La parola agli artisti Arte e impegno a Milano negli anni Settanta Cristina Casero e Elena Di Raddo
MAC - Museo d’Arte Contemporanea di Lissone 24 settembre – 25 novembre 2016
Sindaco Concettina Monguzzi Vicesindaco e Assessore alla Cultura Elio Talarico Dirigente Settore Servizi Culturali Mariagrazia Ronzoni
Direttore artistico Alberto Zanchetta Funzionario Settore Servizi Culturali Massimo Pirola Segreteria organizzativa Susanna Milioto Staff Marica Gallo Servizio di custodia Cooperativa Sociale EOS
La parola agli artisti Arte e impegno a Milano negli anni Settanta a cura di Cristina Casero e Elena Di Raddo
Parole pesanti come pietre
Non v’è dubbio che gli anni Settanta siano iniziati in anticipo sui tempi, all’indomani della contestazione sessantottina. Al decennio precedente – quegli anni Sessanta definiti “ruggenti” e “favolosi” , quelli cioè del boom economico e dell’utopia artistica – sono seguiti gli anni di piombo, del dissenso e dell’impegno etico, politico, sociale. Ma stiamo parlando di un ventennio cruciale anche per ciò che concerne il rinnovamento dell’arte e del gusto. Milano, che è al centro di questa mostra, è anche l’epicentro di un discorso pigmentato da idee e ideali che corrispondevano a un’identità collettiva e a una lotta di classe. Nella città meneghina gli artisti si trovarono ad affrontare problemi di coscienza e di responsabilità, costretti a riconsiderare i propri mezzi espressivi oltre che il proprio ruolo all’interno della società, consci del fatto che il valore sovversivo dell’arte dovesse essere sdoganato sul piano sociale. Di fronte a una “crisi di civiltà, di cultura, di struttura” e in antitesi all’anchilosato sistema politico, venivano coniati slogan come Vietato vietare, L’immaginazione al potere, La noia è contro-rivoluzionaria, Autogestione: cultura e arte di classe. Ad armare i contestatori non erano soltanto le pietre ma più verosimilmente le parole, perché «qualsiasi attività rivoluzionaria è soprattutto una attività di comunicazione» come ha giustamente fatto notare Enzo Mari. Raccontare la storia di quel periodo significa toccare (ancor oggi) un nervo scoperto, e proprio per questo motivo è importante ricordare che a Milano l’arte degli anni Settanta è iniziata quasi sicuramente il 30 maggio del 1968, allorquando studenti, operai e operatori culturali irruppero alla XIV Triennale per esprimere un disagio e un malessere diffuso. Malgrado i susseguenti cambiamenti siano stati relativi, se non addirittura inefficaci, in realtà nulla è stato più come prima.
Alberto Zanchetta Direttore artistico MAC di Lissone
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Nanni Balestrini, Man, 1972 41,5x28,5 cm., collage su carta Courtesy Galleria Frittelli, Firenze
Il linguaggio come strumento politico e sociale Milano, anni Settanta Cristina Casero
Definire come, in quale misura e con quanta efficacia un artista possa mettere in campo il suo credo ideologico, il suo impegno sociale o apertamente politico nel fare arte è una questione complessa. Negli anni Settanta il tema è molto sentito e la dialettica è vivace poiché è ancora da capire come si possano inserire l’arte e l’artista nella rivoluzione politica, economica, sociale e culturale che in quel frangente sembra non soltanto auspicabile, o meglio necessaria, ma anche ineluttabile. Gli artisti vogliono capire quale possa essere il loro margine d’azione, sentendo il dovere di intervenire direttamente nella realtà, ma a tal fine non appare certo univoca la strada che possono imboccare1. Vivono con imbarazzo il loro ruolo: gli ortodossi della rivoluzione, concependo l’arte come una sovrastruttura e la pratica artistica come qualcosa di lontano dalla lotta di classe, li considerano inutili per la causa rivoluzionaria, quando non addirittura asserviti alla borghesia, che delle loro opere fa mercato. Il dibattito è intenso e le posizioni certamente non allineate2. Alcuni abbandonano l’arte per dedicarsi esclusivamente alla militanza, altri tengono separata la propria esperienza politica da quella espressiva. Noi qui intendiamo, invece, riflettere sull’operato di quanti decidono di far coincidere la loro attività artistica con quella politica e in questo senso Milano rappresenta un osservatorio privilegiato3. Questa mostra, pur senza alcuna pretesa di esaustività, cerca di mettere in evidenza i comportamenti e le scelte di campo, insieme alle soluzioni attuate sul piano linguistico, tematico e espressivo, che hanno compiuto alcuni autori, milanesi o comunque attivi sulla scena meneghina. E tali posizioni risultano, ovviamente, in linea col dibattito nazionale, che coinvolge tutti gli “operatori artistici” in quegli anni. Non è più l’epoca in cui si può evitare una diretta compromissione con la realtà ma, rispetto a una ventina d’anni prima, quando s’imponeva in Italia la questione realista, con la diretta ingerenza della politica, del partito comunista, molte cose sono cambiate. Allora, all’artista si chiedeva di denunciare nelle sue opere le dure condizioni in cui versava il popolo, le ingiustizie da cui era vessato, con particolare interesse per il lavoro, e di adottare un registro illustrativo, ben comprensibile, che bandisse ogni formalismo dalla ricerca espressiva. Non tutti hanno piegato il loro fare a questi modi, ma certamente le indicazioni della commissione cultura del partito comunista erano precise: si trattava di trovare un compromesso, una forma di equilibrio tra la posizione ufficiale e le proprie istanze espressive e linguistiche. In qualche modo, insomma, era ancora una scelta tutta interna
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a una dimensione squisitamente linguistica. Negli anni Settanta, invece, è ben diversa la situazione: gli artisti agiscono in autonomia, quando non in esplicito antagonismo, rispetto alla politica ufficiale. Inoltre, sulla scia dell’eredità delle avanguardie si mette in atto una verifica dello statuto stesso dell’arte, della sua natura e delle sue effettive possibilità di incidere nel reale, di modificare lo stato delle cose. Proprio in virtù di questo mutamento, che spinge l’arte oltre quelli che erano abitualmente considerati i suoi confini, la pratica artistica si offre come strumento di intervento concreto, e quindi politico, nella società. Nel 1976 Lea Vergine afferma che “l’arte è una attività politica”, “non è niente se non vuole essere tutto” e “fin quando si resta nell’ideologia estetica non muterà nulla per davvero”4. La partecipazione, l’inclusione del pubblico, la negazione dell’arte come produzione di oggetti di valore, di “culto”, mercificabili, sono argomenti che tanti condividono, ma in questa nuova stagione d’impegno esistono differenti modi di interpretare l’engagement e diverse maniere di tradurlo nell’operazione artistica. Le opere in mostra e le ricerche degli autori invitati restituiscono questa apertura a soluzioni differenti ma sempre caratterizzate dal desiderio di lavorare all’interno della collettività, con una coscienza e una responsabilità civile e sociale, quando non espressamente politica. Gabriella Benedini, per esempio, che segue con coerenza il suo percorso espressivo, lontano da una compromissione conclamata, non solo partecipa ad alcune iniziative di gruppo ed è vicina alle istanze femministe, ma nel 1973 realizza Diutop, un film interessante sia per la tematica ecologica sia perché testimonia l’avvicinamento dell’autrice alle nuove tecnologie, che vengono percepite come mezzi più diretti anche perché privi dei valori prettamente “artistici” di quelli più tradizionali. Anche per Valentina Berardinone l’impegno esplicito non rappresenta la cifra caratteristica del suo lavoro, intesa come intenzionalità ultima, ma certamente la sua ricerca si basa su presupposti che la portano a condividere le più rilevanti questioni che animano la vita civile e culturale della Milano di quegli anni, in una totale
Amalia Del Ponte, Culturae: florum omnium varietas (Nascita), 1977
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assunzione di responsabilità verso la realtà. Amalia Del Ponte conduce una ricerca scultorea che si fonda sull’analisi delle strutture sempre dinamicamente messe in rapporto con lo spazio e l’ambiente, anche attraverso la scelta dei materiali. Tale apertura, che impedisce all’artista di concepire l’opera come elemento in sé, si estende in qualche modo anche alla dimensione sociale: in Vita da Barbie, Del Ponte sembra affermare l’impossibilità di concepire la forma come elemento di chiusura attraverso un’esplicita metafora sociale. Senza mai tradire i propri presupposti, realizza alcuni lavori di respiro concettuale, con aperture di carattere impegnato, come l’installazione presentata nel 1977 a Bari nella mostra curata da Lea Vergine, La schizofrenia della donna nel quotidiano. L’attivismo in seno ai collettivi, vissuto con piena partecipazione e lucida determinazione, non induce Fernanda Fedi a deviare dalle sue esigenze espressive e linguistiche, che la portano ad esercitare la pittura, sempre attenta a coinvolgere in un dialogo attivo lo spettatore. D’altro canto, come lei stessa racconta, nel Collettivo Lavoro Uno5, di cui fa parte insieme a Gino Gini, “alcuni si schieravano per una specificità professionale ben precisa e non ritenevano contraddittorio il fatto di effettuare ricerche artistiche proprie e nello stesso tempo collaborare e cooperare concretamente all’interno del Collettivo, altri invece rifiutavano categoricamente la ‘professionalità’ e identificavano nel lavoro collettivo l’unica forma di fare arte”6. Certamente c’è chi concepisce l’intervento nel sociale in senso letterale: esemplare in questo senso è certamente l’esperienza di Giovanni Rubino, che si caratterizza per la sua radicale coerenza. Egli ha lavorato nelle fabbriche con gli operai, facendo totalmente coincidere la sua azione politica con l’arte. Ha pure avuto un ruolo di primaria importanza nel Collettivo di Porta Ticinese, declinando la sua attività nella dimensione del gruppo, dell’intervento negli spazi condivisi, del coinvolgimento attivo del pubblico7. Lo spiega bene Enrico Crispolti nel suo testo introduttivo alla sezione italiana nel catalogo della biennale di Venezia del 19768: “l’operatore, divenuto ‘co-operatore’ è dunque essenzialmente un provocatore di autocoscienza culturale altrui, cioè di una cosciente partecipazione altrui”9, quindi, “alla ricerca di linguaggio si è dato oggi il diverso e concreto indirizzo di un’immediata corrispondenza e verificabilità sociale”10. Come giustamente sottolinea Longari, facendo riferimento ad un intervento di Quintavalle11, se l’artista è un “provocatore di autocoscienza culturale altrui” lo spettatore diventa fruitore, “colui che usufruisce di un servizio”12, non più chiamato a contemplare l’opera ma a farsi egli stesso attore, mettendosi in gioco, reagendo al “sabotaggio” operato sui suoi automatismi13. In questa direzione vanno le ricerche di Franco Mazzucchelli, con i suoi gonfiabili in PVC posti in luoghi pubblici a disposizione dei fruitori, e Ugo La Pietra che realizza interventi nella città, all’insegna della riappropriazione degli spazi urbani; entrambi sono animatori, insieme a Fernando De Filippi, 10
Berardinone Valentina, Scala nera del potere, 1973 pietre di dimensioni variabili e stampa fotografica 29,7x42
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Mercedes Cuman, Cucio la mia solitudine rattoppo la mia autonomia rammendo la mia sessualitĂ , 1974/1975, 2 pezzi 40x40 cad. tovaglioli ricamati con applicazioni tessili, bottoni, acrilico.
Diane Bond, Le pezze, 1974 dimensioni variabili, Indumenti, applicazioni tessili, bottoni, acrilico (sopra: L’Opera, Fruit of the Loom; sotto: Paraocchi, La Proprietà , Piperita)
Marcella Campagnano, L’invenzione del femminile: RUOLI, 1974 8 stampe fotografiche, 21x31 cm cad.
del dipingere – e alla storia della pittura stessa - possiamo soffermarci su un lavoro del 1976, Il gioco del Merisi. Si tratta di un’opera in cui, con piglio ironico, l’autore escogita un modo di coinvolgere realmente il fruitore, invitandolo a partecipare ad una sorta di gioco, a ‘utilizzare’ l’opera. Il capolavoro del Merisi viene immaginato come un bersaglio che il pubblico è invitato a colpire, sconsacrando il mito, rendendo l’opera oggetto d’uso e non di culto. Questo lavoro è, quindi, una riflessione sul valore che l’opera d’arte può assumere. Analogamente l’impegno nella pittura di Paolo Baratella, Fernando De Filippi, Umberto Mariani e Giangiacomo Spadari non si limita al piano esplicito dei temi affrontati, ma si traduce in una messa in crisi della idea tradizionale di pittura. Vittorio Fagone, riferendosi alle loro ricerche, parla di ‘figurazione critica’, notando come essi mettano “in discussione tra i primi termini la pittura stessa, i suoi incanti e le sue estasi violente. Essi usano la pittura come un medium neutro e la sottopongono a interpolazioni fotografiche vistose o addirittura coprenti. Per loro non conta il tessuto ma il senso di un’immagine”16. Quest’ultima considerazione mi pare di particolare interesse perché riconduce l’essenza di questi lavori alla consapevolezza da parte degli autori della necessità di mettere a punto un sistema linguistico e non di esprimere se stessi. Così, a proposito del ciclo di dipinti che De Filippi ha realizzato su Lenin, Tommaso Trini parla giustamente di “pittura che non trascrive la natura, bensì la cultura”, precisando inoltre che “evidentemente l’ideologia c’è, ma è talmente dichiarata che non ha bisogno di essere
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Fernando De Filippi, Il comunismo è la sintesi teorica delle condizioni per la liberazione del proletariato, 1977 5 stampe fotografiche, 50x80 cm cad.
e denunciando la “sclerotizzazione” di quelli attuali, strettamente legati ai rapporti sociali e quindi alla lotta di classe, Mari conclude che “qualsiasi attività rivoluzionaria è soprattutto un’attività di comunicazione”. Su queste premesse, egli identifica una prassi per il comportamento dell’autore, la quale riguarda la comunicazione della sua attività artistica o critica e si fonda sulla chiara coscienza dei propri obiettivi e dei propri metodi espressivi. “Per spiegarsi meglio, non si tratta solo di fare delle enunciazioni astratte, avulse dalla pratica quotidiana della propria professione, ma di riferire ogni volta il proprio lavoro (in particolare quello critico) alla propria realtà contingente, alla propria volontà di denuncia e chiarificazione e alla propria – libera – scelta ideologica che, sola, ne può spiegare le motivazioni”21. In questo senso dobbiamo leggere il suo lavoro qui presentato, esposto nel marzo 1973 alla Galleria Milano, in occasione della mostra Falce e martello. Nell’introduzione al catalogo, con cristallina chiarezza, l’autore spiega il senso dell’esposizione22: si tratta di una ricerca estetica che parte da un modello nel quale “il proletariato spontaneamente usa e costruisce il proprio linguaggio senza averne ancora completa coscienza poiché è ancora condizionato dai miti della cultura aristocratica” e realizza così un simbolo universale nel quale c’è una perfetta aderenza tra la forma e la sua funzione23.
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Fernanda Fedi, La parola agli artisti, 1974 60x100 cm, collage e acrilico su tela
con la realtà non è mascherato, ma si può leggere continuamente vuoi sotto forma di analisi o di intervento. […] L’artista quindi cessa di essere strumento politico per divenire componente della politica attiva all’interno e fuori del sistema dell’arte. […] Più che tendere alla produzione di immagini se ne discute la loro efficacia, la loro funzione, in altri termini si teorizza una nuova prassi mettendo in evidenza l’uso repressivo del linguaggio inteso come strumento di diffusione del consenso. […] Le operazioni vengono riscattate a livello di vere e proprie analisi del mezzo, che perdendo la caratteristica dell’oggettivazione, vive solo in funzione dei contenuti e delle informazione che comunica. Si determina così un filo diretto tra produttore e utenza che saltando le infra e sovra strutture stabilisce un rapporto nuovo tra mittente e ricevente fino determinare un continuo fenomeno di scambio dei ruoli”28. La
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Nicole Gravier, Miti & Clichès da “Fotoromanzi”, 1976/1980 formati variabili, stampa fotografica a colori
tempo sta svolgendo una ricerca sulla comunicazione di massa, e che qui presenta un lavoro incentrato sui fotoromanzi, che “basano la propria capacità di comunicazione e di persuasione sulla ripetizione stereotipata di un’immagine, di un luogo comune, di una situazione particolare, di uno stato d’animo”30. Gravier interviene sullo stereotipo concentrandosi sulla figura femminile: espone fotografie in cui riproduce la scena e si pone nei panni della protagonista, introducendo però elementi incongrui e proponendo un diretto raffronto con gli originali da cui prende ispirazione. Il discorso è incisivo per un duplice motivo: perché sottolinea la falsità ipocrita di strumenti diffusi
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Silvia Truppi, Il luogo delle contraddizioni, 1975. 35 x 28 cm. stampa fotografica in bianco e nero applicata su cartoncino
Silvia Truppi, Il luogo dei gesti sicuri, 1975 35 x 28 cm, stampa fotografica in bianco e nero applicata su cartoncino 24
mite monocromatismo e con il ricorso ad una dimensione autobiografica (è presente in ognuna delle foto). Mazzoleni, che ha realizzato anche interessanti sculture ed è una performer, spesso utilizza il medium fotografico nei suoi lavori, incentrati sull’essere donna e su una rilettura dell’immaginario collettivo al femminile. In qualche misura, ma in accezione più intima, anche Silvia Truppi lavora con la fotografia a restituire la natura femminile. Realizza in quegli anni un interessante ciclo di lavori, di cui fanno parte le opere in mostra, che potremmo definire dei ritratti “in assenza”. Infatti, Truppi fotografa oggetti tipicamente femminili e, anche attraverso l’intervento verbale, ci offre delle riflessioni sulla donna, sul suo modo di essere e di sentire. Con la fotografia lavora pure Marcella Campagnano, che ribalta lo stereotipo mettendo in scena le sue compagne di percorso in una campionatura dei ruoli tipicamente femminili che ne mette in luce tutta la convenzionale costruzione, ammiccando alla spettatrice, che implicitamente si misura con le tipologie di donna proposte. Paola Mattioli attraverso il mezzo fotografico mette in campo uno sguardo alternativo, come è evidente nelle Immagini del no, un lavoro realizzato con Anna Candiani all’epoca della campagna referendaria sul divorzio, che si trasforma in una indagine visiva sulla donna, sulla città, sulla società dell’epoca, condotta in maniera innovativa, al di fuori dalle logiche del reportage. Mattioli, la cui ricerca si svolge in un continuo intrecciarsi di attenzione a temi socialmente impegnati e riflessione sul linguaggio, è tra le più attive interpreti della fotografia femminista, attraverso immagini che indagano l’identità della donna. Mattioli sostiene che “nel rapporto tra donne non può instaurarsi quel ruolo di oggettivazione che vuole l’immagine uguale alla realtà e l’operatore assente come soggetto. Viene così a rompersi quello schema per cui l’immagine è rubata da un occhio che si annulla e il ribaltamento della situazione imposta un campo privilegiato di indagine: l’autoanalisi del soggetto/oggetto della fotografia e lo studio dei meccanismi di rispecchiamento”31. A questa logica corrisponde anche l’attitudine a lavorare in gruppo, che non va intesa nei termini di una totale coincidenza di modi e intenzionalità, bensì come la necessità di un reciproco e continuo confronto, che si fa presupposto fondante per la ricerca artistica: esemplare il caso del volume Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo32, cui collaborano tra le altre Diane Bond, Mercedes Cuman, Paola Mattioli e Silvia Paola Mattioli, Autoritratto/36, 1977
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Diane Bond, Valenza Po, 1974
Truppi. Il volume raccoglie gli esiti delle ricerche condotte dalle singole artiste e al contempo opere realizzate insieme, ma va inteso come il frutto di un intreccio continuo di relazioni che non significano una totale coincidenza delle ricerche. Diane Bond, dopo l’esperienza del Gruppo delle pezze che la vede collaborare, tra il 1974 e il 1975, insieme a Mercedes Cuman e altre giovani con Adele Faccio, ha proseguito approfondendo quell’idea. L’ha sviluppata lavorando sempre con la stoffa, ma ritagliando le sagome delle sue Dolls, e portando parallelamente avanti ricerche di altro tipo, come quella interessantissima sulle artiste del passato, che continua tutt’ora. Mercedes Cuman, a sua volta, ha realizzato lavori di differente natura, ricorrendo al mezzo fotografico, inteso come strumento di indagine di approfondimento del tema della identità. Resta però essenziale la dimensione collettiva della loro ricerca, come dimostra l’iniziativa dell’estate del 1974 a Valenza Po. In quell’occasione, Bond, Cuman, insieme ad altre, organizzano nella piazza della cittadina un dibattito sulla donna nell’arte, esponendo le pezze e distribuendo maschere, nel tentativo di sensibilizzare le donne rispetto alle questioni che stavano loro a cuore. Purtroppo, però, questo coinvolgimento non è del tutto riuscito. E non è stato l’unico caso. La volontà di coinvolgere la società civile nelle esperienze artistiche, che caratterizza tanti interventi di questi anni si è infatti, spesso, dovuta scontrare con la realtà: questo lo si può intendere forse come un fallimento di quelle spinte utopiche o forse come il segnale che su quella via bisognava proseguire con ancora maggiore determinazione.
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Emilio Isgrò, Telex G3, 1973 156 x 34 cm, china su telex in box di legno e plexiglass
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Arte nel pubblico o per il pubblico? Luoghi del dibattito e ricerche artistiche a Milano negli anni della contestazione Elena Di Raddo
È stato osservato che negli stessi anni in cui il Cabaret Voltaire aveva aperto i battenti al numero 1 della Spielgasse della vecchia Zurigo qualche numero più avanti della stessa via viveva Lenin, il quale però non aveva mostrato nessun tipo di interesse per il movimento che stava rivoluzionando le regole dell’arte contemporanea, gettando alle ortiche i ciarpami dell’anciènne régime. E questo suo disinteresse non fu certamente dovuto a disinformazione. Così come del resto i tentativi di Tatlin di sposare la causa della rivoluzione russa a Mosca erano miseramente naufragati difronte al pragmatismo socialista. Gli artisti del resto fin dal tempo delle avanguardie si sono dedicati ad abbattere la mentalità tradizionale dell’arte borghese, mentre i politici sono sempre stati consapevoli del fatto che il mondo si cambia incidendo radicalmente sull’ordine pratico della realtà. Il rapporto arte e vita non è mai stato uno scoglio semplice da superare per l’artista, diviso tra la creatività, la propria autonomia ed auto-responsabilità estetica, e quella che deriva dal suo vivere nel sociale e nel contesto storico di appartenenza. Gli approcci all’“impegno” che gli artisti del post sessantotto hanno manifestato nelle loro opere sono quindi diversi gli uni dagli altri, ma sono tutti inerenti specificamente l’ambito dell’arte, da non confondere con l’impegno esclusivamente di ambito politico. Nell’affrontare il rapporto arte e impegno, nel contesto specifico di questa mostra quindi, non ci si vuole occupare di artisti coinvolti o in qualsiasi modo compromessi nella lotta di classe, né artisti che momentaneamente spinti dall’incalzare degli eventi storici, hanno scelto di abbandonare la pratica artistica per dedicarsi a quella politica, ma di artisti nel cui lavoro si rende empatico il rapporto con il sociale e il politico, sia sotto forma di immagine-comunicazione, sia sotto l’aspetto di opera coinvolgente l’ambito del sociale, nelle piazze, nei luoghi del lavoro, della scuola, della cultura. Le conseguenze di questo coinvolgimento, naturalmente, hanno avuto ricadute di grande interesse anche dal punto di vista della sperimentazione linguistica, con lo sconfinamento dell’arte verso il cinema, la performance, l’installazione, la pratica editoriale. Di questo intenso, ma anche contrastato clima culturale, politico e sociale, negli anni che sono stati definiti per la loro drammaticità “di piombo”, la città di Milano è stata senza alcun dubbio intimamente partecipe. Il presente saggio intende appunto ripercorrere alcuni episodi particolarmente significativi della storia artistica di Milano di quegli anni che sono stati tra i temi portanti della costruzione della mostra.
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Incidere con l’arte nella città All’indomani della manifestazione celebrativa del Nouveau Réalisme del novembre 1970 che coinvolse il pubblico milanese nel cuore stesso della città, tra piazza Duomo e la galleria Vittorio Emanuele con happening e interventi sui monumenti pubblici, tra cui anche l’impacchettamento realizzato da Christo dei monumenti di Vittorio Emanuele in piazza Duomo, appunto, e di Leonardo in piazza della Scala1, Luciano Caramel si interrogava sulla rivista “L’uomo e l’Arte” sul significato effettivo di quell’evento artistico denunciando l’occasione mancata per l’arte di incidere nel sociale. Leggendo quell’intervento è inevitabile fare qualche considerazione sull’attualità di quanto scriveva allora il critico pensando alla più recente opera dello stesso Christo al lago di Iseo: una manifestazione di enorme successo popolare, in cui ha prevalso la dimensione organizzativa ed economica. La manifestazione voluta allora dal Comune di Milano per celebrare il Nouveau Réalisme aveva infatti, come oggi, risvegliato l’interesse di un folto pubblico, ma, avvertiva Caramel, “non basta portare gli artisti in piazza – come è avvenuto dal 27 al 29 novembre con Christo, Arman, César, Tinguely, Raysse, Niky de Saint Phalle, Rotella e Spoerri – per provocare un avvicinamento tra operatori estetici e collettività urbana”2. Tanto più che ancora più stridente appariva allora il casuale incontro avvenuto in quegli stessi giorni tra le manifestazioni degli artisti e quelle operaie e studentesche “ben altrimenti ‘realistiche’, ben altrimenti problematiche”3. Ciò che veniva denunciato, da Caramel, ma anche da molta altra parte della critica a questo genere di manifestazione artistica era lo scopo pubblicitario e mercantile a essa sotteso. Aspetto che veniva decisamente ricusato da altre attività artistiche “impegnate” il cui scopo non era quello di coinvolgere il grande pubblico con manifestazioni di impatto mediatico, piuttosto di creare situazioni di confronto che, insinuandosi per così dire dal basso all’interno del tessuto sociale, portassero a una progressiva consapevolezza politica e culturale. Una “galleria di ‘classe’” È questo il caso, per rimanere a Milano, dell’attività svolta dalla piccola galleria di Porta Ticinese. Lo spazio autogestito di Gigliola Rovasino, situato nel cuore dei navigli, è stato fin dal 1973 un luogo aperto agli artisti più coinvolti sul versante dell’arte dell’impegno politico e più in generale dell’azione sociale. Qui Gabriele Amadori, Narciso Bonomi, Mario Borgese, Corrado Costa, Roberto Lenassini, Cosimo Ricatto e Giovanni Rubino fondarono il Collettivo Autonomo Pittori di Porta Ticinese, a cui presero parte anche Roberto Sommariva e Gabriele Albanesi. L’idea che animava questi artisti e l’attività stessa della galleria era quella di gestire uno spazio espositivo autofinanziato per un’arte al servizio della comunità realizzando progetti in stretto rapporto
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Ugo La Pietra Recupero e Reinvenzione, Orti urbani da “I gradi di libertà”, 1969/1970 70x100 cm, tecnica mista su carta courtesy Archivio Ugo La Pietra, Milano 34
Enzo Mari, Falce e Martello, 1972/73 126x122cm, bandiera in lana courtesy Galleria Milano, Milano 35
Ingresso della Galleria di Porta Ticinese all’inaugurazione di un evento durante la Mostra incessante per il Cile, Milano, 12 marzo 1974 In basso: Interventi dedicati a Walter Crane
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Due sono gli ambiti verso i quali gli artisti mostrarono di voler intervenire con il loro lavoro nel sociale: quello della partecipazione al contesto politico internazionale e quello dell’appoggio alle realtà locali. Qualche esempio tra i tanti: nel mese di marzo 1973 Mauro Staccioli in Condizione Cile colloca nella galleria alcune sculture accostando una serie di ritagli di giornale che documentano quotidianamente eventi di violenza politica e civile durante tutto il periodo della mostra; nell’aprile 1974 Valentina Berardinone presenta La scala nera del potere, una scultura in legno su cui appoggia delle pietre sulle quali sono elencati i responsabili della repressione nei paesi a dittatura fascista; con lo stesso spirito di denuncia Alik Cavaliere ed Emilio Scanavino nel maggio 1975 in Omaggio all’America Latina espongono una serie di pannelli in legno dipinti con una sequenza di nomi di guerriglieri latino-americani caduti. La mostra era anche itinerante esportando fuori Milano, a Pavia grazie a Gabriele Abanesi o in luoghi periferici, come al Festival dell’Unità di Mede Lomellina, il messaggio politico dei suoi artisti. È in quest’ultima occasione che un pittore-pittore come Umberto Mariani realizza un’opera oggettuale, Bomba dicembre1969-1972, che contiene al suo interno la scrittura de La ballata del Pinelli. Parole e musica del proletariato, in omaggio alla vittima di quello che fu a tutti gli effetti un capro espiatorio dell’inchiesta sull’attentato di piazza Fontana. In un articolo ritrovato nell’archivio di Rubino, dedicato appunto all’attività della galleria, Lea Vergine sottolinea tuttavia come fossero stati gli interventi nella città e i murales gli “episodi più felici, anche se rozzescamente elaborati”, i “prodotti più utili ai fini di quel ‘fattivo rapporto tra intellettuale e avanguardie operaie nel segno della lotta contro il capitale’ auspicato anche in un volantino del Collettivo Uno6, i pittori del quartiere”. Tra i tanti interventi realizzati dal collettivo in città e non solo, la critica milanese cita i murales per la messa al bando del’M.S.I., quelli sulla autoriduzione e sul Fanfascismo, gli interventi “Mortedison”, realizzati da Rubino con gli operai per protestare contro la mancanza di sicurezza nelle fabbriche all’indomani della fuoriuscita di gas dall’impianto della Montedison di Porto Marghera e “Smontedison” contro i licenziamenti e lo smantellamento della Montefibre. E si potrebbero aggiungere i murales eseguiti da Rubino per il collettivo nel 1975 nel quartiere Sant’Ambrogio contro l’aumento dei prezzi su cui campeggia il ritratto di Agnelli; lo slogan recita appunto: “il manzo aumenta mangeremo Agnelli”. La galleria di Gigliola Rovasino è stata anche luogo di riflessione delle tematiche legate alla condizione della donna. Il gruppo femminista formato da Adriana, Franca, Grazia, Chiara, Diane, Silvia, Mercedes (così si firmano le artiste in un documento-manifesto dell’anno seguente) promosse qui il 10 giugno 1975 una simbolica mostra intitolata L’armadio. Un vecchio armadio vuoto campeggiava nello spazio espositivo mentre in cassetto si udivano voci registrate di bambine e suore. L’intento era quello di smontare “l’armadio
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Libera Mazzoleni, Bacio, 1977-2015 6 stampe fotografiche, 40,5x30,5 cm cad.
privato”, portarlo “fuori casa”, condividerlo con le altre, trasformandolo e ribaltando così nel sociale un oggetto del loro stesso sfruttamento7. Nel 1974 Diane Bond e Mercedes Cuman avevano fatto parte del gruppo Le Pezze realizzando, appunto, lavori che restituivano l’idea di frammenti, brandelli di vite femminili: si legge nel manifesto-invito alla mostra: “Noi facciam le pezze perché ci sentiam pezze perché le donne sono pezze / toppe rattoppi tappabuchi pezze da piedi pezze di ricambio […] la donna fa le pezze per il padre-padrone / nella rappezzatura rattoppa anche i figli”8. A tale condizione però le donne sentono l’esigenza di dover reagire con energia: “basta con le pezze / le pezze si rivoltano / tessiam la rivolta” conclude lo slogan. Ma l’episodio più impegnativo legato al lavoro collettivo al femminile, anche per l’ampio coinvolgimento delle artiste, è stata la mostra Mezzo Cielo, che si tenne nella galleria di Porta Ticinese da maggio a ottobre del 1978 e coinvolse artiste e attiviste dei movimenti femministi sui temi e i linguaggi dell’arte legati alle istanze delle rivendicazioni sostenute da molte donne in quel periodo, come anche, per citare altre protagoniste presenti in mostra, Silvia Truppi, Paola Mattioli e Libera Mazzoleni. All’inaugurazione nello spazio della galleria lunghi
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Manifesto del Gruppo femminista per il salario domestico Archivio Giovanni Rubino
fogli da lucido, appoggiati alla pareti, elencavano i nomi di artiste dimenticate dalla storia. L’aspetto opalino dei fogli dava l’impressione che le scritte, come in un mausoleo, fossero impresse nel marmo. Le donne sentivano la necessità di rivendicare la loro presenza anche nel mondo dell’arte, di ribadire uno specifico femminile nella realizzazione di opere, attraverso la valorizzazione di quelle poche protagoniste femminili della storia dell’arte come Sonia Delaunay, Frida Kahlo, Meret Oppenheim, Florence Henri. Durante il periodo della mostra la galleria divenne luogo di incontro e di attivazione di laboratori di discussione, di cui è rimasta qualche rara testimonianza documentaria, sull’esempio dei circoli di autocoscienza attuati dalle femministe. In piena condivisione di ideali e obiettivi artistici, ma anche di contenuti sociali, le artiste hanno realizzato una serie di opere in comune scambiandosi i ruoli e riflettendo l’una dentro il linguaggio dell’altra. Ne rimangono a testimonianza alcune opere inedite ritrovate nell’archivio della galleria: i lavori fotografici ad esempio di Paola Mattioli che coinvolgono le amiche in ritratti di “genere” e quelli su carta di Elisabeth Scherffig e Fernanda Fedi, che rivedono con il loro linguaggio il felice ed emblematico lavoro di Marcella Campagnano dedicato ai “ruoli”, che riunisce una serie di fotografie di colleghe mentre interpretano la donna moderna in varie vesti. Le riunioni settimanali a carattere interlocutorio
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Paola Mattioli, Immagini del No, 1974 6 stampe fotografiche, 40x30 cm cad.
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Giovanni Rubino, Mortedison, 1973-74 azione realizzata con gli operai della Montedison stampa fotografica 100 x 450 cm
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Franco Mazzucchelli, Gonfiabile all’ingresso della chiesa di San Carpoforo, Milano, novembre 1976
Uno spazio aperto sulla strada Un altro significativo esempio in ambito milanese di sconfinamento empatico dell’arte nel sociale, quindi di arte a vocazione impegnata, è quello rappresentato dalla Fabbrica di Comunicazione che ha sede nella chiesa sconsacrata di San Carpoforo a due passi da Brera. La chiesa fu oggetto di occupazione nell’autunno del 1976 da parte di alcuni collettivi di artisti che in estate si erano ritrovati alla Biennale di Venezia nella sezione dedicata all’Ambiente come sociale (a cura di Enrico Crispolti e Raffaele De Grada) che aveva dato conto del nuovo fenomeno di quella che in anni più recenti sarebbe stata definita “arte pubblica”. Si trattava allora di interventi collettivi di carattere eminentemente sociale e politico in ambiti pubblici. Erano coinvolti, oltre al già citato gruppo di Porta Ticinese, anche il Centro Internazionale di Brera, la cui sede era proprio a due passi dalla chiesa, e che in autunno aveva promosso gli incontri “Arte e Società” e il Laboratorio di Comunicazione Militante, oltre ad artisti autonomamente operanti in tale contesto come Ugo La Pietra, Ugo Guarino e Franco Mazzucchelli. Quest’ultimo il 20 novembre del 1976 colloca davanti all’ingresso dell’edificio uno dei suoi gonfiabili invitando il pubblico ad accedere al nuovo spazio acquisito alla città attraverso
Giovanni Rubino e allievi all’interno di San Carpoforo
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sviluppò con la sezione di zona 1 del partito. In un comunicato “La FdC intende strutturarsi come laboratorio collettivo e interdisciplinare per la critica al linguaggio e ai modelli di comportamento diffusi dal potere e, al tempo stesso, come strumento di centralizzazione e diffusione di nuovi orientamenti del pensiero e di comportamento espressi dal proletariato metropolitano”. Il Laboratorio si fece quindi promotore di un progetto che “non disperdesse le forze dei singoli artisti e gruppi, ma che fosse piattaforma di rivendicazione capace di imporre alle istituzioni stesse la necessità di spazi e di strumenti già verificati nel sociale”9. Formatosi progettando la mostra Strategia d’informazione, tenutasi alla Rotonda della Besana nel 1976, era formato da Nives Ciardi, Giovanni Columbu, Tullio Brunone, Ettore Pasculli, Paolo Rosa ed operava nell’ambito della contro cultura e della contro informazione in rapporto con i gruppi giovanili e studenteschi. Oltre a interventi didattici nelle scuole, in diversi luoghi di Milano come le Colonne di San Lorenzo o San Simpliciano, attraverso happening teatrali e interventi musicali gli artisti del gruppo creavano momenti di aggregazione e divertimento10. In dialogo con il mondo del lavoro Naturalmente il dialogo con il mondo del lavoro costituisce uno degli obiettivi più ambiti dagli artisti interessati al tema dell’impegno. Le fabbriche sono appunto oggetto, in quel decennio, dell’attenzione non solo del mondo della politica, ma, anche dell’arte. Numerosi furono in tutta Italia gli interventi di artisti interessati a ciò che stava avvenendo nei comitati spontanei nati per la rivendicazione di migliori condizioni di vita e di un maggiore riconoscimento economico. Ed è quindi anche proprio a livello estetico e comunicativo che l’intervento degli artisti trova una chiave di colloquio con gli operai. La mattina del 13 febbraio 1971 Mazzucchelli lascia all’ingresso della sede di via Traiano dell’Alfa Romeo i suoi “tubi” gonfiabili in PVC con lo scopo di provocare negli operai un diversivo dalla routine alienante della quotidianità lavorativa. “Personalmente le operazioni individuali non mi interessano più […] – scrive l’artista – Ho bisogno soprattutto di un lavoro collettivo, felice, disincantato, che trascenda dai canoni sclerotizzati dell’operare artistico e faccia parte anch’esso della vita di tutti i giorni”11. Mazzucchelli non si proponeva con tali interventi di “rivoluzionare” il mondo del lavoro, né di rivendicare diritti o sfondare le porte dei padroni, ma semplicemente di portare un “messaggio” estetico e financo ludico nelle vite di chi non vedeva difronte a sé tutti i giorni nient’altro che il grigiore delle saracinesche degli edifici industriali. Ed è con lo stesso spirito che per celebrare il 25 aprile del 1978 Giovanni Rubino, già protagonista di tante lotte con gli operai, insieme agli studenti del Liceo Artistico Statale XXV Aprile di Milano e agli stessi operai della fabbrica, realizza nella sala del Consiglio di fabbrica dell’Alfa Romeo di Arese un grande murale, tuttora visibile. Anche il Collettivo Lavoro Uno, gruppo molto eterogeneo di
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Sarenco, Poetical Licence, 1973 220x140 cm, stampa fotografica
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Silvia Truppi, Mi ero identificata negli oggetti per averti, 1975 35 x 28 cm, stampa fotografica in bianco e nero applicata su cartoncino collezione privata 53
Fernando De Filippi, striscione, mostra Testuale, Milano 1979
cui facevano parte anche Fernanda Fedi e Gino Gini, attivo soprattutto nella periferia di Milano, in occasione del premio culturale “Piazzetta 73” di Sesto San Giovanni propone un intervento sull’aspetto dell’alienazione degli operai in fabbrica collaborando direttamente con il comitato di quartiere. Dopo aver scelto la Fabbrica Ercole Marelli quale luogo di interazione, gli artisti hanno realizzato una ripresa filmica dei lavoratori all’entrata e all’uscita dalla fabbrica facendo interviste sulla loro vita e sulle condizioni di lavoro. Le donne del gruppo Lotta Femminista, inoltre, che a Milano gravitavano attorno alla Galleria di Porta Ticinese rivendicavano il valore, anche economico, del lavoro domestico chiedendo che venisse concesso un salario alle casalinghe per le ore spese all’interno delle abitazioni ad accudire la famiglia e la casa.
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I “segni” dell’arte nella città per la città Riflettendo sull’arte di Enzo Mari e sulla sua idea della necessità di esprimere la propria creatività per la collettività, teorizzata nel volume In funzione della ricerca estetica (1970), la studiosa Vera Horvat Pintaric, indica in lui non solo un ricercatore sulle nuove strutture del linguaggio, ma anche uno dei pochi che “contemporaneamente alle ricerche hanno posto la questione del come renderle socialmente utili”12. La sua ricerca formale negli anni Settanta si compromette infatti decisamente con la dimensione del politico e del sociale. Ma questo intimo sentire, che in lui si radicalizza, come ben esemplificato in Falce e martello, un oggetto artistico (una bandiera) che unisce forma e funzione, è presente, anche in altri artisti che pongono al centro del proprio lavoro il problema del linguaggio e della sua veicolazione. Per molti artisti, dai linguaggi diversi, ma accomunati tutti da una dimensione concettuale, l’arte diventa così in un certo senso l’ambito della coscienza critica del vivere nella società e nella città. Emblematica in tal senso è stata la mostra Quattro pittori e una città: Baratella, De Filippi, Mariani, Spadari, che riuniva artisti che – come scrive Crispolti – appartengono a una tradizione di pittura milanese, ma che non presentano una pittura di descrizione o narrazione iconica della vita cittadina13. In concomitanza con una situazione ideologica molto differente da quella che aveva coinvolto i pittori degli anni Cinquanta, questi artisti sono caratterizzati da “un’idea della pittura come mezzo per mettersi in rapporto (che diviene certamente sollecitazione di conoscenza e non di semplice riflessione) con la realtà sociologica e sociale della loro città, che deve essere compresa, nel profondo, come parametro della più tipica situazione drammatica dell’uomo contemporaneo, soprattutto cittadino, nella dimensione della società capitalistica occidentale”14. In tal senso spiega Crispolti non è necessario per questi artisti illustrare e descrivere la città e la realtà milanese, ma essere piuttosto dei “provocatori”. Il rapporto con la città si verifica in loro soprattutto a livello di coscienza, in quanto agiscono coscientemente “in una dimensione operativa tipicamente cittadina, antinaturalistica e che, alla natura (vegetale, paesaggistica) tradizionale, ha sostituito la seconda natura, artificiale, dell’orizzonte della realtà industriale e tecnologica, dei massmedia, e del modo di comprendere il proprio lavoro come partecipazione attiva, rivelatrice, e di conoscenza provocatrice, sulla realtà sociale, sociologica e del contesto cittadino”. In tal senso egli inserisce questi artisti nell’ambito di una pittura cittadina che definisce “critica”, e che intende appunto esplorare le trame della realtà sociologica della metropoli milanese e sono quindi “rappresentative del momento della presa di coscienza critica e contestataria”, dell’“impegno allo stesso tempo politico e civile”. Ecco che quindi anche la presenza di “segni” artistici nella città, sotto forma di segnali, come i cartelli segnaletici di Ugo La Pietra ad esempio o le scritte, appese nelle strade negli striscioni o affisse nei cartelloni ai muri come avvenne
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Illustrazione da Roberto Faenza, Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione, Feltrinelli, Milano 1973
Immagini e parole per la rivoluzione Film e video militanti nella Milano del “lungo decennio” Jennifer Malvezzi
Dalla fine degli anni Sessanta la radicalizzazione ideologica in atto nelle arti si accompagna a un rinnovato uso dei mezzi meccanici di riproduzione del reale, segnatamente la fotografia e il video, che proprio per la loro natura tecnologica sono impiegati per immortalare performance e azioni politiche, e al contempo come mezzo per sfuggire alla mercificazione del ‘lavoro’ prodotto dall’artista. Nel caso del cinema, per sua natura legato al mezzo tecnico e al commercio, questa tendenza trova esiti più complessi: se da una parte l’industria cinematografica continua a ‘fare’ film in modo tradizionale — pur senza evitare contenuti politici ‘scomodi’, spesso passibili di censura — dall’altra si assiste a un netto rifiuto dei modi di produzione e distribuzione tradizionali, con lo scopo non solo di denunciare, ma di sovvertire attraverso “l’arma del cinema”. Queste premesse trovano espressione nel cosiddetto cinema militante, una forma volutamente anti-spettacolare, documentaria, di breve durata, quasi sempre collettiva e necessariamente realizzata con formati leggeri (8mm o più spesso 16mm), spesso su pellicola reversibile al fine di utilizzare immediatamente il film come strumento di “controinformazione” diretta. Il cinema militante, come appare subito chiaro anche agli osservatori coevi1, assume una forma precisa “in termini programmatici ma in definitiva poco realizzata sul piano concreto”2 concludendosi rapidamente senza quasi impattare sulla storia del cinema. Dalla metà degli anni Settanta, con l’intensificarsi della lotta politica e con l’avvento della ‘rivoluzionaria’ tecnologia videomagnetica, si fa strada anche l’utopia di un “cinema orizzontale”, prodotto direttamente “dalle masse per le masse”, che elimini definitivamente il rapporto “paternalistico” tra autore e spettatore. Milano è una delle città tra le più industrializzate d’Italia, con tutte le problematiche socioculturali che ne conseguono, quando il 12 dicembre del 1969 diviene teatro della strage di Piazza Fontana, evento che apre simbolicamente a quello che è stato definito il “decennio lungo del secolo breve”3. In quegli anni numerosi registi la scelgono come set per importanti lungometraggi dal contenuto politico4; al contempo si assiste agli albori di un cinema militante milanese, che non può prescindere dall’immigrazione di registi e filmmaker da Roma.
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Alcuni di questi autori alla fine del 1967 avevano partecipato all’esperienza fondante dei Cinegiornali Liberi, determinando un’apertura verso un cinema nuovo, “di tanti per tanti” come ebbe a dire lo stesso Zavattini nel primo cinegiornale dal significativo titolo Il cinema è finito?5. Seppur in seguito violentemente respinti dalla critica più intransigente, questi film-inchiesta costituiscono la premessa, non solo ideologica ma talvolta anche stilistica, al vero e proprio cinema militante. Nell’inverno del Sessantotto Ansano Giannarelli — che aveva lavorato con Zavattini al Cinegiornale della Pace e a I misteri di Roma — gira a Milano Sabato Domenica e Lunedì, un documentario prodotto dall’Unitelefilm, società nata in seno alla Sezione Stampa e Propaganda del PCI6. Il film è un’inchiesta sulla condizione delle donne lavoratrici del nord, raccontata attraverso le giornate di tre operaie militanti. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da un film prodotto dal PCI la macchina da presa resta volutamente fuori dalla fabbrica7, privilegiando la dimensione politica del privato per raccontare la globalità dello sfruttamento femminile, domestico prima ancora che lavorativo. Maria, Savina e Caterina vengono “pedinate” durante le loro attività quotidiane, il percorso per arrivare in fabbrica, l’attività sindacale e le faccende di casa: le giornate delle donne sono tutte uguali, “la domenica è una giornata come le altre, il riposo è fare un altro lavoro” e il tempo libero per se stesse è dipinto dalla voice over di Miriam Mafai come “una merce rara, costosa, bellissima, preziosa”; ma è attraverso le parole delle stesse protagoniste che Giannarelli “sottolinea già temi cari al femminismo degli anni Settanta”8. L’esempio più eclatante è forse il dialogo tra Maria e il marito — “sei stanca?” chiede lui, “son domande da fare?” gli risponde secca lei — oppure la scena del pranzo domenicale, quando Caterina parla della paura di esser licenziati per aver scioperato e la suocera le risponde di aver vissuto la stessa situazione quando era contadina al sud. Il regista tornerà su questo tema anche con Immagini vive (1974), film che raffronta l’immutata condizione di sottomissione della donna, nella Valtellina contadina dei primi del Novecento come nella Milano industriale operaia. Nelle ultime sequenze le tre donne si recano alla “Manifestazione contro l’imperialismo USA e la guerra del Vietnam” organizzata dal PCI nel febbraio del 1968 a Milano. Qui le immagini si fanno più retoriche, “il film-inchiesta diventa un’arma politica al servizio di un sogno di libertà”9: Giannarelli si guarda bene dal mostrare gli scontri avvenuti durante la manifestazione tra la polizia e i gruppi filomaoisti, mostrando solo gli aspetti propositivi della contestazione. Di lì a poco la lotta politica si sarebbe sempre più inasprita, mutando in un violento conflitto definito in termini chomskiani come una “guerra civile a
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Collettivo Cinema Militante, Pagherete caro pagherete tutto, 1975 b/n, son., 45’, courtesy AAMOD - Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Roma 61
Ansano Giannarelli, Sabato Domenica LunedÏ, 1968 b/n, son., 25’, courtesy AAMOD - Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Roma
bassa intensità”10. Con l’esplosione della bomba alla Banca dell’Agricoltura, fatto che porta al fermo dell’anarchico Giuseppe Pinelli e al suo presunto suicidio, la maggioranza degli intellettuali si mobilita, contestando apertamente la versione ufficiale dei fatti fornita dal Governo e dalla Polizia. Su iniziativa di Elio Petri e Ugo Pirro viene costituito il “Comitato Cineasti Italiani contro la Repressione” (CCIR) il cui obiettivo è girare un film di controinformazione sui fatti di dicembre e sulla successiva “repressione” contro i gruppi della sinistra extra-parlamentare. Dei cinque gruppi di lavoro, solo due, quello di Nelo Risi e quello di Elio Petri riescono a montare i propri episodi11 e a distribuirli nei circuiti alternativi12 anche grazie alla collaborazione della già citata Unitelefilm sotto il titolo collettivo di Documenti su Pinelli (1970). Il Materiale n.1 Giuseppe Pinelli, girato dal gruppo di Risi, si limita a una ricostruzione della figura del ferroviere anarchico attraverso le testimonianze di chi l’aveva conosciuto. Il risultato non è dissimile alla prima parte di un altro film sulla vicenda, 12 dicembre (1972), realizzato dal “Collettivo Lotta Continua”, Giovanni Bonfanti e Pier Paolo Pasolini, quest’ultimo non accreditato13. Più singolare l’episodio del gruppo capitanato da Petri, Materiale n.2 Ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli, che include una fredda ricostruzione di tre delle sette testimonianze fornite dagli agenti presenti nella stanza durante il presunto suicidio, unitamente a una sezione dedicata al confronto dei titoli delle testate nazionali con alcune pubblicazioni di controinformazione. Un aneddoto riportato nel volume Bombe a Milano — l’uccisione per mano della polizia dell’anarchico Romeo Frezzi nel 1897— diventa l’occasione per mettere in scena a favore di camera la possibilità di una quarta ipotesi, l’omicidio mascherato da suicidio. Il film è costituito da “12 minuti di materiale quasi ‘bruto’, ossia ben poco confezionato nella forma–montaggio”14 che “segnala una sostanziale presa di distanza dai moduli, per lo più assertivi del cinema militante, ma anche da quello dello stesso cinema politico di cui Petri è uno dei massimi interpreti”15. La scansione interna all’episodio è data da una serie di ciak in scena che scoprono smaccatamente la macchina cinematografica, per questo motivo diversi studi hanno colto il modus operandi brechtiano nella ricostruzione epico-didascalica delle ‘ipotesi’, tant’è che sembra quasi di assistere a una nuova versione della nota straßenszene del drammaturgo tedesco. Giancarlo Dettori, Luigi Diberti e Renzo Montagnani “raccontano e non incarnano” gli agenti di polizia, mentre uno ‘straniato’ Gian Maria Volontè torna a vestire “i panni del potere”16 nel ruolo del tenente realmente presente nella stanza, facendo leva sulla duplice sovrapposizione con il commissario corrotto da lui interpretato in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e
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“Factotum-Art”, anno I, n. 1, 1977 Edizioni Factotum-Art, Calaone-Baone (PD) courtesy Galleria Milano e Sarenco
La rivoluzione attraverso il linguaggio Cenni sull’editoria d’arte impegnata a Milano negli anni Settanta Bianca Trevisan
Milano, tra la fine degli anni Sessanta e per tutti i Settanta, è caratterizzata da una fervente produzione editoriale. Giornali, riviste, fogli indipendenti, volumi e libri d’artista rappresentano la prima testimonianza della ricca stagione culturale e politica che ha vissuto la città, tra espansione economica e proteste, spregiudicatezza e l’austero sospetto degli ‘anni di piombo’. Se la città vanta alcune delle più importanti testate giornalistiche e numerose case editrici (tra le tante: Feltrinelli, Hoepli, Adelphi, Baldini & Castoldi, Mondadori, Mazzotta, Prearo), è anche polo di attrazione per molti artisti che guardano alla complessa realtà che stanno vivendo. Le opere parlano del reale e ciò non si traduce in un semplice racconto, ma nella ricerca di un necessario confronto che coinvolga più parti: non più il ripiegamento intimista che aveva caratterizzato il dopoguerra, ma un dialogo che assume spesso toni politici. Si esce dall’autoreferenzialità per problematizzare il quotidiano e mettere in questione lo status quo. Il linguaggio è individuato come il miglior veicolo per tale scopo e la carta stampata permette la sua rapida diffusione, anche e soprattutto al di fuori dei circuiti ufficiali. Dai primi anni Settanta, così, l’editoria d’artista avrà un vero e proprio boom. D’altra parte, il terreno per tali riflessioni era stato preparato nel decennio precedente: il valore dell’esperienza artistica in rapporto alle nuove modalità di comunicazione era stato al centro del convegno Arte e comunicazione, tenutosi nel 1963 al Forte Belvedere di Firenze, seguito l’anno successivo, nella stessa città, da Arte e tecnologia che rifletteva sulle possibilità del medium tecnologico, in grado di raggiungere il grande pubblico. La poesia visiva e quella tecnologica poi condurranno la loro sfida politica proprio sulla scorta di queste riflessioni, denunciando l’elitarismo di certi prodotti culturali e la banalità del lessico mediatico. L’editoria fornisce non l’unico, ma uno dei possibili mezzi per mettere in campo questa rivoluzione nel linguaggio e attraverso di esso. In questo saggio si cercherà di mettere chiarezza su una situazione affascinante e complessa con riferimento ad alcune delle più importanti esperienze che si sono sviluppate a Milano. Si è deciso di guardare, attraverso qualche significativo esempio, alle riviste indipendenti, ai libri d’artista e infine alle pubblicazioni di Mazzotta, casa editrice che negli anni Settanta ha contribuito a distribuire su larga scala testi fondamentali.
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Esoeditoria, riviste d’artista e di settore Le riviste specializzate hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nell’arte contemporanea: così come per le avanguardie storiche, anche negli anni Settanta queste pubblicazioni registrano il dialogo tra i diversi operatori culturali e la volontà comune di sovvertire l’ordine prestabilito. Si tratta quindi di laboratori in fieri, fecondi terreni di sperimentazione. ‘Riviste d’artista’ perché dirette, edite e curate da artisti, che si occupano in totale autonomia di tutta la realizzazione e anche della distribuzione. Un prodotto artigianale che proprio per questa volontà di stare al di fuori dell’industria editoriale fa parte di quella più ampia categoria nota come ‘esoeditoria’ (dal greco ἔξω: all’esterno), ovvero “tutte quelle esperienze editoriali autogestite (...) che hanno prodotto essenzialmente libri, riviste, plaquettes, piccoli cataloghi, manifesti, volantini, ecc”1. Nel 1971 ha luogo a Trento la Rassegna dell’esoeditoria italiana, nel cui catalogo è riportato un testo di Eugenio Miccini che ben ne delinea le ragioni: “in quel foglio male stampato si sapeva che c’era qualcosa di nuovo, e il nuovo non poteva che disertare gli strumenti e le tecniche del potere alle quali restava di competenza il consueto. Così, una questione di pura necessità prendeva gli aspetti di una scelta politica, la semiologia generava l’ideologia e viceversa”2. I primi prodotti di questo tipo sono realizzati e distribuiti alla fine degli anni Cinquanta, a Genova e a Napoli, dove nel 1958 escono rispettivamente il primo numero di “Ana Eccetera” e di “Documento Sud”. Seguono presto numerosissimi esempi, tra cui ricordiamo le edizioni “Ex” di Emilio Villa e di Mario Diacono a Roma, “Amodulo” e “Factotum-Art” di Sarenco tra Brescia e Verona, “ED.912” di Gianni Emilio Simonetti e Daniela Palazzoli a Milano, “Exempla” e “Zona” di Maurizio Nannucci e “Tèchne” di Eugenio Miccini a Firenze, “Geiger” di Adriano Spatola a Torino, come tutte le riviste e fogli dirette da Ugo Carrega a Milano, dagli Oberto a Genova, da Arrigo Lora Totino a Torino e da Luciano Caruso a Napoli3. Si tratta di un fenomeno molto diffuso e internazionale, come metterà in luce la mostra Small press scene organizzata da Maurizio Nannucci alla galleria e centro culturale Zona di Firenze nel 19764. Venendo alla situazione milanese, negli anni Settanta le molte attività dei gruppi autogestiti sfornano prodotti editoriali che pongono la città di Milano come centro propulsivo del pensiero alternativo. Dichiaratamente in controtendenza con la cultura dominante sono le riviste curate da Ugo La Pietra, di vivo interesse perché pur essendo pubblicazioni indipendenti o affidate a case editrici di nicchia non rinunciano alla veste estetica, particolarmente ricercata. L’attività di architetto, artista e ‘operatore estetico’ trova il suo laboratorio proprio su queste pagine. “In. Argomenti e immagini di design” (1971-9173),
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“Progettare INPIù”, La guida alternativa della città di Milano, anno I, n. 5-6, giugno-settembre 1974. Edizioni Jabik & Colophon, Milano. Courtesy Archivio Ugo La Pietra
Ugo La Pietra, Il desiderio dell’oggetto, “Progettare INPIù”, anno I, n. 1, ottobre-novembre 1973
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Impossibile parlare di Milano senza citare Sarenco, la cui attività vi ha largo eco, pur essendo geograficamente collocata tra Brescia e Verona. Con la fondazione nel 1968 della rivista “Amodulo” e delle conseguenti Edizioni Amodulo, l’editoria diviene una delle principali attività del poeta bresciano che, con la totale indipendenza che lo contraddistingue, è fautore di dieci riviste, quattro case editrici e diverse collane di libri. La più importante e longeva tra le sue testate è “Lotta Poetica”, fondata con Paul De Vree, il cui titolo echeggia volutamente quello di “Lotta Continua”. Tra l’uscita del primo numero nel 1971 e l’ultimo nel 1987 è attestata tutta l’evoluzione internazionale della Poesia Visiva, di cui la rivista è la principale testimonianza8. La prima serie (1971-1975) è caratterizzata da una forte vis polemica, come negli attacchi all’arte concettuale, alla Biennale di Venezia e alle fumosità del sistema dell’arte. Sulla stessa linea è “Factotum-Art” (19771979), contraddistinta da un chiaro impegno politico. Grazie alle numerose lotte di questi anni, anche le donne finalmente trovano voce. Nel 1975 è inaugurata a Milano la Libreria delle Donne, gestita da donne e dedicata esclusivamente ad opere di donne9. Ancora prima dell’apertura della libreria, però, sorge l’esigenza di creare un organo di confronto tra le femministe non solo milanesi: nasce così, nel 1973, “Sottosopra” (1973-1976). L’impostazione originaria impone di rinunciare alle gerarchie normalmente presenti nelle redazioni e proprio per questo motivo gli articoli sono firmati con il solo nome di battesimo. Se il primo numero (n.1, 1973) tratta dei gruppi di autocoscienza, il secondo (n.2, 1974) riflette sulla necessità di aprirsi agli strati sociali subalterni, mentre il terzo (n.3, marzo 1976) racconta del secondo convegno di Pinarella di Cervia (1975), focalizzato sulla ricerca di una socialità femminile autonoma attraverso la cosiddetta ‘pratica del fare’ tra donne. Mentre i primi tre numeri erano fogli spogli, prevalentemente privi di illustrazioni, il terzo numero riporta numerosi interventi d’artista: Valentina Berardinone, Paola Mattioli, Mercedes Cuman, Marcella Campagnano, Nilde Carabba, Diane Bond e Silvia Truppi. L’ultimo numero (n.4, dicembre 1976) è un fascicolo speciale interamente dedicato alla politica, dove è indagata la proposta Pinto-Corvisieri in materia di aborto. In un periodo così attivo, anche alcune gallerie milanesi particolarmente accorte sentirono l’esigenza di creare una propria rivista. È il caso di “Arte Milano”, finanziata dalle sette gallerie più prestigiose di Milano: Galleria dell’Ariete, Galleria del Levante, Galleria Milano, Galleria del Naviglio, Galleria Schwarz, Salone Annunciata e Studio Marconi. Sul primo numero, uscito nel maggio 1972, sono definiti gli intenti, ovvero “instaurare un discorso, una civile conversazione tra gli addetti ai lavori e il pubblico”. Si tratta di “un’idea molto milanese: di quella tradizione cioè che propugna un modo di operare la cultura dove hanno la loro parte l’organizzazione degli sforzi, […] la dimensione sociologica, il senso del concreto e della storia”10. L’attività delle
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“Brera Flash”, anno I, n. 1, ottobre/novembre 1976. Centro Internazionale di Brera, Milano Courtesy Archivio Ugo La Pietra
“Fascicolo”, anno I, n. 1, 1977 Edizioni Associazione Culturale Plana, Milano Courtesy Archivio Ugo La Pietra
gallerie private è avvertita come un’alternativa importante alle mancanze dell’Amministrazione pubblica. Su queste pagine i migliori nomi della critica (tra cui Renato Barilli, Gillo Dorfles, Lea Vergine, Patrick Waldberg, Barbara Rose) recensiscono le mostre in corso nelle diverse gallerie, ma sono sollevate anche questioni di scottante attualità. Ad esempio, in apertura al terzo numero è riportato un provocatorio editoriale dal titolo L’assessore è da bruciare?, dove leggiamo: “qual è il compito di un’amministrazione comunale nel campo dell’arte? […]. È soprattutto fornire informazioni. Ma se su 50 mostre, 40 sono brutte, inutili, dei sottoprodotti, questa non è più informazione ma disinformazione. E niente è più dannoso di una sistematica politica di disinformazione”11. Non mancano inoltre le mostre impegnate, come I funerali dell’anarchico Pinelli di Baj alla Galleria Marconi e Falce e martello di Enzo Mari alla Galleria Milano, entrambe del 1972.
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Enzo Mari, Falce e martello, Edizioni O, Milano 1973 16 p. : ill. ; 21 cm. Ed. di 500 esempl., di cui 150 con una serigrafia, una litografia e una bandiera in tela. Courtesy Galleria Milano
Libri d’artista Nel 1971 Germano Celant pubblica su “DATA” il fondamentale articolo Book as Artwork12, dove definisce il libro come “medium autosignificante” e fornisce una storia del libro d’artista, trovando la sua origine all’inizio degli anni Sessanta con le prime sperimentazioni multimedia. Il libro d’artista mantiene l’aspetto, la forma e la struttura del libro, ma è reso opera d’arte dall’intervento intenzionale dell’artista, che segue tutta la sua realizzazione, rendendolo un manufatto. Foriero di significato, l’oggetto-libro interroga il suo fruitore, richiede di essere esplorato con i cinque sensi, annullando così la distanza opera-spettatore13. Nel 1972, alla XXXVI Biennale di Venezia, Renato Barilli e Daniela Palazzoli vi dedicano un’intera sezione dal titolo Il libro come luogo di ricerca14 e la sola Palazzoli cura presso lo spazio L’uomo e l’arte di Milano la mostra I denti del drago che mette al centro il libro come oggetto ritrovato15. Particolarmente degne di nota, tra le produzioni milanesi, sono quelle di Fernando De Filippi, caratterizzate da una forte connotazione ideologica. Nel 1973 alla Galleria Arte Borgogna di Milano si tiene la sua prima mostra su Lenin, argomento a lui caro, dal titolo Autobiografia, per la quale fu pubblicata anche una ricca cartella16. L’artista mette insieme reperti e stampe che raffigurano il rivoluzionario russo, intervenendo con tecniche serigrafiche e l’uso dell’aerografo: ne risultano immagini private, affettive. L’anno seguente, grazie alla collaborazione del truccatore Libero Politi e di Marco Poma dello studio Metamorphosi, si sottopone a un processo di Sostituzione, sovrapponendo gradualmente alla sua immagine quella di Lenin17. La lunga trasformazione, documentata da un libro d’artista, porta l’indagine a un livello fisico ed esistenziale. Successivamente, sulla scorta delle teorizzazioni della grafologia secondo cui la scrittura è indicativa del carattere della persona, inizia a studiare e a riprodurre la calligrafia di Lenin, in cirillico, sino ad arrivare a trascrizioni totalmente memoriali. Il libro d’artista Compagni operai andiamo all’ultima decisiva battaglia presenta la trascrizione su un muro della parte iniziale dell’omonimo scritto di Lenin, al fine di “porsi in un rapporto dialettico […] con il destinatario”18. Anche Giovanni Rubino, attivo con l’amico Corrado Costa nell’ambito del Collettivo di Porta Ticinese, ragiona sulla figura di un’icona rivoluzionaria, Mao Tze-Tung. In un prezioso libriccino edito da Vanni Scheiwiller nel 1971 sono riportate quattro poesie di Mao tradotte in italiano, arricchite da interventi di Costa (testi) e di Rubino (immagini)19. La figura di Mao è indagata nello stesso anno anche nel libro d’artista Maograd. Controutopia, frutto ancora una volta della collaborazione tra Costa e Rubino, da collegarsi ad un ciclo di opere di quest’ultimo sul dittatore cinese. Il volume, stampato in offset,
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ha un’impostazione collagistica: alle immagini di Mao realizzate da Rubino si alternano testi di Costa e citazioni dal Libretto Rosso di Mao20. La tecnica collagistica compare anche nel progetto Mortedison, pubblicato nel 1973. Il titolo è un gioco di parole con riferimento alla fabbrica della Montedison di Marghera, dove Rubino aveva partecipato alle proteste degli operai. Il libro presenta interventi d’artista su fotografie documentative degli avvenimenti, scritti di Costa e riflessioni politicamente impegnate di Italo Sbrogiò, Dario Paccino e Ettore Tibaldi21. Sia nel lavoro di De Filippi, sia in quello di Rubino, le figure di Lenin e Mao sono analizzate, utilizzate e reiterate prima di tutto per la loro carica simbolica. Ancora più radicale è l’indagine che Enzo Mari presenta nel 1973 alla Galleria Milano in una mostra dal titolo Falce e Martello, dove il simbolo, appunto, della falce e del martello viene analizzato attraverso la sua storia. Le Edizioni O della Galleria Milano pubblicano per l’occasione una cartella comprendente una serigrafia, una litografia, una bandiera e un volumetto con un testo dell’artista sulle motivazioni e sul procedimento di ricerca che esordisce così: “per un artista esistono quattro tipi di comportamento nel momento in cui vuole contribuire con la propria capacità tecnica alla lotta di classe”; a seguire è un’elencazione che ha il sapore di una proposta di comportamento22. Tale spirito provocatorio è ripreso negli intenti dalla Proposta per un’autoprogettazione che presenta l’anno successivo negli stessi spazi della Galleria Milano, fornendo le linee guida per la realizzazione degli elementi base d’arredamento senza l’intervento del designer23. Case editrici, un esempio: Gabriele Mazzotta Come abbiamo detto, a Milano l’editoria negli anni Settanta è in una fase di particolare fermento. Alcune case editrici compiono scelte audaci, come quando nel 1971 Giampaolo Prearo per il lancio del primo libro, una monografia su Gianni Bertini a cura di Guido Ballo, organizza una presentazione all’interno di un tram che percorre le vie della città. Un altro esempio è Feltrinelli, che nella raccolta ‘Franchi narratori’ dà spazio a testi alternativi, irregolari, di autori spesso estranei al sistema letterario. Nascono anche molte piccole e pregevoli realtà, che per motivi di sintesi non elencheremo in questa sede, come quella de La Tartaruga di Laura Lepetit, d’ispirazione femminista e vicina alla Libreria delle Donne. La storica casa editrice Mazzotta è fondata a Milano nel 1966 da Gabriele Mazzotta, figlio di Antonio Mazzotta, mecenate e collezionista d’arte. Con le sue collane di sociologia, economia, ecologia, storia, psicologia, architettura, fotografia, cinema, politica internazionale, storia della condizione femminile, ma anche di libri d’arte e per l’infanzia ha proposto argomenti innovativi
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Adriana Monti, Bundi Alberti, Diane Bond, Esperanza Núñez, Mercedes Cuman, Silvia Truppi, Paola Mattioli, Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1978, 95 p. : ill. ; 29 cm. Courtesy Emmebi Arte e Libri
e strettamente legati all’ambiente culturale, sociale e politico degli anni Settanta. Lo straordinario impegno di Mazzotta nella diffusione di queste tematiche ci permette oggi di comprendere con più chiarezza lo spirito e il sentire di quel periodo. La collana femminista, tra le prime in Europa, è lanciata con il volume La coscienza di sfruttata, dove tra le autrici figura anche Luisa Abbà, una delle fondatrici della Libreria delle Donne di Milano24. Qui il capitalismo è indicato come origine dello sfruttamento delle donne, sottomesse al sistema patriarcale. Una parte della serie è dedicata al femminismo storico, ma molti testi approfondiscono temi della contemporaneità allora giudicati tabù, quali l’aborto, il colonialismo e la violenza domestica. Nel 1978 è pubblicato il libro d’artista Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, con interventi di Bundi Alberti, Diana Bond, Mercedes Cuman, Paola Mattioli, Adriana Monti, Esperanza Núñez e Silvia Truppi25. La fotografia diviene qui veicolo per indagare l’identità femminile attraverso immagini che raccontano della
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Aa. Vv., La coscienza di sfruttata, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1977
Laboratorio di Comunicazione Militante, L’arma dell’immagine. Esperimenti di animazione sulla comunicazione visiva, Amministrazione provinciale di Mantova - Casa del Mantegna, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1977. 128 p. : ill. ; 21 cm. Courtesy Emmebi Arte e Libri
percezione della donna verso il proprio fisico e la propria sessualità e del ruolo sociale che si trova a rivestire26. Alla vigilia della Legge Basaglia, del maggio 1978, le problematiche legate alla condizione dei ricoverati nei manicomi erano particolarmente sentite anche in ambito culturale, si pensi alle operazioni artistiche realizzate da Ugo Nespolo nell’ambito della mostra di Volterra ’7327. Mazzotta pubblica molti libri dedicati all’argomento: I manicomi criminali è una dura denuncia alle strutture attraverso le testimonianze degli ex ricoverati28; I tetti rossi racconta del cambiamento nel manicomio di Arezzo nei primi anni Settanta, inizio di un processo che porterà alla riforma di Basaglia29; Manicomio 1914 è redatto
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“Arte Milano”, anno I, n. 1, maggio 1972 Edizioni Arte Milano S.A.S., Milano Pubblicato da sette gallerie milanesi: Galleria dell’Ariete, Galleria del Levante, Galleria Milano, Galleria del Naviglio, Galleria Schwarz, Salone Annunciata, Studio Marconi. Courtesy Galleria Milano A dx: “Arte Milano”, anno I, n. 1, maggio 1972 particolare (p. 9). Enrico Baj, I funerali dell’anarchico Pinelli, 1971/72 93