Pratiche relazionali del cibo. Mangiare nell'epoca dei social di Evelyn Leveghi Š 2015 Postmedia Srl, Milano Design: Romain Citerne www.postmediabooks.it ISBN 9788874901357
Pratiche relazionali del cibo Mangiare nell'epoca dei social
Evelyn Leveghi
postmedia books
Introduzione IL CIBO COME FATTO SOCIALE E CULTURALE
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LE RELAZIONI COME NUOVA CHIAVE DI INDAGINE E PROGETTO
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PRATICHE CONTEMPORANEE ATTORNO AL CIBO
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LA NATURA DIALOGICA E RELAZIONALE DELL’ARTE
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LA CULTURA DELL’INTERAZIONE E LE COORDINATE ESTETICHE DELL’ARTE RELAZIONALE
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PRODUZIONI RELAZIONALI #1 INSTALLAZIONI TRA ARTE E ARCHITETTURA
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PRODUZIONI RELAZIONALI #2 AMBIENTI E DISPOSITIVI TRA ARTE E DESIGN 101 PRATICHE RELAZIONALI DEL CIBO ATTRAVERSO L'ARTE COME IL CIBO RIPROGRAMMA L’ARTE E IL SUO UNIVERSO SEMIOTICO 109 Bibliografia
Più che esporre delle intenzioni, vorrei tratteggiare qui il paesaggio di una ricerca e, circoscrivendo il luogo, indicare le coordinate entro cui si svolge un’azione. Il percorso d’indagine lascia le sue impronte, regolari e zigzaganti, su un terreno abitato da lungo tempo. Solo alcune di queste presenze sono a me conosciute. Molte altre – sicuramente più determinanti – postulati o acquisizioni stratificati in questo paesaggio che è memoria e palinsesto – restano implicite. Che dire di questa storia muta? Indicando i siti in cui è stata posta la questione delle pratiche quotidiane, già rivelo almeno i debiti e le differenze che hanno reso possibile un lavoro su questi luoghi. Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano
Introduzione Il cibo come fatto sociale e culturale
Dirompente ed innegabile è l’interesse diffuso di numerosi popoli del Web 2.0 e di una gran parte della società degli individui urbani1, per l’immensa sfera di produzioni, azioni ed eventi che vedono il cibo come protagonista. Non è una novità che la gastronomia2, nel senso più ampio e profondo del termine, abbia un forte ascendente sull’uomo, come individuo e come comunità. Dalla notte dei tempi siamo legati a doppio filo alla materia edibile, da quando eravamo popoli nomadi, cacciatori, ai predatori di estetica culinaria che siamo divenuti oggi. Esiste ed è osservabile però una profonda differenza tra il passato e il presente: è sensibilmente cambiato il rapporto di necessità3 che ci relaziona al cibo. Se nei secoli l’uomo si è evoluto in parallelo alla natura e ai bisogni legati alla sopravvivenza – in termini quindi di alimentazione e nutrizione – nel corso dell’evoluzione da un punto di vista antropologico e sociale è profondamente mutato il legame con esso. Da bisogno a fascinazione, da nutrizione per il corpo ad alimentazione per gli occhi fisici e digitali4. Un tratto fondamentale e fondante sempre presente nella sfera alimentare è il carattere relazionale del cibo. Dal passato ad oggi esso ha sempre avuto una sorta di affordance5, manifestando non solo la sua necessità come nutrimento ma anche come legante sociale, come connettore di umanità e occasione di scambio e condivisione. Questo tratto distintivo è permaso nel tempo e sta vivendo una straordinaria manifestazione sociale nel secondo decennio del Ventunesimo secolo. Il presente saggio affronta ed indaga tale tema, osservato ed esplorato alle sue radici antropologiche, sociologiche, cognitive e attraverso multiformi (ri)produzioni artistiche e progettuali. La lettura personale prende in esame il cibo come fatto sociale e culturale, guardato attraverso secoli di storia europea, dagli antichi rituali dei banchetti sino ai recenti fenomeni di social eating, manifestando con sempre maggiore potenza la vocazione relazionale ad esso intrinseca. 7
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All’interno di tale scenario, si è voluto dedicare un focus particolare alla produzione artistica contemporanea, a quei lavori che contemplano l’impiego del cibo mediante molteplici forme. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di azioni e produzioni con un approccio performativo ed installazioni che suggeriscono interazione ed azione, ma anche talune opere realizzate con tecniche più tradizionali si offrono come occasione di rielaborazione e riflessione sul tema. Evidenziando tratti comuni a tali lavori si profila una “corrente” – inconscia, eterogenea, organica – che tratta la materia edibile mostrandone o favorendone, attraverso multiformi approcci, le caratteristiche relazionali e sociali latenti. La seguente dissertazione dichiara un taglio interdisciplinare, trasversale a numerosi fronti di ricerca, poiché sottesa vi è la volontà di affrontare il tema attraverso una approccio olistico. La molteplicità di punti di vista è scelta come “posizionamento dinamico” per poter cogliere al meglio quella ricchezza di aspetti che caratterizza la sfera fatta di atti alimentari, azioni, produzioni e relazioni che hanno luogo attorno al cibo. L’indagine pone le proprie fondamenta sul costrutto teorico consolidato di alcune discipline che da secoli anatomizzano tale dimensione. Tra queste si fa riferimento in particolare all’antropologia alimentare, alla sociologia dell’alimentazione e all’etnografia ma anche all’estetica gastronomica. Esiste un termine di origine anglosassone che prevede già un raggruppamento disciplinare attorno ai rituali del cibo e questo è denominato “Food Studies”6. A partire da questa struttura teorica consolidata, di stampo primariamente umanistico, si sono affiancate riflessioni dal mondo dell’arte e del design, e ciò costituisce e determina trama ed ordito di tale saggio. Il presente è un campo interdisciplinare ed emergente e come tale si presenta come un crossover sperimentale tra il lavoro accademico e di indagine sul campo. “Gli studi sul cibo sono un argomento così tanto radicato nell’infanzia che sarebbe sciocco cercare di definirlo o in qualsiasi modo circoscriverlo, perché l’argomento, la disciplina o il metodo che si escludono oggi potrebbero essere grande cosa un domani”7. Il cibo, presente in ogni tempo e in ogni luogo, è letto in questa trattazione come un fatto sociale, culturale e relazionale. La seguente posizione permette a qualsivoglia atto alimentare di essere identificato e incorporato all’interno di un preciso sistema culturale. Ogni cibo ha un suo specifico status, una propria identità e un suo ruolo. In tale visione prospettica il cibo comunica, parla, crea legami, relazioni, esprime conoscenza, amicizia ed intimità e
sottende solitamente atti di condivisione. L’etimologia di “compagno”, lat. cum-panis, ovvero “condividere il pane con qualcuno”8, non è solo la radice etimologica e base semantica da cui derivano molti termini facenti parte dei rituali alimentari ma suggerisce già uno dei tratti fondamentali del tema: la solida e fondata relazione di condivisione e con-vivium che è alla base delle pratiche alimentari. Il rapporto individuo-società si presenta ancora una volta come un nodo complesso, che muta continuamente e in maniera “liquida” rinnovando e modellando le sue caratteristiche, sia – da una parte – in termini di criticità, che – dall’altra – di fertili e nuovi sviluppi. Se per decenni si sono contrapposte visioni “individualiste” e “collettiviste”, che hanno rispettivamente accentuato uno dei poli del rapporto di forza, a partire dalla riscoperta del pensiero sociologico di Georg Simmel, secondo il quale “la società esiste là dove più individui entrano in rapporto di azione reciproca”, sembra sempre più farsi strada una visione che supera le prospettive dicotomiche o unilaterali, per riscoprire e indagare l’indissolubile interdipendenza e dimensione incrociata dell’individuo e della società9. Se da una parte tali fenomeni sono stati analizzati con un taglio critico carico di nichilismo, in relazione alle evoluzioni socio-antropologiche segnate da una crescente individualizzazione della società, del “declino dell’uomo pubblico”, della perdita d’aura dell’opera artistica sino ad una incontenibile estetizzazione degli atti quotidiani, dall’altra si contrappongono delle fertili teorie ed pratiche che propongono letture che individuano nelle maglie sociali della società d’oggi dei tratti di straordinaria forza e unicità, dimostrando un’identità peculiare e profondamente interessante. Intersoggettività e relazionalità sono tra i principali ingredienti che contraddistinguono la vita dell’uomo postmoderno tra quelli che qui sono maggiormente indagati. Questi tratti consentono un’interpretazione ed analisi – socio-antropologica, ma non solo – di alcuni fenomeni attuali e la correlazione di situazioni che appaiono sensibilmente soggetti alle mutevoli trasformazioni del divenire storico, attraverso una visione sistemica. Il tema del rapporto individuo-società si pone trasversalmente nei grandi assetti così come nei piccoli interstizi delle trame sociali, muta continuamente al mutare delle condizioni di vita, che si costruiscono e creano interferenze incrociate, in un’incessante processualità. Di conseguenza si rinnovano gli ambiti di indagine, riflessione e produzione. Un ulteriore elemento che funge da denominatore comune alle questioni proposte nei capitoli che seguono è l’attenzione per l’affermazione del postmedia books
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quotidiano e dell’informalità, strettamente connessi. Come de Certeau ha ampiamente teorizzato, il singolare ritorno alla vita quotidiana, la cui specificità è il risalto dato all’esperienza collettiva, consente di porre l’accento sulla vita come fonte di continui rinnovamenti e dinamismo esistenziale. La rivoluzione della vita quotidiana proposta dal noto antropologo ci esorta a considerare una cultura fatta di elementi semplici che favoriscono l’essere insieme e il vivere insieme. La relazione con gli altri e con il gruppo (Mitsein) è soggetta al luogo in cui si vive (Mitwelt). Lo spazio della socialità è quindi quella cultura concreta che si oppone al tempo sociale proprio della civiltà razionale10. Il fatto di mettere l’accento sul quotidiano porta ad una forma di orizzontalità che oggi trova un florido ambiente di collaborazione nel web 2.0 e nello sviluppo tecnologico ad esso associato e al frizzante fronte di innovazione sociale che ha portato alla attuali rivoluzioni sociali della sharing economy. Ad una società sempre più “liquida” e soggettivizzata si contrappone quindi una società che si mostra, nelle maglie della vita urbana, caratterizzata da una diffusa e crescente “voglia di comunità”11. Manuel Castells sostiene che: “In un mondo di cambiamenti incontrollati, confusi, la gente tende a raggrupparsi attorno alle identità primarie: religiose, etniche, territoriali, nazionali. […] In un mondo di flussi globali di ricchezza, di potere e di immagini, la ricerca dell’identità, collettiva o individuale, conferita o costruita, diviene la fonte essenziale di senso sociale”. Il pensiero di Manuel Castells e quella sottesa a questa ricerca procedono in opposizione alle numerose interpretazioni di nichilismo intellettuale, scetticismo sociale e cinismo politico che costellano molti dibattiti sulla società contemporanea del XXI secolo. Castells ipotizza, sostenuto da numerose analisi sociali, che tutte le principali tendenze di cambiamento che costituiscono il nostro mondo nuovo e a tratti disorientante siano connesse e che sia possibile capire il senso della loro interdipendenza. Un ulteriore punto di contatto con le teorie del noto sociologo sta nella convinzione che l’osservazione, l’analisi e la teorizzazione contribuiscano alla costruzione di un mondo diverso, migliore, non fornendo risposte aprioristiche ma sollevando importanti questioni. Questo lavoro intende essere un modesto contributo a uno sforzo analitico avviato da numerosi professionisti e teorici afferenti a discipline vicine e lontane tra loro, attraverso teorie esplorative ed evidenze disponibili, al fine della migliore conoscenza e rappresentazione del nuovo mondo in cui viviamo.
In tale direzione si considera la tecnologia come un punto di osservazione privilegiato e profondamente importante per l’analisi del panorama sociale attuale. È parimenti rilevante situare il processo di rivoluzionario cambiamento sociale e tecnologico all’interno di determinate coordinate che pongono in relazione i due aspetti e dimensioni. Oltre a ciò, come sottolinea Castells, “nel mappare la nuova storia, la ricerca dell’identità ha un potere pari a quello del cambiamento tecnologico” e, richiamando anche il pensiero di de Certeau, il fatto di mettere l’accento sul quotidiano rinvia alla presa in carico dei problemi del mondo moderno e contemporaneo nel cuore della comunità (delle “tribù”), ovvero nel gruppo in cui ci si riconosce. Un’”orizzontalità fraterna” che oggi trova un buon coadiuvante nello sviluppo tecnologico12.
1. Si fa riferimento alla teoria sociale di Norbert Elias presentata nell’omonimo testo La società degli individui, (Bologna, il Mulino, 1990).
(Houghton Mifflin, Boston, 1979) inteso qui come le qualità nutritiva e relazionale che il cibo suggerisce attraverso la sua consumazione.
2. Il termine “gastronomia” deriva dal greco gastèr (= ventre) e nomìa (= legge) e sta ad indicare l’insieme delle tecniche e delle arti culinarie o il far buona cucina. Ma in senso lato, ed è il tratto che più interessa in questa sede di indagine, indica “lo studio della relazione tra cultura e cibo” delineandosi nella peculiarità quindi di essere a tutti gli effetti “una scienza interdisciplinare che coinvolge la biologia, l’agronomia, l’antropologia, la storia, la filosofia, la psicologia e la sociologia”. Fonti: treccani.it e wikipedia.org
6. “Food Studies” è il fronte disciplinare di studio critico del cibo e dei suoi contesti all’interno di numerosi contesti, scientifici e non, principalmente di arte, storia e società. Si distingue da altri ambiti legati allo studio dell’alimentazione quali le scienze dell’alimentazione e della nutrizione umana, l’agricoltura, la gastronomia e le arti culinarie poiché proietta lo sguardo e l’analisi al di là del mero consumo, produzione e apprezzamento estetico del cibo e cerca di dar luce al cibo in quanto si riferisce ad un vasto numero di campi accademici. È quindi un settore che coinvolge e attrae filosofi, storici, scienziati, sociologi, storici dell’arte, antropologi e molte altre figure.
3. Inteso nel concetto figlio del determinismo. 4. Con “occhi digitali” l’autrice intende riferirsi alla percezione, visione e documentazione del mondo e degli atti culinari attraverso schermi di dispositivi digitali (smartphone, tablet, fotocamera). Si vuole sottolineare tale componente come carattere peculiare del rapporto che oggi definisce il rapporto con il cibo. La questione verrà approfondita nel capitolo “Pratiche contemporanee attorno al cibo”. 5. si fa riferimento al termine introdotto da James Jerome Gibson nel suo testo The ecological approach to visual perception
7. Paul Levy 8. Fonte: taccuinistorici.it 9. Si fa qui riferimento al testo omonimo a cura di Marta Picchio. 10. Michel Maffesoli in Prefazione a L’invenzione del quotidiano, di Michel de Certeau, Edizioni Lavoro, 2001 (1990). 11. Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Laterza, 2001. 12. Michel Maffesoli, Op. cit.
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Kensuke Koike, Whish - la sala del ristoro, 2013
Le relazioni come nuova chiave di indagine e progetto
Quando si parla di relazioni si fa solitamente riferimento alle relazioni sociali o interpersonali. Ampliando lo sguardo il termine riporta ad un ventaglio molto ricco di interpretazioni e studi. Il concetto profondo di “relazione”, che si manifesta nella vita quotidiana dell’uomo è qui considerato quel trait d’union che definisce gli universi semiotici in cui viviamo. In tale prospettiva si vogliono evidenziare le relazioni come rapporti tra mondo oggettuale, sfera esperienziale e dimensione spaziale. Si tratta di un sistema a tre componenti che ricorda e riprende il triangolo semiotico di Peirce: segno-oggetto-interpretante. Nella presente trattazione si intende esplorare non solo le relazioni tra individui attraverso il cibo, ma nella fattispecie la sfera relazionale – triadica – che vede i soggetti coinvolti ed immersi in un sistema comunicativo e sociale innescato dal cibo in un determinato ambiente. Di qui l’indagine si sposta nel campo delle produzioni relazionali dell’arte che contemplano il cibo come medium per sondare universi possibili di risignificazione dei rapporti di creazione e fruizione dell’opera attraverso processi di interazione e partecipazione con il pubblico. Date tali premesse è doveroso approfondire i multiformi rapporti che sussistono tra individui e che comportano un ridimensionamento di tutti gli altri link relazionali del sistema. Ponendo sotto esame la dimensione della vita quotidiana sono le relazioni interpersonali ad essere protagoniste, assumono più spazio essendone parte integrante e maggiormente costituente. Queste possono essere di diverso tipo, più o meno profonde, in base al contesto. Si trovano esempi di relazioni interpersonali in ambiti sociali molto diversi, dalla famiglia al lavoro, dall’amore all’amicizia. Per relazione si intende “quel legame che si crea tra due o più persone i cui pensieri, sentimenti e azioni si influenzano vicendevolmente”1 in cui si genera quindi un rapporto di interdipendenza. 13
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manifestino come atti creativi attraverso gli infiniti mezzi digitali che – come protesi – sono parte integrante e irrinunciabile della maniera di esperire il nostro universo semiotico, risultato di una nuova fascinazione verso il cibo ed elementi della vita quotidiana non più banali e scontati. Oggi, il pubblico è pensato come un essere sociale, data-mined e geodemograficamente inquadrato conducendo ad uno scarto di senso, dall’idea di un consumatore medio di immagini ed opere ad un coautore attivo rappresentante di una eterogenea e complessa comunità sociale. La natura stessa dell’arte e del design, e dei ruoli tradizionali di progettista/ artista e dello spettatore/consumatore si è drasticamente modificata. Con l’avvento e la diffusione di massa di dispositivi portatili digitali e con il Web 2.0, vie allettanti alla riproduzione e nuova creazione di prodotti visuali, arte e design hanno sentito un forte campanello d’allarme, dapprima come minaccia che poteva minare le certezze di sempre, successivamente come possibilità di scrittura collaborativa e fortemente interattiva e dialogica. Si presenta una moltitudine di soluzioni contingenti o condizionali: sistemi aperti, connessioni relazionali, produzioni collaborative ed ecologie connesse tra loro. Dopo anni di esperimenti su forma e contenuto, il design e l’arte esplorano ora il regno del “contesto” in tutte le sue manifestazioni - sociali, culturali, politiche, geografiche, tecnologiche, filosofiche, informatiche, ecc. Alla luce del fatto che i risultati di tale lavoro non convergono in un unico argomento formale e poiché sfidano modelli e processi di produzione tradizionali, potrebbe non essere evidente che la diversità delle forme e delle pratiche scatenate possono determinare le traiettoria di design e arte per il prossimo secolo14. L’avvento della pratica relazionale ha in parte origine e causa dallo sviluppo dell’era digitale ed informatica, tuttavia è certamente non limitabile al campo digitale. Al contrario quasi, gran parte degli artisti inscrivibile all’interno dell’Estetica relazionale hanno lavorato e lavorano quasi esclusivamente attraverso l’interazione fisica con il pubblico e lo spazio anche come risposta alla profonda digitalizzazione delle strutture sociali15. Oggi è invece di certo lo spazio in-between, la dimensione interstiziale tra digitale e fisico, tra spazio dei flussi e spazio dei luoghi16, che offre le maggiori occasioni e migliori casi studio. Le strutture sociali digitali sono divenute parte integrante della vita moderna ma la loro manifestazione nel mondo reale è soffocata da dispositivi digitali ma si sta verificando un nuovo legame ai luoghi grazie alla geolocalizzazione che riporta molti fenomeni ed eventi ad una dimensione spaziale empirica.
Dîner en Blanc a Parigi, 2013
IL CARATTERE RELAZIONALE DEL CIBO
Il cibo è spesso analizzato come fatto sociale e culturale. All’interno degli studi attorno ad esso viene in questa trattazione analizzata anche quella attitudine che possiamo definire “relazionale” in quanto favorisce lo scambio sociale e la comunicazione tra individui, su più piani – verbale, gestuale, emozionale e culturale. Mangiare è più di nutrirsi, essendo sempre uno stabilire una relazione con se stessi, con gli altri e con gli alimenti che ci riportano a una solidarietà cosmica. Di qui nasce la categoria della “convivialità”, ossia del vivere insieme17. Il cibo è un alimento ed elemento che non solo è necessario per vivere ma è anche costituente la prima relazione con noi stessi e con il mondo. La convivialità, manifestazione di tale relazione, si esplicita soprattutto quando le persone si incontrano – e interagiscono fra loro – attorno a una tavola o, più puramente grazie alle multiverse occasioni offerte dal cibo e dell’esperienza postmedia books
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ad esso correlato. In essa c’è infatti l’espressione più completa della vita relazionale. A tavola dialoga la famiglia, si incontrano gli uomini d’affari e i politici, si festeggia qualcuno. Attorno al cibo si riuniscono persone di ogni etnia, sesso, estrazione sociale e genere. “Consumando assieme il cibo, la relazione diviene condivisione. Le persone si trovano una di fronte all’altra con la propria individualità, con il proprio volto ed insieme condividono i beni della terra e la propria vita”. Se è vero che l’uomo è tale nella misura in cui si relaziona con gli altri, il sedersi a tavola insieme è espressione di una relazione profonda. “Convivialità – scrive Antonio Nanni – dice certamente più di interdipendenza, più della solidarietà, più della convivenza democratica. Convivialità è coabitazione e coesistenza pacifica, condivisione piena dei beni della terra, nel faccia a faccia dei commensali”. È una “inclusività senza imposizione”18. Per questo gli uomini celebrano i loro rapporti più significativi a tavola e risolvono i loro conflitti con il mangiare insieme, quale segno di riappacificazione. Dalla convivialità nasce la reciprocità di cui parla Paul Ricoeur, paradigma fondamentale della relazione basata sul valore della differenza. Una relazione è autentica quando realizza lo scambio, il dareavere, l’interazione, la reciprocità: “è l’aspirazione ad una vita felice, con e per gli altri, in situazioni giuste”19. È un momento che favorisce la creazione di comunità, ma, con sguardo disincantato è importante evidenziare, al fine di una completa riflessione, che in questo tipo di relazione possono generarsi anche atti di esclusione ed differenza. L’esperienza quotidiana dell’oggi non offre più questa visione del mangiare insieme. La condivisione del cibo a tavola permane, sì, ma le abitudini ed i rituali sono profondamente cambiati, di pari passo alle evoluzioni antropologiche, sociologiche e tecnologiche che investono la vita quotidiana dell’uomo oggi. Il cibo si diversifica a seconda delle situazioni di vita e delle culture e le relazioni che nascono e si innescano sono molto diverse anche in base a tali mutamenti. Il cibo, il rapporto con esso e le esperienze collettive ad esso correlate esprimono un certo Zeitgeist, la cultura e il milieu in cui si vive. All’individualizzazione di molti momenti di consumazione del cibo si contrappongono degli eventi ed occasioni in cui il valore ricercato è proprio la condivisione del cibo e l’aggregazione che esso porta attorno ad esso, quindi le nuove abitudini e pratiche del postmoderno non precludono la relazione attraverso il cibo ma anzi in parte favoriscono la nascita di movimenti e fenomeni che mantengono una sorta di equilibrio sociale e di ricerca di condivisione in momenti altri. Francesco Botturi, ordinario di Filosofia morale alla Cattolica di Milano, afferma che “è venuta meno la distinzione fra
comprando cibi cucinati nei locali pubblici o presso i venditori ambulanti32. Esiste quindi una stretta relazione tra l’evoluzione delle pratiche alimentari, lo sviluppo della città e i ritmi e rituali della vita quotidiana dell’uomo contemporaneo. Nel quadro attuale è importante considerare che la tradizione del cibo di strada, appartenente a molti popoli dell’America latina, dell’Africa, dell’Estremo e Medio Oriente, del Sud Europa e in particolare dei Paesi del bacino del Mediterraneo, ha fortemente rafforzato ed incentivato le connessioni tra cibo e città, spazio pubblico in particolare. L’UNIVERSO GASTRONOMICO, SOCIALE E RELAZIONALE DEL CIBO DI STRADA
La cultura alimentare ha molto a che fare con la storia delle città e delle strade in particolare. Non solo perché, da quando gli uomini hanno cominciato a viaggiare, il “cibo di strada” è stato un fondamentale capitolo del modo di nutrirsi, ma anche e soprattutto perché la strada è stata essa stessa un veicolo di diffusione delle abitudini alimentari. Lungo la strada non viaggiano solo gli uomini, ma le loro idee e i costumi, le pratiche e i gusti33. Veri e propri aggregatori, i luoghi del cibo di strada, del loro consumo, hanno una funzione sociale, permettono agli individui di sedere e mangiare gomito a gomito in maniera del tutto informale, sulle panche, in terra, ai lati dei chioschi favorendo condizioni relazionali e un attimo sfuggente di convivialità. Si pensi al vociferare del mercato di San Lorenzo a Firenze, al caos della Vucciria o di Ballarò a Palermo, o ancora ai chioschi della vecchia Napoli. Qui risiede il carattere sociale e relazionale che appartiene al cibo di strada. Questo tipo di cucina rompe molte delle regole del tradizionale pasto poiché il consumo è un fatto privato, spesso ci si ciba da soli, e al tempo stesso è un “evento pubblico”, perché ha luogo per strada o in locali aperti agli sguardi di tutti, quindi legato alla collettività. Si è da soli e insieme agli altri nello stesso tempo e ciò crea un’atmosfera di complicità
Renato Guttuso, Vucciria, 1974 27
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Cibo per strada a Milano. La fila davanti ai panzerotti di Luini
tra avventori, per cui sovente si scambiano due parole, una battuta, perché la situazione induce un senso di confidenza non comune. Mangiare in strada è una pratica quotidiana per milioni di persone in Africa, Asia, America Latina, queste cucine si sono affermate in tutto il mondo, in epoche molto diverse e con caratteristiche assai differenti. In Cina esistono da secoli e in tutta l’Asia, anche Paesi più industrializzati come il Giappone, si sono mantenuti la tradizione ed il commercio. Nelle strade diTokyo per esempio, è negli yatai che si mangiano le migliori zuppe di lamen o di udon o anche le diverse componenti dell’oden bollite in una minestra di soia e accompagnate da tiepido sake. La funzione sociale di tali luoghi e di tali cucine di strada è fondamentale. Non importa di quale tipo di cucina nazionale o regionale si tratti nello specifico ma in esse vi è sempre uno straordinario fiorire di relazioni sociali, che superano ogni etichetta relativa ad estrazione sociale, sesso, età, genere. Sono luoghi
Cibo per strada a Expo Milano 2015. L'Olanda ricrea una piazza di paese con una decina di food truck
in cui tendono a permanere un’informalità e una naturalezza uniche, anche grazie alle modalità di consumazione del cibo stesso. Queste le basi per lo sviluppo di relazioni interpersonali floride e spontanee. La cucina di strada è insomma un’arte della comunicazione, attraverso il cibo, ed il messaggio è nel piatto o attraverso esso; i diversi gusti producono distinzione, differenziazione, demarcazione; gli alimenti creano e riproducono a livello simbolico differenze di classe, genere, appartenenze etniche, religiose, socio-culturali34. Se un tempo friggitorie, pizzerie, carretti, mercati e luoghi tipici che preparavano cibo in strada, erano frequentate soprattutto da lavoratori e operai, oggigiorno commercianti, studenti, impiegati e uomini d’affari abbracciano senza distinzione di estrazione sociale la scelta del cibo di strada aderendo ad una pratica culinaria che è anche fortemente connotata in senso identitario. postmedia books
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Se fino ad una cinquantina d’anni fa il cibo di strada era una necessità, oggi si è fatto anche moda, e resistenza più o meno consapevole all’omologazione alimentare; l’identità si costruisce anche mangiando: così chi oggi si compra per strada un cartoccio di frittelle di baccalà o un pezzo di focaccia con le cipolle, ci sembra essere lucidamente cosciente di essere quel che mangia, e di mangiare quel che è35. LO SPAZIO DELLE PRATICHE LO SPAZIO PROGETTATO E GLI “SPAZI “POSSIBILI”
Nella vita quotidiana tendiamo a relazionarci allo spazio e ad agire in esso con un atteggiamento pragmatico, “cerchiamo di situare il nostro agire nello spazio costruito nel miglior modo possibile, tentando di “piegare” ai nostri bisogni quotidiani la durezza delle strutture fisiche nelle quali ci troviamo situati”. Pierre Bourdieu propone le teorie di “spazio dei possibili”, definendo con esso lo spazio che racchiude l’insieme delle possibili pratiche da mettere in atto, e di “habitus”, inteso come “principio permanente generativo di improvvisazioni regolate che produce pratiche”, fungendo da tramite tra progetto sociale, città progettata, progetto tout court e la sua applicazione nella vita quotidiana. La società contemporanea ha eletto lo spazio a elemento centrale delle proprie mansioni organizzative e la città, elemento urbano vero e proprio, tende ad essere uno spazio in cui le persone sono travolte dai segni, sovraccaricate di stimoli ingestibili nella loro totalità. La dimensione metropolitana confonde chi la abita con una continua sovrapposizione di linguaggi e segni e rende difficile all’uomo la creazione di una mappa mentale della trama urbana che lo contiene. L’estetica di questa nuova forma culturale della tarda modernità è paragonabile ad una sorta di “cartografia cognitiva”. Si afferma quindi un nuovo limite della città come forma urbana proiettata simbolicamente su ampi spazi (nazionali e globali) che si lascia alle spalle il suo limite fisico e induce ad una creazione di una mappa cognitiva più complessa della città, un’immagine ad un più alto livello di rappresentazione. Dato il limite dell’irrappresentabilità dell’informale la mappa cognitiva ha lo scopo di dare visibilità alla vita quotidiana che scorre nella città fisica, riportando sul reale la dimensione anonima e invivibile di una sfera simbolica della città. L’immaterialità della città informale si rappresenta in una dimensione di transito tra livelli diversi (impossibili da cogliere per l’uomo e per le istituzioni) ma che si pone come “terra di mezzo” che apporta concreti contributi alla definizione della città.
Qui si delineano storie di nuove identità che il tessuto urbano – in particolare lo spazio aperto di dominio pubblico – ospita ma con forze repulsive e che tenta di recludere negli interstizi di basso profilo di interesse, negli spazi dell’informalità. Lo spazio delle pratiche si configura così come dimensione in cui il soggetto agisce all’interno dello spazio mondiale del tardo capitalismo e che per essere rappresentato deve trovare nuove modalità di azione nella vita quotidiana. LO “SPAZIO RELAZIONALE”
Lo spazio pubblico urbano è stato sempre il risultato del nesso tra le strutture urbane e specifiche forme di comunicazione. “La città contemporanea è diventata un complesso mediatico e architettonico” allo stesso tempo in cui la produzione mediatica dello spazio urbano è una cornice costitutiva di una nuova modalità di esperienza sociale. È un esperire caratterizzato da quello che Scott McQuire chiama “spazio relazionale”36: esso può essere definito soltanto dalla posizione temporanea occupata dal soggetto in relazione a numerosi altri [...] ogni soggetto appartiene a molteplici matrici e reti che si sovrappongono e si compenetrano. L’eterogeneità dello spazio relazionale è “un’esperienza chiave della globalizzazione contemporanea e richiede nuovi modi di pensare a come possiamo condividere lo spazio per creare esperienza collettiva”.
Un'opera "relazionale" di Maria Lai nelle foto di Piero Berengo Gardin, Ulassai, 1981 31
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Dal quadro di analisi della complessità dell’era postmoderna, la città contemporanea si mostra come “un amalgama dove gli aspetti fissi e tangibili della vita urbana che ci è familiare interagiscono continuamente con quelli elettronici e intangibili”. C’è un urgente bisogno di una ricerca che sappia scendere in profondità illuminando le multiformi interrelazioni tra ambienti elettronici e luoghi urbani. INTERAZIONI E RELAZIONI SOCIALI TRA LO SPAZIO DEI FLUSSI E LO SPAZIO DEI LUOGHI
“Lo spazio dei flussi non pervade l’intero campo dell’esperienza umana della società in rete”37. La netta maggioranza delle società urbane avanzate come in quelle tradizionali, vive in luoghi38 e percepisce pertanto il proprio come uno spazio basato su di essi, come sistema urbano fisico di riferimento e vita. La forma del paesaggio fagocita e assimila le modifiche fisiche sostanziali attraverso l’integrazione di tali cambiamenti negli usi eterogenei dell’attiva vita di strada. “Le relazioni tra lo spazio dei flussi e lo spazio dei luoghi, tra globalizzazione e localizzazione simultanee, non hanno esiti predeterminati”39. Pertanto si può affermare che le persone vivono ancora in luoghi. L’esperienza, essendo legata ai luoghi, si astrae dal potere e il significato si separa sempre di più dalla conoscenza; ne deriva una “schizofrenia strutturale” tra due logiche spaziali che minaccia di interrompere i canali di comunicazione della società. La tendenza dominante è orientata verso l’orizzonte astorico dello spazio in rete, che aspira a imporre la propria logica a luoghi segmentati, dispersi, sempre più spesso non correlati gli uni agli altri, sempre meno capaci di condividere codici culturali. “A meno che non vengano deliberatamente costruiti ponti culturali, politici e fisici tra queste due forme dello spazio, potremmo andare incontro a una vita scissa in universi paralleli i cui tempi non possono coincidere perché distorti in dimensioni diverse dell’iperspazio sociale”40. La metafora dell’urbano ha contaminato anche il glossario dei nuovi mezzi di comunicazione: molti dei nuovi termini utilizzati per descrivere e cogliere sinteticamente gli usi e le funzioni dei diversi dispositivi tecnologici fanno riferimento alla città. Abbiamo ad esempio i neologismi di “vicinati elettronici” e “piazze virtuali” per esprimere le diverse forme di socialità che avvengono in rete da parte delle cosiddette “comunità virtuali”41. Esse hanno luogo su piattaforme diverse che implicano un certo grado ci partecipazione
all’informazione e di comunicazione tra utenti e avvengono principalmente sui social network, i blog, i forum, ovvero sul Web 2.042. Manuel Castells ritiene che lo spazio urbano sia stato segnato negli ultimi anni del Novecento dall’affermazione di un nuovo paradigma tecnologico. A differenza delle precedenti rivoluzioni, nel nuovo “mondo” l’informazione stessa diviene il prodotto del processo produttivo. È proprio Castells ad elaborare il concetto di “città informazionale”43 e con essa egli cerca di offrire una descrizione esaustiva non solo delle nuove dinamiche economiche ma anche di quelle sociali e culturali che si trovano inscritte nello spazio urbano. Si presenta così ai nostri occhi uno spazio urbano profondamente frammentato, discontinuo e diffuso in cui le classi sociali non possiedono una propria collocazione definita (come poteva essere per la città moderna). Tale dinamica, che ha interessato in questi anni le città è, in ultima istanza, il segno del più ampio processo di affermazione di una specifica forma spaziale attraverso cui si esprimono le pratiche sociali della città in rete, lo spazio dei flussi. In un panorama sociale, economico e culturale attraversato da flussi di immagini, di capitale, di informazioni, di simboli, è necessario organizzare materialmente e simultaneamente le pratiche sociali senza poter contare sulla contiguità geografica che ha caratterizzato l’esperienza della modernità. Nonostante la ricchezza di elementi sociali e di libertà consentita dal Web, lo spazio dei flussi non è in grado di saturare ogni porzione della vita dell’uomo. La gran parte della popolazione mondiale ne è slegata, non ne ha accesso (digital divide) e – al contrario – è legata allo spazio dei luoghi. Se la logica spaziale dominante si sviluppa a partire dalla rottura della contiguità fisica come precondizione per la realizzazione delle pratiche sociali, lo spazio dei luoghi, di contro è uno spazio autosufficiente la cui definizione si esaurisce nei propri limiti fisici. Sono luoghi nei quali si possono ancora verificare “interazioni dense e complete con il proprio ambiente materiale indipendentemente dallo spazio dei flussi”. Nelle preziose teorie di Castells si individua però un gap riguardante la componente riflessiva degli individui, questa viene invece illuminata da Anthony Giddens, riconoscendo un ruolo attivo del soggetto, inteso come un “individuo complesso che interagisce con sistemi complessi”.
Evelyn Leveghi
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Marina Van Goor, fondatrice del ristorante per persone sole Eenmaal, nella sede di Covent Garden a Londra
Pratiche contemporanee intorno al cibo
Il cibo – riassumendo in sé significati simbolici e relazionali – è leggibile trasversalmente ai periodi storici e alle culture, in riferimento ai rituali sociali, di epoca in epoca diversi, nel costruire e comunicare identità, ruoli, significati e istituzioni collettive. “Il rito, e i rituali, in antropologia, sono intesi come quegli insiemi organizzati di pratiche sociali ripetute nel tempo che provvedono a costruire modelli culturali atti a trasmettere valori e norme sociali, costruire e consolidare ruoli sociali, identità e coesione”1. Uno degli aspetti principali delle pratiche sociali connesse al cibo è la condivisione di questo, secondo gesti e scambi ripetuti nel tempo, i quali fondano il senso di appartenenza e di inclusione in un determinato gruppo, la gerarchia e la tipologia dei ruoli e dei rapporti reciproci fra individui. 37
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Dîner en Blanc al Louvre, Parigi 2012 FLASH MOB CONVIVIALI E CENE NELLO SPAZIO PUBBLICO
Negli ultimi dieci anni sono numerosi i casi che si possono contare di eventi collettivi che propongono occasioni conviviali nello spazio urbano. Si tratta essenzialmente di cene, con modalità, stili e intenti diversi ma che presentano un denominatore comune: la volontà di aggregare un gran numero di persone, cittadini – temporanei o permanenti5 – attorno al cibo, spesso raccolti in lunghe tavolate, in spazi pubblici significativi della città6. Anche in Italia esiste una buona casistica di questo fenomeno nato sulla scia del popolare Dîner en Blanc nato nel 1988 grazie all'iniziativa di François Pasquier. Cenaconme, è un evento a location segreta ideata e organizzata dalla gallerista Rossana Ciocca dal luglio del 2012. Tramite i social vengono proposte al pubblico delle cene collettive in luoghi della città spettacolari, sulla base di una suggestione culturale sempre diversa e di un dettaglio richiesto ai partecipanti, un dress code caratterizzato da un cappello, una maschera, mise total white o total black, e simili. La location è sempre diversa ed scelta con cura, sono individuati e selezionati quei luoghi della città che, seppur abbiano una natura pubblica, non sono particolarmente valorizzati o sfruttati come spazi collettivi aperti, ma che hanno un potenziale altissimo sia per le caratteristiche fisiche, che simboliche (sono sovente luoghi significativi della città). Gioielli urbani, spettacolari culle quasi a
Cenaconme (Milano 2012-2015) e un ritratto della fondatrice Rossana Ciocca. Foto di Gianni Giudici e Filippo Zuliani
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• Pinterest: archiviazione e condivisione di immagini e foto di cibo o riguardo al tema alimentare; • Blog di cucina (o di viaggio). Mentre gli eventi che avvengono nello “spazio dei luoghi” della città sono: • Vernissage: le inaugurazioni di mostre si offrono come occasioni culturali di aggregazione, con una presenza costante di assaggi di cibo oltre a vino, spumanti e simili; • Aperitivi: costituiscono momenti conviviali molto in voga negli ultimi anni per la possibilità di socializzare mangiando e bevendo a prezzi accessibili e venir a contatto con numerose persone; • Live cooking: dimostrazioni di cucina tenute da chef, pasticceri o figure professionali affini si prestano per occasioni, aperte al pubblico o su invito, spesso facenti parte di manifestazioni più grandi, di eventi fieristici o simili. Nonostante ci sia solo una partecipazione visiva e non attiva e diretta a tali eventi riscontra un successo degno di nota; • Masterclass: lezioni impartite da un esperto, rivolte a studenti e/o interessati di una particolare disciplina, generalmente tenute da professionisti di alto livello, in cui le tecniche vengono trasmesse personalmente da un individuo ad un altro7. • Workshop: occasioni di studio e/o approfondimento su un tema specifico nel quale è sempre presente una forte componente laboratoriale e di interazione sia con la materia che tra partecipanti, solitamente persone interessate, o appassionate, talvolta professionisti del settore; • Degustazioni: nonostante esistano poche occasioni di tal genere che siano aperte al pubblico, sovente private o su invito o ancora solo per operatori dei settori del campo alimentare e dintorni, si mostrano caratterizzate da un rilevante grado di confronto e scambio culturale e di pensiero, attorno alla degustazione di un determinato prodotto. Ognuno di questi spazi sociali non vive puramente solo nella dimensione digitale o urbana, a seconda che siano primariamente definiti come iniziative online o offline, poiché mostrano sempre che una parte della loro manifestazione e soprattutto comunicazione e diffusione, avviene tramite canali che appartengono al mondo opposto. È così che un flash mob di danza in una stazione ferroviaria non avrà mai così successo, forza e partecipazione se prima non ci sia una virale diffusione e comunicazione dell’iniziativa tramite canali digitali e network sociali. Allo stesso modo, la partecipazione a una piattaforma online, che mettiamo il caso organizzi un contest di cucina attraverso il mezzo della fotografia, non avrà probabilmente
Aaron Eckhart e Catherine Zeta-Jones in No Reservations (USA 2007)
continuo – come fossero infiniti link digitali ed umani – tra lo spazio dei flussi e lo spazio dei luoghi. Da un passaparola pronunciato verbalmente a un passaparola tramite i social network, lo scambio e creazione di informazioni e contenuti è di portata globale. CHE COS'è IL “FOODIE”?
Tra le teorizzazioni ad oggi presenti in relazione a tale movimento, si intende qui evidenziare il concetto e figura del “foodie”. Neologismo elaborato nel 1987, ma di grande impiego in questi anni, è il profilo che più si avvicina alla descrizione della silhouette di tali comunità del “food-stream”, ma che ancora non offre una fertile rappresentazione della ricchezza di tale movimento. Paul Levy coniò il seguente termine, assieme ad Ann Barr, riferendosi a “un buongustaio o una persona che ha un interesse ardente o raffinato per cibo e bevande alcoliche”25. Il “foodie” cerca nuove esperienze culinarie, come un pratica quotidiana cosciente e scelta ponderata piuttosto che meramente come scelta di mangiare fuori casa per convenienza o fame. I “foodies” costituiscono un gruppo distinto di appassionati al cibo il cui profilo non è sempre costante ma le cui caratteristiche sono delineabili 55
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Chef - La ricetta perfetta (USA 2007)
attraverso i comuni interessi: attività dell’industria alimentare, visita di cantine e degustazione di vino e birre artigianali, le scienze alimentari, aperture (e chiusure) di ristoranti, la distribuzione alimentare, le mode alimentari, la salute e la nutrizione, i corsi di cucina e il turismo gastronomico. Molte uscite editoriali hanno contenuti dedicati al settore alimentare che si rivolgono a tale pubblico specifico e sono nati anche molti siti “foodies”. Tali interessi hanno infatti dato luogo a film popolari quali No Reservations (Usa 2007) e Chef - La ricetta perfetta (Usa 2014); in quest'ultimo un bambino aiuta a pubblicizzare sui social il food-truck del padre. Non mancano i programmi televisivi sul cibo come Top Chef e Iron Chef, una rinascita dei libri di cucina specializzati, di periodici specializzati, come “Gourmet Magazine” e “Cook’s Illustrated”, in crescita la popolarità di mercati contadini, di siti, editoria e blog dedicati al cibo. In sostanza tale gruppo di appassionati, racchiude una porzione particolare di coloro che svolgono pratiche di relazione intorno al cibo, ne sono una parte importante poiché, nonostante le diffuse accezioni negative, sono i soggetti che maggiormente creano rete e comunicazione virale attorno ad eventi, siti, contenuti, avvenimenti e quant’altro sia produzione intorno al cibo oggi. Nonostante si tratti spesso più di una questione di piacere nell’estetizzazione di questo, più che di vero approfondimento culturale e scientifico, questo movimento d’oggi è una sorta di filtro antropologico che rende più visibile la sfera immateriale di relazione e scambio, basata su comuni interessi, intorno al tema e consumo empirico del cibo.
1. Claudio Widmann, Il rito In psicologia, in patologia, in terapia, Edizioni scientifiche MaGi, 2007.
11. Cfr. Alessandra Guigoni, “Comportamenti e relazioni tra i membri di comunità virtuali”, Memoria e ricerca, 2002.
2. Jeanne-Pierre Courbeau, “Rituali alimentari e mutazioni sociali”, in I nostri riti profani, quaderni internazionali di sociologia, volume XCII, 1992
12. Howard Rheingold, Comunità virtuali, Sperling & Kupfer, 1994, p. 5.
3. Nicolas Herpin, Sociologie del la consommation, 2004
4. Esistono anche altri termini che definiscono il fenomeno quali: “hidden kitchen” o “secret restaurant”, tavolta “guerrilla restaurant” e più raramente “locali clandestini” e “cucine aperte” 5. Si fa qui riferimento alla differenziazione tra cittadini residenti e quelli che vengono convenzionalmente definiti city-users, ovvero persone che lavorano o studiano in una determinata città, di cui molti hanno ivi domicilio. 6. Si intendono qui luoghi che hanno un valore non nel senso tradizionale, non riconosciuto, ma sentito da coloro che lo vivono, seppur transitoriamente. Luoghi che sono ricchi di caratteri simbolici rispetto all’importanza e valore dello spazio pubblico per la vita quotidiana dell’uomo. 7. Fonte: www.wikipedia.org 8. George Bataille, Sacred Sociology.
9. Kevin Lynch, (pubblicazione postuma a cura di Michael Southworth), Deperire: rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, CUEN, 1992 (originale: Wasting Away, Sierra Club Books, 1990). 10. Si vedano al riguardo le riflessioni di Stefano Mirti riconducibili all’assunto «the community is the message», su riformulazione del pensiero di Mc Luhan «the medium is the message» alla luce dello scenario attuale, in particolare dei tratti delle community d’oggi. Stefano Mirti, Il mondo nuovo, guida tascabile. #design #socialmedia #alterazioni, Postmedia Books 2013
13. Cfr. Alessandra Guigoni, Op. cit., 2002.
14. Cfr. Ugo Fabietti, “Comunità ‘dense’, Comunità ‘immaginate’, comunità ‘virtuali’. Un punto di vista antropologico”, in Le comunità virtuali a cura di P. Carbone e P. Ferri, Mimesis, 1999. 15. Cfr. Manuel Castells, La nascita della società in rete, EGEA, 2008, p. 22. 16. Ibidem.
17. Ibid, p.23.
18. Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Laterza, 2009. 19. Manuel Castells, Op. cit., 2008, p. 3. 20. Ibidem.
21. Il caso più emblematico è costituito dalla produzione di Rirkrit Tiravanija, al quale è dedicata una sezione del libro. 22. Boris Groys, Going Public. scrivere d’arte in chiave non estetica, Postmedia Books, 2013, p. 9 23. Ibid, p. 10
24. Si veda l’approfondimento sul termine e sul tema presentato nel capitolo “il cibo di strada e il mercato”. 25. Fonte: The American heritage dictionary of the English language. (4th ed.). Boston: Houghton Mifflin. 1992. Traduzione a cura dell’autrice del seguente saggio.
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Gordon Matta-Clark nel suo ristorante Food aperto nel 1971 all'angolo tra Prince e Wooster a New York. Foto di Ricahrd Landry e Cosmos Andrew Sarchiapone
La natura dialogica e relazionale dell'arte
VERSO UN’ECOLOGIA DELL’ARTE PRATICHE ARTISTICHE CONTEMPORANEE
“Nella stragrande maggioranza dei casi critici e filosofi sono restii a fare i conti con le pratiche contemporanee che restano dunque illeggibili, perché non si può cogliere la loro originalità e importanza analizzandole a partire da problemi risolti o lasciati in sospeso dalle generazioni precedenti”1.
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un cambiamento radicale rispetto agli obiettivi estetici, culturali e politici messi in gioco dall’arte moderna. L’arte relazionale si presenta quindi come una fertile forma d’arte, contemporanea, che vede il suo sviluppo maggiore attorno alla metà degli anni Novanta e che, al centro del suo agire, prevede la partecipazione del pubblico, non più passivo ma coinvolto direttamente e fondante la definizione dell’opera di cui si fruisce. Si tratta di un’arte colorata da tratti politici e sociali al cui centro gravita la visione dell’uomo come essere creativo. L’artista relazionale, abbandonando la produzione di oggetti tipicamente estetici, si adopera per concepire dispositivi in grado di attivare la creatività insita nel pubblico, trasformando l’oggetto d’arte in un luogo di dialogo, confronto e, appunto, di relazione. Ciò che sta al centro del nuovo sistema non è più l’opera finale bensì il processo, la convivialità, lo scambio, l’incontro, in una parola un sistema relazionale, aperto. Ciò che cambia sensibilmente all’interno del campo artistico è la presa di coscienza delle relazioni che possono instaurarsi e che per natura sociale sussistono tra una manifestazione esogena ed una endogena. Si manifesta, denota ed interiorizza quella vocazione della pratica artistica verso la produzione di rapporti con il mondo. In tali esplorazioni di relazioni esistenti tra uomini, mondo e arte si manifesta l’ordine relazionale e dialettico alla base del riconoscimento del movimento – non riconosciuto – dell’arte relazionale, il quale pone le sue radici e prime manifestazioni già nel Rinascimento. Tale affermazione si basa sulla tendenza, trasversale ad alcune epoche, di molti artisti nel privilegiare l’espressione fisica dell’essere umano nel suo universo, in una forma di antropocentrismo. Tale caratteristica fu ripresa nel tempo solo dal Cubismo con la scelta di analizzare i nostri rapporti visivi con il mondo attraverso degli oggetti tipici della vita quotidiana dell’uomo. L’origine dell’approccio relazionale dell’arte si individua quindi nel Rinascimento italiano e da un’universalità di applicazione di tali principi di lettura del mondo si è nel tempo ridotto il campo di osservazione sino ad entrare nel particolare, nei microcosmi del quotidiano. Angela Rui osserva in “Arte che si fa spazio” come nel corso della seconda metà del secolo scorso una serie di ricerche ebbe luogo nella pratica artistica e che in primo luogo possono essere associate ai cambiamenti sociali e tecnologici che la rinascita dal secondo dopoguerra stava provocando. La volontà di uscire dalla cornice produsse inequivocabilmente l’uscita dalla disciplina, avvicinando l’arte alla vita.
Rirkrit Tiravanija, installazione all'interno della collettiva NYC 1993: Experimental Jet Set, Trash and No Star, a cura di Massimiliano Gioni, Gary Carrion-Murayari, Jenny Moore, and Margot Norton (New Museum, Febbraio – Maggio 2013) La situazione non riguarda il modo in cui guardiamo l'arte, ma di essere nello spazio, di partecipare all'attività. La natura della visita viene così spostata sulla galleria come spazio di interazione sociale. Trasferirvi attività come cucinare, mangiare, o dormire nel contesto dello spazio espositivo mette i visitatori in una condizione di intimità, tra l'altro inaspettata; lo spostamento crea una grande consapevolezza acuta del concetto di pubblico e privato, gli impianti funzionano come esperimenti scientifici: lo spiazzamento diventa uno strumento ed espone il modo in cui sono costruiti i processi del pensiero scientifico. Il visitatore partecipa dunque a tale esperimento. [Rirkrit Tiravanija]
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Allan Kaprow, il manifesto EAT che annuncia un happening alla Smolin Gallery di New York e una nota scritta a mano dall'artista rivolta a Pierre Restany. Courtesy Fonds Pierre Restany
Piero Manzoni durante le riprese del cortometraggio Uova (di Gianpaolo Macentelli) presso lo studio del filmgiornale S.E.D.I., Milano 1960 Fotografie di Giuseppe Bellone
La cultura dell’interazione e le coordinate estetiche dell’arte relazionale
“Utilizzare il mondo permette di creare nuove narrative, mentre la sua contemplazione passiva relega ogni produzione umana allo spettacolo comunitario”1. Con le esperienze artistiche contemporanee le definizioni un tempo inflessibili di artista, opera e pubblico hanno perso di significato, o meglio, mutato sensibilmente il loro statuto. Introducendo la componente di partecipazione all’opera, come semplice osservazione della creazione in atto o come vera interazione tra pubblico, opera ed artista, si dissolsero quelle categorie rigide e precostituite che ne definivano i ruoli. Questi non solo erano determinati ma anche riconoscibili (distinti) e distanti uno dall’altro, sia sul piano temporale sia sul piano spaziale. L’uno – l’artista – era il soggetto attivo, faber, attraverso un atto di creazione, l’altro spettatore, consumatore passivo dell’opera. Accadeva così che non sussisteva mai – e non era nemmeno contemplabile – un rapporto di significazione tra pubblico e artista, men che meno tra pubblico ed opera. 73
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Lucy+Jorge Orta, Food Water Life exhibit, Ben Maltz Gallery – Otis College of Art&Design, Los Angeles 2014
Sempre secondo Bourriaud la generazione di artisti del ventunesimo secolo interpreta la globalizzazione culturale immersa in nuovi modi di comunicazione, grazie all’incremento dei viaggi e delle migrazioni culturali che hanno incentivato rapidi mutamenti nello stile di vita. “Questo è il percorso molto importante che la flessibile arte contemporanea ha continuato a seguire fino ai giorni nostri, in un arcipelago di procedure, azioni, situazioni, recuperi, luoghi nei quali l’artista risulta figura sempre meno definita, l’opera diventa sempre più mutevole, il pubblico sempre più protagonista e soggetto decisivo – fino alle installazioni interattive di tipo tecnologico, spesso di segno ludico, e alle recenti pratiche artistiche nel Web: in questo ambito nascono opere dai margini molto labili, liberamente riproducibili, opere ‘collaborative’, distribuite, aperte alla partecipazione attiva degli utenti, i quali stimolano processi creativi che determinano una nuova ‘sparizione dell’arte’, che ora si dissolve anche in una dimensione virtuale”16. Nella nuova configurazione, processuale e partecipata, che l’arte relazionale propone e instaura, il cibo svolge un ruolo molto rilevante. Esso si offre – all’artista e al pubblico – sia come un elemento altamente simbolico ma anche come materializzazione (parziale) di quella sfera relazionale generata dalle opere attivanti e riprogrammanti di quest’arte. Il tema è presentato in maniera più specifica nel capitolo sette. ARTE RELAZIONALE UN NUOVO FRONTE DI LETTURA E SCRITTURA DELL’ARTE
“La possibilità di un’arte relazionale, un’arte che assuma come orizzonte teorico la sfera delle interazioni umane e il suo contesto sociale, piuttosto che l’affermazione di uno spazio simbolico autonomo e privato, testimonia un rivolgimento radicale degli obiettivi estetici, culturali e politici messi in gioco dall’arte moderna17. Decodificando le opere di quella particolare generazione di artisti degli anni Novanta, si individua un comune atteggiamento: “tutti operano in seno a ciò che si potrebbe chiamare la sfera relazionale, che sta all’arte di oggi come la produzione di massa stava alla pop art”18. L’estetica relazionale si pone quindi come un metodo critico per confrontarsi con l’arte di quegli anni. “Volendo abbozzarne una sociologia, quest’evoluzione proviene essenzialmente dalla nascita di una cultura urbana mondiale, e dall’estensione di tale modello cittadino alla quasi totalità dei fenomeni culturali”19. 85
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Raumlabor, das KĂźchemonument, 2006
Produzioni relazionali #1 Installazioni tra arte e architettura
Dopo la Seconda Guerra Mondiale la progressiva esigenza di valicare i formalismi sembrava rendere sempre più difficile condurre ad esiti operativi specifici per le singole discipline. L’esperienza artistica andava assumendo un forte valore esistenziale, principalmente mossa da due obiettivi: da un lato il bisogno di operare un qualche riscatto morale dopo la catastrofe e dall’altro la volontà di appropriarsi di un nuovo futuro positivista, scritto dall’avanzamento tecnologico, scientifico e produttivo, e dal rinnovato clima politico di alleanze globali che mirava al definitivo riassestamento postbellico1. La progressiva relazione – e scambio – fra diverse arti e tecniche diventò la modalità incontrastata che si diffuse nel panorama artistico internazionale attraverso il fenomeno dell’Informale, sebbene secondo declinazioni diverse, in Europa diversamente che negli Stati Uniti. Quello che è di fondamentale interesse, è che all’interno del movimento si evidenziano due elementi nodali: innanzitutto l’opera si trasforma progressivamente da oggetto a situazione di relazione con lo spazio; in secondo luogo l’elemento processuale diventa componente essenziale dell’opera. Questi fattori in particolare segnano un chiaro passaggio dall’opera allo spazio e, soprattutto, tendono a indebolire mano a mano molti di quei tratti che tradizionalmente permettevano di tracciare con precisione i contorni tipologici delle diverse arti2. 93
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L’evoluzione dell’architettura e della sua storia ha attraversato una serie di fasi transitorie e di rivoluzione, rintracciabile tra le maglie della sua struttura concettuale: dal precetto che storicamente definiva l’architettura attraverso i parametri fisici di massa e volume, ad essenza dello spazio (così concepita e interpretata negli anni Cinquanta) fino all’ipotesi più radicale che l’architettura possa esistere senza volume, o con una concezione diversa di volume e materia. Si profila in questa traiettoria la nascita dell’AZC, Architettura a zero cubatura, teorizzata da Aldo Aymonino. “Questo tipo di architettura occupa oggi sempre più un ruolo di mediazione tra il design e l’allestimento, facendo convivere e ibridando due interpretazioni del tempo diametralmente opposte: da un lato l’astratta, levigata a-scalarità del design, che tende a proiettarsi fuori dalla dimensione temporale; dall’altro, un allestimento irriducibilmente segnato dal mutamento”.8 Al riguardo Reyner Banham ipotizza che già gli accampamenti delle popolazioni primitive fossero non-volumetrici. Una riflessione più recente ed illuminante venne dalla lettura di Learning from Las Vegas: la città dei casinò, immersa nel deserto, proponeva modalità di definizione non spaziali e non volumetriche attraverso dispositivi comunicativi tendenti alla bidimensionalità, le insegne luminose. Il testo indicò quindi nuove forme di lettura e di definizione formale della città contemporanea “preconizzando una forma urbana in cui segni e figure avrebbero pesato iconologicamente più dei tracciati e dei volumi, rompendo così la genetica dualità che opponeva il pieno al vuoto, l’emergenza al tessuto”. A partire dall’osservazione dei mutamenti in atto e attraverso l’interazione tra culture e discipline differenti nuove linee di ricerca sono state capaci di creare prospettive altre. Questa innovativa visione è potuta scaturire dallo statuto disciplinare non afferente alla progettazione e gestione del territorio, bensì grazie al dispiegamento di competenze trasversali all’antropologia, sociologia, fotografia, geografia unitamente alle discipline progettuali e tecniche. Un nuovo sguardo obliquo definiva i fenomeni strutturanti dell’ambiente antropico, collegando territori e obiettivi sociali. L’architettura a zero cubatura nasce come “approccio sistemico” nel 1800 su stimolo delle enormi trasformazioni territoriali permanenti, da una parte, e delle esposizioni universali, temporanee ed effimere, dall’altra. Nonostante tra le caratteristiche principali che ne definiscono l’identità vi siano l’“inutilità funzionale”, l’attitudine all’ibridazione, la predisposizione ad usi molteplici e la capacità di generare autonomamente spazio, si possono individuare degli esempi di architettura a volume zero già nell’antichità. Stonehenge, i portici
Raumlabor, das Küchemonument, Berlino 2006
della Grecia e della Roma antica, i colonnati di S. Pietro, quindi congegni prettamente architettonici per la loro relazione irrinunciabile con il volume principale a cui si accostano e che si pongono come quell’ambiente adatto ai rituali sociali dell’uomo contemporaneo. Sulla scorta di tali implicazioni profonde e relazioni di consistenza storico-antropologica, esiste nel panorama attuale, un campo intermedio, ibrido, a cavallo tra arte e architettura ma intermediato dalle contaminazioni che provengono dal mondo del design e dalla pratica dell’installazione. Nello scenario attuale delle pratiche spaziali che si manifestano nella città “proteiforme e mutevole”9, si osserva un proliferare di interventi temporanei, leggeri, adattabili. 97
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Charlotte Brocard, On ne joue pas Ă table, 2013
Marije Vogelzang, Connection Dinner, per Droog Design, 2006
Produzioni relazionali #2 Ambienti e dispositivi tra arte e design
Il rapporto che arte e design hanno avuto nella storia è stato sì costellato da distanziamenti e parallelismi, da alleanze e contrasti, ma al di là delle innumerevoli posizioni individuali, è sempre stato fortemente osmotico. Non diciamo armonico poiché è innegabile che ci siano stati dei momenti storici, come gli anni Sessanta, che hanno presentato delle visioni e produzioni che erano piuttosto lontane e contrastanti tra loro, e rispetto allo scenario sociale e politico in particolare. La relazione con il mercato e la società dei consumi, in particolare, ha visto percorrere strade assai differenti, di critica profonda da una parte e di assecondamento e servizio dall’altra. Si potrebbero già avanzare delle obiezioni sull’affermazione che il rapporto tra queste due discipline sia stato sempre di fertile relazione, ma a tal proposito è importante scindere tra l’essenza delle due dottrine attraverso le pratiche e il fronte della critica contemporanea e delle teorizzazioni in merito ad esse elaborate. Se dovessimo offrire una prospettiva a partire dalla critica sarebbe come inoltrarsi in un campo minato, infinite sarebbero le letture, contrastanti tra loro e definite con schieramenti di parte, offrirebbero delle lance da scagliare da una disciplina all’altra. Ma ciò non è assolutamente ciò che qui interessa. Lo sguardo ivi offerto cerca di eludere qualsivoglia rigida teoria ed apre lo sguardo al mondo delle pratiche, che appare, in particolare nel territorio a cavallo tra le due discipline, uno spazio di florida produzione, di particolare interesse e tessuta da feconde singolarità di ricerca. Premesso ciò, ci inoltreremo di qui in quegli interstizi, che si configurano, sempre più nitidamente con una progressivo avanzamento di zoom-in, come ampi spazi comuni, aperti, di azione – talvolta collettiva e sovente autonoma – tra la disciplina artistica e quella progettuale del design. Ciò che in particolare – nel presente saggio – si ha interesse di rilevare sono quegli aspetti processuali, performativi e interattivi che affiorano dalle opere e dai progetti che si dispiegano e che vengono messi in scena in questa dimensione. Tali aspetti rivelano solitamente una scelta precisa ed acuta di un atteggiamento aperto alla fruizione dell’opera o dell’oggetto. Ciò non comporta tuttavia una predeterminazione della dinamica che si svolge durante l’interazione con il pubblico, bensì è interessante proprio quella fase di contingenza e di imprevedibilità di azioni e reazioni nella quale tutto – o quasi – può succedere. Bourriaud a tal proposito afferma che, nella prospettiva di un’estetica postmedia books 101
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relazionale, esiste una continua mediazione tra l’opera, il pubblico e quindi tra l’artista e il pubblico (e di conseguenza sulla base di un rapporto dialogico anche tra l’artista e la “sua” opera)1 proprio per l’effetto della componente relazionale dell’opera stessa, la quale “ha bisogno di una comunità per svilupparsi, per assumere significato, in altre parole per esistere”2. È importante, al fine di un’interpretazione disincantata e ragionata, comprendere come questo tipo di pratiche non siano ascrivibili all’ambito di un’“arte sociale”, bensì osservare come esse “mirano alla costruzione formale di spazi-tempo che non rappresentano l’alienazione”3. L’opera e la sfera relazionale sono gli elementi che consentono una risignificazione di quell’alienazione e di reificarla a segno positivo. “L’esposizione non nega dunque i rapporti sociali in vigore, ma li distorce, li proietta in uno spaziotempo codificato dal sistema dell’arte e dell’artista stesso”4. Avviene così un sensibile spostamento di focus e di sistema interpretativo a cui non siamo ancora abituati, il centro di un’opera, come ad esempio quelle di Rirkrit Tiravanija, non è la convivialità di per sé ma ciò che dall’opera scaturisce attraverso essa, il prodotto di quella convivialità, e quindi attraverso il sistema di relazioni possibili e concretamente innescate in un hic et nunc che ne determina l’unicità. L’opera o l’oggetto, attraverso un’esposizione che ne consente l’interazione, conduce ad un esito ibrido e fecondo, diviene prodotto collettivo e collaborativo, grazie anche alla natura processuale. Da ciò si producono situazioni aperte e non prevedibili, che divengono esperienze, non come interpretazione estetica tradizionale in cui il visitatore è fruitore e consumatore, ma come occasioni estetizzanti significate dal divenire definito da un vivere-insieme, segnate da straordinaria stratificazione di senso. Si delinea quindi un orizzonte che parte dall’individuazione di un “territorio comune” tra arte e design, il cui termine di confronto ed affinità risulta proprio essere quell’approccio e vocazione relazionale di cui Bourriaud ci ha suggerito la presenza corposa e reale. Su tale fronte interessa nello specifico fare il punto su due produzioni molto diverse tra loro che si possono inscrivere a tale campo e che, in rapporto al tema del cibo, si offrono come casi emblematici ed assai interessanti, i progetti di Martí Guixé e quelli di Marije Vogelzang. 1. Dopo l’interazione con il pubblico l’opera non è più considerabile di puro dominio e autorialità dell’artista poiché essa porterà una traccia, tendenzialmente immateriale, ma talvolta anche fisica, di quella che è stata la relazione e scambio con il pubblico. 2. Roberto Pinto, “Il dibattito sull’arte degli
anni Novanta” in Estetica relazionale, Nicolas Bourriaud, Postmedia Books, 2010, p. 110 3. Nicolas Bourriaud, 2010, cit., p. 80. 4. Ibidem.
Focus | Martí Guixé
A metà degli anni Novanta, quando vivevo a Berlino, mi resi conto che il cibo è una delle cose che più consumiamo, anche se non viene mai trattato come oggetto, è sempre e solo cibo, il che curiosamente gli conferisce uno status speciale5.
Nell’ampio ventaglio di progetti concepiti e realizzati intorno al cibo dal noto designer catalano, Martí Guixé, è individuabile un tratto comune: la volontà e ricerca di innescare reazioni e favorire relazioni. Uno degli aspetti più riusciti del lavoro di Guixé, al di là della produzione di “oggetti commestibili”, è la realizzazione di ambienti nei quali il cibo si fa catalizzatore di relazioni sociali. In “Pharma Food”, “Gat Fog Party”, “Candy Restaurant”, “Food Facility” ma anche in “Solar Kitchen Restaurant”, sono realizzate, come ben definisce Octavi Rofes, “atmosfere nutritive […] [che] indipendentemente da quanto siano atmosferiche (o spettacolari), rimangono pur sempre proposte nutritive”6. Un fattore ricorrente in tali progetti non è tanto l’intenzione di analizzare puramente le strutture sociali e culturali, bensì “la ricerca di catalizzatori, elementi che permettono la “creazione di società” in qualsiasi
Martì Guixé, Candy Restaurant, Tokyo 103
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Marije Vogelzang, Sharing Dinner, Tokyo 2008
Focus | Marije Vogelzang
It’s all about humans. Food is simply used as a tool to interact, explore, engage and enjoy11. Sono un po’ stufa di tutta questa storia del design […] il design non è così importante, in realtà. Mi accorgo di essere sempre meno una designer. Forse è un po’ grossa, ma comincia a interessarmi più la filosofia del design12.
Prendendo in considerazione il fatto che il cibo come si presenta in natura è già stato perfettamente “progettato”, Marije Vogelzang, nota designer olandese, sostiene che per essere dei progettisti consapevoli e con un approccio etico e culturale in relazione al cibo, sia necessario concentrarsi intorno all’atto del mangiare, con rimandi e considerazioni della storia, la preparazione, le sensazioni, la cultura e tutto ciò che verte intorno al cibo attraverso le pratiche umane. L’eating design è infatti la progettazione degli atti alimentari ovvero la progettazione di qualsiasi situazione in cui le persone interagiscono con il cibo ed attraverso esso. Questa categoria può essere considerata la più complessa poiché il progetto in questo caso richiede al designer di tener conto di innumerevoli e variabili aspetti e parametri, di natura maggiormente antropologica, sociologica e cognitiva. Un progetto di eating design considera il cibo e le sue tecniche, ovvero gli strumenti e le procedure di produzione, la preparazione, la distribuzione e il consumo; le cerimonie sociali e religiose, le rappresentazioni nell’arte e nell’immaginario collettivo e individuale; il suo mercato, le strategie e i linguaggi del marketing. “L’atto del mangiare è costituito da tre elementi fondamentali: una cornice argomentativa, un mangiato e un mangiatore”13. L’ambiente o frame in cui si svolge l’atto è allo stesso tempo un tempo un elemento sociale, culturale, fisico ed economico in cui la comunità ha la possibilità di condivide i propri valori e le proprie aspirazioni, è lo spazio reale della messa in atto dei rituali sociali della convivialità. Tali valori vengono messi in scena concretamente attraverso i riti, i costumi, le credenze, gli ideali, le tecniche, le forme e i sapori di ciò che viene mangiato. 107
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Marije Vogelzang, Bits ’N Bytes, 2013
Gli atti alimentari definiscono il luogo in cui si manifestano i valori specifici di un’epoca e di una cultura. Attraverso il loro studio è possibile tratteggiare le caratteristiche di una cultura, ma non è possibile il processo inverso. Questi possono essere trattati come elementi scientifici e, di fatto, progettati. Si tratta di un sistema complesso e strutturato. Tali atti possono essere progettati nella relazione tra gli elementi costituenti e le forme a cui si riferiscono e nella relazione tra gli elementi costituenti e colui che compie l’atto (il mangiatore). La figura più rappresentativa dell’eating design è proprio la designer olandese Marije Vogelzang. Nei suoi progetti, soprattutto in “Sharing Dinner”, “Bits ‘n bytes” e “Connection dinner”, si esprime tutta quella potenza e carica di valori, segni e significati appartenenti alla dimensione relazionale del cibo, che possono essere indagati ed evidenziati da operazioni che stanno a cavallo tra l’operazione d’arte e quella di design, ma che, con strumenti nuovi, manifestano e dichiarano la straordinaria forza contemporanea della pratiche relazionali del cibo. “L’uomo è sempre il prodotto dell’ambiente e dell’educazione e ogni molecola di cibo che introduce nel suo corpo porta sempre e inevitabilmente con sé una particella di mondo”14. 11. Da: marijevogelzang.nl/PROJECTS.
13. “Eating Design”, intothefood.eu
12. “Proef Amsterdam by Marije Vogelzang”, domusweb.it, 12 luglio 2010.
14. Ibidem.
Pratiche relazionali del cibo attraverso l’arte Come il cibo riprogramma l’arte e il suo universo semiotico
LA RICERCA DI UNA [NUOVA] FORMA ALLE RELAZIONI CONVIVIALI
All’interno dello scenario dell’Arte relazionale, l’interazione è un ingrediente fondamentale, poiché permette la realizzazione piena del concetto di partecipazione all’opera, non tanto come una messinscena precostituita ma come vera costruzione di un’opera in divenire di cui la componente spaziale e temporale, una volta elemento di separazione netta tra i mondi di artista e pubblico, di produzione e fruizione, diviene centrale e fondamentale manifestandosi in un hic et nunc, in parallelo a un cum-. L’opera relazionale assume senso se e solo se vi è un coinvolgimento attivo del pubblico, che da spettatore-fruitore diviene attore e coautore di un processo aperto e disponibile assieme alle altre figure presenti. Tra gli elementi che gli artisti della generazione relazionale, attivi soprattutto negli anni ‘90, ma ancor oggi, troviamo il cibo. Esso si pone come uno dei mezzi privilegiati per innescare tali processi generativi d’arte. Esso permette una riprogrammazione del mondo attraverso la produzione artistica relazionale nei termini in cui innesca una condivisione primordiale, un’appartenenza non solo simbolica ma anche fisica all’opera/evento e una materializzazione della relazione. Esso permette anche una messa alla prova e scardinamento delle forme accademiche tradizionali di produzione e di fruizione. Diventa una partecipazione empirica ed endemica. Il concetto di nomadismo e di mobilità che sta alla base del lavoro di
Georgina Starr, Dining Alone, Parigi 1993 109
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Il cibo riprogramma quindi sia le relazioni sociali che lo spazio e la produzione propri dell’arte. Oggi la mostra d’arte, che ha sensibilmente cambiato i suoi connotati e la sua vocazione, la sua funzione e il suo ruolo comunicativo, non è più (solo) il risultato finale di un processo ma si configura come un luogo di produzione. Se per gli artisti concettuali era il luogo in sé e di sé, per gli artisti relazionali diviene uno dei tanti luoghi di produzione2. Assistiamo quindi ad un cambio di rotta evidente, da esposizione passiva si passa ad una produzione partecipata dell’arte, in cui l’artista mette a disposizione degli strumenti ad un pubblico che sarà invitato a partecipare e produrre collettivamente, attraverso un processo che non è solo di realizzazione materiale ma lo è soprattutto immateriale, valoriale ed esperienziale. Il luogo d’esposizione diviene così spazio della coabitazione, un teatro di relazioni e convivialità. Avviene una generazione di modelli relazionali attraverso l’uso o il riuso di opere o strutture formali pre-esistenti. I prodotti culturali e le opere d’arte appaiono come un livello autonomo che fornisce strumenti di connessione tra gli individui. Si attua una riprogrammazione del mondo attraverso un lavoro sulle narrative, sugli scenari immateriali che lo strutturano e determinano – o sensibilmente influenzano – i nostri modi di consumo e fruizione. “Siamo tutti vittime dello stesso scenario del tardo capitalismo. Alcuni artisti manipolano le tecniche di previsione in modo da esporre le motivazioni”3. Con l’affermazione della cultura dell’interazione e relazione nasce il riconoscimento da parte degli artisti appartenenti a quel filone dell’arte della postproduzione, della presenza in ogni prodotto culturale e nell’ambiente quotidiano di narrative “dominanti” che si materializzano negli oggetti di consumo e che “riproducono degli scenari comunitari impliciti che inducono certi comportamenti, promuovono valori collettivi e varie visioni del mondo”4. Si producono così delle narrative alternative a quelle dominanti implicite e devianti. Il socius, ovvero l’insieme dei canali che distribuiscono e producono l’informazione, diviene il vero luogo espositivo per gli artisti relazionali. “L’arte contemporanea è come una consolle di montaggio alternativa che turba le forme sociali, le riorganizza e le inserisce in scenari originali”5.
1. Edward T. Hall, La dimensione nascosta, Bompiani, 1966.
past?, in cat. “Dominique Gonzalez-Fœrster, Pierre Huyghe, Philippe Parreno, Parigi 1998.
2. Cfr. Nicolas Bourriaud, Postproduction, Postmedia Books, 2004.
4. Nicolas Bourriaud, Op. cit., 2004, p. 44.
3. Liam Gillick, Should the future help the
5. Ibid, p. 68.
Focus | Rirkrit Tiravanija
Rirkrit Tiravanija, noto artista di origini thailandesi ma dai caratteri di cittadino del modo, figlio di un certo nomadismo culturale contemporaneo, è a tutti gli effetti considerabile uno dei maggiori esponenti dell’“arte relazionale”. Noto per trasformare gallerie e musei in luoghi di convivialità, come fossero salotti e cucine, mettendosi spesso lui stesso a preparare zuppe e crêpes, propone un’arte che pone l’accento sull’interazione tra i suoi fruitori più che sulla realizzazione di un prodotto vendibile nelle gallerie, e che trova nel cibo e nell’agricoltura gli strumenti d’elezione per portare gli individui in contatto l’uno con l’altro. Nel pensiero e produzione dell’artista le persone sono dichiaratamente poste al centro dell’opera, gli spettatori sono invitati ad avvicinarsi alla scena dell’opera e a servirsene. “Lots of people” è quel pubblico partecipante che è presente anche nei titoli che Tiravanija sceglie per le sue opere in una nuova forma di Gesamtkunstwerk. Se l’opera è intesa come luogo della negoziazione tra realtà e finzione, lo spettatore delle sue produzioni distingue con difficoltà i due mondi. Ma ne appartiene. Il senso dell’esposizione viene costituito dall’uso che ne fa la gente. Questo è un nodo centrale, la chiave interpretativa per comprenderne a fondo la portata innovativa della produzione peculiare di Tiravanija. E l’opera, così concepita, fornisce una chiave narrativa, una struttura dalla quale si forma una realtà tangibile.
Rirkrit Tiravanija, Workshop alla Fondazione Spinola Banna, Poirino (To) 14-26 ottobre 2013 113
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