Lo sguardo dell’ascolto
La Sicilia e l’Olanda: realtà geografiche, paesaggistiche, sociali agli antipodi. La Sicilia: un variegato e colorato mosaico, composto da terre rigogliose ricoperte da alberi di ulivo e filari di vigne, giardini di aranci che profumano di zagare, coste di mare azzurro, meravigliosi fondali marini e poi l’Etna con i suoi strabilianti lapilli. Terra spesso lasciata all’incuria, mutilata dalla politica corrotta, da associazioni a delinquere che hanno lasciato ferite profonde nel tessuto sociale, ma i cui abitanti con perseveranza, orgoglio, hanno trovato il coraggio di reagire per poter risorgere. Terreno fertile anche e soprattutto nelle dinamiche sociali, nella storia politica e culturale, nei cortocircuiti passati e odierni. Luogo ancora da esplorare, da presentare e scardinare, la cui ricchezza infinita di Storia e di storie ha condotto Domenico Mangano a tenere gli occhi sempre ben aperti per cogliere e vivere la complessità del reale, registrare quei dettagli capaci di rivelare le estensioni del mondo, per poi dischiuderli attraverso le sue visioni tradotte con la telecamera, la pittura, la performance, la scultura.
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Così quando Domenico Mangano si trasferisce in Olanda, bramoso di conoscere questa nuova realtà, esplora il paese insieme a Marieke van Rooy: l’occhio esperto e acculturato di lei e quello digiuno, aperto, famelico e creativo di lui, vengono attratti in particolar modo da quei dettagli che, in verità, sono preziosi per interpretare la complessa sintassi su cui uno stato sociale si appoggia. A Veenhuizen, un piccolo villaggio, metafisico quasi, di circa ottocento abitanti nella provincia di Drenthe, nel nord dell’Olanda, gli artisti sono attratti da singolari scritte poste sulle facciate delle case: “Umanità”, “Educazione”, “Amore e lealtà”, “Ordine e disciplina”: sentenze morali, pesi della memoria, didascalie della Storia. Scavando nella passato del villaggio, scoprono che all’inizio del XVIII secolo fu costituita proprio a Veenhuizen, un insediamento abitativo nato come luogo di rieducazione per i poveri e i senza tetto. I derelitti che causavano fastidi nella grandi città, venivano allontanati e deportati a lavorare nelle torbiere. Successivamente il villaggio fu trasformato in una colonia penale. Inaccessibile fino al 1984, oggi è menzionato nella lista Unesco come patrimonio dell’umanità. Quello che rimane a Veenhuizen è un museo che documenta il trascorso dell’istituzione penitenziaria, insieme ad edifici, apparentemente ordinari, che riecheggiano con forza lo spettro del suo trascorso. Pochi al di fuori dell’Olanda conoscono la storia “scomoda” del villaggio che Domenico Mangano e Marieke van Rooy, ancora non associati
Veenhuizen Series, 2012, 12 stampe in bianco e nero su carta baritata, 75 x 50 cm, cad.
professionalmente, decidono di fare riemergere dal silenzio, portando consapevolmente a galla un tassello critico di uno stato politico. Gli artisti ritornano così a visitare Veenhuizen più volte, la documentano tramite la macchina fotografica e trasformano la sua storia nelle opere Veenhuizen (2012) e Werken is Leven (2013). Il paradossale e misterioso nonsense con cui vengono recepite le decine di moniti educativi, conduce gli artisti a riflettere sul concetto di appartenenza, di regola sociale, d’integrazione, di relazione tra identità personale e collettiva. Così, da una storia locale si evoca un pensiero critico più universale, facendo leva sull’immaginazione e la fantasia attraverso la realizzazione di un’opera che si colloca tra il surreale e il documentario.
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La storia di Mimmo, 1999/2000, video, 8 minuti
Già nel 1999 Domenico Mangano fa emergere la sua attitudine a esplorare e interpretare la diversità. La storia di Mimmo (1999), è un video di cui protagonista è lo zio schizofrenico dell’artista, leggendario e istrionico ex pescivendolo della Vucciria di Palermo. Il lavoro, oggi riconosciuto come traccia importante della storia della video arte in Italia, è un’intima panoramica di una giornata tipo di Mimmo che ripercorre le sue manie, i suoi riti, i suoi gesti ripetuti: una confessione che assume a tratti il carattere di esibizione, con un repertorio di eccentriche imitazioni. La storia di Mimmo racchiude la strada che l’artista ha poi intrapreso nella sua ricerca: raccontare attraverso uno sguardo “sfocato”, le anormalità e le alienazioni1. Se la carriera artistica di Domenico Mangano è costellata da personaggi ignorati e particolari trascurabili che la sua visione proietta nel regno della rappresentazione, Marieke van Rooy studia e elabora scientificamente la Storia reale per raccontare attivamente i movimenti culturali che hanno contributo a rivoluzionare un percorso politico specifico – nei suoi successi e nei suoi fallimenti – e a influenzare la storia delle persone. Per entrambi, partendo da una soggettività, il racconto si allarga alla comunità, divenendo, dunque, una narrazione collettiva. La sintesi tra l’io e il mondo è in grado di costruire un racconto di appartenenze e di immedesimazioni.
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Homestead Of Dilution, 2016, HD video, 48 minuti
Coscienti delle sfumature passate e presenti che inquadrano questa storia, gli artisti decidono di attivarsi e di avvicinarsi all’idea di “diluizione” con rispetto e tenacia nel corso della loro residenza. Questa volta l’esperienza è vissuta da tutta la famiglia Mangano-Van Rooy che porta a Het Vijfde Seizoen i due figli piccoli, Marinus e Beatrice. La clinica psichiatrica diventa la loro casa per un po’, come lo era stata per Muller, che fu nominato a soli ventinove anni il direttore di Dennendal portandosi dietro moglie e figli, la cui presenza ebbe un ruolo di fondamentale importanza per ottenere la fiducia dei pazienti e attuare la “diluizione”. A distanza di decenni la presenza del nucleo familiare sul campo aiuta nel processo di integrazione, allentando le barriere tra il concetto di normalità e follia. In fondo anche gli artisti con
i loro figli sono un po’ fuori dall’ordinario a Den Dolder e la loro presenza sorprendente. La loro casa-studio si apre e diventa inatteso luogo accogliente e conviviale, teatro di vivaci incontri. La fantasia al potere, etica sostenuta negli anni Settanta nella clinica, era ciò che volevano riavviare gli artisti, narrando la storia di Carel Muller agli ignari operatori della clinica, e portando i loro nuovi compagni-pazienti a raccontarsi, a rivelarsi e a ripensarsi. Contemporaneamente alle chiacchierate, agli incontri, ai pranzi e alle merende offerte nel loro studio, Domenico Mangano e Marieke van Rooy frequentano l’International Institute of Social History di Amsterdam, che ospita il più importante archivio in Europa sugli studi sociali e dove si trova la completa documentazione lasciata da Carel Muller
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Het Vijfde Seizoen Diary, 2015, serie di 15 disegni, grafite su carta intestata, 21 x 29,7 cm cad.
The Dilution Adhesives, 2017, serie di 77 adesivi, dimensioni variabili
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Donders, the Eternal Stone, 2017, scultura di marmo (180 x 50 x 12,5 cm.) presentata su due tappeti persiani, audio e diffusore sonoro direzionale
storia di Muller e van Klingeren relativo all’esperienza della residenza e accompagnato da una serie di inserti-lavori con The Dilution Adhesives (2017): adesivi che sono il risultato di una conversazione tra il materiale d’archivio raccolto all’Institute of Social History e l’esperienza contemporanea vissuta dagli artisti stessi, riflettendo così sulla connotazione propagandistica dell’adesivo come emblema anarchico della contro-cultura. Se Homestead of Dilution è un momento di studio, un lavoro di apertura e messa in discussione teorica e pratica del pensiero rivoluzionario di Muller, in When the Whistle Glares (2018), il terzo capitolo della saga, l’esperimento della “diluizione” viene portato a compimento dagli artisti. “Un giorno andremo in Jamaica”, diceva sempre lo zio Mimmo a Domenico. Chissà cosa vedeva nella Jamaica lo zio Mimmo. Chissà cosa rappresentava questa terra solare e lontana nel suo immaginario folle. Le previsioni di zio Mimmo si concretizzano – più o meno – quando nel 2016 Domenico Mangano e Marieke van Rooy partono per una nuova residenza, questa volta all’Instituto Buena Bista (IBB) a Curaçao un’isola delle Piccole Antille olandesi. L’Instituto Buena Bista è una scuola d’arte per giovani dai 15 ai 25 anni situato sul terreno della clinica psichiatrica Capriles, fondato e gestito dagli artisti David Bade e Tirzo Martha. L’istituto ha una vocazione rivolta all’impegno sociale con l’obiettivo di perseguire modalità di collaborazione, scambio e sviluppo. I pazienti della clinica partecipano regolarmente a workshop
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When the Whistle Glares, 2018, videostill
si trasferiscono nel mantello di un uomo che potrebbe essere uno sciamano ma che poi identifichiamo come paziente. Fino a questo momento non è ancora possibile distinguere gli abitanti dell’isola da quelli della clinica. È tutto a colori a Curaçao e sono tutti in mezzo alla strada: chi canta, chi danza, chi va sull’hoverboard, chi gioca a pallone, chi disegna. La normalità entra in clinica, portata dagli studenti, sotto una richiesta specifica da parte degli artisti. Non è chiaro quali gesti siano da inserire nell’immaginario dell’anormalità. I colori dei pastelli che disegnano sui fogli sono utilizzati indistintamente da pazienti e studenti, le mani che scolpiscono la creta, lavorano allo stesso modo; ad entrambi appartiene una follia creativa di fondo attraverso cui costituire un immaginario per affermarsi. Così ogni azione, anche quelle apparentemente più quotidiane,
assumono le sembianze di una performance. Le porte, i corridoi d’ospedale lasciano la strada a teli al vento, alberi, murales e piazzali dove hanno luogo i gesti spontanei. La differenza tra i padiglioni della clinica e quella della scuola è indistinta. A tratti compare un buco nel terreno, un braciere la cui fiamma perpetua sembra essere pronta ad accogliere un rituale magico. Quel pozzo infiammato, alimentato dal vento, è il luogo in cui la “diluizione” prenderà forma. Le mani che vediamo intente a scolpire trasformano la materia in strumenti dalle fisionomie fantastiche, specchi di se stessi e dei propri desideri, flauti magici che studenti e pazienti riuniti suonano in una cerimonia collettiva liberatoria a cui partecipano anche curatori, artisti, politici, insegnanti, scrittori dell’isola.
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Note 1. Come spiega Domenico Mangano: "Mi interessano da sempre le potenzialità immaginarie del vissuto quotidiano. Nei miei primi progetti, realizzati a Palermo, la registrazione in presa diretta, senza tagli e sporca, è stata spesso la mia arma preferita per raccontare dimensioni contrastate e grottesche. Questo metodo low-tech era, oltre che una necessità, il mezzo più puro per cogliere senza sconti il ventre, la grazia, le passioni e i fetori della Palermo di fine anni Novanta, una città stratificata e bizzarra. La Sicilia era inevitabilmente il mio scenario privilegiato, ma ho sempre trasposto la mia terra come una metafora allargata di tutti i "sud" del mondo. Le piccole realtà locali dove l’esperienza umana acquista il sapore universale della condivisione e della solidarietà erano – e spesso lo sono ancora – il mio spazio d’indagine preferito. Parlare di personaggi, ambienti, luoghi vuol dire, sul piano dei significati, indagare il rapporto tra individuo e realtà. Non dobbiamo dimenticare che un artista con in mano una videocamera ha un margine di potere sia nel decidere cosa filmare sia nel cosa mostrare al pubblico. Personalmente mi interessa l’idea di poter accompagnare lo spettatore dentro un mondo altro, più perturbante. Racconto storie che vedo intorno a me, ma che sono anche dentro di me. Spesso più che una descrizione letterale del reale, le storie che presento vengono da me svelate per poi essere condivise dai fruitori. Nei miei video mostrare va di pari passo con raccontare. Ed è in questo modo che si attua la mia idea di visione artistica, partecipativa e autoriale. Mi piace spiegare il mio lavoro come una tecnica che consiste nel risalire da una serie d’immagini a uno stato di cose che tendono ad assumere una consistenza immaginativa, ad andare oltre l’atto del vedere. Come
sostiene Wittgenstein, “l’immagine ha la forma di una realtà che non esiste”. Le “pieghe” del reale invece per me sono quel limbo indefinito che presenta tutte le identità contemporanee che vanno a diluirsi nelle infinite frammentazioni, fra inclusione ed esclusione, progresso ed emarginazione, isolamento e il tentativo del suo superamento nel confronto con l’altro. Il video La Storia di Mimmo è nato proprio dalla suggestione di ruotare intorno ad un certo tipo di autenticità culturale e di conseguenza dall’esigenza di raccontare un mondo che forse oggi si è estinto. Mio zio, ex pescivendolo del famoso mercato palermitano della Vucciria, faceva parte di quella schiera di personaggi istrionici, che rendevano unica questa città prima della globalizzazione. Mimmo era una sorta di maschera pirandelliana, anima tipica del sud che, con una frase o un gesto, metteva insieme millenni di storie e culture popolari. In realtà il video non si sofferma su quest’aspetto nostalgico e folkloristico del passato, piuttosto decostruisce lo stereotipo e lo supera incentrandosi sull’umore e sul conflitto di Mimmo che è schizofrenico. L’idea sostanziale era quella di ridefinire il concetto di mediterraneità, in una visione totalmente soggettiva, discreta e profonda, in cui scompaiono i luoghi comuni, astratti e indistinti. Mentre Mimmo racconta la sua storia si respira l’aria di Palermo, anche se nel video non c’è traccia della città. Mimmo desiderava dichiararsi senza vergogna al mondo, ed io ero suo complice. In quel momento ho focalizzato la strada che ho poi intrapreso nella mia ricerca artistica: raccontare attraverso uno ‘sguardo sfocato’ gli anormali e le alienazioni. Il mio lavoro partendo da una soggettività si allarga alla comunità, divenendo, dunque, un racconto collettivo. Le mie sono narrazioni che tendono a sintetizzare l’io e il mondo per costruire un racconto di appartenenze e di immedesimazioni."
Het Vijfde Seizoen Diary, 2015, serie di 15 disegni, grafite su carta intestata, 21 x 29,7 cm cad.
Domenico Mangano (Palermo, 1976) & Marieke van Rooy (Weert, NL, 1974) vivono e lavorano ad Amsterdam. Il duo si è formato nel 2014 dopo un’esperienza artistica (individuale) di Domenico Mangano, iniziata alla fine degli anni Novanta. Marieke van Rooy proviene da un background di Storia dell’Architettura e Urbanistica. Il loro lavoro è strutturato sulla combinazione di ricerca e pratica artistica. Nelle loro operazioni c’è la fusione della ricerca archivistica e di componenti partecipative ed educative in un processo artistico che viene trasformato in diverse produzioni: film, installazioni spaziali, foto, disegni, performance e pubblicazioni. Il loro approccio narrativo utilizza i metodi dell’analisi antropologica attraverso l’applicazione del concetto di “lavoro sul campo” e studio d’archivio, utilizzando l’immagine visuale come strumento d’indagine. L’obiettivo dei loro progetti è quello di presentare microstorie che riflettano sull’essere umano, la sua emancipazione, la politica reale e ideale, l’architettura sociale e le storie locali. Tra le istituzioni che hanno ospitato le loro opere: Whitechapel Gallery (Londra), Galleria d›Arte Moderna (Roma), Triennale di Beyond Borders Beaufort (Ostenda), I Biennale di Praga, De Kunsthal (Rotterdam), Casco/Fotodok (Utrecht), Futura (Praga), MOCA (Chicago), Palazzo Grassi (Venezia), XIV Quadriennale (Roma), Vleeshal (Middelburg), II Biennale di Atene e Nomas Foundation (Roma).
www.manganovanrooy.com Gli artisti sono rappresentati da Magazzino, Roma www.magazzinoartemoderna.com Gli artisti e l’autrice desiderano ringraziare per il loro supporto: Mondriaan Fonds, Teresa Macrì, Jacopo, Pietro, e Francesco Loy
Teresa Macrì
Pensiero discordante Postmedia Books 2018
La prima dissertazione concerne il pensiero. Che significa pensare in una società che esercita l'anestetizzazione e la propria dispersione? Chiunque pensa si dissocia, si allontana, anche senza operare, dissente e apre lo spazio al giudizio. Il pensiero è l'unica difesa contro la massificazione e il conformismo che sono le forme di imbarbarimento contemporaneo. Il riflesso è che il pensiero possiede in sé un effetto "distruttivo", tale da erodere alla radice tutti i criteri fissati, i fondamenti condivisi, i modelli del bene e del male, insomma tutte le consuetudini morali ed etiche. _ Teresa Macrì
In questa epoca di deriva, in cui buona parte del pianeta appare oppiato e ipnotizzato in una univoca visione del mondo, compiaciuta di se stessa e sublimata da reconditi meccanismi di produzione del consenso, è necessario fermarsi e ragionare sulle sollecitazioni e sulle visioni che si distaccano da essa. Il pensiero discordante è quel pensiero che si smarca dalle convenzioni e dai valori che regolano la piattezza culturale e contrattacca con il riposizionamento dell'essere pensante e con la decostruzione dell'ordine simbolico dominante. A ciò contribuiscono gli artisti e i pensatori con le loro utopie estetiche, i loro paradossi, le loro metafore, i loro sovvertimenti estetici e l'attitudine a fare e disfare i mondi. John Giorno, Francis Alÿs, Luca Vitone, Sislej Xhafa, John Cage e Luca Guadagnino, tra gli altri, delineano un orizzonte destabilizzante, che riorganizza un pensiero altro.