Elena Bellantoni _ Cecilia Guida

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CECILIA GUIDA

Elena Bellantoni Una partita invisibile con il pubblico

postmedia data


Elena Bellantoni. Una partita invisibile con il pubblico di Cecilia Guida © 2018 Postmedia Srl, Milano Copertina: Elena Bellantoni, Maremoto, video full HD 8’44”, foto su carta

Hahnemühle 80x100 cm, 2016 www.postmediabooks.it isbn 9788874902163


Elena Bellantoni Una partita invisibile con il pubblico Cecilia Guida

postmedia

data


Della pianta dico “è una pianta”, Di me stesso dico “sono io”. E non dico nient’altro. Che altro c’è da dire? Fernando Pessoa, Mi dici (1922)

Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così. Italo Calvino, Il barone rampante (1957)


Una partita invisibile con il pubblico

Elena Bellantoni è un’artista con tanta energia. È sempre in movimento, pronta a ideare, progettare qualcosa di nuovo e studiare il modo di realizzarlo. Ha individuato nell’arte contemporanea una sorta di contenitore nel quale far convergere la letteratura, il cinema, il teatro, la danza, la storia dell’arte e la vita quotidiana. Pensa per immagini, vi associa delle parole e trasforma visioni personali o intuizioni poetiche in azioni e oggetti. Nelle performance, così come nei video, nelle installazioni e nelle sculture, affronta temi di natura politico-sociale con un tono a volte ironico, a volte serio, creando lo spazio per l’emersione di un altro significato, un’altra possibilità, un altro futuro. Si possono individuare due filoni che riguardano la sua formazione: uno è lo studio dell’arte concettuale (le opere di Kosuth innanzitutto) e della body e performance art degli anni ‘60 e ‘70 (tra cui i lavori di Acconci, di Abramovic e dell’italiana Ketty La Rocca), l’altro è la passione per l’estetica relazionale e l’arte dialogica affermatesi a partire dagli anni ‘90 e rispetto alle quali lei rappresenta la generazione successiva. Linguaggio, testi poetici, gesto, smaterializzazione e processualità sono gli elementi che ricorrono nei suoi lavori e ai quali si aggiunge un particolare interesse verso la forma dell’opera, la fisicità dell’oggetto finale. È un’artista riflessiva, ma non timida. Ama parlare, interrogarsi, conversare con le persone. Le interessa la ricerca sul campo, l’azione dell’osservare e un certo spirito di stare al mondo in modo critico. C’è curiosità e purezza nel modo che ha di guardare la


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realtà, con sguardo stupito, come fosse un bambino a guardare, a rivolgere domande e a cercare le risposte facendo vedere agli altri cosa hanno intorno secondo un punto di vista differente. Si definisce “un’investigatrice-archeologa che mette insieme tracce della sua storia e di quella collettiva”, io aggiungo che è innanzitutto un inventore e progettista di dispositivi che anziché alzare schermi tra noi e il mondo li abbatte consentendoci di rivedere il mare “negato”, di liberarci delle frustrazioni o di superare un evento traumatico. Nei lavori performativi e installativi di Bellantoni le pratiche, le memorie, i rituali del contesto in cui opera o al quale si riferisce vengono tradotti in oggetti estetici, diventano strumento di una riflessione critica e di un’ironia oggettiva, e sono trasformati in artefatti. È una persona spiritosa e dotata di senso dell’umorismo. Nella sua pratica artistica si serve del linguaggio come una lente di ingrandimento per acquisire una maggiore consapevolezza della complessità del mondo. Gioca con le parole divertendosi e cercando di abitarle mentalmente. Ha l’abitudine di scrivere dei componimenti poetici, ovvero libere associazioni del pensiero che le permettono di visualizzare il tema trattato nella performance e di soffermarsi sulle sue possibilità di senso e azione a livello reale, simbolico e immaginario. Comunque nei suoi lavori performativi il gioco non costituisce solo la premessa ma è anche la modalità operativa di coinvolgimento del pubblico, dal momento che pensa a delle regole in grado di rendere la performance “sfidante”, ossia piacevole, stimolante, interessante. Le regole tracciano la struttura e i modi “leciti” per entrare in quel mondo temporaneo da lei progettato dove gli spettatori diventano partecipanti dell’azione. Per Bellantoni conta sia l’impegno del pubblico a rispettare i pochi e chiari vincoli concepiti per questa “partita invisibile”, sia


la conseguente realizzazione del rapporto “a tu per tu” con ogni singola persona. Tutto ciò che il “giocatore” dirà o farà, dopo che avrà avviato il metronomo e innescato l’azione delle spolveratrici, o dopo che lei lo avrà guardato negli occhi per qualche minuto e avrà valutato quale “peso” dargli, non è possibile prevederlo o conoscerlo a priori. In questo stato di tensione tra il controllo e l’imprevisto si consolida il patto tra lei e il pubblico, ha luogo lo scambio tra le due parti e avviene la performance. È un’artista interessata alle relazioni nella società e a come esse funzionano. Attraverso il suo corpo le mappa, le prova, ci interagisce. Credo che l’incontro, il tempo e l’esperienza siano i nuclei tematici della sua produzione che procede a ritmi intensi e con un’instancabile sperimentazione del medium più adeguato allo spazio in cui è chiamata a intervenire. L'incontro con l'Altro è indubbiamente la chiave della sua ricerca: in alcuni casi è pensato, cercato, realizzato, in altri invece è immaginato, desiderato, malinconico. Esso avviene con modalità e la messa a punto di situazioni ogni volta diverse che sono, per esempio, la precisa organizzazione di un viaggio fino alla fine del mondo, l'attenta trascrizione di storie di persone sconosciute, una lunga e silenziosa partita a carte, l'invito a salire su un'alta torretta, il faticoso attraversamento del Mediterraneo a bordo di una bicicletta. Tuttavia lei (l’artista), la sua storia, le sue parole, il suo corpo – o meglio la scoperta delle possibilità e dei limiti di utilizzo dello stesso – sono al centro delle sue performance che arrivano finalmente all’incontro con la vita, le storie, il corpo dell’Altro. Perché ci sia l’incontro sembra che siano necessari, indiscutibili, uno sforzo e una fatica fisica che sciolgono un suo blocco interiore e la aprono, a quel punto, alla presenza e all’ascolto altrui.


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Le performance di Bellantoni si prolungano per ore, sia quando hanno luogo nel Museo sia nello spazio pubblico; la resistenza che mostra il suo corpo minuto all’azione ha sì un valore visivo, fisico, ma anche metaforico perché il corpo che si mette alla prova e resiste vuole rappresentare l’essere umano che si oppone alle eredità comportamentali, alle sollecitazioni sociali, alle influenze politiche. Nei suoi lavori il tempo non è inteso solo rispetto alla capacità di resistere a una lunga azione ma è anche quello richiesto all’Altro e quindi concesso, è quello del dialogo, del confronto: è il tempo di un prezioso spazio intermedio posto tra il pensiero o il sentimento privato e la condivisione dello stesso attraverso gli sguardi, attraverso le parole e attraverso l’arte. L’esperienza che avviene in questo temporaneo spazio comune è per tutti ma secondo livelli di coinvolgimento diversi. L’ Altro di Bellantoni contiene molteplici Altri, tutti soggetti importanti e tutti chiamati in causa nei suoi lavori: il sé, il partner, il curatore, l’interlocutore, il partecipante, ma anche chi semplicemente guarda e ascolta, e che, forse, quando sposta l’attenzione e si allontana dall’azione o dalla scultura riflette sul senso di ciò che ha visto e sull’apparenza delle cose del mondo sotto cui si celano significati stratificati e contraddittori. Lei dice che nei suoi lavori vagabondando da un luogo verso un altro luogo, fisico o metaforico, si perde, scopre nuove mappature mentali e prova così a interpretare il reale. Io penso che nella sua ricerca artistica ci sia una fusione speciale tra la realtà e un livello di arricchimento narrativo e poetico molto forte. Non ho paura a usare “poesia” nel caso di Bellantoni e direi, concludendo, che la sua arte contiene una poesia libera e impegnata.


AZIONE

corpo

appartenenza

STORYTELLING relazione Camminare Casa

alterità mobilità

Fuga

Immagine-Azione

Trasformazione

STORIA

potere

metamorfosi identità Nomadico self-displacement perturbante

Traduzione PERSONALE

rottura deriva gioco

parola

città sospensione abitare

PROCESSO

Narrazione unheimlich LINGUAGGIO

Mondo


AZIONE

corpo

appartenenza

STORYTELLING relazione Camminare Casa

alterità mobilità

Fuga

Immagine-Azione

Trasformazione

STORIA

potere

metamorfosi identità Nomadico self-displacement perturbante

Traduzione PERSONALE

rottura deriva gioco

parola

città sospensione abitare

PROCESSO

Narrazione unheimlich LINGUAGGIO

Mondo


Uno scambio Carissima, vorrei iniziare la nostra conversazione chiedendoti qual è il tuo punto partenza per un’opera: è forse un’immagine? O piuttosto è un’idea? O è una storia a ispirarti? “Immagine-Azione” è la parola con cui inizio questo percorso. Credo che l’immagine e l’azione siano le basi di partenza del mio lavoro insieme al linguaggio. Le parole hanno infatti, dal mio punto di vista, valore di immagini: sono le forme che accarezzano il mio procedere, diventano i Post-it su cui appunto le liste dei miei pensieri. In questo senso, esse sono generatrici di immagini, sono dei segni che indicano la strada da seguire attraverso un lavoro associativo tra linguaggio, mondo, azione e immagine. Penso che quando la mia Immagine-Azione diventa reale, allora il lavoro funziona. Prende forma esattamente quell’idea, quella visione. Tuttavia, a volte succede che la realtà superi la mia immaginazione… Forse, un’altra parola chiave della tua pratica artistica potrebbe essere “progetto”, lo intendi parte integrante del processo ideativo o calato nell’azione? Se progettare significa immaginare, ideare qualcosa e studiare il modo di attuarlo, allora la mia pratica artistica si costruisce attorno a un progetto che diventa, attraverso il processo che metto in atto, parte dell’opera stessa. I miei lavori sono come degli “edifici mobili”, elastici, che si spostano con me e si costruiscono attraverso l’esperienza che ne faccio. Per dare forma alla mia ImmagineAzione, ho bisogno di creare delle strutture aperte, ibride in cui raccolgo tracce, metto insieme diverse discipline, faccio ricerca sul campo. Il mio studio è la mia testa. L’impalcatura su cui si regge


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Elena Bellantoni, Maremoto, 2016

Nell’andare si trova il sé, così come nel tornare. Il desiderio di quest’incontro avviene sul confine del mare, il viaggio diventa un tentativo di ricucire due sponde, due orizzonti, più culture. Il Mediterraneo da sempre ha rappresentato una strada d’acqua percorsa da popolazioni che giungevano e ripartivano. Le azioni riprese dal video sono costituite da due unici piani sequenza che danno corpo alla reale fatica dell’attraversamento. Non c’è traduzione linguistica delle vicende raccontate da Ibrhaima ma, mediante le immagini e il suono della sua lingua, si percepisce la storia di uno dei tanti migranti approdato sulle coste mediterranee. Il moto, contenuto nel titolo, sottolinea due azioni: quella della bicicletta e quella del mare. Ho scelto la bicicletta perché, passando del tempo in questa costa di confine, mi sono resa conto che la maggior parte dei ragazzi migranti che la mattina vedevo


andare a lavorare nei campi usavano questo mezzo per muoversi. La fragilità della bici corrisponde alla fragilità delle imbarcazioni con cui arrivano sulle nostre coste. E io non potevo non provare a cavalcare questo Maremoto. La migrazione è un viaggio di sola andata, non c’è una casa dove fare ritorno. La storia viene mietuta e fatta parlare, riletta e riscritta, e la lingua prende vita nel transito e nell’interpretazione. Tradurre è, come dicevo prima, trasformare. In Maremoto non traduco il racconto di Ibrahima, ma lo restituisco attraverso uno sforzo e la resistenza fisica. Non volevo ricadere nel retorico con l’ennesimo racconto sul migrante, ma piuttosto volevo sperimentare questa alterità e la sua storia in maniera concreta e poetica. Il mar Mediterraneo abbraccia visivamente questa narrazione, diventa il confine e il luogo d’incontro allo stesso tempo. Dove l’io sparisce l’Altro emerge, da questa posizione comincio a


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parabole appunto, di Gesù presenti nel Vangelo), discorrere su un determinato soggetto. Mi interessa la fisicità di questa definizione dove il linguaggio diviene infatti un’azione che nel suo movimento definisce un nuovo spazio, che chiamo “relazionale”. Nelle mie performance il gesto della scrittura attraverso un oggetto diventa atto artistico, che prende forma da una spinta interna ed emotiva sublimata nell’oggetto stesso. Si crea così un discorso collettivo tra me e chi partecipa attraverso le parole scritte che circolano nello spazio. Quello che attivo non è solo il pensiero, lo spostamento/ svuotamento tra forma e significato – come avveniva nelle ricerche degli anni ‘70 – ma l’atto simbolico del dare la parola. Esiste una qualità “infantile” di questo processo che evoca qualcosa di molto antico, questo qualcosa per me ha a che fare con il processo creativo. Come dice Bourriaud ne Il radicante che hai citato sopra, l’artista per me è un traduttore di segni, un “semionauta” che ricerca e mette insieme pezzi di questo mondo frammentato. La parola diventa un confine, la terra fertile in cui arte e vita si mescolano. Nel mio lavoro gioco dentro e con le parole, che diventano il luogo di scambio nelle mie performance, il terreno dell’incontro con l’Altro. Ogni mia azione inizia con un “componimento poetico,” ovvero una lista di parole, di associazioni che creo per scrivere la performance, per entrare nel lavoro e visualizzarlo. Non nascondo affatto questo processo del pensiero, anzi, esso diviene parte integrante delle mie “regole”, e declino le parole come “Parole Passeggere”, “Parole Cunzate”, “Parole Resistenti” etc., che sono dei “vestiti che mi cucio addosso”5. Le consegno al pubblico perché, prima di chiedere a chi partecipa un vocabolo, io gli do la mia parola. Spesso registro le parole che mi vengono date battendole a macchina, incidendole su lastre di ottone, trascrivendole su piatti e registrandole su dischi in vinile. Raccolgo 5. Si rimanda a Parole. Elena Bellantoni 2012-2018, una selezione di testi poetici scritti negli ultimi sei anni.


Elena Bellantoni, Impero Ottomano, 2015-2017

narrazioni attraverso le parole che diventano immagini. La lingua si sposta con le persone, migra, si trasforma e si sposta attraverso l’atto artistico di traduzione. Durante una performance dal titolo Impero Ottomano (2015) ho invitato lo spettatore a fare un gioco di resistenza con me e a riflettere sul concetto di resilienza psicologica e fisica. Metafora di un braccio di ferro in corso tra Oriente e Occidente, nonché spartito che chiede continuamente cosa resista alla storia e alla propria esperienza personale, Impero Ottomano è un rapporto tra me e lo spettatore, uno slittamento bilaterale in cui il pubblico si fa privato e, viceversa, il privato si fa pubblico. L’opera – composta di un tavolo, un braccio meccanico con un guanto che viene fatto indossare allo spettatore, una grande lastra di ottone fissata a parete


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me stesso e l’uomo stesso, non è nessun altro se non lo stesso che non smette mai di alterarsi”6. Mi interessa l’aspetto attivo-verbale di questa parola che assume quindi la forma esortativa di Alteriamoci!, come direbbe Roberto Esposito parlando del concetto di comunità (Communitas, 2006). Negli anni, infatti, da un discorso marcatamente identitario – mi riferisco ai miei primi lavori performativi come, per esempio, Life Jacket (2007) – sono progressivamente passata a un’apertura verso l’Altro da me. Je est un autre – io è un altro – scriveva Rimbaud. Il mio incontro con l’Altro avviene nel luogo dell’enunciazione e, attraverso il linguaggio e la parola scritta, la relazione prende forma. E, sul fronte del pubblico, che cosa succede con gli spettatori? Che importanza dai a chi decide di non partecipare, di restare a guardare? Le mie azioni non sono degli spettacoli ma degli “esperimenti a cielo aperto”, chi guarda e chi si ferma partecipa indirettamente entrando nell’immagine che ho costruito. Mi rendo conto di questo quando riguardo la documentazione video e fotografica del lavoro: un albero, una macchina, un passante entrano, in questo senso, come “pubblico” a far parte dell’azione. Probabilmente il rapporto con il pubblico di cui mi chiedi si costruisce sul filo dei fogli scritti che lascio insieme alle “regole” della performance. Ognuno è libero di decidere se iniziare o meno un dialogo con me. Il rapporto che costruisco con chi partecipa è molto personale, perché le azioni sono sempre “a tu per tu”. Nei miei pensieri quando costruisco la performance, ovviamente, c’è sempre un pubblico, questo “tu” che è essenzialmente il mio referente altro.


Elena Bellantoni, Ho annegato il mare, 2018

Se dovessi posizionarmi all’interno dell’attuale dibattito sulla performance, potrei dirti che a me non interessa il gesto spettacolare, dove c’è una distanza con chi guarda, un pubblico spettatore passivo. Io lavoro invece sulla prossimità, sulla distanza minima. La tua ultima performance, Ho annegato il mare (2018), è la tua reazione artistica in chiave poetica al “sacco edilizio” di Palermo. Una torretta di legno, costruita ad hoc, dell’altezza di quasi 3 metri che hai spostato con fatica lungo la costa sud-est della città. A coloro i quali accettavano di salire sulla magica torretta ponevi una semplice domanda: “Cosa vuoi annegare?” Che cosa ti interessava generare attraverso questa struttura mobile?


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e il pubblico tirando, allargando, componendo un unico corpo visivamente e fisicamente. In Frust|r|azione (2018) affronto invece i temi della violenza, della frustrazione e dell’educazione patriarcale attraverso il corpo e il linguaggio. La performance è stata realizzata all’interno della mostra Magma Body and Words all’Istituto Centrale per la Grafica di Roma, con la cura di Benedetta Carpi De Resmini. La mia azione consisteva nel frustare a terra utilizzando 20 cinture di cuoio. La violenza e la rumorosità del gesto venivano smorzate dalla partecipazione: le cinture/fruste diminuivano ogni volta che qualcuno decideva di sedersi e di pronunciare la propria parola che frustra-frusta. Le cinture, dello stesso colore della mia pelle – e che ho prodotto una a una con le misure dei membri della mia famiglia –, erano via via marchiate a fuoco con le parole pronunciate, come fossero tatuaggi, utilizzando un pirografo per cuoio. L’odore di pelle bruciata restava nell’aria. Alla fine dell’azione, ho unito tutte le cinte che a quel punto diventavano un unico, solo, oggetto su cui era iscritto il discorso collettivo sulla frustrazione. Non chiedevo al pubblico di intervenire nell’azione violenta del frustare, che invece rientrava nel mio atto performativo, ma semplicemente una condivisione emotivo-verbale del processo; il linguaggio in questo caso annullava l’atto violento. CeMento (2018) è la tua ultima opera prodotta in occasione della mostra You got burn to shine alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, a cura di Teresa Macrì. Si tratta di una scultura che non prevede forme di interazione da parte del pubblico. Di che cosa si compone?


Elena Bellantoni, CeMento, 2019

CeMento è un lavoro sull’illusione e sulla menzogna, su ciò che ci tiene a galla, o ci fa affondare. L’installazione è composta da giochi e oggetti legati al mare: un materassino, un secchiello, dei braccioli etc., che dovrebbero quindi galleggiare, ma non è così poiché sono fatti di cemento. Dal mio punto di vista, la menzogna così come il mentire hanno connotato molti dei discorsi politici dell’ultimo ventennio e non solo. Nello specifico, il cemento a partire dagli anni ‘70 ha rappresentato il materiale che ha falciato e distrutto il Belpaese; nel nostro immaginario collettivo sta anche per il materiale usato negli omicidi di mafia, adoperato per cementificare i corpi, farli


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a far parte della collezione permanente. Nel filmato i ballerini di tango indossano due maschere di animali, rispettivamente da lupo e da volpe. I due danzatori si muovono all’interno del perimetro del grande tavolo, dove solitamente si riuniscono i capi di Stato in visita in Italia, con un atteggiamento quasi di sfida e contendendosi in qualche modo lo spazio di azione del proprio potere. La battaglia è quindi dichiarata e aperta, non solo tra i due sessi ma anche tra i due animali che, come in un rituale di corteggiamento, si fanno avanti alternandosi l’uno con l’altro e mostrando il meglio delle loro capacità seduttive e persuasive. Una voce accompagna questo duello, scandito da un audio che ne sottolinea la tensione, e, come fosse una conferenza di natura scientifica, vengono declinati linguisticamente il nome fox e wolf. Il video ha un forte impianto linguistico-concettuale: il testo volutamente in lingua inglese, anche qui a porre l’accento sul potere della lingua dominante per eccellenza, diventa il fil rouge di questo passo a due. Faccio riferimento non solo ai lupi Alpha e all’idea di capo branco ma anche al famoso caso di Freud, il “Wolf Man”, per passare al racconto dei fratelli Grimm “The Wolf and the Fox” (Il lupo e la volpe), e concludo con le teorie sul potere enucleate dall’antropologo austriaco Eric Robert Wolf, appunto. Il tango – ballo dove solitamente è l’uomo che porta e la donna asseconda i suoi movimenti – diventa qualcos’altro: a un tratto, è proprio la donna a condurre questo gioco delle parti tra maschile e femminile, tra bestialità e dominio, tra lo spazio pubblico e quello privato della relazione. Nella mia ricerca ho mantenuto comunque una produzione video legata alle performance che dallo spazio intimo e domestico del mio studio si sono aperte allo spazio pubblico della città e all’Altro. Nello stesso tempo, mi sono misurata con altri mezzi a me molto cari, come il linguaggio pittorico, il disegno e l’installazione.


Elena Bellantoni, The Fox and the Wolf: Struggle for Power, 2016

In DreamEscape (2017), dopo molti anni, sono tornata ai colori per raccontare storie di infanzie rubate nelle periferie. Ho pensato che il video in questo caso potesse essere retorico, così ho deciso di servirmi della pittura per prendere una distanza da questo Altro – giovanissime prostitute nigeriane – e trasportare queste donnebambine su un piano più simbolico. Accanto ai dipinti, di chiaro gusto “impressionista” quasi a voler contrastare la decadenza con la joie de vivre del colore, ho realizzato un video “surreale”, The Beauty and the Beast (2017), girato con una bambina che, mentre passeggia nel Museo Civico di Storia Naturale di Milano, legge brani tratti da La banalità del male (1963) di Hannah Arendt soffermandosi sugli sguardi degli animali impagliati, che spingono, a loro volta, a una riflessione sulla violenza.


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hai avviato Wundebar Cultural Project. Intendi queste esperienze collettive come separate dal tuo percorso artistico o invece come occasioni che lo nutrono? A proposito di scambio e di percorso condiviso ti rispondo con una citazione dell’uomo solitario e solidale, ovvero Camus: “Mi rivolto, dunque siamo”. Che ho usato per un neon realizzato per la mia prima mostra personale in collaborazione con la Fondazione Filiberto Menna (2014) presso il Museo Archeologico di Salerno, a cura di Stefania Zuliani e Antonello Tolve. Questa frase, che ho tratto da L’uomo in rivolta del 1951 di Camus, per me è un monito. Nemico di ogni ideologia, allergico a tutte le religioni, lo scrittore algerino parlava al singolo sapendo che ogni forma di azione collettiva andava (e va) ripensata, ed esortandolo a non arrendersi all’individualismo. L’azione di rivolta singola può avvenire soltanto all’interno di una pluralità... Con in mente questa frase, nel 2008 insieme a Marco Giani ho fondato a Berlino il mio primo project space, 91mQ, che per ben quattro anni è stato un luogo di incontro, scambio e sperimentazione artistica non solo per me ma per molti artisti della scena underground della città. Finita l’avventura con 91mQ, è iniziata quella di Wunderbar Cultural Project, avviato con Manuela Contino, Laura Galloppo, Mariana Ferratto e Fiamma Franchi, che ha coinciso con il mio rientro in Italia, a Roma. Sulla stessa scia era nato nel 2006, durante l’anno trascorso a Londra per frequentare il Master in Fine Arts, il gruppo PT formato da me, Marwa Arsanios (artista libanese), Soledad Pinto (artista cilena) e Mihalis Theodosiadis (artista greco). PT stava per Platform Translation, progetto itinerante nato con l’intento di invitare artisti e curatori provenienti da diverse parti del mondo a indagare, attraverso pratiche artistiche e riflessioni teoriche, il concetto di traduzione nelle arti visive. Con il gruppo PT ho sviluppato un complesso atto di comunicazione


Elena Bellantoni, Lo Sposalizio, 2014


Parole Elena Bellantoni, 2012-2018


Cara W. La tua poesia è come un secchio buttato nel pozzo difficile da tirare su colmo di parole - le tue - che accompagnano le mie che si affacciano alla finestra di quaggiù. Sono tattili, vispe, leali e concrete le tue visioni mai ingannano mai lasciano dubbi portano per mano esattamente dove vuoi tu. La tua poesia è un giardino in autunno piena di colori il rosso - con il giallo - diventa arancio profumato tramonto che tocca il cielo blu. La vedo - la tua scrittura – la sento mentre cammino tra le foglie secche e stropicciate fa un rumore caldo che mi diverte assai e di più. Cara W. Nei tuoi granelli di realtà guardo il mondo come in una lente d’ingrandimento. Mentre qualcuno si allaccia le scarpe Percepisco il tuo sgomento l’altro usa lo spazzolino per lucidare il tintinnio delle monete. Oggi mi leggi la mano io ascolto il tuo tocco leggero allora mi addormento. Elena Bellantoni Berlino, 1 febbraio 2012 muore Wisława Szymborska


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Parole Erranti

Parole Migranti

Elena Bellantoni

Errare

Emigrare

Vagare qua e là

Migrare

Immaginare

Cambiare Lasciare

Errare dal vero Errata corrige

Movimento migratorio

Erratico

Catena migratoria

Errabondo

Popoli migratori Migrazione dei poli

Vagabondare Peregrinare Perdersi Stella errante Cavaliere errante Sguardo errante

Il grande esodo Lavoratore esodato Esodo di capitali Esodo di opere d’Arte Diaspora Dispersione

Randagio il cammino

Seminare qua e là

Vaghe le parole

Diasporo

Instabile il pensiero Così mi trovo in amorosa erranza Raminga di te.

Io me ne vado Tu migri Lui scappa Lei lascia Noi ci trasferiamo Voi che fate? Loro restano, migrabondi.


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