Introduzione
Pensiamo ai giochi semplici che possiamo fare con le ombre. Incrociamo i pollici e agitiamo il resto delle mani. Abbiamo tre cose: un paio di mani incrociate che si agitano e un’ombra che è contemporaneamente due cose, l’ombra di due mani incrociate che si agitano e l’ombra di un uccello o di una farfalla che battono le ali. La cosa fondamentale è che capiamo tutto questo, e il piacere deriva proprio da questa comprensione. Questa ambiguità, questo piacere che accompagna l’auto-inganno, è l’essenza fondante di ogni essere visuale. (…) Se c’è qualcosa che l’arte deve fare è chiarificare, renderci coscienti di un precetto: mediare sempre William Kentridge1 7
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L’attività di esplorazione e di ricerca di William Kentridge è dedicata agli anni in cui nascevano le macchine della contemporaneità: il cinema, il telegrafo, le radiazioni. L’artista è diventato famoso negli anni Novanta per la tecnica da lui chiamata “disegno per proiezione”, un disegno a carboncino cancellato, ridisegnato e filmato frame-by-frame. Il processo di trasformazione del disegno e la sua permanenza in forma di traccia diventano forme espressive privilegiate per esplorare memoria e oblio, colpa e pentimento. Allo stesso modo altri media come la lastra tipografica ricoperta d’inchiostro, le tecnologie pre-cinematografiche dello zootropio e del fenachistoscopio, le macchine anamorfiche, le forme di manipolazione della direzione e della velocità della pellicola cinematografica, il teatro delle ombre, la scatola nera e l’inversione della pellicola dal positivo al negativo, la struttura panoramica della videoinstallazione multipla, sono tutti dispositivi tecnici che non solo influenzano ma costituiscono un senso legato alla loro struttura materiale. Nella sua esplorazione dei media visivi del Novecento, Kentridge si è concentrato sulla loro capacità di generare senso, così offrendo molti spunti per una riflessione teorica sui linguaggi dell’arte che si basa sulla materialità dei media usati. Lo spazio dell’installazione e dell’allestimento ha spesso giocato sulla doppia lettura di ogni opera di Kentridge, da una parte come prodotto artistico compiuto, dall’altra come processo di produzione. Nell’opera di William Kentridge, il meccanismo che produce meraviglia si trova al confine tra la tecnica di rappresentazione e la cosa rappresentata, tra le mani del prestigiatore e l’animale richiamato dall’ombra delle sue mani. È lo svelamento tecnico a creare quella giusta commistione tra distanza e immedesimazione, scetticismo e illusione, suspension of disbelief e credenza, che garantisce la giusta posizione all’osservatore dell’opera d’arte. Uno dei tratti di continuità che attraversa la lunga e complessa storia della produzione artistica di Kentridge è la tendenza a offuscare una presunta trasparenza del medium, per renderlo visibile quando non addirittura centrale rispetto all’oggetto rappresentato. Sebbene l’anno di nascita di Kentridge (il 1955) lo ponga in un punto sulla linea della storia che appartiene alla contemporaneità, successivo alle avanguardie e alle postavanguardie, la rete dei riferimenti creata attraverso il montaggio ludico di elementi provenienti da vari strati temporali, lo pone in una dimensione parallela fatta di stratificazioni, pieghe e discontinuità. L’opera di Kentridge, come quella dei maggiori artisti di tutte le epoche, monta tempi eterogenei, è un affastellarsi di anacronismi, e mette in discussione l’esistenza stessa di una linea retta della storia2. Questo libro tenta di gettare
uno sguardo sulle opere fino a oggi realizzate da William Kentridge, con particolare attenzione alla struttura dei media usati e al modo in cui il tempo si fa materia espressiva nelle sue opere. Più che a una panoramica complessiva ed esauriente sul lavoro dell’artista, mira a una lettura dei molteplici linguaggi visivi utilizzati e delle loro ibridazioni, dalla stampa al teatro, dal disegno al film, dall’allestimento all’installazione vera e propria. Kentridge è dunque situato all’interno di una costellazione di riferimenti che non fa capo unicamente alla storia dell’arte, ma anche e soprattutto alla storia e alle teorie del cinema e del teatro. L’impostazione semiotica di questa ricerca è legata al tentativo di trovare gli strumenti adatti per leggere il linguaggio dell’animazione cinematografica e delle sue diverse forme espressive, basate sulla manipolazione della pellicola. Il primo capitolo del libro radica l’artista nelle particolari condizioni della sua appartenenza geopolitica, condizioni che, invece di localizzarlo entro confini limitati, lo inseriscono in una rete globale e intertemporale di riferimenti artistici e letterari. Essere “uomo del suo tempo” e del suo luogo, per Kentridge, significa accumulare un capitale culturale che affonda nel Modernismo e nella cultura figurativa. Nel secondo capitolo si contestualizza il “disegno per proiezione” nella storia del cinema d’animazione e nel dibattito critico cui pose fine un fondamentale saggio su William Kentridge di Rosalind Krauss. Si esamina come le letture critiche del lavoro dell’artista abbiano condizionato i modi di fruizione e la valutazione delle sue opere. Nel terzo capitolo, si vede come gli allestimenti delle mostre siano stati da una parte condizionati dalle valutazioni critiche, dall’altra decisivi nella definizione del suo lavoro. Nel quarto capitolo, ci si sofferma sulle forme di auto-rappresentazione dell’artista al lavoro che emergono nel momento in cui Kentridge abbandona temporaneamente il “disegno per proiezione” a favore della “animazione cinematografica”, basata sulla manipolazione della pellicola e sullo sfruttamento della tecnica dello scatto singolo su riprese dal vero. Nel quinto capitolo, si esaminano le forme di manipolazione della temporalità della pellicola per esaltare il valore significante della proiezione cinematografica: dal loop all’inversione, dall’accelerazione al ralenti, dall’inversione dal negativo al positivo fino all’animazione dell’anamorfosi. Nell’ultimo capitolo, il linguaggio dell’animazione è letto infine come tecnica che porta all’estremo la combinazione di elementi eterogenei. Il montaggio è la tecnica fondamentale dell’arte di Kentridge che, sia nell’installazione cinematografica che nel teatro, gioca a sovrapporre e lavorare di contrappunto tra diversi elementi: azione, spazio scenico, disegno, film e musica. 9
Disegno per il film Monument, 1990 carboncino su carta A dx: Cadavere con giornali Still da Felix in Exile, 1994
Contemporaneo a chi? Camminare a ritroso nella storia dell’arte
La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dall’adesso. Così, per Robespierre, l’antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La Rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito di altri tempi. La moda ha buon fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nel folto di tempi lontani. Walter Benjamin3
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La
vita quotidiana in uno stato d’emergenza
William Kentridge nasce e cresce in condizioni politiche d’eccezione, estranee all’andamento apparentemente progressivo della storia occidentale dal dopoguerra in poi. Nato a Johannesburg nel 1955, è bianco e di origine ebraica da parte paterna: i Kantorowicz si erano rifugiati in Sudafrica dalla Lituania alla fine dell’Ottocento, quando questo territorio faceva ancora parte dell’impero russo e i cittadini di religione ebraica erano soggetti a persecuzioni razziali. Arrivati in Sudafrica, avevano presto anglicizzato il cognome in Kentridge. Il fotografo David Goldblatt e la scrittrice Nadine Gordimer, premio Nobel nel 1991, hanno la stessa origine ebraico-lituana: non a caso anche questi due intellettuali si sono impegnati, ognuno nel proprio campo, fotografia o romanzo, nella denuncia delle violenze e delle diseguaglianze sociali in Sudafrica. Avendo vissuto non in prima persona ma attraverso il filtro della storia familiare l’immediato passaggio dal ruolo di vittime a quello di carnefici, questi artisti si trovano a ragionare di continuo sull’origine irrazionale di ogni forma di razzismo e segregazione. Passare dallo status di minoranza perseguitata a quello di élite privilegiata è una condizione ideale per dimostrare il fondamento arbitrario del razzismo. Il giovane Kentridge vive in un ambiente che non rimuove il problema dell’apartheid volgendo lo sguardo altrove: i genitori sono infatti entrambi avvocati, e la loro professione li porta spesso a difendere le vittime delle persecuzioni dello stato segregazionista. L’infanzia dell’artista trascorre pertanto serena, data l’appartenenza a una famiglia bianca e borghese, ma non estranea agli eventi di cui il Sudafrica è teatro in quel momento. I privilegi assicurati al giovane Kentridge dalla sua condizione familiare, sono accompagnati dalla consapevolezza della loro origine4. L’avvocato Kentridge ebbe un ruolo di consulenza legale anche nell’inchiesta su Sharpeville (1960), città in cui, durante una manifestazione non-violenta contro la polizia, vennero uccisi tra la folla sessantasette cittadini neri. Acquisì una fama internazionale nel 1977 quando portò alla luce le prove che dimostravano che Steve Biko, leader del movimento studentesco Black Consciousness, era stato assassinato. Il giovane era stato arrestato in seguito a scontri tra polizia e studenti a Soweto. Qualche mese dopo era morto in prigione, ufficialmente perché non aveva resistito a uno sciopero della fame. Sydney Kentridge, in qualità di avvocato difensore della famiglia
di Biko, si oppose a questa versione dei fatti e dimostrò, con prove e testimonianze agghiaccianti, che la morte era dovuta alle torture subite in commissariato e in prigione. Quelli descritti sono considerati dalle cronache storiche degli ultimi decenni come eventi-chiave della storia del Sudafrica, tappe fondamentali sulla via della liberazione dall’apartheid. La famiglia Kentridge vi è coinvolta in modo diretto e combatte la sua lotta personale con armi legali. Le personalità coinvolte in scandali e massacri, che siano vittime o carnefici, visitano spesso i Kentridge per chiedere consulenza agli avvocati.
Dalla serie The Pit, 1979. Stampa monotipo. 53,5 x 43 cm
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L’artista, da bambino, vive in questo clima di lucidità e amarezza. Spesso racconta un aneddoto, che illustra bene il suo incontro traumatico con l’esperienza della violenza negli anni della sua infanzia: frugando in una scatola di biscotti, si imbatte nelle fotografie legali dei morti di Sharpeville e nelle relazioni dei medici sulle loro ferite. Queste immagini documentarie, con il loro apparato scientifico di appunti, diagrammi e frecce, torneranno spesso nell’immaginario dell’artista. Il riferimento al documento porterà un forte bagaglio di denuncia sociale in un medium di solito considerato evasivo e disimpegnato, il cinema d’animazione. La sanguinosa storia del processo di emancipazione del Sudafrica entra nella vita familiare così prepotentemente da spingere Kentridge all’impegno diretto e all’iscrizione alla facoltà di scienze politiche. Così, nel 1976 l’Università di Witwatersrand gli conferisce la laurea in scienze politiche e studi africani. Intanto ferve l’attività sul fronte politico delle organizzazioni studentesche e, parallelamente, l’impegno in un teatro dall’impronta politica. Sin da bambino però, Kentridge aveva sempre disegnato, incoraggiato dalla madre con cui frequentava dei corsi serali di disegno dal vivo. Questa attività non viene mai abbandonata, neanche durante gli studi universitari. Per questo, subito dopo la laurea, decide di perfezionare la sua tecnica e s’iscrive a una scuola di stampa e incisione, la Johannesburg Art Foundation7. La Stampa
come medium sociale: ritorno alla figurazione
Appassionato di arti grafiche, Kentridge non ama particolarmente la pittura a olio. Preferisce l’incisione, che lo libera dalla necessità di usare i colori, e gli permette di capire meglio come calibrare i toni e lavorare sull’ombra e sul chiaroscuro. Il suo maestro alla Johannesburg Art Foundation è Bill Ainslie, grafico e scultore. Dopo due anni di studio, il giovane William lo affianca nell’insegnamento. Il medium dell’incisione aveva perso attrattiva nei paesi occidentali, ma era ancora significativo nel Sudafrica degli anni Settanta, perché era un medium facilmente accessibile e riproducibile. Potendo stampare più esemplari della stessa immagine, era più facile produrre, riprodurre, distribuire e quindi fare un uso politico delle immagini8. La stampa, infatti, per le sue qualità specifiche, è stata sin dai tempi della sua invenzione un medium particolarmente adatto alla propaganda. Tra le prime incisioni di William Kentridge, spiccano i trenta monotipi della serie Pit (Fossa), del 1979: la loro ambientazione in un buco nero
Domestic Scenes, 1980 Sei stampe su un foglio
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Captive of the City. Disegno per il film Johannesburg, 2nd Greatest City After Paris, 1989 carboncino su carta. 96x151 cm. Collezione dell’artista - courtesy Marian Goodman Gallery, New York.
Il disegno di fronte alla sua animazione Se alla fine Ferber, dopo essersi sbarazzato magari di una quarantina di varianti, o meglio dopo aver cancellato sul foglio uno schizzo via l’altro sostituendolo ogni volta con uno nuovo, si risolveva a consegnare il quadro, non tanto perchÊ convinto di averlo ultimato quanto piuttosto per un senso di spossatezza, l’osservatore aveva la sensazione che esso fosse nato da una lunga discendenza di volti grigi, inceneriti, i quali continuavano ad aggirarsi come spettri su quella carta ormai scorticata. W.G. Sebald21
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Soho and Mrs Eckstein in Pool. Disegno per il film Sobriety, Obesity and Growing Old, 1991 carboncino e pastello du carta. 120x150 cm. Courtesy Marian Goodman Gallery, New York
Fotogrammi da Sobriety, Obesity and Growing Old, 1991
Il
disegno proiettato
All’inizio degli anni Ottanta, Kentridge studia recitazione a Parigi, alla scuola di Jacques Lecoq. Al suo ritorno, abbandona temporaneamente sia l’attività teatrale che il disegno e si dedica al cinema e alla televisione. Insieme a Hugo Cassirer, gira Howl at the Moon (1982), cortometraggio di fiction che vince il premio per la short fiction all’American Film Festival di New York. Intanto realizza anche documentari per la rete inglese Channel Four: uno sulla fotografia documentaria di David Goldblatt, nel 1985, un altro (Freedom Square and Back of the Moon, 1988) su Sophiatown, township alle porte di Johannesburg, esperimento di integrazione e convivenza interculturale rasa al suolo dal governo. Avendo così acquisito dimestichezza con le tecniche cinematografiche, Kentridge si cimenta in giochi domestici con la macchina da presa. Risultato di queste sperimentazioni ludiche e casalinghe è un breve film d’animazione in stop-motion con attori e senza colonna sonora, Vetkoek/Fête Galante, del 1985. In circa due minuti e mezzo di film, attori in carne ed ossa, presi dal giro degli amici e dei familiari, sono ripresi mentre disegnano su un grande foglio; sui loro visi ci sono delle maschere dai tratti espressivi abbozzati, retaggio della scuola di pantomima di Lecoq appena frequentata che insegnava a dare espressività al corpo annullando quella del volto. I disegni, le maschere e le scritte sono realizzate, trasformate, cancellate di fronte alla macchina da presa, che ne registra e ne restituisce, frame-by-frame, i cambiamenti. Questo breve film, esposto in poche occasioni, è all’origine della tecnica per cui Kentridge diventerà famoso, quella per cui si dirà che ha inventato un medium ibrido, nuovo sebbene basato su elementi tradizionali: film e
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(1908) aveva utilizzato più di settecento fogli, non sfrutteranno più l’economia del metodo di Blackton. Kentridge non ha dunque propriamente inventato un medium con i suoi film d’animazione, dato che in una fase appartenente alla preistoria del cinema, altri pionieri modificavano e riutilizzavano la stessa superficie per ogni nuovo fotogramma. Nell’ambito del cinema d’animazione sperimentale, come sottolinea il cineasta e critico canadese Pierre Hébert, già nel 1965 Ryan Larkin aveva realizzato Syrinx, una favola d’ambientazione mitologica, attraverso la cancellazione e la sovrapposizione di tratti di disegni a carboncino27. La novità di Kentridge è che, invece di nascondere il processo di produzione e di tentare di imitare la fluidità del movimento reale, esplicita e mette in evidenza tutto il percorso realizzato dalla matita e dalla gomma. In ogni suo piano sequenza, la figura si muove in un campo sempre più sporco e pieno di tracce. I pochi disegni utilizzati per realizzare il film sono testimonianze e prove tangibili del processo di produzione, raccolgono tutte le fasi di cancellazione e riscrittura che hanno portato al completamento della pellicola. Quando vengono esposti insieme ai film, la loro funzione non è semplicemente di supporto documentale, come spesso avviene nelle mostre di disegnatori di animazione. I disegni sono palinsesti, a dire di Rosalind Krauss28, e in questi consiste la specificità e la novità del medium. Palinsesti
o cronodisegni
Con il termine “palinsesto” ci si riferisce alla pratica antica degli amanuensi che raschiavano o cancellavano le pergamene per scriverci nuovamente sopra. Come l’antica pergamena, ognuno dei pochi fogli usati per le animazioni reca le tracce del suo passato, è un’accumulazione di tracce, un deposito di residui, una “forma emblematica del tempo”29. C’è una parentela tra un disegno di Kentridge e una cronofotografia di EtienneJules Marey, per quanto i due oggetti siano realizzati con tecniche diverse. La cronofotografia è uno strumento analitico che scansiona il movimento attraverso una serie di fotografie istantanee scattate a intervalli di tempo regolari, impressionando la stessa lastra. Chiameremo per analogia il disegno usato da Kentridge per realizzare un piano sequenza “cronodisegno”. Cronofotografia e cronodisegno condensano in un’unica immagine sincronica un periodo temporale in cui avviene uno spostamento o una trasformazione; entrambi sono in grado di congelare, nella simultaneità del
Eye to Eye. Disegno per il film Felix in Exile, 1994, carboncino e pastelli su carta, 120 x 150 cm
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Corpse in landscape. Disegno per il film Felix in Exile, 1994 Carboncino e pastello su carta
disegno o nell’esposizione multipla della fotografia, il processo del divenire. Solo che, mentre la cronofotografia si basa sulla registrazione meccanica del movimento su uno stesso supporto, il disegno per proiezione di Kentridge è il risultato di un’attività paziente e manuale, in cui il movimento non è catturato ma è prodotto. Inoltre, mentre la cronofotografia di Marey consiste in un sezionamento analitico in parti omogenee del movimento, il disegno di Kentridge contiene in sé il racconto di una progressiva intensificazione e densificazione del disegno, risultante di una serie di stratificazioni su elementi cancellati e registrati sotto forma di tracce. Seguendo il celebre schema strutturalista di Louis Hjemslev sulla significazione30, Krauss trova nel palinsesto la forma dell’espressione dell’opera di Kentridge: mentre il carboncino è la materia espressiva manipolata per comunicare, il palinsesto è ciò che conforma questa materia per permetterle di correlarsi direttamente a una forma del contenuto. È in questo modo che vengono espressi vuoti di memoria, ricordi rimossi e recuperati, l’azione inesorabile del tempo, non soltanto con il linguaggio figurativo della narrazione.
Nei primi quattro film di cui abbiamo parlato precedentemente, Kentridge aveva privilegiato il racconto dello scontro tra capitale e lavoro. Nei film successivi, i temi del ricordo e della rimozione diventano centrali, cosicché i contenuti, già presenti in nuce nei film precedenti, si allineano con la forma dell’espressione. In Felix in Exile (1994), il protagonista si rade davanti allo specchio, ma al passaggio del rasoio la sua faccia si cancella. Nello stesso film, corpi di uomini e donne colpiti e caduti per terra, vengono coperti da giornali, circondati da linee rosse che ne tracciano i contorni, fino a essere inghiottiti dalla terra e dall’erba. Restano solo delle ombre sporche a segnalare il loro passaggio. In History of the Main Complaint (1996), il protagonista guida la macchina sotto la pioggia; attraverso il parabrezza è testimone di una scena di violenza, ma i tergicristalli cancellano questa immagine. In Stereoscope (1999), è una parola a subire cancellazione e rimozione: si tratta della parola “forgive” che, a intermittenza, si trasforma in “give”. È un riferimento alla cronaca del Sudafrica, dove, subito dopo la caduta dell’apartheid, sono iniziate le udienze della Commissione per la Verità e la Riconciliazione: gli imputati che danno informazioni e denunciano i propri complici, avranno in cambio una riduzione della pena. Viene elargito il perdono (“forgive”) ad assassini e torturatori in cambio delle loro confessioni (“give”). La loro colpa è cancellata in cambio della ricostruzione della verità. Contemporaneamente, anche l’individuo si sgretola: quel Soho, che ormai sempre più somiglia a un autoritratto di Kentridge e ha perso i suoi connotati caricaturali, si scioglie in una cascata d’acqua. Cancellazione, sgretolamento da una parte, ricostruzione e recupero dall’altra: questi sono i temi proposti in questa fase artistica di Kentridge, con un mezzo espressivo che, nel suo disfarsi e rifarsi, conduce direttamente a questa interpretazione. La dimensione plastica del disegno – la macchia che resta in forma di traccia - rinforza dunque il contenuto figurativo delle immagini31. La cancellazione del disegno diventa mezzo espressivo privilegiato per parlare del perdono, della rimozione e dell’oblio, e così rafforza la semantica direttamente veicolata dalle immagini. Si parla di episodi di violenza e della loro negazione, sia da parte dell’individuo che per vivere sereno si trincera dietro la propria esistenza borghese, sia da parte degli organi d’informazione o degli apparati legali e governativi. Il carboncino utilizzato per i disegni non è un semplice strumento tra 33
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La grande differenza tra i disegni di Kentridge e quelli di altri cineasti d’animazione, è che i “disegni per proiezione” contengono l’insieme di questi scarti, rendono visibili questi “interstizi invisibili” di cui parlava Norman McLaren. Per questo, il film di Kentridge si allontanerebbe dal feticismo del movimento, e non avrebbe alcuna voglia di «dissimulare le scorie tecniche per dare un’immagine pura del movimento»39. Anzi, è proprio in queste scorie tecniche e nella loro accumulazione che è possibile rilevare il senso dell’opera. Che rapporto hanno quindi i disegni utilizzati per fare il film con il film stesso? Da una parte, essi corrispondono a un unico fotogramma, quello che ha registrato il disegno nel suo ultimo stadio; dall’altra contengono un intero piano-sequenza, mantenendo le tracce di tutti i fotogrammi presenti in un tratto di pellicola. Il disegno è tutt’altro che “copia di un istante qualsiasi”, è condensazione di un’intera “immagine-movimento”. Il
dibattito critico: artista o cineasta?
Il saggio di Rosalind Krauss era stato scritto in risposta a un clima critico, soprattutto in ambito francese, piuttosto compatto nel contestare l’abitudine delle gallerie di ospitare nei loro spazi e vendere film come se fossero opere d’arte. Era il periodo in cui si dibatteva in generale l’opportunità di proiettare film di una certa durata dentro i musei, all’interno dei cosiddetti black box, che riproducevano in piccolo le condizioni della sala cinematografica. Il cinema, si diceva, ha diritto a entrare in un contesto museale solo quando si fa installazione, quando cioè sfrutta lo spazio come materia espressiva e crea le condizioni del movimento al suo interno. “Una proiezione non è un’installazione” dichiara perentoriamente la critica francese Françoise Parfait40, ricercando una specificità artistica in quel cinema sperimentale che ha abbandonato le sale di proiezione ed è entrato nelle mostre d’arte. In un dossier dedicato alle sovrapposizioni tra arte e cinema pubblicato su Art Press nel 2000, Dominique Païni, allora direttore della Cinémathèque Française, si fa qualche domanda sull’opportunità di mostrare veri e propri film nelle mostre d’arte, partendo proprio dall’esempio di Kentridge, sicuramente un “artista” nel senso allargato del termine, ma probabilmente altrettanto “cineasta”. Polemicamente, sostiene che quello che distingue il lavoro di un William Kentridge da un
regista di film d’animazione è “la decisione che una copia di questi film o una cassetta debbano vendersi al prezzo di un’opera d’arte”41. Per Païni, sono le ragioni di mercato, più che le valutazioni estetiche o stilistiche, a dettare l’identità e i circuiti di distribuzione di un artista. Quella di Païni è una provocazione contro il sistema dell’arte che si appropria e snatura validi cineasti. Il critico francese mette in discussione la “legittimità dei campi di appartenenza artistica, che non dovrebbero esistere di fronte a talenti come quello di Kentridge”. Qualche mese prima, dalle pagine del quotidiano Libération, la critica d’arte Elisabeth Lebovici, dopo aver visto i film dell’artista installati nelle cellette del complesso della Vieille Charité a Marsiglia, si chiedeva perché opere come quelle di Kentridge debbano essere confinate in galleria e non partecipare a competizioni più inerenti al medium utilizzato, quello dell’animazione42. Anche Jacques Rancière, dai Cahiers du Cinéma, affermava di non trovare nessuna differenza di valore o di contenuto tra i film sperimentali proiettati in una sala cinematografica e certe opere d’arte. La vera differenza, secondo Rancière, è nella specificità artistica della videoinstallazione: il fatto che Kentridge esponga i film accanto ai disegni, genera degli spazi sensoriali specifici che diventano percorsi narrativi in grado di raccontare il processo di produzione dell’opera43. La voce autorevole di Rosalind Krauss si leva proprio contro “alcuni commentatori che, pur apprezzando il lavoro di Kentridge, non vedono perché non li esponga come film d’animazione, inserendoli nel contesto del cinema e nei suoi specifici luoghi di distribuzione e competizione”44. Il suo intervento sancisce definitivamente lo statuto di Kentridge come artista. L’animazione non può essere considerata il genere cinematografico entro cui Kentridge opera; piuttosto è un supporto tecnico che permette al disegno di essere auto-riflessivo, di narrare cioè il processo della propria produzione e il lavorio fisico e intellettuale dell’artista. Il film, costituito dalla proiezione in serie dei fotogrammi che registrano le fasi successive del disegno, può essere considerato come una derivazione del disegno e non viceversa. La scelta di proiettare i film in prossimità dei disegni diventerà dunque l’unico modo di dare giusto peso all’invenzione del medium di Kentridge.
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Shadow Procession, 1999. Installazione a Times Square, New York
Disegno per il film Felix in Exile, 1994, carboncino e pastello su carta
Scenari d’esposizione, scenari di produzione Finzione e lacrime, secondo la logica della vita, sono in contraddizione fra loro: se c’è finzione, non si deve piangere; se si piange, le lacrime devono far dimenticare che è finzione. Nella vita è così. (…) L’arte è una bugia che viene vissuta come verità, quindi è una bugia che è contemporaneamente verità. Quindi si può nello stesso tempo sapere di avere a che fare con una finzione e sciogliersi in lacrime. Jurij M. Lotman e Yuri Tsivian45 39
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Still da Shadow procession, 1999 Black Box/Chambre Noire, 2005, installazione al Deutsche Guggenheim
William Kentridge rimanda alle prime teorie sulla rappresentazione e sulla figurazione come quella contenuta nella Repubblica di Platone e prova a ribaltare la tesi che emerge dal suo mito della caverna. Secondo Platone, ci sarebbe un processo graduale che porta dall’oscurità della menzogna all’illuminazione della conoscenza, che si esprime, spazialmente, nel passaggio dal buio della caverna alla luce dello spazio esterno. Kentridge propone invece di provare a capire il mondo reale guardando il mondo delle ombre. L’elogio delle ombre di Kentridge è quello che più di ogni altro esalta la visione indiretta delle cose, esprimendo un precetto molto chiaro: “Mediare sempre”50. La meraviglia è nel mezzo, all’incrocio tra la coscienza della costruzione dell’immagine e la bellezza dell’immagine stessa, è una sensazione in bilico tra la consapevolezza della finzione e l’abbandono a essa. Le ombre sono proiettate nel sotterraneo di una galleria non solo perché quella era la disponibilità degli spazi, ma per invitare a considerare il mondo dell’arte in termini non platonici: non come luogo dell’inganno, ma come spazio di riflessione.
Shadow procession, 1999 Black Box/Chambre Noire, 2005, installazione al Deutsche Guggenheim
Qualche anno dopo, nel 2005, Kentridge presenta un lavoro dal titolo Black Box al Deutsche Guggenheim di Berlino. È un teatro in miniatura che incorpora dei burattini che si muovono automaticamente, delle luci e delle proiezioni. Quest’opera alterna riferimenti alla cultura dell’illuminismo, con spezzoni musicali presi dal Flauto Magico di Mozart, e immagini d’archivio appartenenti al periodo dell’occupazione tedesca della Namibia, quando la popolazione locale degli Herero fu sterminata. La scatola nera è, come abbiamo già visto, luogo di esaltazione delle ombre, in opposizione alle cecità di certo positivismo illuminato occidentale che misurava e giudicava l’uomo africano come se fosse un reperto scientifico e non un essere umano. Dall’altra è camera oscura, volta a mostrare come la realtà che conosciamo sia in realtà un’inquadratura selettiva, dalla quale restano esclusi molti elementi. In ultima istanza la scatola nera è quel che resta di un disastro aereo, memoria del processo che ha portato alla distruzione. Ed è questa l’interpretazione che fa anche di questo dispositivo tecnico un modo di parlare di memoria e rimozione, colpa e pentimento. 45
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del teatro di ombre di Kentridge. Il temuto momento di “svoltamento” della figura è sfruttato per disintegrare il suo presunto antropomorfismo. La sagoma diventa oggetto, l’arnese diventa umano. Lo
spazio allestito e lo spazio rappresentato
In History of the Main Complaint (1996), tra il parabrezza e lo specchietto retrovisore, Soho vede il suo futuro e il suo passato; in una versione pop dell’angelo della storia di cui parla Walter Benjamin, Soho avanza sulla strada guardando indietro le macerie del proprio vissuto personale. In Felix in Exile, lo specchio riflette il volto del protagonista che si rade, poi diventa la finestra attraverso cui Felix comunica con Nandi, il suo alter ego nero e femminile. Attraverso lo specchio, Felix diventa testimone di violenze e omicidi. Nel vocabolario visivo dell’artista, lo specchio è schermo e finestra rappresentata, strumento di scansione interiore e istanza di mediazione con l’aldilà. A volte lo specchio salta fuori dai film e diventa superficie di proiezione: Sleeping on Glass (1999) è un film che combina riprese dal vero, disegni d’animazione e teatro delle ombre, e le proietta sulla specchiera di un cassettone fin de siècle. Con quest’opera, l’oggettistica antiquata che di solito è parte dell’immaginario rappresentato da Kentridge si materializza e diventa supporto di proiezione; lo scorrere del film su una superficie che è contemporaneamente di riflessione e di proiezione, materializza e rimette in gioco le prime teorie psicologiche e antropologiche del cinema secondo cui il cinema era la “concretizzazione oggettiva dei processi psichici”53 caratterizzati da una “natura energetica primaria fatta di proiezione e identificazione”54. Sleeping on Glass è la prima installazione in cui un mobile diventa supporto per una proiezione. Seguirà nel 2001 la seconda opera con caratteristiche affini, Medicine Chest. Si tratta di un film di animazione retroproiettato su un armadietto per medicinali. La composizione del disegno animato segue le limitazioni imposte dalle scansie dell’armadietto, che come in una griglia separano un campo grafico dall’altro. In questa installazione screenspecific, Kentridge vede nella separazione in scansie dell’armadietto dei medicinali, la struttura della prima pagina di un qualsiasi giornale: alterna così immagini di bottigliette e autoritratti con titoli di cronaca locale e internazionale. La ricorrenza dell’immaginario medico nei film
Installazione al Castello di Rivoli Museo d’ Arte Contemporanea, 2004
di Kentridge, già visto in History of the Main Complaint, ha un’origine biografica, essendo Anne Stanwix, la moglie di Kentridge spesso ritratta nei suoi film, un affermato medico. La proiezione su mobile è una forma d’installazione che coniuga quotidiano e onirico, evoca l’apparizione di fantasmi in un ambiente domestico e abitudinario. Nel 1999, Pipilotti Rist aveva concepito tutta una mostra al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris come uno spazio domestico appartenente a un personaggio fittizio, la signora Himalaya Goldstein. Ogni stanza, dalla cucina alla camera da letto era invasa da immagini videografiche proiettate su mobili e dalla voce onnipresente dell’artista. Il video pop e sensuale Regenfrau (1998), ad esempio, era proiettato su un grande mobile da cucina, neutro e funzionale. Il mobile domestico dentro un museo ha sempre qualcosa di un objet trouvé decontestualizzato e monumentalizzato e per questo rivela un lato ironico, soprattutto in riferimento alla frequente accusa che si fa agli artisti di creare arredamento per museo. A differenza del lavoro di Pipilotti Rist, l’immagine del lavoro di Kentridge è accuratamente screen-specific e non trabocca dai confini 49
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Dal film Journey to the Moon, 2003
Il disegnatore con la macchina da presa Lo si può imparare già nella propria stanza, dove ha avuto inizio il primo camminare, nonché il viaggiare. Anche dopo, andare su e giù nella propria stanza dà un ristoro particolare. Certo, chi passeggia in questo modo deve subito invertire la marcia, a causa della parete, che blocca e che non si può aggirare, manca letteralmente l’aperto. Così pure tornano sempre di nuovo a mostrarsi le stesse identiche cose, il tavolo, l’armadio, le sedie, e, nonostante interrompa la parete e lasci guardare lontano, anche la finestra, dà una vista che ben presto diventa consueta. In ogni caso, viaggiare nella stanza è singolarmente distensivo, non solo perché è un modo di distendersi in movimento. Il suo su e giù è anche un passare in rassegna le cose davanti alle quali passiamo con familiare noncuranza e che fedelmente rivendicano il loro qui. Considerata con comodo, con attenzione, la piccola superficie non fa più l’effetto di essere stretta. Questo piccolo fuori porta invece molto lontano dentro di sé. 53 Ernst Bloch56
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Dal film Invisible Mending, 7 Fragments for Georges Melies, 2003
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La sala che contiene le nove proiezioni Seven Fragments for Georges Méliès, Journey to the Moon e Day for Night è la prima installazione cinematografica su ampia scala che Kentridge abbia realizzato. Apparentemente, la tecnica è cambiata: i nove film che compongono questa installazione sono girati “dal vero” e non con la tecnica del disegno per proiezione. In realtà, la tecnica è sempre quella dello stop-motion, soltanto che l’inquadratura si allarga dai margini del disegno all’immagine in movimento dell’artista nel suo studio. Quando l’artista disegna sulle pagine dell’enciclopedia in Journey to the Moon, il disegno, che sembra dotato di vita propria, è in realtà cancellato e ridisegnato negli intervalli tra un fotogramma e l’altro. Il film dunque riprende uno stile abbozzato nei primissimi film di Kentridge come Fête Galante (1985), dove lo stopmotion creava il movimento intermittente di personaggi e disegni o Memo (1994), dove un attore animato tramite pixelation interagiva con oggetti semoventi e scritte animate. Tematicamente, l’omaggio a Georges Méliès consiste nel remake del suo film più famoso, il Voyage dans la Lune (1902). Tecnicamente, l’omaggio consiste in un pastiche che adotta una tecnica arcaica, costituendo, come direbbe Jameson, un “discorso in una lingua morta”57. Méliès è considerato all’unanimità l’inventore del cinema fantastico, in opposizione al cinema dei suoi contemporanei fratelli Lumière, che avrebbero invece inaugurato il filone del cinema documentario. Secondo questa visione, mentre i Lumière mirerebbero a riprodurre la realtà, Méliès la creerebbe con i metodi propri di un linguaggio nuovo. Queste semplificazioni possono facilmente essere contraddette: i fratelli Lumière non si sono limitati a frequentare l’uscita delle fabbriche e le stazioni dei treni per riprendere la realtà così come la vedevano, ma hanno anche girato dei film in cui sfruttavano i mezzi cinematografici per raccontare situazioni impossibili. Ad esempio ne La Charcuterie Mécanique (1895) un maiale entra in una macchina e ne esce come salsiccia, e in Démolition d’un mur (1896) un muro caduto si risolleva dopo essere stato abbattuto. Eppure è vero che Méliès, a differenza dei Lumière, ha scoperto una tecnica che è alla base di ogni illusione cinematografica, quella del “tempo bloccato”. Méliès stesso racconta l’aneddoto che sarebbe all’origine di questa invenzione58: mentre riprendeva il flusso del traffico in un giorno qualunque a Plâce de 55
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Georges Méliès, still da Le voyage dans la lune, 1902 William Kentridge, still da Journey to the Moon, 2003
Sullo stesso principio, si basa la tecnica attraverso cui Kentridge proietta fotogrammi ripresi “dal vero” su un foglio, su cui poi ricalca a carboncino le figure. Nasce così un movimento trasformativo basato sui raccordi, in cui si passa da una vicenda filmata a una vicenda animata. In due frammenti per Méliès (Invisible Mending e Feasts of Prestidigitation), l’artista in carne e ossa disegna un autoritratto che, tramite un raccordo di montaggio, si trasforma da disegno a corpo, esce dai confini del foglio, si ridisegna e così via. In un altro (Balancing Act), l’artista sale su una scala appoggiata al muro; poi, quasi impercettibilmente, la scala reale diventa disegno, così come tutto il muro di fondo, e l’artista, sostenuto ormai solo da un’inutile scala di carta, precipita dentro il suo disegno. Tutti i sette frammenti sono caratterizzati da questa commistione di cinema fotografico e disegno, che
William Kentridge, Preparing the Flute, 2005-2006. Vista dell’installazione alla Galleria Lia Rumma, Napoli. Foto: Danilo Donzelli. Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
spesso entrano in conflitto: come nei film dei fratelli Fleischer, il disegno, dotato di vita propria, si prende delle libertà che l’artista cerca di domare. La figura del “domatore” appare anche nelle scene disegnate per far da sfondo alla rappresentazione del Flauto Magico di Mozart, di cui Kentridge ha curato la regia teatrale nello stesso periodo dei film su Méliès: Kentridge si rappresenta nelle vesti di Papageno, uccellatore che accompagna Tamino alla ricerca di Pamina, e che nell’economia dell’opera è una figura comica e popolaresca che dona levità alla rappresentazione. 59
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La pantera Nel Jardin des Plantes, Paris Del va e vieni delle sbarre è stanco l’occhio, tanto che nulla più trattiene. Mille sbarre soltanto ovunque vede e nessun mondo dietro mille sbarre. Molle ritmo di passi che flessuosi e forti girano in minima circonferenza, è una danza di forze intorno a un centro ove stordito un gran volere dorme. Solo dalle pupille il velo a volte s’alza muto - . Un’immagine vi pènetra, scorre la quiete tesa delle membra e nel cuore si smorza81. La pantera intrappolata vive nella frustrazione di aver coscienza delle proprie forze e di non poterle sfruttare. E così danza, avanti e indietro, in un’attività che narcotizza la sua volontà. Nell’immaginario di Kentridge, “la danza di forze intorno a un centro”, il “molle ritmo di passi” rappresenta letteralmente la passeggiata dell’artista nello studio, e nello stesso tempo esprime la condizione ansiosa e impaziente della fase che precede la creazione. L’artista è intrappolato nel loop del pensiero ricorrente e tautologico, in costante lotta tra energia e pigrizia, volontà e stordimento. Nella poesia di Rilke, Kentridge legge una visione zoomorfa dell’invenzione che aveva segnato il passaggio del secolo: il cinema82. L’occhio della pantera sarebbe allora l’obiettivo della macchina da presa, il cine-occhio che cerca la sua preda; il suo ruotare ripetitivo ripercorre il movimento dell’incedere della pellicola; il susseguirsi delle sbarre rappresenta la ritmica progressione dell’otturatore che si chiude e si apre lasciando entrare e uscire i fasci luminosi. L’immagine che penetra nelle pupille è questa visione, mediata e quindi smorzata, del mondo visto attraverso lo macchina da presa. Artista, cineasta e osservatore si trovano condensati in un’unica efficace figura che abbatte con un colpo di coda qualsiasi volontà di scavare il solco dei confini tra le arti – cinema, arte, poesia.
Disegno per Zeno Writing, 2002 Carboncino su carta
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Il carosello delle immagini E il tutto va e s’affretta alla sua fine, e gira e gira in cerchio e non ha meta. Un rosso, un verde, un grigio che balena, un breve, appena abbozzato profilo. E ogni tanto rivolto in qua, beato, un sorriso che abbaglia e che si dona al cieco gioco che ci toglie il fiato. Reiner Maria Rilke83
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“Ciò che avverrà è già avvenuto” Il passo della pantera nella gabbia è circolare e ricorrente, come lo era ogni movimento di animale riprodotto agli albori della storia del cinema. Eadward Muybridge aveva ripreso il movimento più proiettivo e lineare che vi fosse al tempo, la corsa di un cavallo su una pista. Per dare l’impressione del movimento, aveva adattato le fotografie istantanee messe in serie a uno zootropio. L’illusione era di vedere il cavallo in corsa proprio come in una situazione reale, solo che la sequenza non scorreva linearmente ma si ripeteva in modo circolare. Ecco allora emergere la grande differenza tra fotografia e cinema: se la fotografia pietrifica il movimento, la cinematografia lo riproduce all’infinito. L’essenza dell’invenzione dello zootropio non è soltanto la captazione del movimento, ma la sua ripetizione. Tutta l’archeologia cinematografica è caratterizzata da una struttura circolare, a loop. Il fenachistoscopio, inventato dal fisico belga Joseph Plateau nel 1831 e descritto anche da un affascinato Baudelaire84, era una struttura a due dischi paralleli: su una superficie di uno dei due dischi lo scienziato aveva disegnato delle figure in serie che variavano gradualmente in forma e posizione; sulla superficie dell’altro disco, aveva invece inciso delle fessure radiali. Facendo ruotare velocemente i due dischi, la rotazione dell’immagine, interrotta dal sistema di otturazioni generato dalle fessure, creava un’impressione di movimento continuo, per un fenomeno di illusione ottica. Sugli stessi principi stavano lavorando contemporaneamente anche il fisico inglese Michael Faraday e il viennese Simon Stampfer a Vienna, che arrivò, contemporaneamente a Plateau, alla stessa scoperta, chiamandola però stroboscopio85. Kentridge è affascinato da questi dispositivi, tanto da riprodurne il funzionamento. Il suo fenachistoscopio (2000) è un assemblaggio di elementi obsoleti: utilizzando due dischi per grammofono, applica sulla superficie di un disco una litografia stampata sul foglio di un vecchio atlante ottocentesco. Questa litografia circolare rappresenta una classica processione di ombre. Vista attraverso i fori praticati sull’altro disco, la processione si trasforma in un’unica figura in movimento, quella di un’ombra che si carica via via di diversi fardelli, un Atlante che porta sulle spalle una volta celeste in perenne trasformazione e in perenne ritorno.
The Refusal of Time, 2012, still da video
spaziali della videoinstallazione a schermi multipli per mostrare, attraverso il montaggio orizzontale, storie parallele e alternative scaturite dallo stesso nucleo iniziale, in una forma di biforcazione multipla della narrazione. La struttura panoramica dell’installazione multischermo frantumata in cinque diverse storie, disperde l’attenzione dello spettatore che avverte una perdita di informazione. La desincronizzazione delle immagini le espone a uno stato di anarchia, come i metronomi che dettano il ritmo all’installazione all’inizio della performance: apparentemente coordinati, iniziano un po’ alla volta a sfasarsi, battendo tempi sincopati e disomogenei. Nell’opera teatrale tratta dalla video-installazione, Refuse the Hour (2012), loop e inversione sono sapientemente tradotti in tutti i linguaggi dell’arte: dalla parola all’immagine proiettata, dalla danza al canto. La narrazione da cui tutto scaturisce è il mito di Perseo, raccontato dall’artista stesso in versione d’attore e conferenziere. L’oracolo preannunciò al re Acrisio la morte per mano di un nipote non ancora nato; nonostante tutti gli accorgimenti presi, il bambino, Perseo, viene al mondo. Il re fa allora in modo di non doverlo mai incontrare e gli affida missioni impossibili come l’uccisione della Medusa. Ma il destino già scritto non può essere 75
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Quando visita il museo di storia della scienza a Firenze, Kentridge resta affascinato dai disegni anamorfici del Seicento. Tornando nella sua casa di vacanza in Umbria, trova nella spazzatura dei pezzi di tubo d’acciaio riflettente: li avevano lasciati gli operai che stavano sistemando il sistema di condizionamento. Attraverso questi cilindri specchianti,inizia a studiare i meccanismi del disegno anamorfico. Per disegnare sul foglio, l’artista guarda il cilindro. Il primo disegno di senso compiuto è proprio la testa di una Medusa: il mito aiuta a comprendere l’importanza della mediazione e dello sguardo indiretto. Il disegno anamorfico consiste in un insieme di segni concepiti per essere tradotti. Non c’è niente di nuovo né di difficile in questa pratica, ammette Kentridge: noi contemporanei siamo abituati a dissociare la vista dalla mano, lavorando con mouse e tastiera e tenendo gli occhi fissi su uno schermo95. Successivamente, Kentridge realizza il suo primo (e ultimo, la pratica è lunga e faticosa) film da proiettare su un tavolo circolare con uno specchio cilindrico al suo centro: What Will Come (has already come (2007). Il film combina scene drammatiche riferite all’occupazione fascista dell’Etiopia con musiche infantili da giostra. Anche qui, c’è un rapporto diretto tra tecnologia e significato: c’è bisogno di una correzione ottica che ci permetta di affrontare il rimosso storico, deformato dalla memoria. La deformazione delle immagini mette in gioco lo spettatore che, attraverso l’uso dello specchio, deve rilevare una struttura all’interno di un disordine apparente. Un po’ come le figure di carta strappata di Breathe la cui unità era assicurata dall’azione antientropica del rovesciamento della pellicola, l’anamorfosi è, secondo il suo maggior teorico Jurgis Baltrusaitis, “una distruzione che prelude a un ripristino, un’evasione che implica un ritorno”96. L’anamorfosi statica prevede un unico punto di vista; nell’anamorfosi animata, i punti di vista sono molteplici97. La presenza di un ulteriore piano di mediazione nella proiezione cinematografica rende questo lavoro di una complessità notevole: non solo l’immagine deformata è mediata attraverso lo specchio cilindrico, ma questa è anche animata con la tecnica abituale di Kentridge, il carboncino cancellato. Su un altro piano, quello della struttura fisica e meccanica del medium, la giostra circolare anamorfica è uno zootropio invertito, in cui le immagini ritornano ricorsivamente in una configurazione centripeta e non più centrifuga. Il titolo stesso dell’opera fa riferimento esplicito alla circolarità della storia, in cui le situazioni si ripropongono, senza che la coscienza
What will come, 2007. Proiezione anamorfica; 35mm film trasferito su DVD proiettato su tavolo con cilindro d’acciaio specchiante, durata: 8 minuti, 40 secondi. Edizione di 14 pezzi. Courtesy: Marian Goodman Gallery, New York. Foto: Ellen Page Wilson
degli errori compiuti nel passato aiuti a procedere verso un’evoluzione. Il riferimento a una meccanica circolare, ricorrente, è rappresentato anche all’interno del disegno animato, con una giostra che gira a vuoto, con i suoi animali di legno imprigionati in un movimento infinito senza meta. Un altro artista contemporaneo che ha lavorato con giostre circolari, giocattoli e ombre è Hans Peter Feldmann, che, in Schattenspiel (2009) ha posto su cartoni di pizza rotanti pupazzi di plastica, souvenir e altro materiale kitch. L’illuminazione con faretti diretta a questi ninnoli rotanti produce una sinistra danza di ombre, proiezione di una fantasmagoria che fa da sfondo a una festa di vecchi giocattoli. Giostre e lanterne magiche, strutture circolari meccaniche e apparati modernisti il cui eterno ritorno ammonisce: ciò che avverrà è già avvenuto. 81
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I am not me, the horse is not mine (A lifetime of Enthusiasm), fotogrammi dell’installazione, 2008
Teatro e intermedialità
Il panottico, una forma dell’opera d’arte totale. L’universalismo del XIX secolo ha nel panottico il suo monumento. Pan-ottico: non solo si vede tutto, ma lo si vede in tutte le maniere. Walter Benjamin98
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Still da Ubu tells the Truth, 1997
negli spettacoli teatrali, viene trasposta nel medium cinematografico. Ne risulta un montaggio di disegni bianchi su tavola nera, e di spezzoni di documentari e telegiornali, immagini di guerriglia urbana tra polizia e studenti, di rivolte e cariche della polizia. Il tipo di montaggio dinamico, basato su spezzoni di notiziari, riprende l’idea di cine-occhio di Dziga Vertov, come confermano anche le citazioni disseminate nel breve film come il primissimo piano di un occhio spalancato e la danza della macchina da presa: ne L’uomo con la macchina da presa (1929), la tecnica dello stopmotion veniva utilizzata proprio per animare la macchina. Kentridge rappresenta la violenza in forme fumettistiche, pur riportando il testo proto-assurdista alla realtà, con riferimenti espliciti alla cronaca delle torture raccontata da vittime e carnefici presso la Commissione per la Verità. Quello che sembra assurdo e irreale è una rappresentazione letterale dei racconti ascoltati ai processi. I racconti, di una violenza talmente inaudita da risultare inverosimili, vengono restituiti nella loro assurdità da una forma di rappresentazione fumettistica e irreale. Il riferimento alla realtà è reso pertinente dall’inserzione di pezzi di materiale televisivo, che rispondono a un’esigenza autenticante. Se con il disegno si può raccontare l’irraccontabile, l’invasione di frammenti fotografici carica tutta l’opera di un valore informativo e documentario.
Conclusioni Il cinema delle origini come orizzonte dell’arte
Tra i lavori che hanno maggiormente conquistato la critica nell’edizione di Documenta del 2012, spiccano due opere: la prima è I Need Some Meaning I can Memorize (the Invisible Pull) di Ryan Gander. L’artista inglese ha lasciato vuota buona parte del piano terra del Fredericianum, fulcro espositivo della kermesse tedesca, facendovi circolare un fastidioso flusso di aria che incanala lo spettatore nello spazio espositivo. L’altra opera è This Variation di Tino Sehgal: lo spettatore entra in una sala completamente buia, dalla quale a poco a poco emergono voci, passi di danza, racconti. Ogni tanto sente il passaggio d’aria di un corpo che passa vicino, il suo odore, il suo alito. Lo spettatore è smarrito, non riconosce lo spazio dell’opera e confonde il proprio ruolo con quello del performer e degli altri spettatori; cerca di capire quando le voci improvvisano e quando eseguono uno spartito preconfezionato. In queste due opere, lo sguardo è tenuto a riposo, mentre gli altri sensi si adoperano per colmare il vuoto percettivo. Anche il medium, nelle sue forme d’espressione canoniche, è abbandonato: il vento si fa visibile tramite i suoi effetti sul corpo; le voci invitano a una risposta immediata, tramite la risonanza, la ripetizione del ritmo, oppure la fuga. In questo contesto, la pienezza audiovisiva di un’opera come The Refusal of Time, appare accattivante, “piaciona”118, “un’atmosfera in bilico tra il cinema d’essai e il luna park”119, “un intervento spaziale talmente teatrale e attraente da far scordare l’eccessivo manierismo che a volte pervade il lavoro (di Kentridge n.d.r)”120. Stimolati dall’azione diretta delle forme odierne di performance, potremmo trovare stucchevole tutto l’apparato mediatico messo in circolo da questo bonimenteur sudafricano, che ci schiaffa addosso in una ventina di minuti la storia dei primi dispositivi cinematografici, collegandola con l’invenzione della dinamite e l’imposizione del tempo sincronizzato. Kentridge appare fuori sincrono e obsoleto rispetto 97
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ad altre opere contenute in mostra, come è obsoleto il Novecento che ci siamo lasciati alle spalle, e tutto l’apparato di tecnologie della visione a cui lo associamo. Eppure, non si tratta di un’accattivante messa in scena di giocattoli ottici che ci permette di ritornare nostalgicamente a un’infanzia perduta dei media oggi spazzati via dalla rivoluzione digitale nel cinema e dall’ascetismo dell’arte contemporanea. “Quando gli inventori di un nuovo strumento, lo usano per osservare la natura, ciò che sperano di ricavarne è sempre una piccolezza in confronto con la serie di scoperte successive, di cui lo strumento è stato l’origine” dice nel 1839 il fisico François Arago in una relazione tenuta di fronte alla camera dei deputati francese a favore della recente invenzione di Louis Daguerre. Questa frase, riportata da Walter Benjamin nella sua “Piccola storia della fotografia”121, racchiude tutto un senso di fiducia e ottimismo nella tecnica che si protrarrà per tutto un secolo ed esploderà soprattutto all’inizio del Novecento con l’invenzione del cinema. È su due momenti storici di speranza e ottimismo che Kentridge si focalizza nelle sue opere: la lunga fase di ricerca e invenzione che all’inizio del Novecento aveva portato all’invenzione del cinema e la fibrillazione post-rivoluzionaria della Russia modernista. Eppure lo sguardo di Kentridge sul passato storico è quello di chi su un’autostrada procede sulla corsia parallela e sa quanti incidenti e quanti rallentamenti aspettano quelli che viaggiano in direzione inversa. La lunga fase dell’invenzione delle tecnologie moderne della visione, dalla fotografia al fenachistoscopio, dallo zootropio al cinema vero e proprio, ha coinciso con l’assoggettamento dell’Africa da parte dell’Europa e la recrudescenza di atteggiamenti razzisti. Alla base della difesa della razza, ci sono atteggiamenti positivisti che hanno come fondamento il principio dell’evoluzione della specie e il mito del progresso; alla base del colonialismo, ci sono l’industrializzazione e lo sviluppo economico dell’Europa. Nello stesso tempo, la fede del marxismo nel determinismo storico si è rivelata illusoria e al vento di rinnovamento portato nell’arte, nel teatro e nell’architettura dalle avanguardie tra le due guerre, sono seguiti i peggiori regimi totalitari della storia. Molti dei dispositivi ripresi da Kentridge mostrano proprio questo lato oscuro del progresso e dello sviluppo tecnologico. Toccherà ai posteri capire, con un occhio abbastanza distante da poter comprendere tutti gli elementi pertinenti, quali sono i legami causali o casuali tra le nuove tecnologie digitali e gli sviluppi politici e sociali dei giorni nostri.
Il recupero dei media arcaici vuole dunque agire come un agente di deviazione che esplora le virtualità insite nella tecnologia al momento della sua origine; vuole guardare, con occhio esplicitamente anacronistico, dentro le pieghe della storia. Così si esaminano evoluzioni alternative rimaste virtuali nella storia dell’arte: come sarebbe potuta essere la storia del cinema se a vincere nella sfida evoluzionistica del medium fossero stati Reynaud e Méliès, uno con i suoi disegni incisi direttamente sulla pellicola del praxinoscopio, l’altro con i suoi illusionismi circensi, piuttosto che i fratelli Lumière, etichettati come padri del realismo e del documentarismo fotografico del cinema? Come potrebbe essere l’esperienza cinematografica, se il cinema non fosse strutturato con una serie di poltroncine direzionate verso un unico schermo, ma se lo spettatore in piedi entrasse e uscisse quando vuole e si trovasse circondato da tanti schermi? Queste ipotesi, non più realizzabili nel campo cinematografico tout court, sono esplorabili nel mondo dell’arte. Le installazioni cinematografiche messe in piedi da Kentridge riconsiderano in modo anti-deterministico il rapporto delle vedute cinematografiche con il sistema dei media entro cui si inserivano alla fine dell’Ottocento. Non era il teatro narrativo, all’inizio, il concorrente del cinema, ma lo spettacolo scenico, cioè “il café-concert, il teatro d’ombre, i numeri di magia, la féerie, le arti circensi, il teatro di varietà, la pantomima ecc.”122. Il panorama era uno spettacolo che doveva destare meraviglia, proiettava sulle pareti circolari tutt’intorno allo spettatore – in piedi e non necessariamente in religioso silenzio - vedute di giardini, di spazi aperti, di luoghi esotici. Intanto un imbonitore accompagnava la proiezione, recitando commenti dal vivo a mo’ di conferenziere. Se questi aspetti tipici del cinema delle origini - il cosiddetto cinemaattrazione, come lo denomina Tom Gunning123 – non appartengono più al cinema tradizionale, l’arte può tradurli nelle meraviglie dell’installazione multischermo, circondando lo spettatore di sons et lumières, mentre la voce del conferenziere accompagna la proiezione parlando di teorie della relatività e dell’introduzione di quel tempo pneumatico che fu la prima infrastruttura della globalizzazione. La mancanza di sincrono e la confusione che derivano dalla sovrapposizione di suoni, immagini e parole, crea la giusta distanza e inserisce un fattore di disturbo nella riproposizione di tanti cliché appartenenti a una modernità che non ci appartiene più. Nello stesso tempo, la frantumazione della narratività sottolinea il primato delle attrazioni cinematografiche sulla storia raccontata. 99
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In questo modo, la storia dell’arte non si arena nel dogmatismo lineare dei pre- e dei post-. Ripescando spunti in ogni dove, dal sogno del teatro totale di Piscator al cineocchio di Dziga Vertov, dal teatro dell’assurdo ai compassi di Man Ray, Kentridge non mira ad avanzare il più possibile nella catena dell’innovazione con trovate inedite, ma attinge al vasto repertorio della cultura visiva riattivandolo e rimescolandolo. Ne emerge un invito a riconsiderare il legame implicito tra la struttura della tecnologia, mai pienamente sfruttata, e le potenzialità di generazione del senso radicate in essa. È questo l’invito che abbiamo cercato di seguire.
note
1. William Kendridge, “In Praise of Shadows”, conferenza tenuta al Chicago Museum of Contemporary Art nel 2001, ora contenuta in Christov-Bakargiev (a cura di) William Kentridge, Catalogo della mostra al Castello di Rivoli, Skira, Milano 2004, pp. 147-161, p. 159.
7. Sul rapporto tra Kentridge e il disegno, cfr. Michael Auping, “Double Lines. A ‘Stereo’ Interview about Drawing with William Kentridge” in Mark Rosenthal (a cura di) William Kentridge. Five Themes, SFMOMA, San Francisco CA 2009, pp. 228-245.
2. Su anacronismo ed eucronismo nella storia dell’arte, leggere Georges Didi Huberman, “La leçon d’anachronie”, Art Press, n. 185, 1993, pp. 23-25; Id. Devant le Temps, Les editions de Minuit, Paris 2000.
8. Su Kentridge e l’uso politico delle incisioni in Sudafrica, leggi Susan Stewart, « Resistance and Ground: The Prints of William Kentridge » in David Krut (a cura di) William Kentridge Prints, David Krut Publishing, Johannesburg and Grinnell College, Iowa 2006, pp. 13-21, p. 15 e D. Bunn e J. Taylor, “Editors’ Introduction” in South Africa: New Writing, Photographs and Art, University of Chicago Press, Chicago 1988.
3. Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, Suhrcamp Verlag, Frankfurt am Main 1966 (trad. it.: Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997). 4. La prima eccellente ricostruzione biografica di Kentridge è a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, William Kentridge, catalogo della mostra al Palais des Beaux Arts. Société des Expositions du Palais des Beaux-Arts, Bruxelles 1998. 5. Il discorso di Nelson Mandela al Banchetto del Consiglio generale dell’Ordine degli Avvocati tenuto presso l’Hotel Sheraton il 28 Luglio del 2000, è citato da Duncan Campbell, “Mandela’s QC goes into a battle for hunters” in The Guardian, 4 Ottobre 2004. 6. Stephen Clingman, “Writing the South African treason trial” in Current Writing n. 22, 2010, pp. 37-59.
9. Jennifer Arlene Stone, Freud’s body ego or memorabilia of grief, JavariBook 2003. 10. Vedi David Krut, « Introduction » in D. Krut (a cura di), cit. pp. 4-6, e William Cole, “On Some Early Prints by William Kentridge” in Prints Quarterly, XXVI, 2009, pp. 268273. 11. Ci si riferisce qui al vocabolario utilizzato da Gilles Deleuze nella sua lettura dell’opera di Francis Bacon in Logique de la sensation, la Différence, Paris 1981 (trad.it. Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1996). 12. Alan Crump, Standard Bank Young Artist Award, The Broederstroom Press, Grahamstown 1987.
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13. Per un’analisi più approfondita di questa serie di incisioni, leggere Michael Godby, “Introduzione” in M. Godby (a cura di) Robert Hodgins, William Kentridge and Deborah Bell: Hogarth in Johannesburg, Witwatersrand University Press, Johannesburg 1990. 14. Donvé Lee, Dumile Feni: Making Art out of Suffering, Awareness Publishing, Gallo Manor ZA 2006. 15. Cecilia Alemani, William Kentridge, Electa, Milano 2006, p. 11. 16. Sui rapporti tra il declino della figurazione nel’arte occidentale e il recupero della figuratività da parte di Kentridge, sono fondamentali le riflessioni di Carolyn Christov-Bakargiev, “Della defettibilità come risorsa : William Kentridge e l’arte dell’imperfezione, della mancanza e dell’inadeguatezza” in William Kentridge, Catalogo della mostra al Castello di Rivoli, cit., pp. 19-28, p. 20. Sui rapporti di Kentridge con l’arte americana ed europea degli anni Settanta: “Interview. Carolyn Christov-Bakargiev in conversation with William Kentridge” in D. Cameron, C. Christov-Bakargiev, J.M. Coetzee (a cura di), William Kentridge, Phaidon Press, London 1999, pp. 7-35, p. 14. 17. Christov-Bakargiev, 1999 cit., p. 9. 18. Loren Kruger, Post-Imperial Brecht : Politics and Performance, East and South, Cambridge University Press, Cambridge 2004. 19. Su Brecht, interruzione e straniamento, “Che cos’è il teatro epico? [seconda stesura]” in W. Benjamin, Aura e choc (a cura di A. Pinotti e A. Somaini), Einaudi, Torino 2012, pp. 285-292. 20. Purkey, Malcolm “Productive Misreadings: Brecht and Junction Avenue Theatre Company in South Africa in Marc Silberman et al. (a cura di), Drive b : Brecht 100 Theater der Zeit, Berlin 1997.
21. W.G. Sebald, Die Ausgewanderten, Eichborn AG, Frankfurt am Main 1997 (trad. it. Gli emigrati, Adelphi, Milano 2007, p. 174-175). 22. Sull’invenzione di un medium da parte di Kentridge, cfr. Dan Cameron, “A procession of the dispossessed” in Cameron et al. (a cura di), 1999, cit., pp. 36-81, p. 38 e Rosalind Krauss, “The Rock: William Kentridge’s Drawings for Projection” in October, n. 92, Primavera 2000, pp 3-35 (trad. it.: “La roccia: I disegni per la proiezione di William Kentridge” in Inventario perpetuo, Bruno Mondadori, Milano 2011, pp. 61-98). 23. Mark Rosenthal, “William Kentridge. A portrait of the Artist”, in Rosenthal (a cura di), 2009, cit., pp. 36-65, p. 40. 24. Non ci possiamo soffermare per ovvie ragioni di spazio sui contenuti dei singoli film. Rimandiamo per approfondimenti a Dan Cameron, 1999, cit.; a Neal Benezra, “William Kentridge: Drawings for Projection” e Lynne Cooke, “Mundus Inversus, Mundus Perversus” in William Kentridge, Chicago Museum of Contemporary Art e New Museum of Contemporary Art, Harry N. Abrams, New York 2001; alle sezioni “I primi film di Soho Eckstein” e “Dentro la testa: il tardo Soho” in Carolyn Christov-Bakargiev, 2004, cit. pp. 75-130 oltre che alle bibliografie ivi contenute; a Mark Rosenthal 2009, cit., in particolare pp. 40-46. La Tate, che possiede delle copie di alcuni dei film di Kentridge, ha anche curato delle ottime schede: si trovano on line all’indirizzo http:// beta.tate.org.uk e sono a cura di Elizabeth Manchester. 25. Guitieme Maldonado, “Robert Breer: GB Agency” (translated from French by Jeanine Herman), in Artforum International, vol 40 n.5, January 2002 (pp. 149-150) e Angela Madesani, Le Icone Fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 167.
Wilhelm von Gloeden Ritratti, travestimenti, tableaux vivants Raffaella Perna postmedia books 2013
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