Il ritorno del reale L’avanguardia alla fine del Novecento
Hal Foster
postmedia books
Introduzione
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ha paura della neoavanguardia?
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2. L'importanza del minimalismo Ricezione: “Mi oppongo all'idea di riduzione” Discorso: “Non c'è modo di incorniciarlo” Genealogie: “Mettercela tutta” La mini-serie-pop: “Un chiacchericcio schizofrenico”
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3. La passione del segno Arte autonoma e cultura testuale Segni indicali e impulsi allegorici Procedure allegoriche e segni-merce
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1. Chi
Teoria dell'avanguardia I Teoria dell'avanguardia II Resistenza e ripresa Azione differita
4. L’arte della ragione cinica 105 Pittura di simulazione Scultura come merce Critica e complicità 5. Il ritorno del reale 133 Realismo traumatico Illusionismo traumatico Il ritorno del reale L’artificio dell'abiezione 6. L’artista come etnografo 175 La cultura politica dell'alterità Arte e teoria nell'era degli studi antropologici Il luogo dell'arte contemporanea Memoria disciplinare e distanza critica 7. Cos'è successo al postmoderno? 211 Le vicissitudini del soggetto Visioni dell'altro Fantasie tecnologiche Questioni di distanza Postfazione 239 di Emanuela De Cecco Indice dei nomi 247
Robert Morris
Introduzione
Una volta ero con un amico davanti a un’opera composta da quattro lunghe travi di legno disposte all’interno di un grande rettangolo. Uno specchio ad ogni angolo rendeva possibile la visione del resto dell’installazione. Con il mio amico, artista concettuale, discutevamo della radice minimalista dell'opera: l’accoglienza da parte dei critici di allora, la rielaborazione da parte di altri artisti in seguito, il significato per quelli di oggi, tutti temi che sono affrontati in questo libro. Impegnati nella conversazione, non avevamo notato la figlia dell’artista che giocava sulle travi. Ma, su segnalazione della madre, alzammo lo sguardo e la vedemmo attraversare il vetro. In quella sala degli specchi, la mise-en-abîme delle travi, la bambina si allontanava sempre di più e, man mano che svaniva nello spazio, svaniva anche nel tempo. Invece, all’improvviso, eccola alle nostre spalle: non aveva fatto altro che saltellare lungo le travi in giro per la stanza. Ecco che un critico e un famoso artista della scena contemporanea ricevevano una vera e propria lezione da una bimba di sei anni; la nostra teoria surclassata dalla sua pratica. Il fatto che lei giocasse con l’opera metteva in luce non solo aspetti specifici della produzione minimalista (le tensioni tra gli spazi che percepiamo, le immagini che vediamo, le forme che conosciamo), ma anche determinati cambiamenti nell’arte degli ultimi trent’anni: nuove strategie di intervento sullo spazio, costruzioni diverse della visione, definizioni allargate del concetto stesso di arte. La sua performance diveniva al tempo stesso allegorica, dal momento che descriveva una figura paradossale nello spazio, un recesso che è anche ritorno, a mio avviso paragonabile alla figura paradossale nel tempo descritta dalle avanguardie. Anche quando l’avanguardia si perde nel passato, ritorna sempre dal futuro, e viene rimessa in prospettiva dall’arte del presente. Questa bizzarra temporalità, perduta nelle storie dell’arte del ventesimo secolo, è tra i principali temi di questo libro. 7
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Parziale nei miei interessi (taccio volutamente su molti fatti) e provinciale con gli esempi (rimango pur sempre un critico radicato a New York), questo libro non vuole essere una storia: punta l’obiettivo su diversi modelli di arte e teoria, limitandosi agli ultimi decenni. D’altro canto, non celebra neanche il falso pluralismo del museo, del mercato e dell’accademia post-storici, per i quali va bene tutto (purché siano le forme accettate a predominare). Al contrario, insiste nell’affermare l’effettiva esistenza di specifiche genealogie di arte e teoria che sono risultate innovative nell’arco del periodo considerato, e va a rintracciarle attraverso trasformazioni significative. Fondamentale è il rapporto tra le svolte nei modelli critici e i ritorni di pratiche artistiche storiche (trattato nel capitolo 1): come può il riconnettersi a pratiche del passato favorire il disconnettersi da una pratica del presente, e/o la nascita di una nuova pratica? Non c'è domanda più importante per la neoavanguardia studiata in questo libro (ossia, l’arte successiva al 1960) che riscopre espedienti delle avanguardie storiche (ad esempio, l’analisi costruttivista dell’oggetto, la revisione del funzionamento dell’immagine tramite il fotomontaggio, la critica dei modelli espositivi tramite il readymade) inserendoli in un contesto contemporaneo. Quella dei ritorni storici è una vecchia questione nella storia dell’arte; anzi, sotto forma di rinascimento dell’antichità classica, ne è uno dei fondamenti. Gli hegeliani, fondatori della disciplina accademica, decisi a far confluire culture diverse in un’unica grande storia, rappresentavano tali ritorni come stadi di una dialettica che segnasse i progressi dell’arte occidentale e fornirono immagini appropriate per spiegarne il funzionamento. Alois Riegl, ad esempio, diceva che l’arte avanzava come una vite che gira, mentre Heinrich Wölfflin propose l’immagine della spirale1. Nonostante le apparenze, questa concezione dialettica non venne rifiutata dal modernismo; almeno nell’ambito formalista anglo-americano fu portata avanti con altri mezzi. “Il modernismo non ha significato nient’altro che la frattura col passato”, scriveva Clement Greenberg nel 1961, agli albori del periodo che mi interessa studiare; e nel 1965 Michael Fried aggiungeva: “La dialettica del modernismo è in corso, nell’ambito delle arti visive, ormai da oltre un secolo”2. A dire il vero, questi critici sottolineavano l’essenza categorica dell’arte visiva in senso kantiano, ma lo facevano per preservarne la vicenda storica in senso hegeliano. L’arte era invitata a starsene al suo posto, nella propria “area di competenza”, in maniera da poter sopravvivere o addirittura prosperare nel tempo, “mantenendo i livelli di eccellenza del passato”3. Il modernismo formale era, dunque, sezionato
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lungo un asse temporale, diacronico o verticale; sotto questo aspetto forniva un modernismo d’avanguardia che dichiarava “la frattura col passato” e (preoccupato di estendere l’area di competenza dell’arte) promuoveva lo sviluppo lungo un asse spaziale, sincronico oppure orizzontale. Un grande merito della neoavanguardia sottolineato nel libro è di aver mantenuto questi due assi in equilibrio critico. Essa si è sviluppata a partire dai suoi ambiziosi precedenti, come la pittura e la scultura tardo-moderniste, gradite ai critici formalisti, sostenendo così l’asse verticale, ovvero la dimensione storica dell’arte. Allo stesso tempo si è rivolta ai modelli del passato per aprire nuove possibilità nel presente, rinforzando così anche l’asse orizzontale, ossia la dimensione sociale dell’arte. Oggi l’obiettivo di molte ambiziose pratiche è diverso. A volte l’asse verticale è abbandonato a favore di quello orizzontale, spesso l’equilibrio tra i due sembra interrotto. In un certo senso questo problema può addirittura nascere dalla stessa neovanguardia, nel suo passaggio da un criterio disciplinare di qualità (in relazione agli standard del passato), ad un avanguardistico valore di interesse che si ottiene mettendo alla prova i limiti culturali del presente. Tale passaggio (discusso nel capitolo 2) comporta infatti uno spostamento parziale da forme intrinseche all'arte a problemi speculativi sull’arte. Eppure la prima neoavanguardia non è bastata ad intaccare questo cambiamento riconosciuto da “una successione storica di tecniche e stili” ad “una simultaneità degli opposti”4. Soltanto con la svolta etnografica nell’arte e nella teoria contemporanea (come sostengo nel capitolo 6) avviene un passaggio degno di nota da elaborazioni legate al mezzo utilizzato a progetti legati inequivocabilmente al discorso5. Questa espansione orizzontale è spesso accolta con favore, perché riporta l’arte e la teoria in luoghi e fasce di pubblico a lungo rimaste escluse, sviluppando inoltre altri assi verticali, altre dimensioni storiche, per il lavoro creativo. Ciononostante, essa non manca di suscitare interrogativi. Innanzitutto vi è una questione di valore inserita nei canoni dell’arte del Novecento. Questo valore non è stabilito: c’è sempre un’invenzione formale da riposizionare, un significato sociale da rivalutare, un capitale culturale da reinvestire. Rinunciare a questo valore sarebbe un grosso sbaglio, sia dal punto di vista estetico che strategico. In secondo luogo, c’è la questione dell’expertise, che sarebbe un errore etichettare come elitaria. Sotto questo aspetto, l’espansione orizzontale dell’arte ha rappresentato una grande difficoltà per artisti e pubblico: passando di progetto in progetto, è necessario
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capire l’ampiezza speculativa di diverse rappresentazioni, oltre che la profondità storica, nello stesso modo in cui un antropologo affronta una nuova cultura ad ogni nuova mostra. Ciò è assai difficile (anche per quei critici che non fanno altro), e tale difficoltà può compromettere il consenso attorno alla necessità dell’arte stessa, per non parlare del dibattito sui criteri dell’arte come vettore di significati. Quando diverse correnti di pensiero fanno a gara a chi urla di più o precipitano nel silenzio, allo stesso modo dei reazionari ignoranti possono appropriarsi del dibattito pubblico sull’arte contemporanea, cosa che hanno fatto allo scopo di condannarla. Uno degli obiettivi principali di questo libro, dunque, è il coordinamento dei due assi (sia in ambito artistico che in quello teorico): diacronico (o storico) e sincronico (o sociale). Da questa intenzione nascono le due nozioni fondamentali che ispirano le storie da me raccontate (in particolare nei capitoli 1 e 7). La prima è quella di parallasse, che implica l’apparente spostamento di un oggetto provocato in realtà dal movimento dell’osservatore. Questa immagine csottolinea sia che le categorie in cui racchiudiamo il passato dipendono dalle nostre posizioni nel presente, sia che queste ultime sono definite proprio dalle stesse categorie. Inoltre, sposta i termini di simili definizioni da una logica di trasgressione avanguardista a un modello di (dis)locazione decostruttivista, che si addice assai di più alla pratica contemporanea (laddove è evidente la svolta da “testo” interstiziale a “contesto istituzionale”). La riflessività dello spettatore nell'opera, inscritta nel concetto stesso di parallasse, è presente anche nella seconda nozione fondamentale di cui tratta questo libro: l’azione differita. Per Freud un evento è considerato traumatico solo alla luce di un evento successivo che lo reinterpreta retroattivamente, in un’azione postuma. Qui avanzo l’ipotesi che il vero significato degli eventi d’avanguardia venga prodotto in maniera analoga, attraverso una complessa rete di anticipazioni e ricostruzioni. Nell'insieme, dunque, le nozioni di parallasse e di azione differita rinnovano i luoghi comuni della neoavanguardia (come semplice riproposizione delle avanguardie storiche) e del postmoderno (considerato unicamente in relazione al moderno). Così facendo, mi auguro che aggiungano significato anche alle nostre teorie sui cambiamenti estetici e sulle scissioni storiche. Infine, se questo modello di retroazione può offrire una resistenza simbolica a quel processo di inversione tanto diffuso nella cultura e nella politica di oggi (mi riferisco alla cancellazione reazionaria delle progressive trasformazioni del secolo) tanto di guadagnato6.
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Questo libro ripercorre la nascita di alcune tendenze e teorie dell’arte a partire dal 1960, ma lo fa con l’intenzione di comprendere l’attualità; cosa produce un presente così diverso, e in che modo il presente a sua volta rilegge il passato? La domanda implica anche il rapporto tra lavoro critico e storico, e in questo senso nessuno sfugge al presente, nemmeno gli storici dell’arte. L’analisi storica non dipende dalle posizioni di oggi, ma appare indispensabile un impegno nel presente, che sia artistico, teorico e/o politico. Certamente i più innovativi storici dell’arte moderna hanno cercato di essere anche acuti critici della produzione contemporanea, e questa visione parallattica ha spesso portato alla formulazione di nuovi criteri in entrambi i campi di studio7. Affronto questo punto non tanto per aggiungere il mio nome alla lista, ma piuttosto per professare la mia diversità. Critici d’arte importanti quali Michael Fried, Rosalind Krauss e Timothy J. Clark differiscono per metodo e intenti, ma condividono forti convinzioni sul valore dell’arte modernista. In qualche modo è una posizione generazionale. I critici formati nel mio stesso ambiente sono più cauti riguardo all’arte modernista, non solo perché abbiamo imparato a conoscerla come cultura ufficiale, ma perché abbiamo cominciato con pratiche artistiche che intendevano rompere con i suoi modelli dominanti. Allo stesso modo, si è attenuata l'influenza tramandata da Pablo Picasso attraverso la scena di Jackson Pollock, fino agli ambiziosi artisti degli anni Sessanta. Un segnale della nostra diversità (sicuramente, per i nostri predecessori, della nostra decadenza) è il fatto che l’angelo con cui abbiamo lottato è stato Marcel Duchamp tramite Andy Warhol, e non Picasso tramite Pollock. Inoltre, entrambe queste edipiche vicende sono il punto di non ritorno del femminismo, che le aveva profondamente modificate8. Di conseguenza, un critico come me, impegnato nella genesi minimalista dell’arte, non può non essere diverso da un partigiano dell’espressionismo astratto: non essendo indifferente all’arte modernista, non ne sarà mai neanche completamente convinto. Infatti, come vedremo nel capitolo 2, questo particolare punto di partenza può posizionare il critico su uno dei momenti cruciali dell’arte modernista e spingerlo a vederne le contraddizioni più che le conquiste9. Come altri formatisi nel mio stesso ambiente, dunque, sono piuttosto distante dall’arte modernista, ma non dalla sua teoria. In particolare mi interessa la svolta semiotica (discussa nel capitolo 3) che, nella seconda metà degli anni Settanta, ha rinnovato arte e critica sul modello testuale. Questo perché, come critico, sono cresciuto in un preciso periodo quando
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la produzione teorica è diventata importante quanto la stessa produzione artistica. Per molti di noi essa risultava più provocatoria, innovativa e urgente, anche se dopotutto non c’era un legame reale tra, ad esempio, i testi di Roland Barthes o Jacques Derrida e la nuova figurazione o l’architettura pop-storicistica. Ciononostante, quando si parla di teoria critica, ho l’entusiasmo di un iniziato di seconda generazione e non lo zelo di un convertito di prima. Con questo lieve distacco, cerco di trattare la teoria critica non solo come un semplice dispositivo concettuale, ma come una forma simbolica, se non sintomatica. In questo caso possiamo individuare due intuizioni retrospettive. A partire dalla metà degli anni Settanta, la teoria ha rappresentato un segreto proseguimento del modernismo con mezzi alternativi. Dopo il declino di pittura e scultura, la teoria occupa le posizioni dell'arte alta, per lo meno quando ripropone valori come difficoltà e originalità ormai svalutati tra le forme artistiche. Allo stesso modo, la teoria critica è stata la continuazione con altri mezzi anche dell’avanguardia: dopo l'apogeo delle rivolte del ’68, ha coperto il ruolo della politica culturale, se non altro nella misura in cui la retorica radicale compensava la perdita dell'attivismo (sotto questa luce, la teoria critica è a sua volta una neoavanguardia). Questa doppia funzione segreta, surrogato dell’arte alta e sostituto dell’avanguardia, ha attratto svariati seguaci. Una delle strade che seguo nel trattare la teoria come oggetto storico è osservare i suoi legami sincronici con l'arte d'avanguardia. A cominciare dagli anni Sessanta le due hanno condiviso almeno tre ambiti di indagine: la struttura del segno, la costituzione del soggetto, il posizionamento dell’istituzione (dunque, non solo il ruolo di museo e accademia, ma anche la posizione di arte e teoria). Questo libro si occupa di tali ambiti generali concentrandosi su relazioni specifiche, come il rapporto della genesi minimalista dell’arte con l’attenzione alla fenomenologia sul corpo da un lato, l’analisi strutturalista del segno sull’altro (discussa nel secondo capitolo), oppure l’affinità tra la genealogia pop dell’arte e la teoria psicoanalitica della visione sviluppata da Jacques Lacan nello stesso periodo (vedi capitolo 5). Vengono presi in considerazione anche determinati momenti in cui arte e teoria sono ridimensionate da altre forze: ad esempio, quando le installazioni site-specific e i collage di foto e testi replicano gli stessi risultati ai quali vorrebbero opporre resistenza, come la frammentazione del segno-merce (capitolo 3); o come quando un metodo critico come il decostruzionismo diventa un cinico stratagemma di posizionamento del mondo dell'arte (capitolo 4).
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Che tali situazioni vengano considerate fallimenti totali o piccole mancanze, pongono comunque la questione della capacità critica dell'arte e della teoria contemporanee (gli sviluppi storici di questo valore vengono discussi nei capitoli 1 e 7). Ho già accennato ad alcuni aspetti della crisi attuale, come la poca attenzione alla storicità dell'arte e la quasi scomparsa di spazi dedicati al dibattito. Ma lamentarsi della mancanza di una valutazione storica e della distanza critica sono vecchi ritornelli che spesso non esprimono altro che l'ansia della critica per la perdita di potere e di funzione. Eppure ciò non vuol dire che i critici siano diventati incapaci o narcisisti. Qual è il ruolo della critica in una cultura visiva sempre più amministrata da un mondo dell'arte dominato da figure promozionali con scarso spirito critico? Da un mondo mediale di aziende di comunicazione e intrattenimento che non ha alcun interesse per qualsivoglia analisi critica? E qual è il luogo della critica quando viviamo una cultura politica sempre più consenziente, specialmente quando ci troviamo al centro di battaglie culturali con una destra che professa minacce del genere "prendere o lasciare" e una sinistra abbandonata a dubbi tipo "da che parte stiamo?". Naturalmente si tratta di una situazione che rende urgenti gli antichi compiti della critica e rimette in questione uno status quo politico-economico concentrato esclusivamente sulla propria riproduzione e sul profitto, allo scopo di mediare tra gruppi culturali (ormai privi di un contesto e di un dibattito pubblico) che sembrano soltanto di parte. Fare l'elenco dei problemi, tuttavia, non significa migliorare le condizioni. Numerosi fattori intralciano la critica d'arte. Non essendo richiesti dai musei, né tollerati dal mercato, alcuni critici si sono ritirati nelle università, mentre altri si sono inseriti nell'industria culturale, nei media, nella moda, e così via. Non si tratta di un giudizio morale: anche se ci limitiamo al periodo preso in analisi in questo libro, i pochi spazi una volta riservati alla critica d’arte risultano drammaticamente ridotti, e i critici hanno seguito le orme degli artisti costretti a barattare l’attività critica con la sopravvivenza economica. Questo doppio riposizionamento non ha giovato: se alcuni artisti hanno abbandonato l’attività critica, altri hanno adottato posizioni teoriche come se fossero critici “readymade”, così come certi teorici che hanno ingenuamente abbracciato posizioni artistiche10. Se da una parte gli artisti speravano di essere elevati dalla teoria, i teorici speravano di toccare terra grazie all’arte. Spesso queste due scelte implicavano due errori di valutazione: che l’arte non fosse già abbastanza teorica, né producesse posizioni
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critiche, e che la teoria fosse una semplice integrazione da applicare o meno a seconda dei casi. Il risultato è che a livello formale ci sono poche differenze, ad esempio, tra le descrizioni delle estetiche commerciali nell’arte della fine degli anni Ottanta e quelle delle politiche di genere all'inizio degli anni Novanta. Spesso il tono cinico delle prime e quello assistenzialista delle seconde producono una negazione del lavoro sulla forma, nel primo caso perché inutile, nel secondo perché secondario. E a volte questi fraintendimenti, credere che l’arte non sia a suo modo teorica e/o politica o che la teoria sia ornamentale ed estranea alla politica, mettono fuori gioco l’arte teorica e politica. Ciò non significa riscattare la teoria dagli artisti o l’arte dalla politica; né incoraggiare l'eliminazione della teoria da parte dei media o la caccia alle streghe della destra. Capita che la teoria sia linguisticamente impegnata e politicamente irresponsabile, ma ciò non significa, come sostiene il New York Times, che la critica d’arte sia tanto cialtrona, né che la decostruzione sia un’apologia dell’Olocausto. Al contrario, bisogna insistere sul fatto che la teoria critica sia parte dell’arte innovativa e che una relativa autonomia dell’estetica può essere una risorsa critica. Per questi motivi sono contrario ad un prematuro congedo dell’avanguardia. Come sostengo nel primo capitolo, l’avanguardia è problematica per definizione (può essere ermetica, elitaria...); eppure, rivista nei termini di dinamiche resistenti e/o alternative all’artistico e alla politica, rimane una costruzione a cui la sinistra rinuncia a proprio danno. L’avanguardia non ha il brevetto della critica, questo è sicuro, ma sottoscrivere determinate tendenze non esclude affatto la possibilità di dedicarsi anche ad altre. La richiesta di questo molteplice obiettivo aggiunge un ulteriore onere per l’arte e la critica progressiste, e la situazione, nel mondo dell’arte e in quello accademico, non aiuta molto. In entrambi i campi, infatti, la ripercussione politica ha approfittato della crisi economica per produrre un clima reazionario nel quale il richiamo dominante è un ritorno conservatore a tradizioni autorevoli (spesso autoritarie)11. Ci dicono che la grande minaccia per l’arte e l’accademia provenga da artisti miscredenti e da radicali di professione; ma sono proprio dei reazionari corrotti a dirlo e questi ideologi conservatori hanno causato il danno maggiore, visto che la fiducia del pubblico nell’arte e nell’accademia è stata lacerata dai fantasmi dell’artista e dell’accademia. Non si tratta certo di un segreto di Stato: fin qui la destra ha dettato i termini delle guerre culturali e dominato l’immaginario collettivo dell’arte e dell’accademia, mentre il laico è portato ad associare la prima alla
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pornografia, la seconda all’indottrinamento, ed entrambe a uno spreco di denaro dei contribuenti. Questi sono i danni della campagna di destra: mentre la sinistra parlava dell’importanza politica della cultura, la destra la metteva in pratica12. I suoi filosofi hanno avuto successo e invece i lettori di Marx non vi sono riusciti; hanno trasformato il mondo, e sarà assai difficile rimetterlo a posto. Potrebbe sembrare meschino preoccuparsi del mondo artistico e accademico in un momento in cui l'assistenza statale e il contratto sociale sono entrambi stati messi al bando. Ma anche in questo caso sono in atto battaglie importanti: gli attacchi sulla possibilità di un’azione propositiva e di iniziative multiculturali, sulle sovvenzioni pubbliche e sul politically correct (classica rivendicazione della critica di sinistra trasformata in arma da quella di destra). Anche la rivoluzione dei ricchi mostra il suo vero volto in questi ambiti, perché l’attuale classe dirigente ha mostrato un’inedita indifferenza non solo verso la remunerazione sociale, ma anche verso il sostegno culturale (almeno i vecchi ricchi avevano la grazia di mostrarsi arrivisti). Alla fine, comunque, resta una questione fondamentale in ambito artistico e accademico: la conservazione, in una cultura responsabile e propositiva, di spazi per il dibattito critico ed una visione alternativa. Di nuovo, non è facile rivendicare certi spazi. Da un lato, si richiede un’opera di disarticolazione: ridefinire termini culturali e rioccupare posizioni politiche. (Si tratta dunque di dissipare i fantasmi reazionari dell’arte e dell’accademia, così come di liberare dagli attacchi della destra la critica di sinistra a tali istituzioni)13. Dall’altro lato, però, è anche un’opera di articolazione: mediare contenuto e forma, significanti specifici e contesti istituzionali. È un compito arduo, ma non impossibile, ed elenco alcune tendenze che hanno avuto successo, seppur provvisoriamente, in simili (dis)articolazioni. Un punto di partenza può essere il recupero di certe tendenze critiche interrotte dalla presa di potere dei neoconservatori negli anni Ottanta; è proprio quello che stanno facendo alcuni artisti, critici e storici dei nostri giorni. Il presente libro è il mio personale contributo a questo recupero14. Il primo capitolo prepara la mia disserzione sui modelli critici nell’arte e nella teoria dell’arte dal 1960, attraverso un approfondimento dell’avanguardia storica e della neoavanguardia. Il capitolo 2 presenta l’arte minimalista come punto cruciale di questo rapporto negli anni Sessanta. "La passione del segno" discute la successiva riformulazione dell’opera d’arte come testo nel corso degli anni Settanta. "L'arte della ragion cinica" ripercorre la demolizione di questo modello testuale a
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favore di un diffuso conformismo dell’immagine negli anni Ottanta. Nei capitoli 5 e 6 vengono esaminate due reazioni contemporanee alla duplice inflazione di testo e immagine: una svolta verso il reale manifestata attraverso il corpo violato e/o il soggetto traumatico, e una svolta verso un referente legato ad una data identità e/o in una comunità radicata. Infine, "Cos'è successo al postmoderno" (un epilogo più che una conclusione) allarga il mio discorso a tre questioni importanti per l’arte e la teoria dell’arte di questo periodo: la critica del soggetto, la negoziazione dell’“altro” culturale, il ruolo della tecnologia. I capitoli riportano storie intrecciate tra di loro (per me è fondamentale recuperare l’efficacia di queste narrative), ma non richiedono di essere letti consecutivamente. Dedico questo libro a tre persone che mi hanno permesso di attivare degli spazi culturali: Thatcher Bailey (fondatore di Bay Press), Charles Wright (direttore del Dia Art Center dal 1986 al 1994) e Ron Clark (direttore dell’Independent Study Program del Whitney Museum). Sono cresciuto con Thatcher e Charlie a Seattle, e loro mi hanno sostenuto nel mio lavoro di critico a New York, Thatcher come editore, Charlie come sponsor, entrambi come amici di lunga data. Con la stessa predisposizione d’animo vorrei ringraziare altri vecchi amici (Andrew Price, John Teal, Rolfe Watson e Bob Strong) e parenti (Jody, Andy e Becca). Più di dieci anni fa, Ron Clark mi invitò a partecipare al suo progetto al Whitney Museum dove dirigevo gli studi critici e curatoriali quando questo libro fu concepito. I nostri seminari con Mary Kelly conservano per me una fondamentale importanza e vorrei estendere la mia gratitudine a tutti i partecipanti al programma nel corso degli anni. Per solidarietà intellettuale, sono debitore ai miei amici di October: Yve-Alain Bois, Benjamin Buchloh, Denis Hollier, Silvia Kolbowski, Rosalind Krauss, Annette Michelson e Mignon Nixon; a quelli della Cornell University: David Bathrick, Susan Buck-Morss, Mark Seltzer e Geoff Waite. Sono anche grato ad altri amici, troppi perché li possa nominare. Parte di questo libro è stato scritto alla Cornell Society for the Humanities della quale ringrazio i direttori, Jonathan Culler e Dominick LaCapra. Infine il mio debito si estende a Carolyn Anderson, Peter Brunt, Miwon Kwon, Helen Molesworth, Charles Reeve, Lawrence Shapiro, Blake Stimson e Frazer Ward i quali mi hanno insegnato almeno quanto ho insegnato io a loro. Lo stesso vale per Sandy, Tait e Thatcher. New York, 1995
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1. Vedi Alois Riegl, "Late Roman or Oriental?" in Gert Schiff (a cura di) German Essays on Art History (Continuum, New York 1988) e Heinrich Wölfflin, Principles of Art History: The problem of the Development of Style in Later Art (1915) (Dover, New York 1950). 2. Clement Greenberg, "Modernist Painting", Art and Literature (1965, versione originale del 1961), e Michael Fried, Three American Painters: Kenneth Noland, Jules Olitski, Frank Stella (Fogg Art Museum, Cambridge 1965). 3. Clement Greenberg, "Modernist Painting", 193, 201. 4. Peter Bürger, Theory of the AvantGarde, University of Minnesota Press, Minneapolis 1984. [trad. it.: Teoria dell’avanguardia, Bollati Boringhieri, Torino 1990]. 5. La dimensione etnografica non è una novità nella storia dell'arte; la ritroviamo nei testi di Riegl, Aby Warburg e altri ancora, dove spesso è in contrasto con l'imperativo hegeliano della disciplina. Tale dimensione è anche evidente negli studi sulla cultura visiva (per non parlare degli studi culturali e del nuovo storicismo); infatti, la presenza della parola 'cultura' in questo contesto suggerisce che il discorso principale in questo campo emergente potrebbe essere antropologico e non storico. Vedi anche October 77 (estate 1996). 6. Gli anni Sessanta sono stati testimoni delle più importanti elaborazioni teoriche di tali rotture, come il "cambiamento paradigmatico" di Thomas Kuhn in The Structure of Scientific Revolutions (1962) [trad. it.: La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1999] e la "rottura epistemologica" elaborata da Louis Althusser e Michel Foucault (da Gaston Bachelard e Georges Canguilhem). Alcuni artisti e teorici hanno cercato tale riflessività epistemologica,
pensare in termini paradigmatici piuttosto che teleologici. Eppure è raro trovare analogie tra innovazione artistica e rivoluzioni scientifiche. Sebbene io mi riferisca a cambiamenti e rotture, nessuna delle trasformazioni qui tracciate sono totali o improvvise. Invece, questo libro cerca un movimento duplice di svolte e ritorni, di genealogie e di azioni differite. Le parole più adatte a descrivere questa retroazione vengono da una canzone dei Mekons: "I tuoi morti sono sepolti i nostri rinati / tu pulisci le ceneri noi accendiamo il fuoco / fanno la fila per danzare sulla tomba del socialismo / questa è la mia testimonianza una confessione da dinosauri / ma come può morire qualcosa se non è mai successa?". Da "The Funeral", in The Curse of the Mekons (Blast First/Mute Records Ltd., UK 1991). 7. Anche resistere alle pratiche contemporanee può risultare produttivo. Agli inizi degli anni Venti, Erwin Panofsky scrisse delle belle pagine sulla prospettiva e le proporzioni (proprio nel momento in cui erano diventate poco rilevanti per la nuova arte) e il suo modello iconografico apparve negli anni Trenta nonostante la resistenza del modernismo. Forse è proprio la storia dell'arte che è lenta, ma non dovrebbe essere un rifugio, un melanconico rifiuto della perdita del presente. Se la resistenza può essere produttiva, l'ostruzione certamente non lo è. 8. Cito l'arte femminista in un altro capitolo, perché è un lavoro che secondo me funziona meglio in relazione alla genealogia di altre pratiche, una genealogia che dirige nuovamente altrove, sempre e dall'interno. Inoltre non mi dilungo in specifiche discussioni sull'arte concettuale, sulla performance e così via. Il mio interesse primario è stato
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il minimalismo e qui intendo vedere il resto attraverso le sue lenti. 9. Come l'arte ha bisogno di una critica diversa, così anche la critica modella soggetti diversi. L'auto-determinazione è uno dei motivi che mi ha spinto a scrivere questo libro, specialmente per quanto riguarda la distanza critica. Il formalismo anglo-americano ne è consapevole visto che si impegna "a vivere come pochi sono disposti a fare: in uno stato di allerta morale e intellettuale continuo" (Fried, Three American Painters, p.9). Come scrivo nel secondo capitolo, questo modello richiede che l'arte obblighi a una convinzione, che promuova soggetti illuminati e devoti. Altri modelli richiedono altre cose, il dubbio critico, ad esempio. 10. Non si tratta di una rivendicazione territoriale, si richiede solo che la cultura visiva non venga trattata come una nuova colonia. L'arte condivide spesso con gli studi letterari dei modelli: il concetto di opera con la nuova critica o quello di testo con la teoria postmoderna. Nel capitolo 6 promuovo una svolta etnografica nell'arte e nella teoria; questo è l'aspetto "culturale" nel campo della cultura visiva. Ma esiste anche un aspetto "visivo", e vi si accede grazie all'immagine. Così come la cultura è governata da premesse antropologiche, anche l'immagine è condizionata da proiezioni psicoanalitiche, ed entrambe hanno garantito opere meno interdisciplinari di quanto siano non disciplinari. 11. Dovrebbe essere guardata con sospetto anche la richiesta alternativa in accademia, cioè la fusione amministrativa di discipline che diventano programmi. 12. Vedi Michael Bérubé, Public Access: Literary Theory and American Cultural
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Politics (Verso, London-New York 1994). D'altra parte, la reazione della destra ha colpito sia l'arte sia l'accademia con un'importanza politica come non succedeva dagli anni Sessanta, e questa significanza simbolica potrebbe diventare un vantaggio. 13. Nel capitolo 5 mi riferisco ad altre reciprocità tra le provocazioni della sinistra e le proibizioni della destra. La strategia neoconservativa degli ultimi vent'anni diventa chiara man mano che quest'opera di disarticolazione procede. La sua essenza è duplice: denunciare come edoniste l'avanguardia e le culture popolari, e quindi assegnare le colpe di questa cattiva cultura ai danni sociali provenienti da un capitalismo che è a sua volta edonista; in seconda luogo, celebrare l'etica di culture autoritarie e tradizionali per utilizzare, poi, queste culture buone (valori familiari e simili) per acquisire voti per un capitalismo rapace (mai attento verso le classi operaie, ma che ora ignora anche la classe media). è un trucco, eppure come mai tante persone ci cascano anche se lo sanno? Ecco a quale livello può agire l'opera di dis-articolazione (per non dire della critica della ragion cinica). 14. Di carattere speculativo, questo libro conserva l'influenza delle descrizioni quasi-totalizzanti della cultura capitalista promossa negli anni Ottanta dalla reaganomic. I limiti di tali resoconti sono evidenti (permettono poca interazione), tuttavia resta necessario capirne la logica culturale. Oggi troppi critici hanno un atteggiamento feticistico rispetto alla specificità storica, come se, una volta tracciato il contesto, la realtà contingente di una data problematica ne risulti di conseguenza.
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Chi
ha paura della neoavanguardia?
La cultura postbellica nordamericana ed europea è invasa da neo e post. Le ripetizioni e le scissioni in questo periodo sono molte: ma come distinguerle? Come spiegare la differenza tra un ritorno ad una forma d’arte arcaica, che riafferma tendenze conservatrici nel presente, e un ritorno a un modello d’arte perduto, che intende sostituire i metodi di lavoro abituali? Oppure, nel registro della storia, come definire la differenza tra una teoria scritta per sostenere lo status quo culturale e una che invece cerca di sfidarlo? In realtà si tratta di ritorni più complicati, addirittura più urgenti di come io non li descriva, specialmente al volgere di un secolo in cui le rivoluzioni che ne hanno caratterizzato l’inizio sembrano essere annullate, mentre formazioni che si pensavano scomparse da tempo si agitano con misteriosa vitalità. Nell’arte del dopoguerra porre la questione della ripetizione significa affrontare il problema della neoavanguardia, un gruppo non ben definito di artisti nordamericani ed europei degli anni Cinquanta e Sessanta che ripetevano le invenzioni dell’avanguardia degli anni Dieci e Venti quali collage e assemblaggio, readymade e strutture a griglia, pittura monocroma e scultura composita1. Nessuna regola governa il ritorno di simili mezzi, nessun esempio è strettamente revisionista, radicale o urgente. Qui, tuttavia, metterò a fuoco quei ritorni che richiedono una consapevolezza critica sia delle convenzioni artistiche sia delle condizioni storiche. In Che cos’è un autore?, saggio scritto all’inizio del 1969 all’apice di questi ritorni, Michel Foucault accenna a Marx e Freud come “iniziatori delle pratiche discorsive” e si chiede come mai in momenti particolari si assista al ritorno ai testi originari del marxismo e della psicoanalisi sotto forma di una rigorosa lettura2.
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hal foster
qualcosa come un’aspettativa di shock […] l’effetto si è ‘consumato’” (p. 91). È importante cogliere la differenza tra shock e trauma; essa segna una distinzione cruciale tra le istanze moderniste e postmoderne. 43. Vedi Zizek, The Sublime Object of Ideology, p. 55. Difficilmente abbiamo bisogno di un’altra chiave magica per Duchamp, ma è straordinario come egli abbia costruito ricorsività e retroattività nella sua arte, come se non solo tenesse conto dell’azione differita, ma la assumesse come soggetto. Il linguaggio di ritardi sospesi, incontri mancati, piccole causalità, ripetizione, resistenza e ricezione è ovunque nel suo lavoro, che è come il trauma, come l’avanguardia, non finito in modo preciso ma sempre inscritto. Consideriamo le specificazioni per i readymade in “The Green Box”: “Pianificando per un momento a venire (in questo giorno, questa data, questo minuto) ‘di inscrivere un readymade’ – il readymade lo si può cercare dopo – (con ogni tipo di ritardo). La cosa importante quindi è solo questo fattore di calcolo di tempo, l’effetto di istantanea, come un discorso pronunciato in non importa quale occasione, ma a questa e proprio questa ora. È una sorta di rendez-vous” (Essential Writings, p. 32). 44. In un certo senso la vera scoperta della Nachträglichkeit è postuma. Tuttavia, operativa in testi come la storia del caso dell’Uomo dei lupi,
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fu lasciato a lettori come Lacan e Laplanche il compito di svilupparne le implicazioni teoretiche. D’altronde, Freud non era consapevole che il suo pensiero si potesse sviluppare in modo Nachträglich: per esempio non solo il ritorno del trauma nel suo lavoro, ma anche la doppia temporalità attraverso cui il trauma vi è concepito: l’inizio bifasico della sessualità, la paura della castrazione (che richiede sia una vista traumatica sia un ordine paterno), e così via. 45. Nel saggio dedicato a questo concetto, forse quello cruciale nel passaggio da una problematica strutturalista ad una poststrutturalista, Derrida scrive: “Différance non è né una parola né un concetto. In esso, tuttavia, possiamo vedere il punto di congiunzione (piuttosto che la sommatoria) di ciò che è stato iscritto nella maniera più decisiva nel pensiero di ciò che viene convenzionalmente chiamato la nostra ‘epoca’: la differenza di forze in Nietzsche, il principio di differenza semiologica di Saussure…” (Speech and Phenomena, trad. David B. Allison, Northwestern University Press, Evanston 1973, p. 130; [trad. it.: La voce e il fenomeno, Jaka Book, Milano 1984]. 46. Derrida, Writing and Difference, trad. Allan Bass, University of Chicago Press, Chicago 1978; [trad. it.: La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 263].
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L'importanza
del minimalismo
ABC, strutture primarie, arte letterale, minimalismo: la maggior parte dei termini usati per i lavori di Carl Andre, Larry Bell, Dan Flavin, Donald Judd, Sol LeWitt, Robert Morris, Richard Serra e altri, suggeriscono che si tratti di un’arte non solo inespressiva, ma quasi infantile. Spesso liquidato negli anni Sessanta come riduttivo, il minimalismo fu spesso considerato irrilevante negli anni Ottanta, ma entrambi i rifiuti sono troppo forti perché si tratti soltanto di una questione di polemiche interne al mondo dell’arte. Al di là degli interessi di artisti e critici votati a ideali umanistici e/o alle immagini iconografiche nell’arte, questi rifiuti del minimalismo sono stati condizionati da due eventi correlati: negli anni Sessanta dalla sensazione che il minimalismo avesse portato a compimento un modello formalista del modernismo, completato e infranto nello stesso tempo; e negli anni Ottanta da una generale reazione che usava il rifiuto degli anni Sessanta per giustificare il ritorno alla tradizione nell'arte e altrove. Analogamente ai conservatori che negli anni Cinquanta cercarono di seppellire il radicalismo degli anni Trenta, così i conservatori degli anni Ottanta cercarono di cancellare la richiesta culturale e revocare le conquiste politiche degli anni Sessanta, tanto si erano rivelate traumatiche per i neo-conservatori. Non è cambiato molto per i radicali di Gingrich dei primi anni Novanta, e la tensione politica contro gli anni Sessanta è oggi più alta che mai1. In un simile rifiuto c’è in gioco la storia, all’interno della quale difficilmente si può considerare il minimalismo un’istanza morta, neanche da chi vorrebbe che lo fosse. Il minimalismo è vittima di una falsificazione: negli anni Ottanta è stato rappresentato in chiave riduttiva e ritardataria per far sì che il neoespressionismo sembrasse all’avanguardia, in tal modo sono state fraintese le diverse politiche culturali del minimalismo degli anni Sessanta e del neoespressionismo degli anni Ottanta. Nonostante le libertà apparenti, il neoespressionismo partecipò alla regressione culturale dell’era Reagan-Bush, mentre,
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Gordon Matta-Clark
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La
passione del segno
L’arte d'avanguardia degli anni Sessanta era presa tra due imperativi opposti: da una parte ottenere l’autonomia dell’arte come richiesto dalla logica dominante del tardo-modernismo, dall’altra disperdere quest’arte autonoma nell’area allargata della cultura che (per natura) era pressoché testuale, sia perché il linguaggio divenne importante (come in molta arte concettuale) e sia perché divenne dominante il decentramento tra soggetto e oggetto (come in molta arte site specific). La tensione tra l’autonomia del segno artistico e la sua dispersione in nuove forme e/o la sua combinazione con segni della cultura di massa dominò la relazione non solo tra minimalismo e pop, ma anche tra il cinema intimista degli indipendenti nordamericani (per esempio, Michael Snow) e quello allusivo della Nouvelle Vague francese (per esempio, Jean-Luc Godard). Negli anni Settanta, tuttavia, il termine testuale di questa dialettica era in ascesa sia nella pratica che nella teoria. In questo capitolo voglio analizzare questa svolta testuale, innanzitutto attraverso i dibattiti sul postmoderno che pure si svilupparono in quegli anni. Alla fine degli anni Settanta questi dibattiti iniziarono a dividersi in due posizioni di base, la prima allineata alla politica neo-conservatrice, la seconda associata alla teoria poststrutturalista. Apparentemente queste due versioni del postmoderno erano opposte. Così, dopo la presunta amnesia dell’astrazione modernista, la versione neoconservatrice proclamava il ritorno della memoria culturale sotto forma di rappresentazione storica nell’arte e nell’architettura e, dopo la presunta morte dell’autore, annunciava il ritorno della figura eroica dell’artista e dell’architetto. Da parte sua invece la versione poststrutturalista del postmoderno avanzava la critica delle stesse categorie di rappresentazione e autorialità. L’opposizione continuava anche su altri fronti. Così la tesi neo-conservatrice tendeva a contrastare il feticismo modernista della forma con una libera pratica del pastiche,
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(per esempio, i primi lavori di Robert Longo, Jack Goldstein e Troy Brauntuch), poteva anche essere considerata malinconica per la sua combinazione tra rassegnazione politica e attrazione feticistica (così la vedeva Buchloh). Si poteva anche considerarla spettacolare, sedotta al punto da imitare il nuovo capitalismo nella sua trasformazione di oggetti, eventi e addirittura persone, in immagini di consumo (come invece tendevo a vederla io). Senza dubbio, verso l’inizio degli anni Ottanta, si sviluppa un'estetica generica della spettacolarizzazione che riflette su questa reificazione, senza tuttavia metterla in questione26. A partire dalla metà degli anni Ottanta, questo tipo di estetica prepara il modello che governa la maggior parte dell’arte. Dopo i segni indicali e gli impulsi allegorici, possiamo definire tale modello convenzionale, perché, con il permesso di un poststrutturalismo spesso frainteso, tende a trattare ogni pratica (artistica, sociale...) come significanti distinti da manipolare, convenzioni astoriche da consumare. Questo convenzionalismo, non ristretto ad uno stile in particolare, tende a ridurre le pratiche ad astrazioni, a simulacri. Di conseguenza, si può ridurre l’astrazione analitica a diagrammi di colori Day-Glo e il readymade duchampiano si può trasformare in un aspirapolvere dentro una teca di plexiglass. Così facendo, il convenzionalismo difficilmente arriva a contestare la politica economica del segno-merce, come viene definita da Baudrillard; al contrario, opera all’interno di un nuovo ordine in cui anche le pratiche sono ridotte a merci e a simulacri di scambio. Ora, secondo Baudrillard, non appena la merce è divisa in valori d’uso e di scambio il segno si divide in significato e significante. Strutturalmente dunque, non appena la merce assume gli effetti della significazione, il segno può assumere le funzioni di valore di scambio. Così, sulla base di questo chiasmo strutturale tra merce e segno, egli rimodella lo strutturalismo come se fosse un codice segreto ideologico del capitalismo27. Per Baudrillard questo chiasmo strutturale è diventato reale: siamo entrati nell’economia politica del segno-merce, con ramificazioni epocali per la politica economica, la pratica artistica e la critica culturale. Nel prossimo capitolo spiego come il convenzionalismo sia diventato l’estetica più diffusa del nostro nuovo ordine capitalista: ora basta dire che in quest’arte, ancora una volta, “la merce ha sostituito il modo di vedere allegorico”28. Anche Buchloh, agli inizi degli anni Ottanta, aveva capito che l’arte allegorica poteva solo replicare, malinconicamente o cinicamente, la vera reificazione a cui era rivolta. Ciononostante, insisteva anche sul suo potenziale conoscitivo. Piuttosto che ripetere semplicemente la
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la passione del segno
divisione del segno-merce, l’arte allegorica poteva trasformare questa “frantumazione” in un procedimento critico: La mente allegorica parteggia per l’oggetto e protesta contro la sua svalutazione a merce svalutandolo una seconda volta con la pratica allegorica. Nella frantumazione tra significante e significato, l’allegorico forza il segno a quella stessa divisione di funzioni che ha subito il soggetto nella sua trasformazione in merce. La ripetizione dell’atto originale di rimozione e la nuova attribuzione di significato redimono l’oggetto (p. 44).
Silvia Kolbowski
Sherrie Levine
Qui Buchloh ricorre al Barthes di Miti d’oggi (1957) dove la cultura dominante opera grazie all’appropriazione: astraendo i significati specifici di gruppi sociali in significanti generali che sono poi venduti e consumati come miti culturali. L’operazione è meno complicata di quanto sembri. Si consideri all’inizio degli anni Ottanta il passaggio dei graffiti da un’espressione specifica di guerriglia nelle strade ad un generico stile pop nell’industria dell’arte, della musica e della moda. Contro questa appropriazione Barthes propone una contro-appropriazione: “Per la verità, l’arma migliore contro il mito è forse mitizzarlo a sua volta, è produrre un mito artificiale: e questo mito ricostituito sarà una mitologia […]. Basterà ridurlo a punto di origine di una terza catena semiologica, porne la significazione come primo termine di un secondo mito”29.
Jeff Koons
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L’arte
della ragion cinica
Nella svolta testuale dell’arte negli anni Settanta, si allarga il campo della pratica estetica e si infrangono i limiti disciplinari della pittura e della scultura. In parte questo defeticizzò forme di pratica acquisite, però ben presto nuovi feticismi rimpiazzarono i vecchi. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, le due principali tesi dell’arte postmoderna tendevano a trattare come feticci sia le immagini della storia dell’arte sia quelle della cultura di massa, ovvero, come tanti significanti isolati da manipolare. Verso la metà degli anni Ottanta interi generi e media (come astrazione e pittura) furono ripresi in maniera formale, per cui pratiche storiche complesse furono ridotte a segni statici che, a quel punto, sembravano fuori dal tempo. In questo capitolo seguirò la traiettoria dell’estetica convenzionale nell'arco degli anni Ottanta.
Pittura di simulazione
Verso la metà degli anni Ottanta si afferma a New York una pittura geometrica che, in sintonia con la mania dell’epoca per il marketing, viene rapidamente etichettata in due modi: neo-geo e simulazionismo. Associato ad artisti come Peter Halley e Ashley Bickerton, questo tipo di lavoro prendeva ironicamente le distanze dalla tradizione dell’arte astratta trattandola come un magazzino di readymade dal quale attingere. Nella strategia, più che all’apparenza, la neo-geo risultava più vicina all’arte di appropriazione che alla pittura astratta. L'evoluzione della neo-geo dall’arte di appropriazione nel caso di Sherrie Levine fu diretta. In due serie di dipinti su legno della metà degli anni Ottanta, Levine si rifaceva a due modelli di astrazione. Innanzitutto, i suoi quadri a strisce larghe e scacchiere brillanti rimandavano all’astrazione analitica di Frank Stella, Robert Ryman, Brice Marden e altri; ma essendo costruiti meccanicamente e dipinti con colori kitsch,
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Marcel Duchamp Haim Steinbach Jeff Koons
che noi rendiamo feticcio, “l'aspetto fittizio, distintivo, codificato e regolarizzato dell’oggetto”21. Con il minimalismo e la pop art questa modalità di consumo entra in gioco anche nell’arte condizionando il modo in cui leggiamo la costruzione di entrambe. Una volta che la produzione seriale e il consumo allargato entrarono a far parte dell’arte, la distinzione tra forme alte e basse si confuse al di la delle immagini prese a prestito e della divisione tematica. Se era evidente nel minimalismo e nella pop, questa confusione appare quasi totale con la nuova scultura. Mentre sembrava che la pittura di simulazione integrasse rappresentazione e astrazione, la commodity sculpture rompe metodicamente i confini tra arte alta e cultura delle merci. Dunque, è finita la dialettica alto-basso o solo trasformata in una nuova politica economica del segnomerce? Prima ho suggerito che la pittura di simulazione potrebbe diventare sintomo del nostro feticismo del significante nella nuova economia; la scultura merce sembra trasformare questo feticismo in tema. Insieme, le due contengono un’estetica virtuale di quest’economia. Vorrei chiarire questo sviluppo con una veloce descrizione storica del readymade nelle sue diverse versioni, perché questo stratagemma è servito più di ogni altro ad articolare la difficile relazione tra arte e beni di consumo. Nel 1914 Duchamp presenta uno scolabottiglie come opera d’arte. Questo oggetto pone immediatamente la questione del valore estetico, di cosa conti nell’arte, suggerendo che in un contesto borghese il valore dipende dall’autonomia dell’oggetto, cioè dalla possibilità di separarlo dal mondo. Ma retrospettivamente ha suggerito anche
l’arte della ragione cinica
Haim Steinbach
Se lo scambio capitalista si basa sull’equivalenza, due sono i modi per sfidarlo simbolicamente. Il primo è fare riferimento ad un ordine di scambio basato su un principio diverso: l’ambivalenza dello scambio di regali, ad esempio, piuttosto che l’equivalenza dello scambio di merci. La visione di una società di regali legata a rituali di reciprocità ha affascinato a lungo le ricerche antropologiche sulla società della merce, da Marcel Mauss e George Bataille fino ai situazionisti e a Baudrillard. Ma se questo nuovo ordine abita il nostro, come tutti loro suggeriscono, lo fa in modo spettrale, e farvi ricorso con un gesto di resistenza risulta, perlopiù, romantico. La seconda strategia consiste nello sfidare la nostra economia di equivalenza dall’interno, attraverso la ricodificazione dei suoi segni-merce. Un aspetto di questa strategia già si manifesta nello stile delle sottoculture, le appropriazioni di segni della cultura di massa che spesso interagiscono con i segni tipici di classe, razza e genere. Questo bricolage è praticato anche nell’arte di appropriazione, con il riposizionamento di questi stessi segni, spesso in collisione con i segni dell’arte alta. Chiaramente, l’altro aspetto della strategia, ovvero l’appropriazione di merci prodotte in serie, diventa operativo nel lavoro di Koons, Steinbach e altri; ma a quale scopo? A volte le appropriazioni nella commodity sculpture attuano un provocatorio estraniamento dell’oggetto. Tra gli esempi ci sono i palloni
hal foster
che collezionano e sostengono il mio lavoro sono le stesse che aderiscono alla mia direzione politica” (Giancarlo Politi, “Luxury and Desire: an Interview with Jeff Koons”, Flash Art, febbraio/ marzo 1987, p. 76). 49. Vedi Robert Reich, The Work of Nations, Alfred A. Knopf, New York 1991, [trad. it.: L’economia delle nazioni, Pirola, Milano 2003]. 50. Vedi Jameson, Il postmoderno, pp. 90-94. Baudrillard qui ci offre una buona panoranica: “Nel campo economico, è il dominio sull’accumulazione, sull’appropriazione del plusvalore, che è essenziale. Nel campo dei segni (della cultura), è decisivo il dominio della dépense, cioè, della transustanziazione del valore di scambio economico in valore di scambio/segno a partire dal monopolio del codice. Le classi dominanti hanno sempre saputo assicurarsi sin dall’inizio il loro dominio sui valori/segni (società arcaiche e tradizionali), oppure hanno tentato (nell'ordine capitalistico borghese) di superare, di trascendere, di consacrare il proprio privilegio economico nel privilegio dei segni, in quanto questo stadio ulteriore rappresenta lo stadio compiuto del dominio. Questa logica,
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che sostituisce la logica di classe e non si definisce più mediante la proprietà dei mezzi di produzione, bensì mediante il controllo del processo di significazione […] mette in campo un modo di produzione totalmente diverso dal modo di produzione materiale” (Per una critica dell’economia politica del segno, pp. 116-117). 51. Se il mondo dell’arte alla metà degli anni ottanta era simile a Wall Street, all’inizio dei Novanta era simile al mondo della moda. L’artista emblematico della metà degli anni Ottanta era un ex-agente di cambio; l’artista emblematico all’inizio degli anni Novanta era un ex-modello. 52. Craig Owens, “Honor, Power, and the Love of Women”, Art in America, gennaio 1983. 53. Benjamin, Charles Baudelaire, pp. 58-59. Secondo Benjamin l’uso dello shock in Baudelaire è omeopatico anche in questo senso. 54. Sloterdijk, Critique of Cynical Reason, pp. 441, 443. Su Hugo Ball a questo proposito vedi Flight from Time (1927), trad. Ann Raimes, Viking, New York 1974, e su Ernst vedi il mio “Armor Fou”, October 56, primavera 1991.
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Il
ritorno del reale
Nella mia lettura dei modelli critici nell’arte e nella teoria a partire dagli anni Sessanta ho posto l’accento sull'eredità minimalista della neoavanguardia. La maggior parte di artisti e critici che vi apparteneva rimanevano scettici rispetto al realismo e all'illusionismo e hanno portato avanti con altri mezzi la guerra dell’astrazione contro la rappresentazione. Come ho notato nel secondo capitolo, minimalisti come Donald Judd trovavano tracce di realismo anche nell’astrazione, nell’illusionismo ottico dei suoi spazi pittorici, e hanno cancellato queste ultime vestigia del vecchio ordine di composizione idealista, un entusiasmo che li ha portati ad abbandonare del tutto la pittura1. È significativo che l'atteggiamento anti-illusionista venisse adottato da artisti e critici coinvolti dall’arte concettuale, da quella criticoistituzionale, dalla body art e dalla performance, dal site-specific e dall'appropriazione. Per quanto realismo ed illusionismo fornissero anche altri significati negli anni Settanta e Ottanta (i piaceri problematici del cinema di Hollywood, ad esempio, o le lusinghe ideologiche della cultura di massa) per molti rimanevano elementi negativi. Ma un’altra traiettoria dell’arte sin dal 1960 era connessa al realismo e/o all'illusionismo: certa arte pop, la maggior parte dell’iperrealismo (conosciuto anche come fotorealismo), alcuni esempi di appropriazione. Questa genealogia pop, spesso sostituita dall'eredità minimalista nella letteratura critica (e nel mercato), oggi acquista nuovo interesse perché complica le nozioni riduttive di realismo ed illusionismo avanzate dalla genealogia minimalista, in modo illuminante rispetto alle riletture contemporanee di queste categorie. I nostri due modelli alla base della rappresentazione non afferrano per niente l'essenza dell'eredità pop: e cioè che le immagini siano legate ai referenti, a temi iconografici o a cose reali nel mondo, o in alternativa, che tutto ciò che le immagini possono fare sia rappresentare altre immagini, che tutte le forme di rappresentazione (realismo incluso) siano codici auto-referenziali. La maggior parte delle
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Bruce Nauman
Novanta questa sfida si manifesta con l’ostentazione di escrementi (o surrogati: raramente troviamo quelli veri). Di certo Freud considerò essenziale per la civiltà la disposizione all’ordine, come reazione all’erotismo anale, e ne Il disagio della civiltà (1930) immaginò un mito originario che comporta una repressione che conduce l’uomo a sollevarsi dalla posizione a quattro zampe a quella eretta. Cambiando postura, secondo Freud, avvenne una rivoluzione dei sensi: diminuì l’olfatto e venne privilegiata la vista, l’anale fu represso e il genitale pronunciato. Il resto è storia: con i genitali esposti, l’uomo tornò a una frequenza sessuale continua, non periodica, e conobbe la vergogna; quest’unione tra sesso e vergogna lo spinse a cercare moglie, a formare famiglia, a cercare la civiltà, per andare coraggiosamente dove nessun uomo era andato prima. Questa storia eccentrica ed eterosessuale, rivela come la civiltà sia concepita secondo termini normativi, non solo in quanto generica rinuncia e sublimazione degli istinti, ma come reazione specifica all’erotismo anale che implica uno specifico rifiuto dell’omosessualità64. Secondo questo discorso la tendenza agli escrementi nell’arte contemporanea potrebbe significare un ribaltamento simbolico del primo passo verso la civiltà, della repressione dell’anale e dell’olfattivo. Come tale può indicare anche un ribaltamento simbolico della visibilità fallica del corpo eretto come modello primario della pittura e della scultura tradizionali, la figura umana sia come soggetto sia come contesto della rappresentazione nell’arte occidentale. Questa doppia sfida della sublimazione visuale e della forma verticale è un tema ricorrente nell’arte del XX secolo (e potrebbe essere sottotitolata “Il disagio della visualità”)65, ed è qualcosa che si esprime con lo sbandieramento dell'erotismo anale. “L’erotismo anale trova un’applicazione narcisistica nella produzione della sfida”, scrive Freud nel suo saggio del 1917; anche nella sfida avanguardista, potremmo aggiungere, dalle macine di cioccolato di Duchamp alle lattine di merda di Piero
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Manzoni, fino ai mucchi di escrementi di John Miller66. Gesti diversi hanno valenze diverse. Nell’arte contemporanea la sfida erotico-anale è spesso consapevole, persino auto-parodistica: non solo mette alla prova l’autorità analmente repressiva della cultura tradizionale del museo (che è in parte una proiezione edipica), ma prende anche in giro il narcisismo analmente erotico dell’artista-ribelle d’avanguardia. “Let’s Talk About Disobeying” recita una bandiera di Mike Kelley decorata con un vaso di biscotti. “Pants-shitter and Proud of It” recita un’altra che deride l’auto-celebrarsi dell’incontinente istituzionale. (“Jerk Off Too”, aggiunge questo impertinente-ribelle, come per completare la sua derisione della civiltà secondo Freud)67. La sfida può essere patetica ma anche perversa, un travisamento della legge paterna delle differenze, sessuali e generazionali, etniche e sociali. Questa perversione è spesso messa in scena attraverso la regressione mimetica ad un mondo anale in cui le differenze possono essere trasformate68. È uno spazio fittizio che artisti come Kelley e Miller creano per una messinscena critica. In Dick/Jane (1991) Miller macchia una bambola bionda, con gli occhi azzurri e la seppellisce fino al collo in una materia che ricorda gli escrementi. Resi popolari dai vecchi sussidiari, Dick e Jane sono due personaggi che hanno insegnato a diverse generazioni di bambini nordamericani a leggere, anche a leggere le differenze sessuali. Tuttavia, nella versione di Miller, Jane diventa Dick, e il composto fallico è affondato in un mucchietto anale. Come il tratto tra i due nomi del titolo, la differenza tra maschio e femmina è trasgredita, cancellata ed enfatizzata contemporaneamente, come lo è la differenza fra bianco e nero. In breve, Miller crea un mondo anale che mette alla prova i termini della differenza simbolica69.
John Miller
Mike Kelley
Zoe Leonard
Benjamin analizza nella sua discussione sul modernismo baudelairiano, che ora va ben oltre il principio del piacere. Affetto puro, nessun affetto: fa male, non sento niente78. Perché oggi c'è questa attrazione per il trauma, per il desiderio di abiezione? Di sicuro, esistono motivi sia nell’arte che nella teoria. Come dicevo, c’è un’insoddisfazione legata al modello testuale della cultura e nella visione convenzionale della realtà, come se il reale, represso nel modernismo poststrutturalista, tornasse in chiave traumatica. Esiste, inoltre, una delusione per la celebrazione di un desiderio che rappresenti un passaporto aperto per un soggetto mobile, come se il reale, abbandonato da un postmoderno performativo, fosse schierato contro un mondo immaginario in cui la fantasia è imprigionata dal consumismo. Ma ci sono anche altre forze potenti all'opera: disperazione per la crisi causata dall’AIDS, malattie invasive e morte, povertà e crimine sistematici, uno stato assistenziale in rovina, senza dubbio il contratto sociale infranto (dall’alto della sua posizione il ricco si astiene dalla rivoluzione, mentre dal basso il povero è ridotto in miseria).
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L’artista
come etnografo
Uno degli interventi più importanti sulla relazione tra l’autorità artistica e la politica culturale è “L’autore come produttore” di Walter Benjamin, presentato per la prima volta nell’aprile del 1934 come lezione all’Istituto per gli studi sul fascismo di Parigi. Qui, sotto l’influenza del teatro epico di Bertold Brecht e degli esperimenti di fattografia di scrittori sovietici come Sergei Tretiakov, Benjamin chiamò in causa l’artista di sinistra “perché si mettesse dalla parte del proletariato”1. Nella Parigi del 1934 questo appello non era radicale; ma l’approccio sì. Benjamin cercava di convincere i migliori artisti ad intervenire, al pari dei lavoratori rivoluzionari, sui mezzi della produzione artistica per cambiare la “tecnica” dei mezzi tradizionali, per trasformare “l’apparato” della cultura borghese. Una corretta “tendenza” non bastava più; bisognava prendere posizione “vicino al proletariato”. E “che tipo di posto era questo?”, chiedeva Benjamin con parole che colpiscono ancora. “Quello di un benefattore, di un patrono ideologico, un posto impossibile”. Diverse opposizioni governano questa famosa riflessione. Dietro al privilegiare la “tecnica” sul “tema” e la “posizione” sulla “tendenza” c'è un implicito privilegiare il produttivismo sulla proletkult, due movimenti rivali agli albori dell’Unione Sovietica. Il produttivismo promuoveva una nuova cultura proletaria attraverso l’estensione degli esperimenti formali del costruttivismo nella produzione industriale reale; in questo modo cercava di capovolgere l’arte e la cultura borghesi contemporaneamente. Non meno impegnato politicamente, il proletkult cercava di sviluppare una cultura proletaria, nel senso più tradizionale della parola; cercava di sorpassare l’arte e la cultura borghesi. Secondo Benjamin questo non era abbastanza: sempre implicitamente, investì movimenti come il proletkult di un patrocinio ideologico per cui il lavoratore diventava un altro di natura passiva2. Per quanto difficile, la solidarietà con i produttori che contavano per Benjamin significò solidarietà nella pratica materiale, ma non per quanto riguarda il tema artistico o l'attitudine politica.
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hal foster
automatica, e il progetto di un “auto-determinazione etnografica” può diventare la pratica di un narcisistico accomodamento22. Di sicuro, questa proiezione del sé può disturbare gli assunti automatici delle posizioni-soggetto, ma può anche promuovere una finzione di questo disturbo: il confessionale traumatico nella teoria, che è spesso critica sensibile che ritorna, o la moda dei rapporti pseudo-etnografici nell’arte che spesso non sono altro che racconti di viaggio travestiti dal mercato dell’arte. Chi, nell’accademia o nel mondo dell’arte, non ha mai assistito alle esternazioni di questa nuova figura dell'intellettuale empatico o delle flâneries del nuovo artista nomade23?
Arte e teoria nell'era degli studi antropologici
Anne e Patrick Poirier
Che cosa è successo? Quali falsi riconoscimenti sono avvenuti tra antropologia, arte e altri discorsi? Si può indicare un teatro virtuale di proiezioni e riflessioni almeno nell’arco delle ultime due decadi. Per prima cosa, alcuni critici dell’antropologia hanno sviluppato una sorta di invidia dell’artista (l’entusiasmo di James Clifford per il collage interculturale del “surrealismo etnografico” è un esempio influente)24. Con questa invidia l’artista diventa un metro di paragone della proiezione
Jimmie Durham
Memoria disciplinare e distanza critica
Per concludere, voglio elaborare due punti, il primo ha a che fare con il luogo dell’arte contemporanea, il secondo con la funzione della riflessività al suo interno. Ho suggerito prima che molti artisti trattano condizioni quali desiderio o malattia come aree per il proprio lavoro. Così facendo lavorano orizzontalmente, in un movimento sincronico da questione sociale a questione, da dibattito politico a dibattito, più che verticalmente, in un coinvolgimento diacronico delle forme disciplinari di un dato genere o mezzo. A parte lo spostamento generale (notato nel capitolo 2) dalla “qualità” formalista all’“interesse” neoavanguardista, ci sono diversi segnali di questo movimento da una pratica mediumspecific (specifica al mezzo) a una discours-specific (specifica al discorso utilizzato). In “Other Criteria” (1968) Leo Steinberg riconosceva una svolta nei primi combines di Rauschenberg, da un modello verticale di immagine-come-finestra ad uno orizzontale di pittura-come-testo, da un paradigma “naturale” di immagine come paesaggio contestualizzato al paradigma “culturale” di immagine come rete di informazioni, che per lui rappresentava una specie di fase introduttiva del fare artistico postmoderno47. Ma un simile spostamento dal verticale all’orizzontale
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ma altri usano queste strategie allo stesso modo. In una performance del 1993 ad Art in General (New York) Rirkrit Tiravanija invitò gli spettatori a ballare sulla colonna sonora di The King and I in una parodia di stereotipi popolari (in questo caso della cultura sud-est asiatica) così come in un rovesciamento dei ruoli etnografici. In Import/Export Funk Office (1992) anche Renée Green ha ribaltato i ruoli etnografici quando ha interrogato il critico tedesco Dietrich Dietrichsen sulla cultura hip-hop. 47. Vedi Leo Steinberg, Other Criteria, Oxford University Press, New York 1972, pp. 82-91. 48. Lawrence Alloway, “The Long Front of Culture” (1959), in Brian Wallis (a cura di), This is Tomorrow Today: The Indipendent Group and British Pop, P.S.1, New York 1987, p. 31. 49. Questa richiesta è fatta da critici come Fredric Jameson e sviluppata da geografi urbani come David Harvey ed Edward Soja. Ritornerò su questo nel capitolo 7. 50. Una reazione simile contro l’arte incenerita dalla politica avvenne alla fine degli anni Trenta con l’ascesa del
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formalismo americano. Solo oggi una reazione simile non richiede il tempo di una generazione; può avvenire nel breve arco di una Biennale del Whitney, come suggerito dalla sua oscillazione dal coinvolgimento politico del 1993 all’irrilevanza stilistica nel 1995. Così, poi, il vecchio formalismo cercò di sublimare il rinnovamento politico nell’innovazione artistica; la sua versione contemporanea non ci prova nemmeno. 51. Per esempio, “razza” è un costrutto storico, ma il fatto di saperlo non rimuove il suo effetto materiale. Come oggetto feticistico, la conoscenza di “razza” non vince le credenze (e senza dubbio gli apprezzamenti) nei suoi riguardi; esistono fianco a fianco, anche, e specialmente, tra gli illuminati. 52. È questa impasse che spinge il culto dell’abiezione menzionato nel capitolo 5. Da una parte, questo culto è affaticato dalla politica di sinistra della differenza e del dubbio riguardo ai suoi sentimenti comunitari. Dall’altra rifiuta la politica della destra di disidentificazione e sta dalla parte dei dannati contro i reazionari.
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Cos'è
successo al postmoderno ?
Cos’è successo al postmoderno? Non molto tempo fa sembrava una teoria importante. Secondo Jean-François Lyotard il postmoderno metteva fine alle narrative dominanti che facevano apparire la modernità sinonimo di progresso (il progresso della ragione, l’accumulazione della ricchezza, l’avanzamento della tecnologia, l’emancipazione dei lavoratori, ecc.), secondo Fredric Jameson, invece, provocava una rinnovata narrativa marxista di stadi diversi della cultura moderna, connessi ai differenti modi della produzione capitalista1. Intanto, secondo critici coinvolti con l’arte d'avanguardia, il postmoderno segnalava un movimento di rottura con un modello ormai esausto di arte modernista che si concentrava sui dettagli formali trascurando le determinazioni storiche e quelle sociali. Perciò, persino all’interno della sinistra, anzi, soprattutto all’interno della sinistra, il postmoderno divenne una teoria dibattuta. Eppure, non molto tempo fa, si notava un senso di generica alleanza, addirittura un progetto comune, soprattutto in opposizione a posizioni destrorse, che andavano dai vecchi attacchi al modernismo in toto (in quanto fonte di ogni male nella nostra società edonistica) a nuove difese di modernismi particolari che erano diventati ufficiali, senza dubbio tradizionali, i modernismi del museo e dell’accademia2. Secondo quest’ultima posizione, il postmoderno era la “vendetta dei filistei” (una felice definizione di Hilton Kramer), il volgare kitsch degli agenti pubblicitari, delle classi basse e dei subalterni, una nuova barbarie che doveva essere evitata ad ogni costo, come il multiculturalismo. Per quanto mi riguarda, sostenevo un postmoderno che contestava simili politiche culturali reazionarie e difendeva le pratiche artistiche, non solo le critiche del modernismo istituzionale, ma anche quelle che suggerivano forme alternative, nuove modalità della pratica culturale e politica. E non abbiamo perso, ma è accaduto qualcosa di peggio: trattato come una moda, alla fine il postmoderno è diventato démodé. La teoria postmoderna è stata non solo svuotata dai media, ma anche discussa all’interno della sinistra, spesso a ragione. Nonostante il suo
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hal foster
è “spogliare il mondo esterno della sua estraneità tenace” e una funzione della storia dell’arte è di riflettere sull’arte come “una cosa del passato” – che è anche “mostrare come l’arte di culture aliene o passate possa diventare parte della vita mentale del presente” (Hegel, Introductory Lectures on Aesthetics, Penguin, London 1993, pp. 36, 13; Michael Podro, The Critical Historians of Art, Yale University Press, New Haven, 1982, p. xxii). Per una meditazione sulla distanza più vicina a Benjamin, vedi la conclusione di Aby Warburg, Images from the Region of the Pueblo Indians of North America, Cornell University Press, Ithaca 1995, esposto prima come lezione nel 1923. 52. “Lo storicismo si soddisfa con lo stabilire una connessione causale tra vari momenti nella storia. Ma nessun fatto che è una causa è solo per questa ragione storico. Diventa storico dopo, attraverso eventi che possono essere separati da esso da centinaia di anni” (Illuminations, p. 263). 53. Benjamin, Illuminations, p. 263. In queste “tesi” Benjamin intima una Nachträglichkeit all’opera nella storia (vedi nota 52), che disturba l’immagine di Panofsky di “concetti comprensivi e consistenti di periodi passati”.
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54. Questa posizione, che spazia da quella heideggeriana (vedi il suo “The Age of the World Picture” [1938]) a quella femminista (come in Luce Irigaray), può giocare nel risentimento contro la visualità notata nel capitolo 5. 55. Intendo distinzione nel senso di distinzione di classe di Pierre Bourdieu; vedi Distinction: A Social Critique of the Judgement of Taste (1979), Harvard University Press, Cambridge 1984. 56. Friedrich Nietzsche, The Birth of Tragedy and the Genealogy of Morals, Doubleday, New York 1956, p. 160, [trad. it.: La genealogia della morale, Adelphi, Milano 1984]. La “base” qui è la borghesia che propone “l’utilità” come un valore. 57. In un certo senso il critico intrappolato tra questi imperativi rimane nella situazione del dandy baudelairiano preso tra “distinzione” aristocratica e “livellamento” democratico (vedi capitolo 4). Come T.J. Clark nota in “Clement Greenberg’s Theory of Art” (Critical Inquiry, settembre 1982), molti termini critici mantengono le associazioni aristocratiche (“purezza”, “qualità”, ecc.), e molti critici rimangono nella posizione di compromesso del primo Greenberg – cioè, in un “Trotskyismo Eliotico” (p. 143).
Postfazione Emanuela De Cecco
Sono tante e di diverso ordine le ragioni per sottolineare l’importanza di questo libro e della sua pubblicazione in italiano a quasi dieci anni di distanza dall’uscita in lingua originale. Inizierei col dire che la portata de Il ritorno del reale non si esaurisce di certo in un arco di tempo così breve, ma anzi, come tutti i contributi significativi destinati a occupare un posto di rilievo nel panorama del pensiero, è proprio questa prospettiva temporale (una lieve differita la definirebbe l’autore) che ci consente di comprenderne appieno il valore, in particolare alla luce di quanto è accaduto in questi anni e alla luce della direzione che hanno preso molte cose di cui, allora, era dato agli sguardi più attenti vederne i germi ma non certo ancora i germogli. La vista lunga, d’altra parte, è un carattere presente in tutta la produzione di Hal Foster. Da Recoding: Art, Spectacle, Cultural Politics, a The Anti-Aesthetic, The Return of the Real, a Compulsive Beauty, fino a Design & Crime che i lettori italiani hanno già avuto modo di conoscere e dove si percepisce quasi fisicamente, l’urgenza di interrogarsi sulle ragioni e sulle possibilità di esistenza dell’arte di oggi, di continuare a confrontarsi con gli interrogativi drammatici e i paradossi che segnano la realtà dell’arte di questi anni, ma non solo.Tutti questi volumi riescono a scandire un passaggio importante degli sviluppi artistici negli ultimi decenni, in ognuno di essi l'autore parte da una prospettiva specifica che poi si rivela estremamente efficace nel condurci a riflettere su un contesto ben più ampio. Concentrando l’attenzione su Il ritorno del reale, ritengo siano in pochi ad avere dubbi che si tratti di uno dei contributi che più ha saputo attraversare il presente e offrire una lettura di episodi storicizzati, dal minimalismo, all’arte concettuale, al percorso di Andy Warhol, per arrivare agli sviluppi che hanno segnato una vera e propria svolta rispetto al passato prossimo agli inizi degli anni Novanta. Il procedere
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Emanuela De Cecco
di Hal Foster lo si può definire ragionevolmente complesso, in quanto da un lato continua a mantenere aperto e vivo il dialogo con la storia dell’arte, dall’altro si apre ad un confronto reale con discipline confinanti con l’arte stessa. Accennavo all’inizio a ragioni di diverso ordine e, dunque, se da un lato le ragioni interne già di per sé sono ampiamente sufficienti a considerarne necessaria la pubblicazione, ci sono altrettante ragioni contestuali che sarebbe auspicabile producessero un effetto a catena nel nostro modo (mi riferisco al contesto italiano attuale un po’ smemorato) di affrontare la disciplina critica. È un dato di fatto evidente a chiunque abbia sviluppato un interesse in questo ambito, quanto da un lato siano alti e numerosi gli steccati, i cancelli, i paletti che separano i percorsi di chi privilegia lo studio della storia dell'arte in una prospettiva storica da coloro che si dedicano a decifrare i fatti del presente e, dall’altro, come chi si dedica alla contemporaneità (con poche eccezioni) sia preda di un balbettio che rende difficile organizzare delle visioni di insieme e, in definitiva, come tra gli esponenti dei due versanti vi sia una reciproca diffidenza. Al contrario, è significativo che i saggi di Hal Foster contenuti nel presente volume si muovano nella direzione opposta, riuscendo a coniugare passato e presente. La presenza del passato è resa fortemente attuale e si offre come conoscenza indispensabile ad analizzare il presente, così come l’inquietudine e l’incertezza che caratterizza l’oggi è un elemento che illumina episodi di ieri dei quali originariamente non era possibile coglierne interamente la portata. Uno degli aspetti più efficaci di questo percorso prende origine dal continuo interrogarsi, nel non dare mai per acquisiti significati che vengono attribuiti in tempi e contesti diversi agli stessi termini, questo vale per il readymade duchampiano e dunque per gli sviluppi che oggi hanno trasformato “quel” gesto in una pratica diffusa, vale per le definizioni del realismo, vale per le reinterpretazioni dell’arte minimal, vero e proprio linguaggio classico della contemporaneità che, più di qualunque altro, è stato adottato dai protagonisti dello scenario attuale provenienti da contesti non occidentali. Ne Il ritorno del reale la storia vista con gli occhi di oggi non è un terreno dove tessere facili celebrazioni, né un rifugio rassicurante da cui guardare lo sviluppo caotico del presente, ma è una presenza importante che assolve al compito di aumentarne la consapevolezza. Le incursioni con cui l’autore relaziona episodi storici e attualità ci insegnano ad esercitare uno sguardo che non si appiattisce sull’oggi, che non cerca giustificazioni nella mancanza di memoria, che non cerca assoluzioni in forme semplificate di relativismo.
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postfazione
Se dunque questo dialogo incessante – non sempre facile da seguire perché presuppone che anche il lettore sia nella felice condizione di maneggiare con familiarità tanto la storia e la critica dell’arte del passato quanto del presente – si pone come stimolo che attraversa il dibattito critico-artistico lungo la linea del tempo, credo sia altrettanto necessario rimarcare la presenza di una linea che si sviluppa con altrettanta ampiezza lungo un’asse orizzontale. In questo senso l’autore mette in una relazione proficua (non si tratta di semplici citazioni) le questioni centrali dell’arte di oggi con i nodi del pensiero contemporaneo. Tanto il pensiero di alcuni antropologi, Clifford Geerz per primo, quanto l’eredità del pensiero filosofico e politico di Benjamin e Marx, Debord e Derrida, quanto il pensiero psicoanalitico lacaniano, sono interlocutori di Hal Foster nella costruzione di una difficile mappa della contemporaneità. Lontano dall’idea, questa sì ipocritamente rassicurante, che oggi sia possibile confrontarsi con l’arte come se si trattasse di un mondo a parte, governato da leggi proprie e abitato da un'etnia protetta, Hal Foster affronta senza mai tirarsi indietro le questioni problematiche che accompagnano il lavoro degli artisti, dei critici, dei curatori di oggi in relazione al contesto in cui tutto questo avviene, intrecciandosi con le regole della nostra cosiddetta società dello spettacolo. Uno degli aspetti che rende unico questo contributo è proprio il coraggio di guardarsi allo specchio e non escludere mai la possibilità che l’oggetto delle proprie attenzioni (di una vita di attenzioni) abbia perso completamente senso. La difesa di una disciplina, le ragioni di esistenza della critica d’arte, sono affermate in relazione alla possibilità di continuare ad esercitare uno sguardo consapevole, non al fine di difendere un privilegio nobiliare. Senza alcuna presunzione, senza arroganza, il corpo a corpo con l’arte e il sapere contemporaneo di cui Il ritorno del reale è il risultato, squarcia un velo su tanti taciti compromessi e regole non dette sui quali si fondano molte relazioni che determinano tanto l’organizzazione del sapere accademico, quanto il funzionamento del cosiddetto sistema dell’arte. L’autore ci conduce per mano in un contesto dove sono più i problemi che le soluzioni, ma nonostante tutto questo, o meglio, grazie a tutto questo, a noi arriva lo stimolo per continuare a cercare di comprendere, permettendo all’arte (per dirla con le stesse parole di Hal Foster) di “continuare a vivere”.
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indice dei nomi
Act Up 176 Adorno, Theodor W. 113, 223 Alloway, Lawrence 202 Althusser, Louis 20, 21, 41, 97, 189, 214 Anderson, Laurie 69, 84 Andre, Carl 21, 34, 51, 67 Aragon, Louis 25, 218 Aristotele 137, 139 Arman 27 Asher, Michael 34, 57, 70, 93 Baker, Josephine 181 Ball, Hugo 127, 157 Balzac, Honoré de 86 Barney, Matthew 151 Barr, Alfred 27 Barthes, Roland 11, 61, 85-86, 92, 99, 100, 123, 134, 137-139, 179, 214, 216, 222, 224 Bataille, George 119, 145, 150, 154, 156157, 160, 180, 182, 183 Baudelaire, Charles 36, 95, 97, 125, 160 Baudrillard, Jean 88, 96, 98, 111, 119, 124, 134, 137, 222 Baumgarten, Lothar 41, 194, 203 Bell, Clive 22 Bell, Larry 51, 52 Benedict, Ruth 185 Benjamin, Walter 28, 31, 95, 96, 97, 115, 124, 125, 126, 138, 161, 175-176, 178, 188, 199, 203, 213-214, 222-224, 227-228, 229 Bhabha, Homi 189, 222 Bickerton, Ashley 105, 107, 108, 110, 111 Blake, Nayland 157 Bleckner, Ross 106 Bloch, Ernst 26 Bloom, Barbara 100 Bochner, Mel 23 Bonaparte, Luigi 29, 160 Borges, Jorge Luis 21 Bourdieu, Pierre 185 Brancusi, Constantin 21, 67 Brauntuch, Troy 97 Brecht, Bertold 175
Breton, André 25, 125, 145, 156-157 Broodthaers, Marcel 34, 35, 125 Buchloh, Benjamin 70, 97, 98-99, 100 Buren, Daniel 34, 35, 36, 70 Bürger, Peter 24, 25-31, 35, 38, 39, 68 Burgin, Victor 97, 100 Bush, George 51, 216 Cage, John 53 Caillois, Roger 160 Caravaggio 149 Cartesio 183 Castelli, Leo 27 Céline, Louis-Ferdinand 155 Césaire, Aimé 180, 182 Chamberlain, John 59 Clark , Timothy J. 11 Clark, Larry 153 Clegg & Guttmann 197 Clément, Catherine 219 Clifford, James 184, 185 Connor, Maureen 157 Courbet, Gustave 125, 177 Crimp, Douglas 69, 100 Crow, Thomas 134-135 Cunningham, Merce 53 David, Jacques Louis 177 de Andrea, John 151 de Kooning, Willem 27 de Man, Paul 97 de Saussure, Ferdinand 20, 56, 87 Debord, Guy 199, 214, 215, 222, 223, 224 Deleuze, Gilles 41, 76, 109, 134, 182, 214, 216, 222 Derrida, Jacques 11, 41, 85, 87, 91, 97, 214, 221, 222 di Suvero, Mark 59 Dion, Mark 38, 199 Dubuffet, Jean 186 Duchamp, Marcel 11, 21, 25, 32-33, 36, 53, 59, 67, 91, 92, 114, 115, 116, 125, 158 Durham, Jimmie 200 Eddy, Don 143 Edgard Heap of Birds 198, 203 Edwards, Jonathan 64
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L'antiestetica Saggi sulla cultura postmoderna Hal Foster
postmedia books 2014 isbn 9788874901227
Le avventure dell'estetica costituiscono una delle grandi narrazioni della modernità: dall'epoca della sua autonomia attraverso quella dell'arte per l'arte, allo status di categoria necessariamente negativa, una critica del mondo così com'è. È proprio quest'ultima fase (immaginata brillantemente dalle ricerche di Theodor Adorno) che è difficile abbandonare: la nozione di estetica come attività sovversiva, un interstizio critico in un mondo altrimenti strumentale. – Hal Foster
Con L'antiestetica Hal Foster chiama a raccolta critici autorevoli – Jürgen Habermas, Jean Baudrillard, Kenneth Frampton, Rosalind Krauss, Douglas Crimp, Craig Owens, Gregory L. Ulmer, Fredric Jameson e Edward W. Said – con lo scopo di investigare sull'intera gamma della produzione culturale postmoderna. Quando è uscito, agli inizi degli anni Ottanta, L'antiestetica ha rappresentato un libro fondamentale che ha fatto il punto sull'influenza della cultura postmoderna, sulle guerre culturali che in qualunque campo – architettura, arte contemporanea, musica, cinema e fotografia – si sono combattute fra modernisti e postmodernisti.
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postmediabooks
Il complesso Arte-Architettura Hal Foster
postmedia books 2017 isbn 9788874901708
Negli ultimi cinquant'anni numerosi artisti hanno allargato gli ambiti di pittura, scultura e film allo spazio architettonico circostante, proprio mentre numerosi architetti esploravano il campo dell'arte visiva. A volte una collaborazione, a volte una competizione, questo incontro costituisce oggi, nell'economia della nostra cultura, la base principale per la produzione di immagini e la configurazione degli spazi. – Hal Foster
Già in Design & Crime Hal Foster sostiene che la fusione tra arte e architettura è la caratteristica distintiva della cultura contemporanea. Con Il complesso Arte-Architettura egli identifica uno "stile globale" dell'architettura, quella praticata da Norman Foster, Richard Rogers e Renzo Piano, analogo allo stile internazionale di Le Corbusier, Gropius e Mies van der Rohe. Più di qualunque arte, questo stile globale di oggi trasmette sia i sogni che le illusioni della modernità. Hal Foster dimostra come lo studio del "complesso arte-architettura" fornisca informazioni preziose su traiettorie sociali ed economiche più ampie che hanno urgente bisogno di analisi. Stephan Walker (The Times Higher Education) sostiene che piu il più importante contributo di Foster a questo dibattito è la sua capacità di "seguire la traiettoria di una relazione scomoda tramite connessioni alla tecnologia, alla politica e varie pratiche".
postmediabooks
Pop Art Pittura e soggettività nelle prime opere di Hamilton, Lichtenstein, Warhol, Richter e Ruscha Hal Foster
postmedia books 2016 isbn 9788874901609
Una delle ragioni alla base di questa pubblicazione era la necessità di scervellarsi sulla valenza politica della pop art, di chiedersi, soprattutto, se essa sia mai stata critica nei confronti della cultura popolare, o se invece ne sia sempre stata complice. È risultato chiaro fin da subito, tuttavia, come la questione non possa porsi come un'alternativa netta, e come la maggior parte degli artisti considerati punti piuttosto a un'"ironia dell'affermazione", tendente a spiazzare sia i favorevoli che i contrari. Alcuni critici vedono questo spiazzamento come un modo per avere la botte piena e la moglie ubriaca, soddisfacendo, in un sol colpo, i bisogni della cultura "alta" e di quella di massa. – Hal Foster
Agli inizi degli anni Sessanta la pop art combina pittura e fotografia l'una con l'altra e l'effetto di immediatezza con quello della mediazione; grazie a questa combinazione la pop art è abile nello sfruttare la tradizione artistica mentre mette allo stesso tempo in primo piano la cultura contemporanea. Ciò consente ai suoi artisti profonde sovrapposizioni tra immagine e soggettività, un trattamento del mondo dell'immagine né critico né complice che non fa altro che ampliare l'ambiguità di fondo. Lo sguardo a ritroso di Hal Foster solleva questioni importanti anche sull'arte attuale, come ne Il ritorno del reale l'autore si chiede "in che modo il presente a sua volta rilegge il passato?". Ad esempio, cos'è cambiato nell'aspetto dell'arte odierna con le immagini proiettate e digitalizzate? Il nostro ambiente multimediale è diverso qualitativamente da quello descritto da Warhol e compagni? Abbiamo superato l'età pop o viviamo ancora sotto la sua influenza?