Duchamp politique Pablo Echaurren
A mio fratello Gordon Matta-Clark, anarchitetto
Desidero ringraziare Raffaella Perna per il sostegno complessivo e la segnalazione della frase di Jannis Kounellis riportata nel testo. Inoltre, ricordo coloro i quali, nel tempo, hanno ascoltato e concretamente assecondato questa mia avventura: Gianfranco Baruchello, i Calarota (Roberta, Franco e Alessia), Antonio Castronuovo, Mary Ann Caws, Daniela Daniele, Giorgio de Finis, Stefano Dello Schiavo, Antoine Monnier, Francis M. Naumann, Kevin Repp, Gianni Romano, Angelandreina Rorro, Arturo Schwarz. Un grazie speciale a mia moglie Claudia, che ha letto, riletto e corretto piÚ e piÚ volte, come sempre. Le foto dell’azione su lavagna sono di Giorgio de Finis, Carolina Latour e della Fondazione Echaurren Salaris. Duchamp politique Pi E
1917: Che fare?
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Duchamp politico
Su Duchamp è stato scritto di tutto. Come su Dante. Ma c’è sempre spazio per nuove ricerche, per ulteriori intuizioni, per semplici illuminazioni che magari, alla verifica dei fatti, possono rivelarsi sterili ruminazioni. Duchamp è indubbiamente un “verminaio di glossatori” (così come Marinetti descriveva la Divina Commedia in ostaggio dei commentatori), un verminaio di glassatori, di grassatori. Di profittatori. Ma è anche un palinsesto su cui scrivere e riscrivere all’infinito (À l’Infinitif) senza pregiudicarne la superficie, senza mai graffiarla, intaccarla, o anche solo scalfirla. In definitiva, tutti giochiamo a scacchi con Marcel, ciascuno di noi portandosi appresso una propria scacchiera e un proprio schema variamente, diversamente, truccati. Da anni, tanti anni, prendo appunti, mi imbatto in curiose coincidenze, mi lascio catturare da incontri inaspettati, ravvicinati, inciampo in incredibili analogie. Finisco avviluppato in un gioco di specchi e di rimandi, di riferimenti. In questi piccoli smottamenti trovo pane per i miei denti, mi si aprono finestre su aspetti che non avevo considerato e che anche altri non avevano notato prima.
Mi piace qui metterli in fila senza un ordine particolarmente stringente, seguendo una deriva desiderante. Il Duchamp che mi affascina è innanzitutto il Duchamp politico (Du champ politique) e il Duchamp morale (mai moralista), il Duchamp che ha mescolato costantemente arte e vita, che ha dato alla propria esistenza uno stile ben preciso e in tutte le umane vicende ha assunto un comportamento di una sobrietà e di una linearità esemplari. Spettacolari in senso inverso, fragorosi per quanto sono stati silenziosi e poco vistosi. Due Duchamp non molto “imitati”, due Duchamp non molto seguiti dai suoi pur numerosissimi emuli ed esegeti, due Duchamp che pretendono un rigore difficile da rispettare, una via da seguire. Non aspettiamoci però da lui chissà quale inflessibilità o rigidità dogmatica, non è nella sua natura obbedire a un canone dato. Il suo fare è indissolubilmente legato alla sua vita, al suo carattere, flemmatico, irridente, semplice. Le proverbiali gentilezza e leggerezza di Duchamp non vanno disgiunte dalla nettezza e dalla radicalità del suo pensiero e dei suoi atti. Ne sono la chiave di lettura. Duchamp, malgrado la sua orgogliosa laicità, è un po’ come certi santi la cui vita, sebbene vissuta in costante “ritiro”, lontano dai richiami della vanità, nella cocciuta rinuncia dei beni materiali, finisce per diventare pubblica, per manifestarsi in tutta la sua potenza di attrazione e di esortazione collettiva verso una scelta cruciale. La ripulsa del peculio, il panegirico dell’assenza, la genuina mancanza di doppiezza, il disgusto per l’apparire e per qualsiasi commistione con gli strumenti del potere, lo rendono una figura difficilmente governabile – se non tradendone la lettera - all’interno della sfera di controllo in cui si imbastiscono gli interessi dell’arte contemporanea. Nelle interviste che ha rilasciato un posto di spicco spetta
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sempre alla presenza, all’ingerenza, del denaro nella società contemporanea, quasi un’ossessione, un punto fermo nella difesa della libertà dell’artista che, affrancatosi ormai dagli obblighi verso il papa o il sovrano, si ritrova ostaggio di un nuovo despota, il sistema economico. Quando penso a Duchamp penso all’artista defilato e affilato, rinchiuso nel suo studiolo, lontano dal fragore della querelle artistica, assorto nei suoi progetti come il San Girolamo di Antonello da Messina (la geometria, la cura dei dettagli, la simbologia ermetica e complessa). Lontano da inutili distrazioni mondane, affascinato dalle piccole cose, dalla realizzazione di oggetti contenenti dei messaggi crittati, intento a difendere la propria indipendenza, la propria qualità e il proprio sapere dalla marmaglia che avanza, dalla banca che incalza. Vedo un Duchamp ascetico, isolato, assorto nel creare un nuovo alfabeto, un intero linguaggio per iniziati, un antidogma. Possiamo dunque immaginarci un Duchamp in chiave medievaleggiante, goticheggiante, monacale? Il medioevo è l’era dei forti contrasti, del buio squarciato dalla luce, del fervore mistico e dei mercanti, del pauperismo e del capitalismo nascente, dello sviluppo di arti e mestieri e del denaro (“lo sterco del diavolo”, secondo San Basilio) che si insinua sempre più prepotentemente nelle attività umane condizionandole. A tale proposito Guy Debord afferma: L’accumulazione delle merci prodotte in serie per lo spazio astratto del mercato, che doveva infrangere tutte le barriere regionali e legali, e tutte le restrizioni corporative del Medioevo che preservavano la qualità della produzione artigianale, doveva allo stesso modo dissolvere l’autonomia e la qualità dei luoghi. (Guy Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini & Castoldi, 2017)
Diciamo che nel medioevo l’economia comincia ad affilare i propri artigli e si va delineando quello spartiacque tra la borsa e la vita. Partiamo dalle parole che Charles Péguy nel 1914 rivolgeva al lavoro di sua madre come impagliatrice di sedie: Ho veduto, durante la mia infanzia, impagliare seggiole con lo stesso identico spirito, e col medesimo cuore, con i quali quel popolo aveva scolpito le proprie cattedrali. (…) Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. (Charles Péguy, Il denaro, Roma, Edizioni lavoro, 1990).
A parte la singolarità e la coincidenza del tema della gamba ben fatta (bien faite) che si ritrova nei piedi della macinatrice di cioccolata (Broyeuse de Chocolat, 1914. Notare le date) che Duchamp volle disegnare accuratamente specificando che era in stile Louis XV, in contrasto con la rappresentazione tecnica e meccanica del soggetto, è l’intera opera di Duchamp a discendere da questo attaccamento al lavoro nel senso più umile e nobile del termine. Sulla falsariga del pensiero di Péguy secondo cui il travail désintéressé è in qualche modo un travail supérieur e il lavoro manuale non va separato dal lavoro intellettuale (le due cose si compenetrano e si completano) secondo un’istanza tipicamente “socialista”, Marcel Duchamp
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manifesta un approccio al lavoro artistico basato sulle categorie di perseveranza, abnegazione, semplicità, abilità, intensità, precisione. E indifferenza a qualunque tipo di riscontro o di altrui ricompensa, riscontro e ricompensa che trova immediatamente nel “fare”, nel “fare bene”. Il progetto, il concetto, si risolvono perfettamente in questo lavorare con passione, con attenzione, nel risolvere un problema dato. Ma le motivazioni che inducono a trovare soddisfazione nella propria attività sono vanificate dalla concorrenza e dalla competitività tipiche degli imperativi dello sviluppo industriale, come evidenzia Richard Sennet (L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 2012). C’è nell’autore del Grande Vetro un atteggiamento partecipe e al tempo stesso disinteressato, rigoroso e giocoso, impegnato e distaccato. Distaccato tanto dal guadagno quanto dal riconoscimento pubblico. Concentrato sul dovere portare a termine un compito che si è dato, un disegno tanto materiale quanto spirituale (concettuale, assoluto) a prescindere dagli esiti, senza un traguardo da raggiungere se non l’esecuzione stessa del lavoro, la sua realizzazione secondo uno schema in cui attenzione artigianale (esplorare tecniche e materiali inconsueti) e mentale si fondono annullando quella distanza rilevata da Marx tra ape e architetto. In Duchamp le due verità coincidono, lui è l’architetto del proprio alveare. E stranamente la Sposa, la Mariée, è anch’essa un imenottero, una vespa, una vespa regina. Duchamp dice a Francis Robert nel 1963 che il readymade “non fu l’opera di un artista, ma di un non-artista, di un artigiano, se preferite”. Infatti, il ready-made risolve egregiamente l’eterna questione dell’unicità dell’opera d’arte. Ogni copia d’un ready-made (realizzata anche da altri nel rispetto dell’originale) non aggiunge e non toglie niente al modello originario, così come una sedia ben costruita, ben impagliata, “ben fatta”.
Ma, inaspettatamente, c’è da segnalare un’uscita di Jannis Kounellis secondo il quale “Duchamp senza la fase medievale del suo pensiero, i poemi epici cavallereschi, non sarebbe veramente stato Duchamp” (intervista di Willoughby Sharp, in “Avalanche” n. 5, 1972). Probabilmente Kounellis si riferisce a una lettura del Grande Vetro, delle figure del Re e della Regina, su cui si estende l’ombra lunga di una tradizione fatta di duelli, di feste della virilità, di pulzelle corteggiate, di guerre non guerreggiate, di conquista dell’oggetto del desiderio sulla falsariga delle gesta della Tavola Rotonda. Negli scapoli e nella sposa si avverte prepotente la suggestione del torneo, della giostra in nome di una servitù d’amore verso la dama, dell’amor cortese. L’arte come mezzo e non come fine. L’arte come costruzione di un linguaggio, come congegno per esprimere un concetto e smontare le certezze, proprie ed altrui, non come un piedistallo su cui innalzare e gratificare il proprio ego. Per tutta la vita Duchamp ha cercato di evitare la celebrità con la medesima determinazione con cui gli altri solitamente la inseguono. Da contemporaneo di giganti del segno quali Picasso, Dalí, Giacometti, egli si mantiene sobrio, impassibile, non curante della spinta a rincorrere la fama che i tempi sembrano assecondare. Insensibile alla frenesia da cavalletto che si era impossessata del mondo occidentale, si è servito dell’arte ed è stato al tempo stesso al suo servizio, freddamente, cerebralmente, un ingegnere dilettante alle prese con i calcoli di una scienza immaginaria e arbitraria, lontano dalla retorica dell’artista ispirato e posseduto dal sacro fuoco. Con dedizione, con esattezza, con misura, senza montarsi la testa, tenendo sempre sotto controllo la tentazione a strafare, a tirar via, a ripetersi per compiacere il pubblico e i commercianti.
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In questa attitudine a frenare le spinte imprenditoriali e autopromozionali che contraddistinguono la figura dell’artista “professionista” si ritrova molto della premura artigianale, del mondo pre-industriale, della fascinazione medievista di William Morris, della cultura ancestrale che si oppone all’obsolescenza programmata e al consumismo in generale. Se è dunque vero che anche Duchamp lavorò ai suoi progetti e alle loro realizzazioni con la stessa cura con cui i suoi antenati innalzarono le cattedrali, è altrettanto vero che è proprio nelle cattedrali di Francia che fece l’ingresso un nuovo elemento: il vetro. In quelle cattedrali, infatti, l’abate Suger fece entrare la luce (intesa come manifestazione del divino) attraverso le grandi vetrate policrome che avevano il compito di annullare la pesantezza della pietra, introdurre lo splendore della creazione e mettere in contatto diretto l’esterno con l’interno, l’alto con il basso, l’uomo con Dio. Le grandi vetrate di Suger de Saint-Denis e il Grande Vetro trovano così un collegamento, un legame non troppo peregrino: il vetro come sublime strumento per oltrepassare i limiti dell’esperienza, la trasparenza come veicolo della trascendenza. La trasparenza come supporto (dell’) immateriale. L’attraversamento della superficie come forma di superamento di uno stadio umano, troppo umano, verso una quarta dimensione (o verso la religione). Spinto da questa piccola intuizione scopro proprio nella Sainte-Chapelle un possibile indizio dell’attrazione che l’uso del vetro ebbe in Duchamp, anche se poi non ne trovo conferma in alcuno suo scritto o dichiarazione. Resta comunque un indizio (oggettivo, soggettivo?): quale sorpresa, quale sbigottimento nell’imbattermi casualmente nel primo dei 44 quadrilobi dipinti realizzati su pasta vitrea incrostata d’argento e rame! Sembra di vedere la
Uno dei quarantaquattro quadrilobi della Sainte-Chapelle di Parigi, realizzati su pasta vitrea incrostata d’argento e rame nel secolo XIII. 10 Duchamp Politique
macinatrice di cioccolata, la slitta, il mulino ad acqua, una macchina duchampiana interpretata da un artista del XIII secolo. Si tratta dei Tre aguzzini che martirizzano un santo ad una ruota, una ruota che certo non è quella di bicicletta ma ugualmente evoca quell’immaginario meccanico leonardesco che Duchamp ha messo al centro della sua ricerca su un’arte secca, priva di quell’ebrezza all’acqua ragia che rifuggiva come la peste. Ecco dunque che la Sainte-Chapelle si trasfigura, in questa nuova inaspettata visione, in un sorprendente antecedente, in un motivo di profonda suggestione per l’elaborazione dei lavori su vetro. Ovviamente la rappresentazione, il materiale, lo stile medievale, non possono non far pensare alla tecnica adottata per gli stampi maschi (Neuf Moules Mâlic, 19131915), per la slitta (Glissière contenant un moulin à eau- en métaux voisins, 1913-1915) e soprattutto per il Grande Vetro (La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, 1915-1923). Non sappiamo se effettivamente Duchamp was here, non sappiamo se sia stato folgorato proprio qui davanti alle grandi vetrate istoriate, se si sia ispirato a questo ciclo sacro, ma qualcosa è comunque filtrato e s’è insinuato nella pratica artigiana con cui Duchamp intendeva risolvere il proprio bisogno di superare la pittura e accedere ad un livello ulteriore di rappresentazione. Una sorta di visione “gotica” privata del grasso della fede. Una versione ottica precisa, asciutta, senza opulenza, una proiezione mentale applicata a quella spirituale della vetrata gotica (anche gli studi ipnotici di Optiques de précision furono realizzati su lastre di vetro). Ma questo azzardato legame con la cattedrale trova una gioiosa, giocosa conferma nella Tonsure (1919), la foto che lo ritrae con una rasatura occipitale a forma di stella
cometa (vedremo più avanti come la cometa entri nella sua poetica). E la tonsura allude anche a quella visione claustrale della sussistenza che Duchamp applica a se stesso imponendosi quasi una regola, una disciplina interiore ed esteriore (il silenzio, la modestia, la parsimonia, la fuga da ogni bega terrena e da ogni implicazione mercantile). E “la regola” non si limita a questo, finisce per abbracciare tutto il lavoro amanuense da dilettante e bricoleur d’eccezione (il Nudo che scende le scale in scala, in formato “casa di bambola”, per la Stettheimer dollhouse), la puntigliosa meticolosità con cui riproduce i lacerti cartacei della Boîte vert o le piccole copie della Boîte en-valise, la cura certosina con cui allestisce una per una le sue scatole, gli scacchi e le scacchiere che si costruisce personalmente, le sculture da viaggio ricavate da cuffie da bagno di gomma tagliate a striscioline da tendere ai lati della stanza, i giochetti con le presine da cucina, tutto sembra evocare una felice, intima, entomologica, fase benedettina fatta di contemplazione e lavoro manuale, di ora et labora, secondo un’estetica e una pratica da Bricol’âge d’or. Tutto quello che ho fatto mi ha sempre richiesto una grande precisione e un tempo assai lungo (…) il mio modo di lavorare era lento , esigeva un’estrema cura (…) Ah, sì. Io sono decisamente per il lavoro manuale. Spesso riparo cose (…) mi diverte molto fare qualcosa con le mani, a patto che non si tratti di lavori artistici. (Marcel Duchamp, Ingegnere del tempo perduto. Conversazione con Pierre Cabanne, Milano, Abscondita, 2009).
Gli stessi ready-made, via via che traslocava e cambiava studio, venivano ricomprati dal ferramenta o al mercatino più vicino e ricollocati nel nuovo spazio per addobbare e personalizzare l’ambiente (di solito scarno e povero
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di mobili e accessori) come un Uccello Giardiniere (Ptilonorhynchus) che adorna il proprio nido con chincaglierie e altri oggetti curiosi trovati qua e là senza stare troppo a teorizzare. I suoi domicili, così intimamente legati alla sua persona, sono concepiti per sottrazione, l’esatto contrario del Vittoriale di d’Annunzio, anche se il binomio arte-vita sembra essere il tratto distintivo sia di Duchamp che del Vate, tanto uno è antiestetico e minimale quanto l’altro è immaginifico e ridondante. Duchamp è un Des Esseintes a rovescio. Fissava l’attaccapanni al pavimento e sospendeva in aria l’orinatoio, la pala da neve e il porta cappelli, così da ingenerare una sorta di spaesamento, di sottosopra percettivo, di confusione tra alto e basso, destra e sinistra, mobilio e delirio. Era un vero arredatore di alloggi precari con le comodità ridotte all’osso (la porta a doppio uso di rue Larrey 11, la carta da parati realizzata con carta assorbente rosa e vellutata per le pareti di rue Boussingault 45, il tendaggio esterno a Cadaqués). C’è un bisogno in Duchamp di lavorare con le mani a cose di poco conto, non particolarmente e socialmente rilevanti, come accade nell’hobbistica. E si sa che coltivare un hobby serve a curare omeopaticamente le proprie nevrosi inseguendo altre e diverse nevrosi, curare il proprio male oscuro con mali più evidenti e palesi, meno oscuri insomma, è un modo efficace per tenere a bada le ansie. L’hobby serve a compensare l’alienazione in cui è precipitato il lavoro che ci viene inflitto quotidianamente, ma se il lavoro è creativo allora il discorso si sposta sul rifiuto della propria stessa creatività sentita come fuorviata, alienata. Alienata dalle condizioni in cui ci si trova a praticarla: la società borghese, la competizione, l’economia di mercato, per esempio.
Diversi momenti dell’azione alla lavagna ”Llaboté Danlaru et moi“, tenuta da Pablo Echaurren al MACRO di Roma il 3 ottobre 2018. Trascrizione sintetica di una serie di note, provocazioni, intuizioni, pensieri elaborati su Marcel Duchamp nell’arco di oltre quarant’anni.
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Finito di stampare nel mese di febbraio 2019 in 363 copie presso Ebod, Fano tutti i diritti riservati / all rights reserved Ăˆ vietata la riproduzione non autorizzata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia o qualsiasi forma di archiviazione digitale. All rights reserved. No part of this book may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic or mechanical, without permission in writing from the Publisher or the Artist.