in una società che esercita l'anestetizzazione e la propria dispersione? Chiunque pensa si dissocia, si allontana, anche senza operare, dissente e apre lo spazio al giudizio. Il pensiero è l'unica difesa contro la massificazione e il conformismo che sono le forme di imbarbarimento contemporaneo. Il riflesso è che il pensiero possiede in sé un effetto "distruttivo", tale da erodere alla radice tutti i criteri fissati, i fondamenti condivisi, i modelli del bene e del male, insomma tutte le consuetudini morali ed etiche. _ Teresa Macrì
In questa epoca di deriva, in cui buona parte del pianeta appare oppiato e ipnotizzato in una univoca visione del mondo, compiaciuta di se stessa e sublimata da reconditi meccanismi di produzione del consenso, è necessario fermarsi e ragionare sulle sollecitazioni e sulle visioni che si distaccano da essa. Il pensiero discordante è quel pensiero che si smarca dalle convenzioni e dai valori che regolano la piattezza culturale e contrattacca con il riposizionamento dell'essere pensante e con la decostruzione dell'ordine simbolico dominante. A ciò contribuiscono gli artisti e i pensatori con le loro utopie estetiche, i loro paradossi, le loro metafore, i loro sovvertimenti estetici e l'attitudine a fare e disfare i mondi. John Giorno, Francis Alÿs, Luca Vitone, Sislej Xhafa, John Cage e Luca Guadagnino, tra gli altri, delineano un orizzonte destabilizzante, che riorganizza un pensiero altro.
Ilaria Gianni
Domenico Mangano & Marieke van Rooy Postmedia Books 2018
Studiosa, ricercatrice e autrice lei; creativo, visionario, trasformista lui. Domenico Mangano e Marieke van Rooy si accorgono di condividere posizioni politiche su ciò che concerne il rapporto tra essere umano, comunità e sviluppo sociale. Soprattutto li accomuna una specifica curiosità verso le storie fuori dall'ordinario, verso quelle personalità radicali, spesso considerate outsider... Un artista e una ricercatrice mettono così sul tavolo immaginazione e pragmatismo, sperimentazione e ricerca, ognuno portando diverse prospettive, stimoli e contenuti all'altro. _ Ilaria Gianni
Mangano & Van Rooy scrivono la storia non detta, relegata ai margini degli archivi, spolverandone la forza e svelandone le potenzialità. Sviluppando nuove possibili narrazioni, liberano le molteplici posizioni che sono imprigionate nei limiti codificati dalla storia ufficiale. Insieme ne ripensano le variabili culturali, sociali, politiche, proponendoci visioni alternative composte dall'associazione tra fatti reali, memorie più intime e dettagli che si inscrivono in un nuovo immaginario percettivo. Lavorando con leggerezza e temperanza, immedesimandosi nel territorio, offrendo spazio al gioco e alla fantasia, Mangano & Van Rooy gettano le basi per la costruzione di un ponte ideale verso un mondo alternativo, eppure non distante da quello che viviamo. La pubblicazione ripercorre la complessità di The Dilution Project, primo lavoro firmato dal duo Mangano & Van Rooy, che esplora i movimenti socio-culturali che hanno contributo a rivoluzionare il pensiero attorno al tema della malattia mentale, riflettendo sul recente e graduale smantellamento dello stato sociale in Olanda.