August Sander

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August Sander Fotografi a,

archivi o e conosce nza

Barbara Fässler

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• Premessa

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• Introduzione 15 • Fotografia e conoscenza: il ruolo del documento e la sua presunta obiettività 29 • Vedere, osservare e pensare: l’aspetto epistemico nell’opera di August Sander 41 • Le tipologie: un uso diverso dell’immagine, un metodo scientifico, oppure una forzatura? 67 • Il ritratto un metodo per fissare il tempo, una messa in scena o un volto con tante verità? 81 • L’archivio: una tecnica amministrativa, una funzione ambivalente o un metodo gnoseologico? 91

Conclusione 99 Bibliografia 109



Premessa

di Paolo Spinicci

La natura della fotografia racchiude in sé, fin dalle sue origini, una promessa che non è in grado di mantenere, se non in parte, e un compito cui si vorrebbe potesse assolvere, ma che non può essere interamente soddisfatto. Quale sia questa promessa e quale questo compito è presto detto: quando dagherrotipi e calotipie mostrarono che un’immagine poteva garantire una ricchezza di dettagli mai vista prima e che non vi era aspetto di primo acchito insignificante che non lasciasse la sua traccia, subito si comprese che alla fotografia poteva spettare un compito di natura conoscitiva e riproduttiva insieme e che le immagini fotografiche promettevano di ripetere senza incertezze il reale, di fissarlo una volta per tutte nella sua infinita ricchezza. Di qui il compito conoscitivo che poteva essere loro assegnato: le immagini fotografiche promettevano di restituire la realtà nella sua esattezza, separandola tuttavia dal gioco dei contesti e delle circostanze accessorie e, soprattutto, dalla volatilità del suo manifestarsi. Non solo: le fotografie promettevano da un lato di saper tacitare la rete delle emozioni individuali e momentanee che sorreggono ogni singolo sguardo, dall’altro di essere capaci di registrare i singoli eventi nella loro assoluta individualità, per poterli poi esaminare con calma, un po’ come si possono osservare con calma al microscopio i preparati che si dispongono sui vetrini. Insomma: le fotografie sembravano consentire di dare all’esperienza nella sua accidentalità e nella sua natura effimera la forma pacata dell’esperimento. Il grande specchio della conoscenza

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Bauernfamilie, 1913/14 [Famiglia contadina]


Introduzione

«I fotografi che vogliono ordinare e strutturare la realtà fecero blocco [...] dietro 
la nozione di ‘modo di vedere fotografico’: secondo loro, la fotografia poteva rivelare la dignità e l’armonia inerenti qualsiasi oggetto comune, qualsiasi frammento 
della natura; era una dissertazione sul reale». Rosalind Krauss1

La fotografia, a patto di essere organizzata da un concetto preciso cui segue una raccolta che trova un ordine sistematico, ha davvero il potere di accrescere le nostre conoscenze? Esiste un nesso tra la fotografia come medium della percezione e strumento di registrazione da un lato, e una forma di sapere intesa come processo ordinante, dall’altro? Possiamo parlare di un percorso gnoseologico legato alle immagini nel momento in cui queste si presentano in una forma organizzata da categorie precise? Sarebbe quindi sufficiente creare dei cassetti ed appiccicarci delle etichette con dei termini, per sollevare dei frammenti strappati dal mondo sensibile al cielo delle idee e dare all’impronta di un qualsiasi oggetto insignificante valore scientifico? Per indagare il suddetto quesito, vorrei tentare il seguente metodo: vorrei sovrapporre i due perni della mia domanda, la teoria della fotografia e la teoria della conoscenza, e vedere se le loro forme – oppure se le forme delle loro parti costituenti – corrispondano o si somiglino. Vorrei quindi cercare di individuare e, in seguito, di paragonare i meccanismi del processo fotografico da un lato, e del processo conoscitivo dall’altro, sperando di riuscire a circoscrivere, o per lo meno, ad elencare delle argomentazioni che sono a favore o contro il problema che mi sono posta.

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In realtà, gli elementi in comune tra fotografia e conoscenza sono parecchi. In entrambi i casi, la vita si presta come campo d’indagine. Gli oggetti estrapolati dalla realtà circostante si ordinano seguendo dei criteri precisi, in categorie definite a partire dal materiale empirico rilevato. Nelle scienze questo metodo, chiamato "induzione", definisce i termini delle categorie, analizzando gli individui trovati. Questo procedimento si contrappone al metodo deduttivo, che basa la sua ricerca di materiali sulla definizione dei concetti stabilita in anticipo. In altre parole: mentre nell’induzione, la teoria si costituisce dopo l’analisi degli oggetti dell’esperienza, nella deduzione si cercano gli elementi corrispondenti ad una ipotesi preliminare. La fotografia si serve di entrambi questi metodi: prima parte con l’induzione, poi definisce le categorie della ricerca e finalmente può tornare di nuovo sul campo, per cercare degli oggetti aggiuntivi che arricchiscano o completino la collezione. Siccome sia la conoscenza, che la fotografia si basano su materiale empirico rilevato dal mondo circostante, potremmo dire che entrambi strappano dei frammenti dal mondo dell’esperienza che sottomettono di seguito ad una particolare analisi. Ora, ogni appropriazione dall’esterno implica un processo di selezione – consapevole o inconsapevole che sia. Chi sceglie è, ovviamente, un soggetto: nella ricerca scientifica, lo scienziato, nella fotografia, il fotografo. Ogni scelta implica – a sua volta – un punto di vista dell’autore e ogni punto di vista implica una presa di posizione, non soltanto fisica e spaziale, ma ugualmente ermeneutica. Ogni direzione dell’obiettivo, ogni posizione dello zoom – e nelle scienze, ogni decisione se rilevare proprio questo sasso qui, piuttosto che quello di fianco, ha delle conseguenze precise sul significato del risultato. Un altro elemento in comune è la nozione di obiettività e, sia nella storia della scienza che in quella della fotografia, in effetti, questo discorso è di fondamentale importanza. Dal momento in cui il soggetto percipiente e la sua visuale acquisiscono una rilevanza cruciale nella costituzione dell’indagine e del suo senso, si introduce la nozione di soggettività e quindi


di relatività che mette – per forza di cose – in questione l’idea di oggettività imparziale. In entrambe le discipline, possiamo trovare – tuttora – da un lato persone che difendono l’esistenza di un’obiettività assoluta e dall’altro lato, invece, fautori della sua impossibilità, dovuta, secondo questi, proprio al punto di vista cangiante di ogni soggetto percipiente. Nella storia della filosofia – o meglio nella teoria della conoscenza – la svolta che porta l’interesse dall’oggetto da indagare al soggetto che indaga, comincia nel Seicento con gli empiristi inglesi, i quali si accorgono del ruolo cruciale che svolge la percezione umana nel processo conoscitivo. In seguito, la rivoluzione copernicana di Kant nel XVIII sec., sposta l’attenzione dall’oggetto empirico al soggetto percipiente. Per Kant, «la cosa in sé» – indipendente dallo sguardo del soggetto – non è conoscibile. Circa cento anni dopo, la teoria della relatività mette in forse radicalmente l’esistenza di un risultato scientifico che non sia stato influenzato dalla presenza di un soggetto, in questo caso lo scienziato. La fenomenologia husserliana, a sua volta, riprende all’inizio del Novecento, la problematica della certezza nella conoscenza, mettendo tra parentesi (epoché) tutto il nostro sapere presunto, classificandolo come preconcetto e considerandolo un ostacolo alla vera conoscenza basata su un fondamento sicuro e indubitabile. Il relativismo soggettivo viene a giocare un ruolo importante in un ulteriore elemento comune tra fotografia e conoscenza: il momento in cui – nel processo epistemologico o nel lavoro fotografico – si ordinano gli oggetti ricavati dal mondo empirico, secondo delle categorie, quando di conseguenza si archiviano i saperi, seguendo delle voci particolari di catalogazione. Chiaramente, anche nel processo di archiviazione c’è chi decide quali materiali salvare per l’umanità e quali, invece, abbandonare all’oblio per sempre. Il meccanismo della scelta ci porta anche qui in direzione del versante soggettivo e relativistico, e ci allontana dall’idea che possa esistere un’obiettività assoluta, rappresentata dalla collezione di un archivio (indipendentemente dal fatto che sia statale, scientifico o

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Instaurando delle categorie, tuttavia, August Sander sembra spostarsi su un altro piano di lettura e di uso dell’immagine: anziché rappresentare una persona nella sua unicità, specificità e irripetibilità, cerca di avvicinarsi – sempre utilizzando il ritratto di una persona concreta – a una nozione astratta, cioè a un genere sociale, e così facendo, si sposta verso un significato ben diverso. Il contadino diventa rappresentante di tutta la classe dei contadini, l’individuo sta per un tipo e sparisce in quanto singolo con un nome, cognome e una sua particolare storia personale. Il senso delle categorie sanderiane non è stato percepito univocamente, tutt’altro: c’è chi lo vede come grandiosa testimonianza strutturale di un mondo destinato a sparire presto nella catastrofe della seconda guerra mondiale (Walter Benjamin) e chi, invece, lo percepisce come tipizzazione sociale che tende a una drammatica semplificazione facilmente sfruttabile ideologicamente (Allan Sekula). Prima di tutto viene da chiedersi se davvero le categorie siano in grado di insegnarci qualcosa sul nostro mondo o se, piuttosto, sforzando il senso di lettura (delle immagini) in tipologie rigide, non si cancellino delle sfumature ricche di significato che si possono trovare soltanto nella polivalenza del singolare e nella complessità imprevedibile di un fenomeno che appare in vari modi ad un individuo percipiente. August Sander stesso si vede come parte di un processo di continuo mutamento e intende le categorie piuttosto come linee guida per guadagnare una visione d’insieme in un mondo complesso ed eclettico. Gli Uomini del Ventesimo Secolo si tramutano così – naturalmente direi – con il passare del tempo, in testimonianza storica, e le categorie nel disegno di una società irrimediabilmente persa. Il progetto di August Sander, che cercava di venire a capo della società che lo circondava, attraverso la creazione di un ordine categoriale di tipi, in fondo era un tentativo gnoseologico di fissare un’immagine del suo tempo per l’archivio dell’umanità. Ma questo tentativo di rinchiudere l’esperienza polivalente del mondo sensibile entro categorie unilaterali


Boxer, 1929


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Werkstudenten, 1926 [Studenti lavoratori]

nostra percezione. Mentre per Platone la conoscenza non poteva essere altro che ideale e alle immagini spettava un ruolo di copia della copia delle idee, più tardi, ad esempio nell’Encyclopédie le immagini furono parte integrante di un’idea sistematica e scientifica del sapere. Possiamo quindi notare un passaggio da una concezione fondazionalista e positivista da un lato – imbevuta della fede in un sapere sicuro e stabile con un fondamento solido – ad una concezione del sapere che si muove per analogie, dall’altro: un montaggio di tanti tasselli mobili e spostabili che permette diversi punti di vista. Come nota Benjamin Buchloh: «In effetti viviamo – negli anni Venti – uno spostamento verso le forme archiviali e mnemotiche della collezione fotografica, che diventerà episteme fondamentale di un’estetica radicalmente diversa: il fotomontaggio»4.


Da queste considerazioni generali sull’avvenire della conoscenza, l’implicazione del rapporto tra l’Io percipiente e il mondo oggettivo, su come ci appropriamo di oggetti della conoscenza che ci appaiono (fenomenologicamente), ma ugualmente su come avviene poi il processo di ordinamento intellettivo (archivio) oppure associativo (atlas), potremmo ricavare dei termini e dei funzionamenti che sono fortemente affini alla fotografia. Anzi, per descrivere cosa avviene quando faccio una fotografia e ciò che succede dopo con queste immagini, quando le incollo in un album o le ordino dandole un nome con qualche programma del mio computer, potremmo utilizzare dei termini simili. Per fotografare devo percepire qualcosa, devo decidere di scattare l’otturatore proprio in direzione di questa cosa, decidere la distanza, la profondità di campo, le luci finché «ritaglio» l’oggetto dal reale e produco la mia fotografia. Di seguito creo un archivio dei miei scatti e per fare ciò creo delle cartelle, alle quali darò un determinato nome. Sto quindi archiviando con delle categorie degli oggetti presi dal mio mondo della vita dopo che sono apparsi alla mia coscienza. L’affinità ipotetica di questo procedimento con il processo conoscitivo, evidenziato da Kant in poi, potrebbe indicare quindi che la fotografia sia, come dice Rosalind Krauss, «una dissertazione sul reale» e, in caso di risposta positiva, potrebbe essere uno spunto per cercare di capire di quale tipo di conoscenza si stia parlando5. 1. Krauss Rosalind, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1996, p. 162 2. Ebeling Knuth e Günzel Stephan, Archivologie, Kulturverlag Kadmos, Berlin, 2009, p. 12 (trad. dell'autore) 3. Didi Huberman Georges, Atlas, How to carry the World on one’s Back? Catalogo Reina Sofia, ZKM Karlsruhe, SF Hamburg, 2010, p. 15 (trad. dell'autore)

4. Buchloh Benjamin H. D., Gerhard Richters Atlas. Das Anomische Archiv, in Wolf Herta, Paradigma Fotografie, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2002, p. 413, (trad. dell'autore) 5. Krauss Rosalind, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1996, p. 162

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Nationalsozialist, um 1935 [Nazionalsocialista]


1. Fotografia e conoscenza: il ruolo del documento e della sua presunta obiettività

«Il buon fotografo è colui il quale sa mentire bene la verità». John Fontcuberta, Il bacio di Giuda, 19966 «Tutta l’arte è manipolazione, fare fotografie in bianco e nero è manipolazione, ma prima di tutto questo la vera prima forma di manipolazione è il vedere». Hiroshi Sugimoto, Dichiarazioni, 19977

Per districare i fili della tesi, secondo cui davvero la fotografia – in veste sistematica – potrebbe avere una qualche voce in capitolo in merito al processo conoscitivo, vorrei innanzitutto esaminare i concetti che stanno alla base sia di alcune teorie della conoscenza che di alcune teorie della fotografia: la nozione di obiettività e il ruolo del documento. Non a caso, la fotografia nasce insieme al positivismo: «…l’investigazione che ha luogo nell’Ottocento è promossa da un impetuoso sviluppo delle scienze, che richiede un sistema di rappresentazione più rapido ed esatto»8, ed entrambi partono dal presupposto – in seguito largamente contestato – dell’esistenza di un mondo oggettivo in grado di dire la verità e di dare un fondamento assolutamente certo alle nostre conoscenze. Il dibattito sull’obiettività accompagna la nostra storia umanistica da parecchio tempo come ci fa notare ironicamente Peter Galison: «Obiettività è un concetto di lotta che si evita, si coccola, si perseguita e si difende: lunedì significa realismo, mercoledì certezza, venerdì intersoggettività e domenica verità» (Urteil gegen Objektivität)9. L’idea di un sapere oggettivo, è stata in parte criticata dagli empiristi e da Immanuel Kant, i quali spostano l’attenzione dall’oggetto della conoscenza al soggetto conoscente: secondo loro non ci può essere conoscenza senza un individuo che percepisce ciò che gli appare dal mondo oggettivo. Per

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Politiker der Linken (rechts Erich MĂźhsam), 1929 [Politici di sinistra (a destra Erich MĂźhsam)]


Dove vogliamo arrivare? Cosa c’entra tutto ciò con la fotografia? Sentiamo Susan Sontag: «Si riteneva che il fotografo fosse un osservatore acuto, ma imparziale; uno scrivano, non un poeta. Ma quando la gente scoprì, e non le ci volle molto, che nessuno fotografa nello stesso modo una stessa cosa, l’ipotesi che le macchine fornissero un’immagine impersonale e oggettiva dovette cedere al fatto che le fotografie non attestano soltanto ciò che c’è, ma ciò che un individuo ci vede, che non sono soltanto un documento, ma una valutazione del mondo»10. La fotografia ripropone a modo suo e, diciamo, con l’aggiunta di un marchingegno che s’infila tra i nostri occhi e il mondo della vita, una problematica come quella della conoscenza che abbiamo appena discusso. Come nasce l’idea di un’imparzialità e di un’obiettività nella fotografia? Considerata da Talbot – l’inventore del calotipo – pennello della natura, la fotografia dipingerebbe, come se fosse uno strumento magico, ciò che le capita davanti all’obiettivo. La fotografia sarebbe quindi per l’appunto, come sottolinea Susan Sontag, un puro strumento d’esecuzione (scrivano) e non potrebbe allora essere considerato uno strumento di creazione poetica. In realtà, il discorso sulla pretesa d’obiettività nella fotografia nasce in contemporanea alla sua invenzione nel 1837 (non esiste teorico che non tocchi l'argomento) e ciò per un motivo molto semplice: la fotografia è tecnicamente un’impronta. Paolo Spinicci, puntualizza questo legame fondamentale: «Le fotografie sono nella norma immagini che ci parlano del mondo e che in questo loro rimando denotativo sono senz’altro sorrette da ciò che sappiamo relativamente alla loro genesi: le fotografie non sono soltanto raffigurazioni, ma nella norma sono anche tracce di in evento accaduto, impronte che ci parlano di una presenza che è stata»11. Il nesso fisico con gli oggetti del mondo assicurerebbe alla fotografia un’obiettività assoluta: un’impronta non può mentire, ma dice per forza e sempre la verità: quella verità di ciò che materialmente ricalca. Rosalind Krauss lo spiega da un punto di vista semiologico: «La fotografia è dunque geneticamente diversa dalla pittura, dalla scultura o dal disegno; nell’albero

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6. Valtorta Roberta, Il pensiero dei fotografi, Pearson Paravia Bruno Mondadori, 2008, p. 213 7. Valtorta Roberta, Il pensiero dei fotografi, Pearson Paravia Bruno Mondadori, 2008, p. 214 8. Valtorta Roberta, Il pensiero dei fotografi, Pearson Paravia Bruno Mondadori, 2008, p. 16

14. Blossfeldt Karl, Alphabet der Pflanzen, Schirmer/Mosel, MĂźnchen, 2007, Gert Mattenklott, p. 9, (trad. dell'autore) 15. Krauss Rosalind, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1996, p. 137 16. Sontag Susan, Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2004, p. 81

9. Wolf Herta, Diskurse der Fotografie, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2003, p. 384 (trad. dell'autore)

17. Walker Evans & Company, catalogo Museum of Modern Art, MoMA 2000, p. 14 (trad. dell'autore)

10. Sontag Susan, Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2004, p. 77

18. Valtorta Roberta, Il pensiero dei fotografi, Pearson Paravia Bruno Mondadori, 2008, p. 111

11. Spinicci Paolo, Simile alle ombre e al sogno, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p. 55 12. Krauss Rosalind, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1996, p. 115 13. Sontag Susan, Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2004, pp. 103104

19. Valtorta Roberta, Il pensiero dei fotografi, Pearson Paravia Bruno Mondadori, 2008, p. 115


2. Vedere, osservare e pensare: l’aspetto epistemico nell’opera di August Sander

«L’essenza della fotografia è di genere documentario [...] dipende meno dalle regole estetiche, dalla forma esteriore e dalla composizione che dal significato di ciò che è rappresentato. Nonostante ciò, si possono legare entrambi i principi: l’estetica con la fedeltà documentaria nella loro applicazione in diversi ambiti». August Sander, Sehen, Beobachten und Denken20 «Ma anche la fotografia non è sempre obiettiva, ciò dipende dalla regolazione dell’apparecchio e dall’onestà dell’autore, per il quale l’inganno dello spettatore è altrettanto possibile, come la riproduzione esatta degli oggetti». August Sander, Menschen des 20. Jahrhunderts21

La domanda sulla capacità della fotografia di raffigurare in maniera obiettiva e dunque di dire la verità, ci porta ad analizzare un’opera di primaria importanza nella storia della fotografia, per la sua forza concettuale, la sua ampiezza quasi illimitata e la sua bellezza formale. August Sander, nato 1876 a Herdorf, un piccolo paesino del Westerwald, nella Renania-Palatinato in Germania, ha dedicato tutta la sua vita alla fotografia. Figlio di un carpentiere, impiegato nell’industria mineraria, August imparò il mestiere, dapprima accompagnando il fotografo dell’azienda mineraria, datore di lavoro di suo padre, e in seguito come autodidatta. Lo zio gli aveva regalato la prima attrezzatura fotografica e l’infrastruttura per la camera oscura. Per approfondire le sue conoscenze in materia, August Sander svolse addirittura il suo servizio militare dal 1897 al 1899 come assistente di un fotografo. Dal 1901 lavorava per uno studio fotografico a Linz, del quale diventò socio e in seguito proprietario. Nel

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nostri sensi dal mondo empirico. Il procedimento di August Sander, quindi, assomiglia ad un percorso scientifico: in seguito alla raccolta, in un processo di astrazione, egli estrae dei termini universali dal materiale individuale. Simile al metodo induttivo usato nelle scienze sin dall’antichità, si ottengono delle conoscenze generali dal materiale particolare del mondo sensibile. Susan Sontag ne parla in questi termini: per la teorica americana, il progetto sanderiano è «fotografia come scienza» e «parte dal corretto presupposto che la macchina fotografica non può fare a meno di rivelare i visi come maschere sociali». Ed è proprio perché Sander fotografa i suoi soggetti con la massima imparzialità e distanza emotiva possibile, che «nonostante il suo realismo classista è uno dei corpus più astratti dell’intera storia della fotografia»24. In effetti, la sensazione d’astrattezza nasce dal fatto delle categorie (sette gruppi contenenti in totale quarantacinque cartelle) e dalle didascalie che modificano profondamente il senso di lettura delle immagini, sollevandola di un piano. Non parliamo più di questa persona precisa che si trovò davanti all’obiettivo nel momento in cui è stato schiacciato l’otturatore – ad esempio Erich Sander, il figlio dell’autore – ma la dicitura indica che vediamo raffigurato un Philosophiestudent (uno studente di filosofia). L’immagine della sua maschera di morte (non a caso l’ultima fotografia del libro), invece, fotografata dal padre dopo la tragica fine di Erich in prigione, è etichettata secondo ciò che realmente è: la maschera mortuaria di Erich Sander. Così, potremmo continuare a fantasticare, nell’immagine in cui non vediamo alcuna maschera, essa si trova nella didascalia con la funzione precisa di applicare una tipologia al soggetto raffigurato. Totenmaske von Erich Sander, 1944 [Maschera di morte di Erich Sander]


Philosophiestudent, 1926 (Erich Sander) [Studente di filosofia]


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ritratto di Raoul Hausmann, etichettato come Inventore e Dadaista. Con questo esempio August Sander ci mostra la sua capacità di utilizzare le proprie categorie anche in maniera ironica e, inoltre, riesce a creare dei passaggi morbidi tra le classi che potrebbero sembrare, di primo acchito, rigidi e inflessibili. La terza sezione La donna (Die Frau) tradisce l'anima socialdemocratica dell’autore: certamente ci può sembrare strano che alle donne si dedichi un gruppo a parte e agli uomini no, ma pensandoci bene, ciò dipende dal semplice fatto che tutti gli altri gruppi sono dedicati ai maschi. Ovviamente, se si partisse da una situazione di parità, tutti i tipi dovrebbero rappresentare metà donne e metà uomini, ma negli anni Venti del Novecento, già il semplice fatto di aver creato una mappa appositamente per le donne, era dimostrazione sufficiente di una mentalità molto avanzata per l’epoca, (non a caso, August Sander faceva parte del gruppo Artisti progressisti di Colonia). Il gruppo apre con la mappa Die Frau und der Mann, dove mogli e compagne sono ritratte vicine ai loro uomini, c’è chi si appoggia, chi si abbraccia o chi semplicemente si tocca, come se August Sander facesse fatica a dare veramente spazio all’altra metà del pianeta. Poiché le immagini delle coppie d’artisti sono davvero molto belle, perdoniamo questa partenza troppo timida verso un mondo diviso in maniera equa tra i sessi. La Coppia di architetti Lüttgen oppure quella di Martha e Otto Dix sono ritratte in un piano ravvicinato e brillano con contrasti e sfumature dettagliate. Nella composizione più ricercata delle altre, i due corpi sono sovrapposti e il fatto di raffigurare una testa di lato e l’altra frontalmente, crea una forte tensione formale che forse riprende la tensione tra i sessi in quanto tale. La mappa successiva, denominata La madre e il bambino, invece, riesce a sorprenderci per la somiglianza che si disegna tra la genitrice e il suo frutto. Simile al ritratto bellissimo che Mario Dondero fece di Pier Paolo Pasolini e sua madre, è sempre toccante scoprire i lineamenti simili tra persone di sesso, di contesto di vita e di età così diversi.


3. Le tipologie: un uso diverso dell’immagine, un metodo scientifico, oppure una forzatura?

«Dal momento che ogni foto è contingente [...], la fotografia può significare (definire una generalità) solo assumendo una maschera. Questa è la parola che giustamente Calvino usa per designare ciò che fa d’un volto il prodotto di una società e della sua storia». Roland Barthes28

A mio parere, Roland Barthes ci dice qui, in maniera piuttosto diretta, che la fotografia non è di per sé in grado di elevarsi ad un significato universale e quindi, in mancanza di un’aggiunta, questo medium è sostanzialmente condannato a parlare un linguaggio che conosce soltanto la forma singolare. Torniamo a guardare ancora una volta da più vicino il progetto di August Sander e concentriamoci ora su come lui gestisce il sistema di tipologie che si appoggia come una griglia sopra i personaggi che ritrae. Non è difficile rendersi conto che le centinaia di fotografie ci mostrano delle persone, in carne e ossa, che si trovarono – ad un certo momento e in un determinato luogo – davanti alla sua macchina fotografica: chi si presenta in vestiti strappati e sporchi, chi nel costume della domenica, chi è segnato da rughe profonde e chi invece ha la pelle liscia della giovinezza, chi porta baffi o barba, chi si stira in una posa elegante e chi, piuttosto, si mostra così come lo avremmo potuto incontrare se, per caso, fossimo passati di lì in quegli anni. Quello che le immagini fanno vedere è da un lato, sempre una o più persone, riprese spesso frontalmente, nel loro essere concreto e particolare in quel momento in quel luogo. Dall’altro lato esse ci mostrano delle scelte determinate compiute dall’autore: posizione, punto di vista, composizione, fuoco, contrasto e così via. Quello che «solleva», semmai, questi volti ad un altro livello significante, vale a dire l’elemento che realmente riesce a

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designare un tipo sociale, è quasi esclusivamente la parola aggiunta. La didascalia inventata dall’autore dichiara che nella fotografia sono ritratti un magistrato, un pastore, un’attrice, una madre, piuttosto che un artista del circo oppure un pasticciere. Certo, qualcuno degli innumerevoli personaggi che popolano il mondo di August Sander, tiene in mano un attrezzo di lavoro che tradisce la sua attività quotidiana, e in altri casi se ne decifra l’identità dallo stato delle mani o dall’ambiente di vita nel quale si è fatto immortalare. Nella maggioranza dei casi, però – se ci priviamo della lettura della didascalia – possiamo al massimo supporre in maniera approssimativa di quale classe sociale si potrebbe trattare, ma all’interno dello strato medio-alto della società, come distinguere un teologo da un ipnotizzatore, un imprenditore da un drammaturgo, piuttosto che la moglie dell’architetto dalla segretaria eccentrica, se tutti sono ritratti seduti e leggermente girati di tre quarti? Ed è esattamente in questi casi che entra in funzione ciò che Roland Barthes intende con maschera – potremmo anche chiamarla etichetta – che assegna, tramite la denominazione di una specie, valore universale ai volti sempre individuali che si mettono in scena davanti ai nostri occhi increduli. Per Paolo Spinicci, è l’uso che facciamo delle immagini che determina il loro senso. Mettiamo che queste figure non fossero pensate per rappresentare la casta della propria professione, ma un personaggio mitico, come ad esempio nelle raffigurazioni religiose: «[...] che Piero della Francesca si sia servito di una particolare modella per dipingere la Madonna di Senigallia è un fatto irrilevante per decidere di chi ci parli quel quadro. [...] Nel dipinto di Piero vi è Maria che regge in braccio il figlio benedicente. Questo è ciò che vediamo. [...] Ciò che fa di un’immagine un ritratto è l’uso che ne facciamo e che possiamo farne in accordo con una consuetudine»29. In questo caso non usiamo il quadro di Piero come un ritratto di questa bella ragazza umbra che vediamo qui raffigurata con un bambino nel in braccio, ma come un’icona religiosa, che ci racconta la storia del figlio di Dio con la sua immacolata madre.


Politischer Häftling, 1943 [Prigioniere politico, Erich Sander]


Maler, 1924 (Gottfried Brockmann) [Pittore]


4. Il ritratto: un metodo per fissare il tempo, una messa in scena o un volto con tante verità?

«Il ritratto fotografico, [...] sempre interessante e particolare, muta il senso dell’esistenza della persona e della sua appartenenza alla storia, nutre la memoria, solidifica in immagine l’identità, agisce sottilmente sulla percezione della morte, concedendo a ogni uomo un indiretto sentimento di immortalità prima sconosciuto». Roberta Valtorta35

Dopo le riflessioni sulla nozione di obiettività, l’analisi della raccolta fotografica, Menschen des 20. Jahrhunderts, e il breve excursus sull’uso delle tipologie e le sue potenzialità come metodo scientifico, mi sembra ora opportuno concentrarsi sulla grammatica del genere che sta alla base dell’opera di August Sander: il ritratto. Vorremmo provare a capire come la teoria del ritratto definisca il genere, se questa specie di raffigurazione possa avanzare delle pretese di verità, se, inoltre, si tratti di costruzioni artificiali oppure se queste immagini riescono a fungere da strumento mnemonico che ci restituisce degli strappi da tempi e spazi remoti. Abbiamo detto prima che le immagini di August Sander, in concreto e private delle didascalie, esibiscono degli individui (e non degli universali) e questa idea del particolare è strettamente legata al genere del ritratto (escluso il caso dell’allegoria). Vediamo delle persone raffigurate frontalmente, e il forte accento sull’individualità sottolinea la loro unicità e irripetibilità: dicevamo con Roland Barthes, che la grammatica della fotografia conosce soltanto la forma del singolare. La fotografia è un mezzo potente per conservare e riportarci la stoffa sensibile dal passato, laddove i nostri ricordi si fanno ormai slavati dal tempo irrimediabilmente trascorso. Non a caso, essa fu chiamata Lo

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Junger Photograph, 1929 (Gunther Sander), [Giovane fotografo]


5. L’archivio: una tecnica amministrativa, una funzione ambivalente o un metodo gnoseologico?

«In effetti, l’archivio non si colloca tra il mondo passato e la lettura attuale in quanto «autore», ma come strutturazione e prefigurazione; la conoscenza della realtà è una funzione della sua classificazione, che si pone come una rete tra il mondo e la sua percezione e che rende entrambi comprensibili a livello linguistico. Non traduciamo la realtà in una classificazione, ma la forma classificatrice stessa conferisce chiarezza alla realtà». Luis Costa Lima43

I ritratti – e quelli di August Sander non fanno eccezione – non possono pretendere di portare alla luce una verità unica, ma le verità dei volti si articolano al plurale. Dobbiamo ora chiederci quale sia, per davvero, l’intento di Sander. La sua preoccupazione primaria non sembra quella rinascimentale di fare emergere l’anima vera dei suoi soggetti e scoprire le verità nascoste dietro ai volti che ritraeva, attraversando la Repubblica di Weimar da cima a fondo. La sua ricerca puntava in un’altra direzione: egli cercava, attraverso le immagini degli individui, di esprimere una generalità, un valore universale. August Sander era alla ricerca di un qualacosa che si potrebbe definire ideale, in modo forse ingenuo: egli voleva dipingere un quadro dell’umanità in quanto tale, articolato con tutti gli strati e le sfaccettature che la costituiscono e ciò – lo abbiamo visto – tramite la creazione di tipologie, partendo dall'osservazione acuta e concreta sul campo. Le tipologie, tra l’altro, avevano una doppia funzione: dapprima Sander le estraeva dall’analisi dei singoli elementi e, in secondo luogo, una volta costituite le categorie e le sottocategorie, capitava che il fotografo si avviasse alla ricerca in strada di personaggi che mancavano nel suo puzzle gigantesco. Il

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Gastwirt, um 1925 [Il locandiere]


Conclusione

«L’inventario è cominciato nel 1839 e da allora è stato fotografato quasi tutto, o almeno così pare. E questa insaziabilità dell’occhio fotografico modifica le condizioni di prigionia in quella grotta che è il nostro mondo. Insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare. Sono una grammatica e, cosa ancor più importante, un’etica della visione. [...] la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini». Susan Sontag57

La fotografia si presta come medium meccanico, a raccogliere dei frammenti dal mondo dell’esperienza, e quindi, a creare un gigantesco inventario – l’archivio, da canto suo, ha incontestabilmente una voce importante in capitolo nella costituzione dei saperi, non solo perché cova i tesori del passato, ma, lo abbiamo visto, perché contribuisce a costruire, attraverso le sue categorie a sua volta «il reale» – analogo alla fotografia con il suo flusso d’immagini. «La realtà può essere mostrata solo se viene costruita»58, ci dice il fotografo Andreas Gursky e la valenza di questa frase non si limita al processo fotografico, al quale l’autore si riferisce, ma si può intendere ugualmente per il processo conoscitivo oppure, lo abbiamo visto nell’ultimo capitolo, per il processo archiviale. Fotografia, conoscenza e archivio si trovano nella morsa di un meccanismo paradossale molto simile: da un lato lavorano con i materiali empirici trovati nel nostro mondo della vita, e dall’altro lato contribuiscono tramite la loro attività a costituire questo stesso mondo o meglio il modo in cui noi lo percepiamo e lo pensiamo. Le scelte che si compiono, nel

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Bib liografia

Barthes Roland, La camera chiara, Einaudi, Torino 1980 Bologna Marco, Archivistica, schemi e materiali, Cuem, Milano 2005 Blossfeldt Karl, Alphabet der Pflanzen, Schirmer/Mosel, München 2007 Ebeling Knuth e Günzel Stephan (a cura di), Archivologie, Kulturverlag Kadmos, Berlin 2009 Ernst Wolfgang, Das Rumoren der Archive, Ordnung aus Unordnung, Merve Verlag, Berlin 2002 Didi Huberman Georges, Atlas, How to carry the world on one’s back? Catalogo Reina Sofia, ZKM Karlsruhe, SF Hamburg 2010 Krauss Rosalind, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 1996

Sander August, Sehen, Beobachten und Denken, Schirmer/Mosel, München 1990 Sander August, Menschen des 20. Jahrhunderts, Schirmer/Mosel, München, 2010 [ed. italiana: Uomini del Ventesimo Secolo, Abscondita, Milano 2012] Sontag Susan, Sulla fotografia, Einaudi, Torino 2004 Spinicci Paolo, Simile alle ombre e al sogno, Bollati Boringhieri, Torino 2008 Spinicci Paolo, Il ritratto e la caricatura, Cuem, Milano, 2008 Valtorta Roberta, Il pensiero dei fotografi, Pearson Paravia Bruno Mondadori, 2008 Wolf Herta, Paradigma Fotografie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2002

Sander August, Antlitz der Zeit, Schirmer/Mosel, München 1990

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