Da spazio nasce spazio L’interior design nella trasformazione degli ambienti contemporanei di Luciano Crespi Š 2013 Postmedia Srl, Milano Book design: Lilia Di Bella In copertina: Ugo La Pietra, Interni, 2012 www.postmediabooks.it ISBN 978-88-7490-088-6
Da spazio nasce spazio L’interior design nella trasformazione degli ambienti contemporanei
Luciano Crespi
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Verso uno spazio integrato, Andrea Branzi 7 Introduzione 11 1. La città labirinto 13 2. Abitare en passant 17 3. Cambio di prospettiva 21 4. La città temporanea 25 5. Congetture 27 6. Dentro i dispositivi 31 7. Diagrammi concettuali 43 8. Riconoscere lo spazio 49 9. C’era una volta il genius loci 55 10. Il luogo e l’anima 59 11. Neotopie 63 12. In cerca di strategie 67 13. Il gioco delle perle di vetro 71 14. Naturalismo surrealista: Franco Albini 73 15. Luoghi archetipici: Ettore Sottsass 79 16. Silenzi eloquenti: Ludvig Mies van der Rohe 87 17. Ready-made: Achille e Piergiacomo Castiglioni 93 18. Stanze-stanze: Gio Ponti 103 19. Spazi ermafroditi: Alessandro Mendini 113 20. Interni perturbanti: Philippe Starck 123 21. Flexiscape: Ronan e Erwin Bouroullec 133 22. Spazi disequilibranti: Ugo La Pietra 141 23. Proun: El Lisitskij 149 24. Allestire ambienti 151 25. Luci e ombre 159 26. Interni urbani 163 Arti e spazio. Interni dell’arte: ladri di vite, Angela Rui 173 Colore interno, esterno, immaginario, Manlio Brusatin 179
Verso uno spazio integrato Andrea Branzi
Esistono molti libri sulla storia degli stili di arredamento, per esempio la famosa Filosofia dello Stile (1881) di Herbert Spencer e numerosissimi manuali sull’edilizia residenziale; ma non esiste (e forse non esisterà mai) una “Storia dell’Interior Design” intendendo con questo termine una realtà che si colloca in maniera del tutto autonoma tra la storia dell’Architettura e il Product Design. Questo libro parte proprio da questa constatazione di fatto: l’interior design non è stato ancora indagato come un corpus disciplinare autonomo, dotato di una propria capacità di incidere sulle qualità urbane generali. Lo spazio interno all’universo urbano è sempre stato interpretato come testimonianza di fenomeni che interessano una parte della sociologia urbana e non un’area centrale della cultura del progetto. Esiste una difficoltà oggettiva nel ricostruire le vicende storiche di questa attività che si pone sul limite estremo tra progetto e non progetto; infatti nel mondo “non esistono due abitazioni uguali” perché ciascuna di loro costituisce una fenomeno autonomo, il teatro di una memoria o di una vicenda individuale. Anche se l’aspetto esterno delle case è identico, al loro interno il sistema degli oggetti, la loro disposizione, le modalità d’uso, sono sempre diverse. Ogni individuo stabilisce un legame profondo con questa realtà, attraverso relazioni affettive e simboliche, che danno luogo a un imprinting profondo nel suo subconscio. Nel suo libro su L’interpretazione dei sogni Sigmund Freud sottolineava la vicinanza che esiste tra l’interno della psiche umana e l’interno della casa in cui il soggetto ha vissuto. Traumi, sogni, incubi o ossessioni hanno spesso avuto origine nelle atmosfere domestiche e nelle suppellettili che vi si trovano. Nel suo studio di Vienna, stracolmo di oggetti primitivi, Freud faceva rivivere, attraverso di questi, i traumi ambientali (spesso infantili) del paziente. L’interno di ogni casa è quindi una sorta di scatola diagnostica, un laboratorio psicoanalitico che ogni soggetto elabora in maniera originale.
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Per questo motivo la cultura degli interni non può essere studiata utilizzando criteri di ordinamento generali, ma piuttosto attraverso mappature che permettano di dare spazio alle infinite zone intermedie che caratterizzano queste innumerevoli varianti. La natura sfuggente dell’uso degli spazi domestici rende particolarmente originale il percorso pedagogico di questa disciplina, che si svolge ancora oggi attraverso un lungo percorso (sempre incompleto) di singoli esempi. Gran parte di questi esempi vengono scelti tra quelli in cui si è verificata una coincidenza tra le forme dell’involucro architettonico “esterno” e quelle degli ambienti “interni”. In altre parole si ritiene ancora fondamentale l’unità linguistica tra interno e esterno, a testimonianza dell’unicità del percorso progettuale spesso realizzato da un solo architetto, che abbia firmato, partendo dal tetto, anche i tavoli e le sedute. Questo saggio di Luciano Crespi vuole dimostrare che la progettazione degli spazi interni costituisce una attività che possiede fondamenti culturali autonomi e che si pone fuori dall’idea che possa ancora esistere una unità oggettiva tra logica urbana, qualità architettonica e interior design. La “scuola di pensiero” che si è progressivamente formata nell’ultimo decennio all’interno del Corso di Studi in Interior Design, del Politecnico di Milano, ha sviluppato questo concetto, indagandone l’originalità e l’enorme potenziale. Il XXI secolo è nato all’insegna del fallimento dell'idea di Modernità monologica e auto-referenziale, concentrandosi su una filosofia molto diversa, tesa a valorizzare gli spazi interni della città come una realtà indipendente, in grado di definire la “qualità interna” dell’intero universo costruito, riciclando le aree industriali dismesse, attraverso scenari provvisori, istallazioni, infrastrutture reversibili, dove la differenza tra spazio privato e spazio pubblico tende a scomparire, per rispondere alle continue e imprevedibili necessità di una società in trasformazione. Queste necessità sono spesso il risultato incontrollabile di un flusso di micro-progetti e di sotto sistemi ambientali in grado di garantire la rifunzionalizzazione urbana e la penetrazioni negli spazi interstiziali della domesticità. Un buzz design, dunque, elaborato da molti autori (anche anonimi) che seguono logiche del tutto indipendenti dall’organismo rigido dell’architettura e della struttura urbana.
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L’avvento della produzione di serie degli oggetti di arredamento, ha costituito una ulteriore rivoluzione nel rapporto di discontinuità tra l’architettura e i suoi spazi interni, perché le merceologie industriali sono per loro natura portatrici di una logica di mercato del tutto svincolata dall’identità dei singoli luoghi e possono essere liberamente assemblate per creare tessuti funzionali, provvisori e trasferibili altrove. In altre parole il XXI secolo è segnato dal passaggio da una Civiltà Architettonica a una Civiltà Merceologica (o Oggettuale) dove il concetto di Città non corrisponde a un insieme di “scatole architettoniche” ma a un flusso di prodotti, informazioni, servizi e scambi che attraversano lo sterminato territorio della “globalizzazione”, sia quello del mercato reale che quello del mercato mediatico. Quella nata dalla Terza Rivoluzione Industriale è una società che non opera più attraverso progetti definitivi, forti e concentrati, ma attraverso dispositivi flessibili, deboli e diffusi, che le permettono di adeguarsi al continuo mutare dei mercati, alle trasformazioni tecnologiche e agli assetti interni di una società riformista che non possiede più un modello di riferimento unico, ma deve costantemente adeguarsi per rispondere a equilibri politici e sociali locali in continuo cambiamento. La questione degli interni oggi si pone nel quadro di queste trasformazioni storiche; non come un’area di competenza di un piccolo settore professionale, ma come attività che svolge un ruolo fondamentale nel funzionamento complessivo della città e della società, nell’epoca della globalizzazione.
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Gruppo di studenti in un interno, Copenaghen 2009 Gruppo di studenti in un esterno, Copenaghen 2009
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L’idea di questo libro è maturata lentamente nel tempo, in contemporanea con il lavoro di sperimentazione condotto all’interno dei laboratori di progetto e alle discussioni quotidiane con alcuni colleghi interessati a fondare una scuola di design degli interni, basata su una propria identità, riconoscibile nel panorama delle scuole internazionali di interior design. Ci è sembrato sempre più evidente che ci si stava muovendo in un clima contradditorio, contrassegnato dalla crisi dei vecchi modelli didattici, ereditati dalla tradizione delle facoltà di architettura, e nello stesso tempo dalla difficoltà di affrancarsi da quella tradizione stessa. Si è iniziato perciò un lavoro orientato in una precisa direzione, ma fondato anche su continue sperimentazioni. Un po’ come il viaggio di una barca a vela che conosce la sua rotta, ma per cogliere meglio il vento è costretta a numerosi cambi di direzione. In questo ininterrotto accumularsi di idee, esperienze, prove ed errori, si è rivelato determinante il ruolo degli studenti. Si tratta di una nuova generazione di giovani a volte smarriti, orfani di punti di riferimento nella società, incerti sul loro futuro, ma pronti a sorprenderci e soprattutto capaci di performance inaspettate quando li si chiama a partecipare alzando la posta in gioco. Solo così sanno dare il meglio di sé. Questo libro si rivolge soprattutto a loro, e più in generale a chi si vuole avvicinare al mondo del design d’interni. Il titolo si rifà a Da cosa nasce cosa di Bruno Munari, di questa opera vorrebbe recuperare la narrazione leggera, disincantata, lontana dai testi di tipo manualistico o storico1 che recentemente sono comparsi sull’argomento. Da spazio nasce spazio è piuttosto una guida che intende accompagnare il lavoro di progetto dai momenti iniziali, quelli destinati a produrre forme patologiche di ansia di fronte al foglio bianco in attesa che qualcuno vi depositi sopra un primo segno, a quelli successivi, non meno complicati, ma nei quali ci si sente a volte così spavaldi da perdere la bussola, dimenticando che altri hanno percorso quella strada lasciando un’eredità che non deve essere dispersa.
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Introduzione
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Soprattutto, il libro è il tentativo di indirizzare la ricerca e l’attività progettuale verso territori inesplorati, aree di confine, incroci di generi, da affrontare con lo stessa disponibilità a nuotare controcorrente dimostrata da alcuni dei protagonisti delle esperienze che nel libro vengono richiamate. Le note indicano studi precedenti che hanno toccato argomenti simili in modo autorevole. Si è trattato, dunque, di compiere una ricognizione mirata a ricomporre frammenti di discorsi o di esperienze in qualche modo già presenti sulla scena, per offrirli attraverso una narrazione che andrebbe letta come un romanzo, dall’inizio alla fine, resistendo alla tentazione, probabile, di saltare all’ultimo capitolo per vedere come va a finire. Un ringraziamento speciale va a Manlio Brusatin per aver accettato di trattare un argomento difficile ma cruciale nell’economia del testo: non so chi meglio di lui avrebbe potuto farlo; ad Angela Rui per aver introdotto con intelligenza e competenza uno dei temi di frontiera più delicati; ad Andrea Branzi per la prefazione e per avermi cambiato il modo di vedere i temi di cui il libro si occupa; ai colleghi con cui ne ho discusso negli ultimi anni; a Pier Francesco Forlenza per avermi incoraggiato nelle mie spericolate incursioni nel mondo della musica; a Isabella Vegni e Osvaldo Pogliani per i consigli e le osservazioni sul testo e, naturalmente, alle mie studentesse e ai miei studenti.
1. Cfr. Simona Canepa, Marco Vaudetti, Architettura degli interni e progetto dell’abitazione, Utet, Torino 2011, con un taglio manualistico; Penny Sparke, Interni moderni. Spazi pubblici e privati dal 1850 a oggi, Einaudi, Torino 2011, una ricostruzione dell’evoluzione degli spazi a partire dalla metà dell’Ottocento, che dedica poche righe alla contemporaneità.
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Rivisitare oggi la Fondazione Querini Stampalia di Venezia costituisce una magnifica occasione per ragionare attorno al tema degli interni. Innanzitutto partiamo dal progetto di Carlo Scarpa, così veneziano per il modo con cui affronta le questioni del rapporto con l’architettura esistente e con l’acqua. La storia di Venezia è straordinariamente ricca di esempi che mostrano come la città sia cresciuta in più parti attraverso un procedimento fondato sull’accumulazione di nuovi strati, che si aggiungono a quelli esistenti anche in modo imprevedibile, talmente ingegnoso da apparire quasi sfrontato, spesso in funzione del cambiamento delle modalità d’uso degli spazi, sia interni che esterni. Un esempio tra i tanti: in seguito ad un terribile incendio che nel 1514 distrusse gran parte dell’insula di Rialto, da sempre riservata ad attività commerciali e finanziarie, il Senato della Repubblica conferì ad Antonio Abbondi (detto lo Scarpagnino) l’incarico di riprogettare tutta l’area con grande celerità e secondo criteri di sicurezza, efficienza e ordine. Il suo progetto riguardava principalmente le cosiddette Fabbriche vecchie, cioè gli edifici a portici destinati ad ospitare i banchi dei banchieri ai quali si rivolgevano i mercanti per le transazioni economiche. All’interno di questa struttura viene inserita la chiesa di San Giovanni Elemosinario, la cui fondazione appare molto antica, tanto che già nel 1071 c’è notizia del crollo del suo campanile poi ricostruito alla fine del XIV secolo. All’epoca in cui Scarpagnino lavora sono fortissimi i legami tra la chiesa e le potenti congregazioni delle arti e mestieri, che finanzieranno le splendide opere, tra cui le pale di Tiziano e di Pordenone, destinate a decorare (a partire dal 1531) gli interni della chiesa stessa. La sua ricostruzione, pertanto, risulta non solo fortemente improntata ad un linguaggio di grande semplicità, al fine di rispondere al carattere del quartiere; ma anche originalmente contrassegnata dalla rinuncia ad ogni pretesa di teatralità e dalla ricerca di dialogo con l’architettura della città in cui si trova. Al punto da presentarsi, sulla calle, come una porzione del tessuto di botteghe di cui è composta questa parte
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La città labirinto1
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Louisiana Museum, Humlebaek, Copenaghen
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Vista sotto una prospettiva più ampia, la questione del rapporto tra gli ambienti abitati e la città diventa di cruciale importanza, perlomeno in relazione al dibattito sul ruolo del progetto degli interni oggi, in una fase cioè di profonda trasformazione dei modi di abitare nella contemporaneità. Si abita en passant, sostiene JeanLuc Nancy, come “un passante frettoloso o un flâneur, indaffarato o sfaccendato, che passa costeggiando altri passanti, così vicini e così lontani, familiarmente strani, le cui soste sono solo provvisorie: nel mezzo del traffico, degli acquisti, dei trasporti e dei tragitti, delle porte continuamente aperte e chiuse su dimore appartate e tuttavia ancora invase dal brusio della strada, dai rumori e dalle polveri di un mondo che, tutt’intero, passa”1. Si abita in città che fanno sempre più parte di circuiti finanziari, commerciali, culturali di tipo globale, e che tendono a mettere in discussione le precedenti nozioni di identità e differenza. Eppure, contemporaneamente, siamo di fronte anche all’affermarsi di nuovi fenomeni che mostrano come le relazioni sociali in grado di produrre significati avvengano in luoghi fisici o siti simbolici specifici. O, in altri termini, che i processi globali “si fissano nei luoghi”2, mostrando che la globalizzazione non è in grado di eliminare la territorialità. Al contrario è proprio l’esistenza di una forma di economia globale a determinare uno spazio ricco di differenze, qualcosa di simile ad un labirinto all’interno del quale chi abita lo fa alla maniera del viaggiatore che, coinvolto dal flusso delle esperienze, transita da una stanza all’altra disegnando a terra percorsi labili e provvisori3. In questo modo il territorio diventa, nel momento in cui i luoghi tornano ad esprimere una loro identità e differenza, un fattore determinante del “processo di differenziazione creativa”. Ciò porta a rendere sempre più importante quella che Flavio Carmagnola e Vanni Pasca chiamano “economia del simbolico”4, intesa come sfondo del processo destinato ad attribuire ai prodotti valore culturale e relazionale, oltre che di scambio e d’uso.
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2. Abitare en passant
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Henning Larsen, IT University, Copenaghen 2004
Interni/esterni: Sou Fujimoto, Tokio apartments, 2010, modello
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È in questo scenario che la cultura del design ha assunto una fisionomia diversa, diventando, come scrive Andrea Branzi, prima di essere motore dello sviluppo economico una cultura sociale, un sorta di paesaggio mentale, riformista ed elegante, nel quale gran parte, per esempio, della società urbana milanese si è riconosciuta. Oggi possiamo parlare di cultura del “design d’interni” come di una cultura che affonda le sue radici nella storia dell’architettura degli interni, ma che, al tempo stesso, rivendica una propria autonomia. Nel testo Progettare l’architettura d’interni1 viene introdotta una distinzione tra “Architettura degli interni” e “Design degli interni”, fondata soprattutto su una descrizione di quelli che sarebbero le rispettive sfere di pertinenza. Per cui alla prima competerebbe il compito di riadattare edifici preesistenti, di proporre ipotesi di riuso e di ridefinizione dei principi organizzativi sui quali si impernia lo spazio. Insomma di fare da ponte tra l’architettura e l’interior design. Mentre il secondo costituirebbe una pratica interdisciplinare, destinata a attribuire agli ambienti “l’identità e l’atmosfera attraverso la manipolazione di elementi specifici come gli arredi e la finitura delle superfici”2. Ciò attraverso modalità di intervento che richiedono modifiche strutturali limitate e che presentano, in generale, un carattere effimero. Penso che non siano tanto questi i fattori che fanno ritenere possibile oggi parlare di cultura dell’interior design e che si debba invece ragionare su alcuni aspetti che contraddistinguono il tempo in cui viviamo. Il primo è costituito dalla globalizzazione del mercato, che pone in modo completamente diverso la questione del rapporto tra ambienti e attrezzature. Accade che segmenti sempre più significativi di valore stanno a monte e a valle del processo produttivo. Vale a dire nella ricerca e sviluppo, nel marketing strategico, nella logistica, nell’assistenza al cliente e nell’accompagnamento del prodotto, nella comunicazione, nella innovazione continua3. Ed in questo appare perciò vincente la tradizione del design italiano, non solo per
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3. Cambio di prospettiva
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confronto e incontro anche tra generazioni diverse: e questo grazie al ruolo sempre più importante assegnato alla presenza sia, al suo interno, di uno spazio proiettato ad accogliere l’utente in modo amichevole; sia di un sistema articolato sul territorio di “antenne”, in grado di svolgere il ruolo di diffusori di informazione. Parallelamente a questo processo, che si potrebbe dire di esportazione degli interni all’esterno, si assiste a quello di trasformazione di una parte degli esterni in interni. Vale a dire in spazi ospitali, accoglienti, destinati a rendere la città non più soltanto una macchina efficiente, modellata per produrre valori di scambio, ma un organismo amichevole, da abitare. In uno dei suoi importanti studi sulla città contemporanea, Saskia Sassen parla di borderlands6, spazi di confine, “ponti” tra le diverse realtà che vanno gettati e che possono essere rappresentati da una nuova generazione di spazi pubblici. Ciò che viene messo in evidenza è la diffusione di una differenziazione specializzata capace di favorire e far prosperare le operazioni economiche e che trova ospitalità in un ambiente architettonico che si presenta sotto forma di “infrastruttura abitata”, dentro la quale svolgono un ruolo sempre più rilevante gli spazi interstiziali, i terrains vagues. I quali favoriscono il moltiplicarsi di nuove forme di economia, in particolare delle economie informali e soprattutto di quelle creative. Che potrebbero, in prospettiva, diventare centrali e cambiare la natura stessa della città. Insomma si pone il problema, nuovo per la cultura del progetto, di ripensare questi spazi interstiziali, questi non-luoghi in cui “nessuno si sente a casa propria, ma non si è nemmeno a casa degli altri”7.
1. Cfr. Graeme Brooker, Sally Stone, Progettare l’architettura d’interni, Zanichelli, Bologna 2010 2. Ibidem, p.16 3. Cfr. Andrea Ranieri, I luoghi del sapere, Donzelli, Roma 2006 4. Maurizio Carta, Next City: culture city, Meltemi, Roma 2004, p.22
5. Walter Benjamin, "Napoli", ora in id. Immagini di città, Einaudi, Torino 2007, p.13 6. Cfr. Saskia Sassen, Perché le città sono importanti, in Città. Architettura e società, Marsilio/Biennale di Venezia, Venezia 2006 7. Cfr. Marc Augé, Tra i confini, Bruno Mondadori, Milano 2007
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Siamo di fronte a modi di abitare nei quali prevalgono mobilità e provvisorietà e che Stefano Boeri, nel suo libro L’anticittà, individua come uno dei tratti caratteristici della città europea contemporanea: “Mai come in questi ultimi anni la città europea è diventata una sorta di grande accampamento; la sede per soste temporanee e progetti di vita mobili”1. È in questa prospettiva che vanno viste alcune operazioni recenti, legate all’uso del territorio, apparentemente riconducibili al tema dell’evento occasionale, della performance, ma in realtà anticipatrici di una modalità di intervento con la quale la cultura del progetto è chiamata, già oggi, a misurarsi. è il caso, tra i tanti, del TIM Festival del 2007, organizzato in due serate a Rio de Janeiro, in un’area con vista sulla baia di Guanabara, con il famoso picco del Pan di Zucchero. Qui lo studio Bernardes + Jacobsen per l’occasione progetta un microinsediamento facendo assemblare in una settimana oltre 250 container, da utilizzare in parte come servizi in parte per delimitare i luoghi entro cui dare vita agli spettacoli. All’evento partecipano più di 23.000 persone e la struttura viene smantellata in pochi giorni, lasciando sul territorio soltanto la memoria di quell’avvenimento. Come una scia sull’acqua, destinata in un attimo a disperdersi. È qualcosa di ben diverso dagli allestimenti settecenteschi che hanno caratterizzato la scena urbana, in occasione di feste o di grandi avvenimenti, e che vedevano comunque la città esistente fare da quinta entro cui l’evento trovava una naturale collocazione. Qui invece l’allestimento per l’evento aggiunge nuovi pezzi alla città, in qualche caso vi si sostituisce provvisoriamente, rendendo possibile una nuova forma di metabolismo urbano, rappresentato dal continuo formarsi di organismi dalla vita breve, che presto scompaiono lasciando soltanto la loro eco e le cui forme sembrano appartenere molto di più al mondo del design che a quello dell’architettura. Sono queste le vere ragioni dalle quali partire per disegnare nuove modalità di approccio alla questione della progettazione degli interni
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4. La città temporanea
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e che richiedono di misurarsi, anche attraverso il confronto con il mondo dell’arte e la cultura del progetto di allestimento, con i temi della temporaneità, dell’effimero, della reversibilità. Senza per questo, però, dover rinunciare alla ricerca di profondità, di senso, di identità ed anzi assumendola come una priorità. Di questo va tenuto conto quando ci si avvicina ad un nuovo tema progettuale riguardante uno spazio interno o un interno urbano.
1. Stefano Boeri, L’anticittà, Laterza, RomaBari, 2011, p. 43
Cena del Leocorno, via Pantaneto, Siena 2011- Festival delle luci, Lyon 2011
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In principio c’è sempre un tema. Può essere più o meno complesso, dal punto di vista delle dimensioni, della natura delle attività che racchiude, del valore simbolico cui è associato. Ma in generale si può dire che progettare, all’interno di architettura già esistenti, un piccolo alloggio, un bar, un negozio, non è molto più semplice che progettare un museo, una biblioteca o degli spazi per l’apprendimento. In ogni caso il tema non rappresenta mai soltanto una funzione o più funzioni. Ha sempre un valore più ampio, che va colto e interpretato. Progettare un alloggio, per esempio, non significa soltanto assemblare degli ambienti che corrispondono a delle attività (mangiare, dormire, incontrare amici, lavarsi, ecc.). Significa dare risposta ad un bisogno che ha radici profonde e lontane, che cambia nel tempo, che è legato a pratiche e rituali fondamentali per la vita dell’uomo. Quindi quando si affronta il tema, il primo passo deve essere quello di cercare di capirne il senso profondo e tradurlo in una prima idea che abbia un valore programmatico. Tanto più si ha esperienza, tanto più si è lavorato su temi analoghi, tanto più questa operazione diventa in un certo senso naturale, in quanto si può accedere a quella sorta di archivio mentale che il progettista costituisce nel corso del tempo. È come se si partisse dalla formulazione di una congettura. Qualcosa di simile a quello che i semiologi chiamano metodo abduttivo: “Le abduzioni, come le induzioni, non contengono in sé la propria validità logica e devono essere convalidate dall’esterno. Peirce qualche volta chiamava le abduzioni ipotesi (oppure a volte inferenze presuntive) e, in termini odierni, è proprio quello che la conclusione dell’abduzione rappresenta: una congettura sulla realtà che necessita di essere convalidata da una prova sperimentale”1. E che nel mondo della scienza è stato chiamato metodo per prova ed errore, a partire da una profonda revisione avvenuta, nel corso degli ultimi trent’anni, della stessa nozione di scientificità. Messa a soqquadro, rispetto agli statuti precedenti, da una serie di studi che hanno rivalutato il valore della nozione di caso e, in relazione a ciò, degli approcci legati ad una diversa nozione di
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5. Congetture
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metodo2. Karl Popper parlava di ipotesi scientifiche come congetture da corroborare o falsificare attraverso l’indagine sperimentale. Tutto ciò ha delle implicazioni fondamentali sulla stessa nozione di metodo nell’ambito della progettazione ed, in particolare, del design. L’ambizione di poter disporre di metodologie scientifiche, razionali, di controllo del progetto tali da garantire l’efficacia del risultato, elaborate nel corso degli anni Settanta3, è rimasta soltanto tale. Me ne sono occupato vent’anni fa, quando il dibattito sui nuovi paradigmi della scienza aveva avuto ripercussioni decisive su quello interno al mondo del progetto. Ciò che cominciava ad apparire in modo nitido era il venire meno dell’illusione dell’approccio sistemico e l’emergere dell’aporia circa il carattere più o meno razionale delle decisioni. In un articolo su “Alfabeta”, dal titolo Il più razionale, dopo avere messo in evidenza l’impasse in cui alcuni autori finivano necessariamente per trovarsi, quando cercavano di dimostrare la possibilità di far diventare il momento creativo un atto “fondante” di processi progettuali ad alto grado di razionalità, convenivo che non si potesse tentare che la strada dell’assunzione di modelli “a razionalità limitata”, come quelli prospettati da Herbert Simon, prima, e Crozier e Friedberg dopo. Che consentivano di rivalutare, all’interno di sistemi organizzativi fortemente strutturati, la funzione esercitata dallo scontro tra diversi tipi di razionalità. Al progetto può spettare il compito non di aspirare a decisioni razionali, fondate su previsioni scientifiche, ma solo di ragionare sul “più razionale”4. Il contributo fondamentale di autori come René Thom e Ilya Prigogine ha dato però un indirizzo diverso, e in un certo senso decisivo, alla discussione. “Con il programma thomiano di sostituzione di una scienza predittiva e sperimentale con una scienza qualitativa ed ermeneutica, decadono i presupposti che legittimano la possibilità di individuare uno spazio di intesa tra scienza e progettazione sulla base di una comune tensione in direzione di attività di tipo previsionali. Semmai appare verosimile il contrario: che cioè l’attività progettuale e la tecnologia si predispongano a registrare i mutamenti di paradigma introdotti nel contesto dell’attività scientifica e rinuncino ad un programma di dominio integrale sulle realtà cui sono applicate”5. Tradotta da Massimo Cacciari, in un suo saggio di qualche anno fa, l’idea è che il progetto potrà essere tanto più perfetto quanto più saprà “riconoscere l’assoluta possibilità di irruzione del caso dell’imprevisto come costitutivo del divenire… Per dominare effettivamente il divenire occorre riconoscere il carattere
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La ricerca attraverso casi studio rappresenta un momento fondamentale dell’attività di progetto. Come ha sottolineato anche Bruno Munari nel suo libro Da cosa nasce cosa1, altri hanno lavorato certamente sullo stesso tema cercando di trovare soluzioni adeguate. Conoscere lo stato dell’arte, conoscere la storia, è indispensabile perché spesso le soluzioni di un problema sono contenute proprio in qualcosa che è stato già fatto e il cui valore è rimasto inalterato, spesso più per ciò che rappresenta che per come viene presentato. È più facile trovare, cioè, nella storia esempi che conservano una loro attualità non tanto sotto l’aspetto concettuale quanto delle forme con cui si presentano. In questa prospettiva l’analisi di casi, siano essi storici o contemporanei, deve essere fatta in modo da poter far emergere le ragioni su cui si fondano. Non basta, cioè, che se ne studino le funzioni (quali e quante sono) o le forme (come quegli ambienti si presentano) o i colori o i materiali o le dimensioni. Informazioni indispensabili ai fini della comprensione del caso esaminato, ma non sufficienti. Occorre qualcosa di più profondo. Cioè la conoscenza della regola o delle regole con cui il dispositivo è stato progettato. Che si può ricavare sia dalla descrizione di chi, avendolo progettato, ne dà conto attraverso la relazione di progetto, sia attraverso la lettura che critici autorevoli ne fanno, sia attraverso il tentativo, più difficile ma anche più eccitante, di decifrare in prima persona l’esempio studiato. In quest’ultimo caso è sempre possibile, naturalmente, prendere degli abbagli, azzardare letture che non corrispondono effettivamente alla realtà delle cose ma si tratterebbe comunque di un esercizio di grande utilità, una attività di allenamento al lavoro progettuale, in quanto destinato a evitare il rischio della ripetizione di soluzioni facili, disponibili per ogni occasione e spesso assunte in modo acritico, senza cioè avere esaminato il contesto storico e culturale nel quale sono inserite e averne capito il senso più profondo. Per questo il lavoro riservato a “capire i dispositivi” si può considerare già parte del lavoro progettuale e va svolto alle diverse
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6. Dentro i dispositivi
Steven Holl, Knut Hamsun Center, Hamaroy, Norvegia 2009, disegno
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Non si deve pensare che esista un tempo per la ricerca e un tempo per il progetto. Quella prima idea, per quanto provvisoria, rappresenta una sorta di orizzonte del lavoro e contiene in sé, pertanto, già un valore progettuale. Tra ricerca e progetto esiste una relazione tale per cui la prima alimenta il secondo e questo, nel corso del suo sviluppo, genera nuovi interrogativi che richiedono altra ricerca. È come un andamento ciclico, simile a quello lunare, nel corso del quale ad ogni nuova mossa progettuale segue l’esigenza di nuove indagini, sempre più mirate e raffinate. Per questo la predisposizione di ciò che viene definito lay out costituisce un primo punto di arrivo del lavoro progettuale, ma nello stesso tempo deve essere visto come un punto d’arrivo provvisorio, aperto. Ciò che succede in questa fase è tuttavia molto rilevante. Si tratta, infatti, di trasformare il lavoro di ricerca sul tema in una sorta di “insieme” complesso, simile agli insiemi matematici1, destinato a contenere le attività che si ritiene possano dare risposta soddisfacente alle domande che l’interpretazione del tema ha posto. Introducendo anche quegli aspetti innovativi che la selezione dei casi studio ha messo in evidenza. Ciò sarà fatto assegnando alle attività diversi valori e ruoli, costruendo gerarchie, immaginando relazioni, provando ad attribuire ad ogni attività stessa un “peso” e un primo sommario carattere allo spazio: piccolo/grande, alto/ basso, introverso/estroverso, luminoso/oscuro, colorato/opaco, severo/ gaio, inclusivo/noninclusivo, e via dicendo. Inteso in questo modo il lay out richiede necessariamente modalità specifiche di restituzione grafica. Non semplicemente diagrammi bidimensionali, come in certa “tradizione diagrammatologica”, ma anche schizzi e modelli tridimensionali, appunti, ideogrammi. Il senso di questa operazione è quello di prefigurare la natura del dispositivo da progettare, dunque non solo funzioni, relazioni, gerarchie, dimensioni ma anche prime ipotesi di configurazione spaziale, pur in assenza ancora dell’organismo fisico al quale dovranno essere applicate. A questo tema è dedicato un capitolo del libro di
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7. Diagrammi concettuali
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Merks+Girod Architecten, Bookstore, Maastricht, 2005
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Per intervenire su uno spazio esistente occorre innanzitutto saperlo riconoscere. Non si tratta di un’operazione tecnica. Certo il primo approccio avviene attraverso la lettura dei documenti che lo rappresentano: una pianta, una sezione, un disegno delle facciate, esterne ed interne. Anche attraverso l’osservazione delle foto che altri hanno scattato, se esistono. Ma il vero atto di riconoscimento del luogo avviene solo attraverso la presenza sul luogo, stando all’interno degli ambienti, interni ma anche esterni, di cui si deve prevedere il cambiamento. Dove stare rappresenta qualcosa di più intenso che so-stare, o essere lì per caso. Lo stare implica una volontà di capire, di ascoltare il luogo, per riconoscerne “l’anima”1. A questo scopo lo strumento della fotografia diventa indispensabile, se inteso come “occhio” speciale, attraverso il quale fissare sensazioni, intuizioni, che, altrimenti, rischiano di perdersi nel tempo. Saper riconoscere lo spazio significa anche avere, nei confronti dell’architettura esistente sulla quale si deve intervenire, un atteggiamento disponibile a valutarne le qualità a volte nascoste, soprattutto nei casi in cui l’edificio non abbia valore storico, come una fabbrica dismessa, un’architettura recente, un manufatto nato per svolgere funzioni tecniche, come un ex deposito di tram, una cabina elettrica, e così via. In tutti questi casi, che sono anche quelli nei quali è più frequentemente richiesto l’intervento dell’interior designer, in quanto non sono richieste competenze proprie dell’esperto di restauro, si pensa che tutto sia lecito, che qualsiasi operazione sia possibile in funzione della “nuova immagine” da assegnare a quegli spazi. Mentre non è così. Il designer d’interni deve operare sapendo non soltanto distinguere, all’interno dell’edificio, quali sono gli elementi che hanno valore da quelli che non ne hanno: sia tra le componenti strutturali (strutture portanti e no, solai, ecc.), sia tra gli elementi costruttivi presenti (porte, finestre, scale, ecc.), sia tra gli elementi di finitura (pavimenti, rivestimenti, ecc.). Ma anche sapendo ricavare già da questo tipo di indagine alcuni elementi preziosi in vista del nuovo progetto stesso. Spesso la soluzione, infatti,
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8. Riconoscere lo spazio
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Centro Culturale Atrion, Carugate 2008
posti. La struttura in cemento viene mantenuta a vista e i nuovi interventi si aggiungono come nuovo strato della storia, con l’intento di riscattare quel luogo dalla sua funzione precedente mantenendone però il carattere. Il progetto di Merks+Girod Architecten, per un bookstore a Maastricht, nel 2005, ricavato all’interno di una ex chiesa domenicana, risolve il tema introducendo una grande parete, destinata a contenere libri e percorsi aerei, su un lato della navata della chiesa. Lo spazio esistente diventa quindi contenitore di una nuova funzione ma viene allo stesso tempo rimesso a disposizione nella sua configurazione originaria, in quanto spazio scenico, da percepire nella sua molteplicità di elementi, da quelli decorativi e pittorici, a quelli volumetrici e tettonici. Nel caso del progetto del Centro culturale Atrion, a Carugate4, si è trattato di inserire un insieme di funzioni culturali, dalla biblioteca, al centro per anziani, alla scuola civica di musica, all’interno di un edificio esistente. Le biblioteche di civica lettura costituiscono un tema di grande attualità, in quanto luoghi con servizi innovativi, come la
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Vista in questa prospettiva la questione del genius loci si presenta in modo del tutto diverso. Il testo che ha su questo argomento formato generazioni di architetti è stato Genius loci, di Christian NorbergSchulz1, nel quale l’autore, che fu docente presso la facoltà di architettura di Oslo, dove era nato, si propone di analizzare le relazioni tra l’uomo e l’ambiente ed, in particolare, il concetto di “spazio esistenziale”, attraverso la suddivisione nei termini complementari di “spazio” e “carattere”. Ciò lo porta a definire la nozione di luogo come qualche cosa che non è strettamente legato alle sue qualità fisiche, ma che dipende anche da una serie di fattori fenomenologici tra loro interrelati in modo complesso: “ma allora cosa intendiamo con la parola ‘luogo’? Ovviamente qualcosa di più di un’astratta localizzazione. Intendiamo un insieme, fatto di cose concrete con la loro sostanza materiale, forma, testura e colore. Tutte insieme queste cose definiscono un ‘carattere ambientale’, che è l’essenza del luogo. In generale il luogo è definito dal suo carattere o ‘atmosfera’. Un luogo perciò è un fenomeno ‘totale’ qualitativo, che non può essere ridotto a nessuna delle sue caratteristiche, come ad esempio quella delle relazioni spaziali, senza perdere di vista la sua natura concreta”2. Il lavoro di Norberg-Schulz si avvale di una serie poderosa di riferimenti storici ed affronta il tema con una profondità destinata, appunto, a lasciare un’impronta incancellabile nella cultura del progetto degli ultimi quarant’anni. La sua distinzione tra spazio come indice dell’organizzazione degli elementi che compongono il luogo, e carattere come termine che denota “l’atmosfera” generale “che rappresenta la proprietà più comprensiva di qualsiasi luogo” conserva un valore attuale indiscutibile ed è alla base anche delle considerazione che si faranno sul concetto, appunto, di carattere o timbro nel capitolo “In cerca di strategie”. Come spesso accade ai libri che ottengono un grande successo, la nozione di genius loci entra nella cultura comune dei progettisti in un forma per così dire “semplificata”, priva dei risvolti anche filosofici,
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9. C'era una volta il genius loci
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Pierre Bourdieu, Untitled, R 1, 1958-1961. Testimonianze dello sradicamento: Algeria. Courtesy: Fondation Pierre Bourdieu
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In L’anima dei luoghi1 James Hillman, uno dei più autorevoli filosofi contemporanei, esamina il processo di progressiva perdita da parte dei luoghi, rispetto alla tradizione antica, della loro “anima”, alla quale si è andata progressivamente sostituendo una sorta di uniforme spazio “vuoto” e privo di identità. E invita a riscoprire i valori nascosti che la città racchiude ancora al proprio interno, attraverso la rivalutazione dell’importanza dell’estetica: “Non sappiamo riconoscere l’anima del luogo. Questo è dovuto alla cultura in cui viviamo. Abbiamo perso la nostra risposta all’estetica. L’an-esteticità ci anestetizza. I suoni sono così forti che le orecchie si sono intorpidite. Un fenomeno chiamato ‘frastuono psichico’. …Significa essere senza sensibilità, compresa la sensibilità estetica. Significa essere esteticamente incompetenti: in stato di stupore, stupidi”2. Il suo rimane un contributo di grande interesse anche in un momento in cui, come si è detto precedentemente, il progetto degli ambienti deve registrare mutamenti profondi nei loro modi d’uso. Trattando della questione degli interni urbani nella città contemporanea, mettevo in guardia dalla tentazione di essere suggestionati dai linguaggi alla moda, “non per difendere tenacemente uno statuto di pensiero di fronte al nuovo che lo incalza. Ma, al contrario, perché è nel vecchio paradigma che si trovano gli indizi necessari al suo superamento”3. L’idea che gli ambienti nei quali viviamo debbano essere caratterizzati da una natura allestitiva non rende meno necessario che siano dotati di un carattere, di un timbro, di una identità. In sostanza che abbiano un’anima. Da questo punto di vista il ricorso alle sollecitazioni che provengono dalla cultura antropologica o dagli studi sociali appare di fondamentale importanza. Oltre ai testi classici, come quelli di Pierre Bourdieu4, alcuni libri possono costituire un contributo prezioso per affrontare la questione dell’abitare come attività che mette in gioco rituali e disposizioni simboliche che possono ripercuotersi in modo fecondo sul progetto degli ambienti anche nella contemporaneità. Il primo è La vertigine
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10. Il luogo e l'anima
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le pieghe più nascoste, quasi segrete, che a volte sfuggono al lavoro meticoloso, in certi casi pedante, dello storico e che sa scovare solo chi ha familiarità con il lavoro impaziente, e a cui non deve mai mancare una certa dose di calcolato rischio, del progetto. Ciò non si fonda su una procedura in qualche modo sostenuta da documenti o ricerche. Alcuni di questi accostamenti sono già stati ipotizzati da altri. seppure con finalità diverse2. Alcuni sono suggeriti da rapporti realmente intercorsi tra i diversi attori. Altri sono giustificati da una certa plausibilità. Altri ancora sono del tutto arbitrari e lanciati sul tavolo, come carte scoperte da “leggere” e con cui si è anche un po’ bluffato. L’obiettivo è infatti quello di costruire dei cortocircuiti mentali, non importa se in certi casi azzardati, attraverso i quali cominciare a predisporre le basi su cui avviare il lavoro progettuale, che si deve misurare con scelte che riguardano i mezzi di cui il designer d’interni dispone: i materiali, i colori, la luce, le dimensioni, le forme, le relazioni, le gerarchie. Scelte per le quali non bastano certo l’aiuto, per quanto necessario, dei manuali, delle conoscenze tecniche e normative o l’attenzione nei confronti degli aspetti comportamentali e alla dimensione antropologica degli utenti. Serve quella cultura del progetto che si acquisisce nel tempo e con l’esperienza, ma che si costruisce giorno dopo giorno attraverso lo studio dei buoni esempi, la cui comprensione richiede anche un tipo di lettura come quella che qui viene proposta. Nella assoluta consapevolezza che anche gli stessi confini tra quelle che qui vengono proposte come possibili differenti strategie in certi casi appaiono tracciati ad arte, enfatizzati a scopo dimostrativo, imposti da un‘esigenza, forse un po’ sfrontata, di semplificazione a fini didattici. Si tratta però certamente di percorsi di ricerca che non hanno esaurito il loro ruolo o che, nei casi di esempi contemporanei, sembrano capaci di introdurre nuove, interessanti, per quanto divergenti, traiettorie di ricerca.
1. Cfr. Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, cit. 2. Si veda per esempio il libro di Giovanni Giannone, Architettura e musica, Edizioni
Caracol, Palermo 2010, nel quale le analogie tra architetti e musicisti sono fondate su un approccio molto colto, anche se un po’ troppo specialistico
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“Franco Albini è stato un grande architetto e un grande interior designer. Il suo rapporto con il product design è esistito soltanto in relazione a questa sua attività…In questo senso Franco Albini, forse più di Gio Ponti, ha posto le basi teoriche su cui il design italiano si è sviluppato come una cultura autonoma, indipendente, anarchica rispetto all’architettura, ma parte integrante di questa”1. Vediamo alcune delle sue opere di allestimento o di interni. Nel 1936, con Camus, Clausetti, Gardella, Mazzoleni, Minoletti, Mucchi, Palanti e Romano, viene incaricato dell’organizzazione della Mostra dell’Abitazione alla VI Triennale di Milano. “In particolare Albini si occuperà del progetto di allestimento della Stanza per un uomo, un ambiente unico di circa venti metri quadrati, nel quale sono ricavati spazi destinati al sonno, allo studio, alla lettura e alla ginnastica. L’impianto è modulare, a partire da una sorta di unità di misura costituita dal letto, dalla doccia e dal tavolo di lavoro (2 metri x 1) ed il design degli arredi affronta il tema quasi si tratti, più che di una stanza, di un allestimento. L’uso diffuso del tubolare quadrato, a comporre tralicci, sostenere tende, racchiudere spazi e ‘armadi’, ‘creare’ scale, è certamente debitore allo stile di lavoro che Albini riserva solitamente agli spazi espositivi”2. Albini compie cioè un’operazione di grande raffinatezza concettuale: anziché progettare una stanza per un uomo, è come se, di fronte ai processi di modernizzazione che in Italia cominciavano a mostrare i primi, contradditori segnali, e in ritardo rispetto ai Paesi più evoluti, avvertisse i limiti dell’idea di intérieur che in quegli anni veniva veicolata. E se ne volesse liberare disegnando una stanza nella quale si trovano certo alcune funzioni proprie dell’abitare ma come restituite in forma allegorica e attraverso immagini di evidente matrice surrealista. L’immagine di quello spazio destinato alla ginnastica, con la giacca appesa, l’asciugamano steso ancora bagnato, il cappello appoggiato sul ripiano, le scarpe appena tolte, racconta soprattutto un’assenza,
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14. Naturalismo surrealista: Franco Albini
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Museo Satie, Honfleur
Per libera associazione di idee si uniscono oggetti e spazi che non hanno niente in comune, distanti fra loro e appartenenti a contesti diversi. Ne risulta una visione di bellezza inedita, assurda, al limite del concepibile quasi, a voler frantumare le nostre certezze. Le seconde nascono dalla metamorfosi. Corpi, oggetti, forme rivelano la nature delle cose nella loro trasformazione in qualcos’altro. Caducità di uno stato transitorio che suggestiona la mente, suscita sensazioni sospese tra l’apparenza della realtà e il suo profondo, e induce a riflettere sul divenire comprensibile e l’onirico, il mistero, l’impenetrabile”8. Nel quadro del 1937, Elogio della dialettica, “senza adottare alcuno stratagemma atto a suggerire il mistero, Magritte si affida soltanto alla presenza dell’immagine, alla forza del mistero evidente di un esterno in un interno, e, addirittura, rinuncia a qualsiasi suggestione atmosferica”9. In questo collocandosi in una posizioni originale rispetto agli altri surrealisti e diversa nei confronti della metafisica: “Evidente il legame con la riflessione sul rapporto tra interno ed esterno che de Chirico sviluppa negli anni Venti con i ‘mobilio nella valle’ e i ‘paesaggi in una stanza’. Ma se per l’italiano l’indagine diventa occasione per una serie di riflessioni sul classico, il mito e l’infanzia, l’immagine di Magritte esibisce il rigore freddo di una tesi filosofica che non ammette divagazioni”10. Entrando nel Museo Satie, a Honfleur, si respira la stessa atmosfera. Il pianoforte bianco, dentro una stanza bianca, che suona ininterrottamente brani dell’autore, ha la stessa carica spiazzante e destabilizzante della
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Guardo e riguardo i settecento disegni contenuti nel libro pubblicato da Skira1 e penso che lì dentro vi sia una sorta di tesoro, al quale attingere per trovare le risposte che un interior designer dovrebbe saper dare ai problemi dell’abitare nella contemporaneità. Abitare in senso lato, nel senso che si abitano anche i luoghi del lavoro, del tempo libero, e profondo, in quanto questione che attiene alla natura dell’uomo, ai suoi bisogni e ai suoi sogni. Come nella Biblioteca di Babele, raccontata da José Louis Borges2, in cui, essendo infinita, illimitata e periodica, tutti i possibili libri di 410 pagine sono contenuti, nei quali a loro volta si susseguono sequenze di caratteri in tutte le possibili combinazioni, nel libro di disegni di Sottsass si ritrova un numero infinito di caratteri, di “ideogrammi” si potrebbe dire, con i quali comporre una lingua in grado di avere un valore attuale e universale. “Variazioni”, le ha chiamate Alessandro Mendini nel più acuto testo mai scritto su Sottsass progettista: “..la sua ricerca sulle cose parte da dati e intuiti esistenziali, talvolta il solo piacere di usare matite, colori, carte e quaderni esotici e nuovi, cercati in lontane botteghe. Poi ha inizio la variazione, un esasperante processo deduttivo, una elaborazione metodica e analitica dei primi segni, un assemblaggio infinito di molte cose che prese da sole non sono complicate, che però alla fine del processo risultano in stato di tensione, come avviene per l’immobile movimento di una nenia orientale”3. Processo che prende forma facendo ricorso ad un repertorio di “segni primari”, assimilabili a delle “grafie infantili: cerchio, cilindro, linea e punto”, che hanno il valore di concetti archetipici. “Per questo le sue architetture e i suoi oggetti sono simmetrici, chiari, totemici, antropomorfici, per questo mutuano tanto il gergo degli hippies, degli indù e degli astronauti quanto quello delle civiltà molto remote, dove è condensata l’essenza secolare dei problemi e si è perduta la complessità. Un linguaggio metaforico invece che stilistico”4.
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15. Luoghi archetipici: Ettore Sottsass
Ludvig Mies van der Rohe, Casa Tugendhat, Brno 1930
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Il nome di questa strategia1 è “rubato” al bel libro di Carlos Martí Arís che analizza il tratto comune che unisce cinque maestri come Mies, Borges, Ozu, Rothko e Oteiza: uno scrittore, un architetto, un regista, un pittore ed uno scultore. Tratto comune che per l’autore sarebbe rappresentato dal “loro rifiuto dell’arte come aggressione isterica ai sensi, promossa dalla pseudo-cultura mediatica, a favore dell’arte come contemplazione, introspezione destinata a svelare il mistero del mondo”2. Una bella sfida per il design degli interni. Che in questo caso in Mies trova, appunto, un punto di riferimento formidabile, che giustifica la scelta di inserirlo accanto a figure più vicine alla cultura del design. Come sottolinea ancora Arís: “Molto frequentemente si associa all’architettura di Mies il concetto di semplicità. Tuttavia, nonostante il loro essere laconiche e disadorne, le sue opere non possono certo considerarsi semplici. Il semplice possiede la virtù dell’immediatezza, ma lì si conclude. Le sue opere, invece, ben lungi dall’esaurirsi con il passare del tempo, acquistano sempre più fascino man mano che le si contempla e le si studia”3. Contribuisce a ciò la presenza del tema della trasparenza, intesa non tanto in senso letterale quanto “concettuale”, come condizione, cioè, che “si avvicina a certe forme di silenzio” e che proietta l’opera verso “altre dimensioni della realtà”, nella quale prevale come una sorta di sospensione del tempo. Sulla poetica dello spazio miesiano la letteratura è, come si sa, ricchissima. Pagine eloquenti sono dedicate ad essa da Bruno Zevi nella sua Storia dell’architettura. In particolare per ciò che riguarda il Padiglione tedesco di Barcellona: “Dizionario figurativo: piani isolati, nitide lastre dei più diversi materiali e colori…Il volume nel senso bloccato lecorbusieriano e in quello articolato di Gropius scompare, ed anche la superficie è dissolta sia nella funzione di generatrice del volume che in quella di proiezione degli ambienti interni. Piani limati si accostano ai preziosi pilastri di metallo lucidato, snodano gli spazi, congiungono gli ambienti aperti con quelli racchiusi. È
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16. Silenzi eloquenti: Ludvig Mies van der Rohe
Gio Ponti, Hotel Parco dei Principi, Sorrento 1960
Penso che l’unico modo per raccontare in che modo l’insegnamento di Gio Ponti conservi una sua inattaccabile attualità sia quello di tentare di diventare Gio Ponti. Ho infatti davanti a me una gran quantità di libri scritti negli ultimi anni, su di lui, dai più autorevoli storici e critici di architettura e di design. Eppure è come se mi mancasse qualcosa di fondamentale, una chiave di lettura precisa, qualche cosa capace di andare oltre il riconoscimento che sia stato un caso “moderno di architetto antico” (Lisa Ponti), capace di creare “un equilibrio tra complessità e semplicità, tensione e calma, leggerezza e peso, passato e futuro” (Graziella Roccella), un “classico? novecentista? moderno? postmoderno?” (Vittoriano Viganò), ossessionato dalla precisione “come imperativo etico del progetto”, dalla “fascinazione per gli aspetti meccanici della civilizzazione moderna” e dalla ricerca di raggiungimento dell’obiettivo della ”leggerezza” (Fulvio Irace), “erede del sottile pessimismo dei futuristi e di Metafisica” (Andrea Branzi), “protagonista in quel ‘realismo magico’ bontempelliano, dove corre un filo sottile ma tenace tra folgorazione fantastica, felicità interpretativa, logica simbolica fino al paradosso” (Guido Canella), architetto e artista il cui lavoro si è mosso “in una linea di compromesso tra i codici razionalisti e certe attenzioni alla tradizione, alla classicità, a forme di espressione marginali, all’uso della decorazione” (Ugo La Pietra), “volutamente discontinuo e istintivo nel metodo, alternando avanguardia e retroguardia” (Alessandro Mendini)1. Eppure la risposta è lì sotto i nostri occhi, come la “lettera rubata” del racconto di Edgar Allan Poe, per trovare la quale bastava convincersi che “per nascondere quella lettera il ministro era ricorso all’espediente ingegnoso e scaltro di non tentare affatto di nasconderla”2. E così fa Gio Ponti, non nascondendoci affatto il punto di fuga del suo pensiero, verso il quale si indirizzano le traiettorie del suo lavoro, qualunque sia la scala alla quale lavora. Eccola la sua lettera gettata “quasi con negligenza” nel portacarte: “Morale della favola: nel parossismo
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18. Stanze-stanze: Gio Ponti
Alessandro Mendini, Poltrona di Proust, 1978
In un certo senso tutto era già scritto nel 1983, in una delle prime pagine del libro curato da Rosamaria Rinaldi1. Dove Alessandro Mendini, lucido e profetico, in un testo intitolato Sopravvivenza sottile, introduce il concetto di “casa privata”, come luogo capace di contenere “tutti gli aspetti dell’abitare”. È la casa privata, infatti, a costituire l’ultimo “simbolo della propria capacità di scelta” e dunque un universo disomogeneo, da costruire attraverso un accumulo di oggetti, “come foresta, groviglio di avventure e di passioni anche anti-progettuali. È il fascino, per così dire, del progetto ‘molle’ contro l’ostentata sicurezza del progetto ‘duro’, quello premonitore, demagogico”2. Per questo l’arredare si configura come “gesto naturale” e come una azione che, diversamente dal progettare architettura, prevede la necessità di affidarsi all’uso di gesti ospitali, “dalla caratteristica ermafrodita”. I quali richiedono pertanto un uso di materiali diversi da quelli propri del costruire classico, come la pietra, il ferro, il cemento, il metallo, il vetro. Materiali capaci di rappresentare anche dal punto di vista fisico, oltre che metaforico, l’idea di progetto “molle”: “la stoffa, il colore, il clima, la memoria, la luce, che toccano il corpo senza fargli male”. Ma questo non basta. Se si vuole che questa idea di abitare possa entrare davvero nelle fragili esistenze di donne e uomini, occorre che vengano scardinate tutte le semplificazioni delle funzioni che la tradizione tipologica ha introdotto, soprattutto nell’ambito dello spazio domestico. Ed esemplificabili nella riduzione della casa ad un insieme di ambienti destinati al cucinare, al mangiare, al dormire, al lavarsi. È un tema che Mendini aveva già affrontato un anno prima su “Domus”, in un articolo intitolato "Il nuovo soggiorno"3. Nel quale coglie il paradosso di una insostenibile contraddizione tra la diffusione di nuovi comportamenti nei rapporti tra le persone, di nuovi rituali domestici e la rigidità dei modelli abitativi continuamente riproposti. In contrasto anche con l’affermarsi già di nuove modalità d’uso degli spazi, che vedono per esempio, “la camera da letto come luogo sociale, il bagno come terma, come luogo di
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19. Spazi Ermafroditi: Alessandro Mendini
Philippe Starck, A’Trego, Restaurant, Cap d’Ail, 2011
Riprendo dal sito di Philippe Starck le sue realizzazioni nell’ambito del design d’interni. Ma Puce, restaurant, Paris, France 2012 SLS Miami, USA 2012 Mama Shelter Marseille, France 2012 MIA, Coffee Shop, Doha 2012 A’Trego, Restaurant, Cap d’Ail, France 2011 My Blend by Clarins, Spa Royal Monceau, Paris, France 2011 Royal Eclaireur, Shop, Paris, France 2011 Royal Monceau, Hotel, Paris, France 2010 Mori Venice Bar, Italian Restaurant, Paris, France 2010 La Cigale, Café, Paris, France 2010 La Co(o)rniche, Hotel, Pyla-Sur-Mer, France 2010 Alhondiga, Cultural Centre, Bilbao, Spain 2010 Palazzina Grassi, Hotel, Venice, Italy 2009 Paradis du fruit, Restaurant, Bar, Paris, France 2009 East West, Sound Recording Studios, Los Angeles, United States 2009 Katsuya, Restaurant, Los Angeles, Glendale, United States 2008 Katsuya, Restaurant, Los Angeles, Downtown, United States 2008 Bon, Restaurant, Paris, France 2008 Baccarat House, Museum, Store, Restaurant, Moscow, Russia 2008 XIV, Restaurant, Los Angeles, United States 2008 SLS, Hotel, Store, Los Angeles, United States 2008 Mama Shelter, Hotel, Restaurant, Bar, Paris, France 2008 Ramses, Restaurant, Madrid, Spain 2008 Le Meurice, Hotel, Paris, France 2008 Katsuya, Restaurant, Los Angeles, Hollywood, United States 2007 Sbar, Restaurant, Los Angeles, United States 2007 Fasano, Hotel, Rio, Brasil 2007 SLS, Hotel, Store, Los Angeles, United States 2008
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20. Interni perturbanti: Philippe Starck
Fratelli Bouroullec,Textile Field, Victoria & Albert Museum, Londra 2011
Raccontando in un’intervista, curata da Thea Romanello-Hillerau, alla rivista on line “Drome 19” delle loro Algues per Vitra, del 2004, i fratelli Bouroullec chiariscono come il loro obiettivo fosse quello di ottenere degli elementi divisori degli ambienti non rigidi, in grado di interagire con lo spazio in cui sono inseriti e di farlo facendo ricorso a dei dispositivi che non siano condizionati dalla geometria lineare, euclidea, ma riescano ad introdurre anche in luoghi artificiali artefatti capaci di alludere al mondo delle forme esistenti in natura. Insomma è un po’ come mettersi un albero in casa. Ciò non significa, però, che la natura costituisca una fonte di ispirazione diretta dei loro progetti e che il disegno delle loro Alghe rappresenti il tentativo di tradurre qualche cosa presente nel mondo naturale in un artefatto di plastica. La tecnica usata è quella dello stampaggio a iniezione, ogni pezzo è così uguale all’altro al decimo di millimetro. Il risultato è un oggetto di alta precisione ma che funziona come una foglia d’albero. In base alla loro densità la luce entra nell’ambiente in modi differenti: più diretta o meno diretta, più intensa o meno intensa, quasi come una lieve carezza. Dal punto di vista della loro collocazione nello spazio non viene indicata una logica precisa. Ogni foglia si deve aggiungere all’altra come per istinto, seguendo la direzione della luce o il soffio del vento. Se una logica deve esserci è quella fuzzy, vicina alla logica sfuocata, un sistema aperto a geometria variabile, senza linee orizzontali o verticali, senza profondità, senza lunghezza. Il loro carattere reversibile le mette in grado di seguire il ritmo delle vita, di cambiare casa, di adattarsi, di essere sensibili a ciò che sta loro intorno. Già nel 2003, nella prima importante pubblicazione sul loro lavoro1, quest’idea di dispositivi trasparenti, quasi immateriali, discreti, emerge con molta chiarezza, al punto che viene ipotizzata una influenza che sarebbe stata esercitata su di loro dalla cultura giapponese. Influenza che i Bouroullec riconoscono solo in parte ed in modo indiretto, più come un tipo di sensibilità verso le cose del mondo che come linguaggio
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21. Flexiscape: Erwan e Ronan Bouroullec
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Ugo La Pietra, Boutique altre cose, Milano 1968
Nel capitolo intitolato Il movimento radical del suo libro Ritratti e autoritratti di design, Andrea Branzi introduce una classificazione di questa importante esperienza della cultura italiana del dopoguerra. Vengono individuate quattro direzioni principali, anche se con l’avvertenza che classificazioni di questa natura rischiano di mettere in ombra le sovrapposizioni tra una e l’altra e le sfumature che sempre sono presenti in esperienze come queste. La prima è rappresentata dai gruppi che hanno indagato la dimensione “non figurativa” dell’architettura, che vanno da Archizoom ad Archigram1. La seconda è quella de “l’architettura senza città”, rappresentate da figure che hanno cercato di rispondere alla crisi del progetto “proponendo un ritorno autoritario all’architettura”2. La terza è quella di chi, come Sottsass, ha ritenuto di poter costruire una nuova città “abitata da oggetti-attori indipendenti, anarchici, metafore politiche di se stessi”3. La quarta, infine, è rappresentata dall’anima situazionista del movimento, interessata a sperimentare forme di intervento diretto, autocommissionato nella città e portatrici “di una vitalità eversiva”4, della quale è stato protagonista Ugo La Pietra. Da allora Ugo La Pietra percorrerà un lungo cammino teorico e professionale, che lo porterà ad essere presente in molte delle più interessanti esperienze artistiche e culturali degli ultimi cinquant’anni, senza mai dimenticare quella lontana origine. Spesso le valutazione da parte della critica più autorevole, da Gillo Dorfles aVittorio Fagone, da Eugenio Battisti a Pierre Restany, per citarne solo alcuni, insistono proprio sulla molteplicità dei suoi interessi, che ne fanno un “multiartista”, ma è proprio Dorfles a mettere in luce come “il La Pietra architetto, cineasta, designer, arredatore, non sarebbe concepibile senza il La Pietra pittore”5. È un’osservazione che ritengo cruciale per consentire di leggere la sua opera sotto una luce che ne rischiara il contenuto, facendola apparire in modo nitido. E consentendo di far rientrare in un unico coerente stile di pensiero attività ed intervenienti apparentemente distanti tra di loro. In questo modo la Sinestesia delle arti,
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22. Ambienti disequilibranti: Ugo La Pietra
El Lisitskij, Proun, R.V.N.2, 1923
“Definire in assoluto che cosa sia il proun è per me impossibile, perché questo lavoro non è ancora giunto al termine. Ma posso tentare di definire qualcosa che già è chiaro: in occasione della mia prima mostra in Russia, notai che i visitatori domandavano sempre: ‘Che cosa rappresenta?’, dato che erano abituati a vedere quadri che erano nati su questo fondamento: rappresentare qualcosa. Il mio obiettivo – che non è solo il mio obiettivo, ma il contenuto dell’arte nuova – non è rappresentare, ma costituire un qualche dato autonomo. A questa cosa io ho dato il nome autonomo di ‘proun’…..Il creatore di proun concentra in sé tutti gli elementi del sapere moderno, tutti i sistemi e metodi, e ne configura elementi plastici i quali esistono similmente a elementi della natura”1. Questi dunque sono per El Lisitskij i proun, punto di contatto tra l’arte suprematista e qualche cosa che sconfina nel dispositivo spaziale, tridimensionale, in cui le tensioni delle singole parti sono messe alla prova. Tanto che la superficie stessa del proun “cessa di esser un dipinto, diviene una costruzione che si deve osservare girando da tutti i lati, guardarla da sopra, esaminarla da sotto. La conseguenza è che viene distrutto l’asse unico del dipinto, perpendicolare all’orizzonte. Girando ci avvitiamo nello spazio….Il vuoto, il caos, l’innaturale, diviene allora spazio, vale a dire: ordine, determinatezza, configurazione, se introduciamo segni caratterizzanti d’un certo tipo e in proporzione determinata in e tra loro. La costruzione e la scala della massa di segni caratterizzanti dà allo spazio una determinata tensione…Le configurazioni, con le quali il proun intraprende l’attacco contro lo spazio, sono costruite nel materiale e non nell’estetica. Tale materiale è nella prima fase il colore. Questo è assunto nel suo stato d’energia come il più puro stato della materia2. La forza di queste immagini è impressionante. Ed è anche significativo il fatto che a distanza di novant’anni queste opere continuino ad esercitare una grande influenza sul mondo del’arte, del design e dell’architettura. Nel 1923 in occasione della Berlin Art Exhibition viene realizzata una Proun room, nel 1971 viene fatta una
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23. Proun: El Lisitskij
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El Lisitskij, Proun, 12E, 1920
1. El Lisitskij, Da una lettera, in ABC, ora in Sophie Lisitskij-Küppers (a cura di), El Lisitskij, Editori Riuniti, Roma 1992, p.340. Si veda anche Marco Elia, VChUTEMAS, design e avanguardie nella Russia dei Soviet, Lupetti, Milano 2008
ricostruzione basata sui disegni dell’artista russo. Recentemente lo studio Surface Architects progetta la Queen Mary’s Graduate Facility, a Mile End di Londra, con una chiara ispirazione alle esperienze suprematiste e alle ricerche di El Lisitskij. È un tipo di ricerca che, soprattutto oggi, nel momento in cui il design d’interni deve esplorare zone di frontiera, nell’intento di assumere lo spazio come contenitore non tanto di funzioni quanto di cerimoniali da reinventare, va considerata irrinunciabile.
2. El Lisitskij, Proun, in “De Stijl”, n.V, 1922, ora in Sophie Lisitskij-Küppers (a cura di), El Lisitskij, cit. p.338
Scena prima San Gerolamo legge, seduto nel suo studio. Il viso rivela una scrupolosa concentrazione e presenta tratti che fanno pensare che possa essere il ritratto di un letterato veneziano. Davanti a lui una scrivania in legno, sulla quale, oltre a quello che sta sfogliando, sono presenti alcuni volumi, accatastati in modo disordinato. Sugli scaffali, posti di fronte e di fianco, altri libri, un vaso prezioso dipinto, un piatto. Vicino ai piedi due piccole piante e un gatto. Appeso alla parete di legno un panno. Lo studiolo è costituito da un elegante, ma semplice, elemento d’arredo posto sopra un pavimento policromo e collocato all’interno di un alto spazio interno, voltato a crociera, dalle cui finestre penetra la luce che contribuisce a moltiplicare lo spazio “ad infinitum come in un magico incastro di scatole cinesi”2. Si tratta del San Gerolamo dipinto da Antonello da Messina, intorno al 1475, nel quale l’ambiente rappresentato appare in assoluta armonia con la figura del santo, ritratto come vero e proprio umanista, la cui vita è ostinatamente dedicata allo studio e alla traduzione dei libri sacri e il cui mondo di oggetti che lo circonda rispecchia fedelmente tale disposizione.
Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, 1475
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24. Allestire ambienti1
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Krijn de Koning, Work for the Entrance Hall, Z33, Hasselt, Belgium, Temporary artwork for the exhibition‚Superstories, Museum Z33, Hasselt, Belgium, 2009
La vera cesura avviene con l’introduzione e la diffusione dell’elettronica, dell’informatica, degli strumenti di comunicazione secondo modalità tutt’affatto diverse rispetto al consumo di immagini veicolato dall’uso del televisore secondo il modello degli anni Cinquanta: tutti davanti allo schermo a vedere “Lascia o raddoppia?” e “Carosello”, tanto per intenderci. Ciò che è avvenuto negli ultimi anni, è stata una autentica incontenibile furibonda invasione dello spazio domestico da parte di un insieme di “ultracorpi” che hanno cambiato radicalmente il modo in cui si sta nello spazio e il senso che ad esso diamo. In un libro scritto qualche anno fa, Javier Echeverría metteva in evidenza il poderoso processo di trasformazione avvenuto nella sfera privata a seguito della diffusione dei mezzi di comunicazione e delle tecnologie della telecomunicazione, al punto da creare una nuova forma di economia che, secondo l’autore, trasformerebbe “il privato in pubblico, l’ozio in lavoro e il consumo in produzione”9. La cui conseguenza principale consisterebbe nel trasformare lo spazio domestico in qualcosa di pubblico: “La tecnologia ha creato strumenti che possono orientare la percezione, produrre ricordi e inviare messaggi subliminali che influenzeranno la condotta degli individui al momento opportuno”10, creando le condizioni per poter entrare nella sfera più intima e privata
Colore e luci sono fondamentali per dare carattere ad un ambiente interno od esterno. Precedentemente si è detto che, se si volesse rimanere nella metafora musicale, la luce potrebbe presentare analogie con gli elementi che in musica sono misurabili, come l’altezza e l’intensità del suono. È vero solo in parte. Esistono manuali di Light design e di Design della luce1 e regole di illuminotecnica che prescrivono in che modo un ambiente deve essere illuminato per rispondere a determinati requisiti, stabiliti anche dalle normative, per garantire certe prestazioni. Alcuni di questi manuali tendono a mettere in evidenza l’esigenza che sia l’individuo ad essere al centro della progettazione della luce e che il design sappia confrontarsi con temi che spaziano dalla radiometria alla visione, dalla fisiologia alla psicologia, a partire dalla affermazione che la luce può agire su chi sta in un ambiente, interno od esterno, attraverso tre sistemi principali: il sistema visivo, che interviene per la valutazione immediata dell’ambiente, il sistema circadiano, che influisce sull’orologio biologico, e il sistema percettivo-cognitivo, che interpreta il messaggio proveniente dall’ambiente sotto l’influenza dell’illuminazione, influendo sulla psiche2. Ma questo tipo di conoscenza costituisce solo una parte del progetto della luce, che è problema molto più complicato e sfuggente. Per affrontare il quale è necessario coniugare le competenze che vengono dal mondo degli “esperti” con la capacità, anche in questo caso, di captare tutti gli stimoli provenienti dai diversi ambiti che, nelle forme più diverse, potrebbero rappresentare un contributo al progetto della luce. Possono essere letterari, penso al libro di Junichiro Tanizaki3, poetico e raffinato confronto tra la casa occidentale, fondata su una sorta di irritazione dei sensi di cui la luce elettrica si fa in un certo senso interprete, e quella orientale, capace di valorizzare la penombra e la luce “mitigata e indiretta”, “estenuata e melanconica”, “incerta e delicata”, “che entra e indugia nelle nostre stanze, simile all’ultimo bagliore del tramonto”4. Possono essere teorici e disciplinari, come le riflessioni
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25. Luci e ombre
Attilio Stocchi, Gualtiero Oberti, Piazza Castello, Castel Rozzone 2004
Nel suo fondamentale studio sull’evoluzione degli spazi urbani nel tempo, Françoise Choay2 descrive le trasformazioni dello spazio pubblico dal Medioevo sino ad oggi e, dunque, il passaggio dalla nozione di spazio di contatto a quella di agganciamento, inteso come spazio dominato dalla relazione con l’universo delle reti e degli oggetti tecnici. Avvertendo dunque la portata delle mutazioni in corso ma non rinunciando a sperare nelle possibilità di “inventare nuove parole per designare le attività che serviranno a costruire la grande rete di connessione e, forse, il piccolo circuito di contatto, nelle maglie delle quali, prima che non siano a loro volta superate, sarà costruito il loro destino”3. Una prospettiva, perciò, sostanzialmente ancora inscritta nella grande e nobile tradizione della riforma dello spazio pubblico della città, uno dei cui ultimi interpreti, sotto il profilo dell’elaborazione teorica, è stato Camillo Sitte4 Altri autori, di formazione soprattutto sociologica, hanno sottolineato invece molto di più la radicalità dei processi di trasformazione in corso, introducendo in tal modo ancora abbastanza inesplorati orizzonti di ricerca. Per Giandomenico Amendola5 quella contemporanea è una “città scena che macina eventi e consumi culturali e che deve stimolare e legittimare desideri”6, in cui lo spettacolo diventa il principio organizzatore della vita e lo spazio pubblico un elemento di una catena del valore, in quanto è la città stessa, nella sua configurazione generale fatta di spazi aperti e spazi costruiti, a diventare luogo di consumo, attraverso la promozione di eventi quotidiani che stimolano il consumo ed eccitano nuovi desideri. La città appare teatro di avvenimenti culturali, spettacolari, ma anche di nuove forme di messa in moto di meccanismi di autoconsumo dello spazio, tali da consentire a ciascuno di “costruire la propria prossimità”, di fare ricorso ad una sorta di palinsesto personale attraverso il quale si ridefiniscono nuove forme di identità, non più tanto fondate su valori condivisi quanto su modalità multiple di approccio e consumo del territorio. “Il privato irrompe nel pubblico e questo, a sua volta, definisce ed imbeve il privato”7, in modo
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26. Interni urbani1
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Luciano Crespi (capogruppo), Marino Crespi, Osvaldo Pogliani, Fabio Reinhart, Dario Sironi, Patrizia Brivio Concorso Tre piazze per Sesto San Giovanni, 2005, progetto vincitore
quello, tradizionale, d’uso e di scambio. Economia del simbolico la cui peculiarità sarebbe quella di essere “caratterizzata dalla specifica produzione di senso”17. Per Patrizia Mello quello in corso è un fenomeno di allargamento dell’appropriazione di spazi ”a proprio uso e consumo”, tale da costituire un “importante fattore di trasformazione creativa del tessuto urbano e sociale all’interno del quale costruiamo i nostri percorsi di vita”18. Cui si aggiunge un vasto processo di diffusione dell’informazione e di artificializzazione dell’ambiente che viene visto, tuttavia, anche ricorrendo all’esempio delle architetture di Toyo Ito, come un’occasione per “potenziare la facoltà umana di abitare e gestire la fisicità dei luoghi, occupare spazi, captare informazioni, stabilire nessi e interazioni a prescindere dalla stessa materialità del luogo, a favore di una maggiore fluidità, decodificabilità, permeabilità e lettura trasversale degli ambienti”19. L’esito sarebbe quello di un’architettura come estensione del proprio corpo, nella quale il confine tra spazio fisico e spazio mentale è destinato a diventare sempre più invisibile, grazie ad uno scambio reciproco, attraverso il quale lo spazio fisico sarebbe indotto a cedere sempre più parte della propria materialità a favore di altre qualità sempre più soft, immateriali e reversibili, e viceversa. Esito dal quale sembra essere attratto anche Massimo Cacciari quando, a
Angela Rui Cavalchiamo lungo un indefinito periodo di incertezza. Ci siamo saliti con l’ingresso nel XX Secolo, ma non ne abbiamo ancora visto la fine, o semplicemente non andrebbe previsto il lieto fine. Oggi Zygmunt Bauman, sociologo e teorizzatore della postmodernità, individua nell’incertezza la condizione entro cui leggere la società contemporanea, la cui radicalità va intrecciata alla rivoluzione scientifica annunciata dalle scoperte di Albert Einstein, alla fisica quantistica di Plank, al concetto di inconscio di Freud, al teorema di incompletezza di Gödel, e al principio di indeterminazione di Werner Heisenberg, ovvero alle conseguenze sociologiche di teorie destabilizzanti che hanno corroso nel tempo le nostre convinzioni e che hanno profondamente cambiato la percezione di habitat dell’uomo contemporaneo. Il sentimento di frammentazione e perdita di unità ha avuto un’ulteriore e drammatica controprova con l’avvento della lunga, dantesca, immersione in un periodo trafitto dalle guerre mondiali, che segnano la definitiva caduta di miti, dogmi, fede religiosa e morale. La stessa idea di modernità (come racconta Walter Benjamin nei Passages di Parigi), è stata riletta (e ricostruita) a partire dai frammenti della storia come se ci si risvegliasse – feriti – in un campo di macerie, che è poi quello della cultura europea. In questa dimensione si sono mosse anche le arti visive, tentando una rivoluzione linguistica totale per trovare il modo più adatto a narrare il corso degli eventi tanto reali quanto psicanalitici. Ogni dogma legato a canoni disciplinari e di rappresentazione, immediatamente invecchiato, comprensibilmente astorico, è stato a poco a poco superato. La stessa idea di dogma non aveva più valore, poiché il fallimento delle certezze politiche, sociali, scientifiche aveva aperto gli occhi sulla complessità del presente. Parliamo di arti. In tutto ciò la pratica del collage e dell’assemblage, come diceva l’antropologo Claude Levy Strauss, è stata un aspetto fondamentale dell’agire umano, e sicuramente la pratica diffusa che se ne è fatta a partire dal XX secolo è indice di un essere congruo rispetto
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Arti e spazio Interni dell'arte: ladri di vite
Manlio Brusatin
Che cosa sia il colore non può avere una risposta assoluta: sappiamo però che cosa succede se ci capitasse improvvisamente (per un lieve colpo alla nuca) di non vedere più i colori. Alcuni neuroscienziati come Oliver Sacks hanno spiegato tutto questo, mettendo sotto osservazione un pittore improvvisamente cieco ai colori che ha potuto continuare a vivere la sua arte con la memoria dei colori che non vedeva più, e un piccolo popolo di un atollo della Polinesia, decimato da uno tsunami, che dopo qualche secolo aveva selezionato la popolazione in una metà che vedeva a colori e si dedicava all’agricoltura e l’altra metà che non li vedeva e si occupava della pesca (notturna). Esaminiamo criticamente il primo caso (suggerendo per il secondo la lettura antropologica di Oliver Sacks, L’Isola dei senza colore, Adelphi, Milano 1997 e 2007). Per un tamponamento, un pittore americano dà un leggero colpo con la fronte contro il lunotto della sua macchina. Nessun danno, apparentemente. Qualche spiegazione, molto educata, con il conducente dietro di lui e scambio dei biglietti da visita. Ma la sera stessa e la mattina successiva, il tale pittore R., si accorge, e non sa come, di non vedere più i colori. Il mondo che lo circonda è diventato improvvisamente privo di ogni stimolo cromatico. Un mondo improvvisamente e completamente grigio è la prima impressione. Un universo terribilmente sporco, la seconda e più forte sensazione. Anche il grigio è un colore ma questo spegnimento monocromo è la fine del mondo, una realtà che non si può vivere. Qualcosa di inconcepibile per un pittore. Un tipo di morte visiva. L’esperienza rientra fra le cose possibili ma non esattamente comunicabili. Quasi una morte oscura che si sconta, rispetto a uno dei misteri degli umani, cioè il modo di vedere e sentire i colori. Si può solo cercare di capire come ci si può sentire al suo posto. Il pittore R. si sente muovere in una specie di nebbia che sale e scende, indipendentemente da suoi movimenti all’interno della sua stanza o all’ esterno, alzando ogni tanto i piedi per timore di aver pestato qualcosa di marcio.
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Colore interno, esterno, immaginario
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L’aspetto esteriore delle cose e delle persone, anche le più familiari, è del tutto cambiato per diventare muto e ostile. Qualsiasi cosa percepita o qualsiasi azione verso il mondo diventa sbagliata e innaturale ma più che altro come macchiata e impura. Non riusciva, per esempio, a sopportare le calcinate fisionomie degli altri e in particolare i tratti della sua faccia che svanivano quando si avvicinava allo specchio, come un uomo di fumo affacciato in una finestra vuota. Il colore incarnato in particolare nelle sue possibili gradazioni gli appariva come una biancheria imbrattata da uno sporco non lavabile. La televisione (non più a colori) diventava una mostruosità ancora più insopportabile, rispetto al più confortevole bianco e nero dei vecchi film. Il cibo più gustoso appariva come un’orribile spazzatura. Dopo un digiuno prolungato che lo portò quasi alla consunzione, il pittore R. si arrese a mangiare ad occhi chiusi, affidandosi al ricordo dell’odore e del sapore, perché il piacere e la vista di un buon piatto erano perduti per sempre. Tutto questo succedeva solo per la mancata visione dei colori? Egli, per un fatto traumatico del tutto casuale, aveva perduto la sensazione del colore pur rimanendogli la coscienza, quasi ossessiva, del colore perduto, il quale come ogni cosa perduta diventava sempre più il senso assoluto della visione. Non soltanto una qualità ma la verità della visione stessa. Da non molto pensiamo di sapere – ma lo sappiamo veramente ? – dal più noto esperto di neuroscienze come dall’ultima donna-tintore del Benin che: “Il colore è nella testa”. Il presidio della vista, e di quella fin troppo umana dei colori, è fatto di alcuni insostituibili passaggi: dai puri stimoli ottici si passa ai livelli superiori del cervello e della mente. Perciò si può dire con buona convinzione che: il colore non è (solo) una qualità della luce ma una sensazione percepita dai nostri occhi e recepita dal nostro cervello. C’è un primo livello che traduce quello che chiamiamo astrattamente lunghezze d’onda in stimoli cromatici selezionati da recettori specializzati del nostro occhio (comunemente R G B, rosso, verde e blu) per arrivare attraverso sottili filamenti neurali a un piccolo nucleo di materia cerebrale che sta nella zona occipitale, uno a destra e l’altro a sinistra, i quali recepiscono ed elaborano quella sensazione che noi chiamiamo universalmente COLORE. Se questo piccolo nucleo di cervello s’inceppa perdiamo improvvisamente la vista del colore, come