SketckBOOK

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SketchBOOK postmedia journal

Senza titolo

Elizabeth Peyton

Anri Sala

Daniel Spoerri

Michele Dantini, Maria Cristina Bastante, Teresa MacrĂŹ, Nicoletta Leonardi, Domenico Quaranta, il Gruppo 66, Alessandro Mendini, Speciale Debord, Intervistagram...

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Sketch Book postmedia journal

SketchBook #1

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Senza titolo 5 Michele Dantini Critica e "politica". Come sollecitare Direttore scientifico Cristina Casero

Direttore responsabile Gianni Romano

Redazione | Editorial Staff Ruth Akinradewo, Valeria Barison, Lucilla Calogero, Alessandro D’Isanto, Jennifer Malvezzi, Antonio Pennacchio, Luca Peretti, Giulia Ricci, Maria Giovanna Virga, Alexa Von Der Goltz

le opere d'arte da punti di vista molteplici 17 Teresa Macrì Jeremy Deller. Do Touch. Pop Culture, Pop Music 25 Maria Cristina Bastante Globalizzazione: le conseguenze sull’arte contemporanea 37 Nicoletta Leonardi Amateur photography and documentary practice in Italy during the 1960s and 70s:

Comitato scientifico | Advisory board Silvia Barbieri, Emanuele Coccia, Nicolas Bourriaud, Emanuela De Cecco, Luca Galofaro, Nicoletta Leonardi, Bart Lootsma, Michele Robecchi, Barry Schwabsky, Massimiliano Viel, Claudio Zambianchi isbn 9788874901692 postmedia books 2016

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the case of Gruppo 66 61 Domenico Quaranta Arte contemporanea e distribuzione digitale 71 Alessandro Mendini Lectio Magistralis


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SketchBook

REPRINT 79 Mariangela Priarolo

INTERVISTE 106 PreDialogo. Costruire l’architettura

Guy Debord, La società dello

è il modo migliore per sperimentarla

spettacolo, 1967

Luca Galofaro e Beniamino Servino

(reprint da: “Allegoria”)

115 Roman Signer 85 Claudia D'Angelo ll Situazionismo dimenticato.

Dealing with Euphoria Michele Robecchi

Superare Debord (pre-print libro in progress)

119 Arte e femminismo in Italia negli anni Settanta

97 Christian Pugliese

Conversazione con Tomaso Binga,

Il male nelle cose. Epifania, passione

Cloti Ricciardi e Suzanne Santoro

e gloria della merce

a cura di Raffaella Perna

(reprint da: Questa cattiva reputazione...)

125 In materia di superficie Giuliana Bruno

131 Brand&The City Il place branding Silvia Barbieri 133 Intervistagram a Hans Ulrich Obrist Gianni Romano 136 Intervistagram a Nedko Solakov Gianni Romano


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Sketch Book postmedia journal

François Boucher, Studio per divinità fluviale, s.d

What is the relationship between art criticism and the public sphere? I would like to consider the issue from different perspectives. By “criticism” I mean a vivid, flowery and socially deployed activity: it is not the dry routine of academic literature or of “secondary discourse”, rather it is a general way of thinking, a fully interrogative, inspired and problematic attitude that is manifested in singular recognition. For the most part we are talking about art criticism in a manifold sense: we consider stylistic art “criticism”, iconographic reconstruction, sociological or institutional analysis. It is unavoidable that all different types of criticism should be referred to. Let me start off however by saying that the essay starts as an attempt to respond to a specific question. How do we establish good partnerships between stylistic criticism and “militant” criticism (or “civil”, as I prefer to say)? I am looking for some founding references into Enlightenment tradition and in more recent philosophical practice.


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SketchBook Michele Dantini

Critica e “politica“ Come sollecitare le opere d’arte da punti di vista molteplici

Intravedere l’internazionalismo liberale tra le lenzuola un po’ sporche di Molly Bloom può apparire assurdo. Ma non più assurdo, forse, della lotta di reali e imperfette persone per la giustizia e l’amore. Martha Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, 2001

Quali sono le relazioni tra critica d’arte e sfera pubblica? Desidero considerare il problema da punti di vista disparati. Per “critica” intendo un’attività vivida, fiorente e socialmente dispiegata: non l’arida routine della letteratura accademica o del “discorso secondario”, piuttosto un modo del pensiero in generale, un’attitudine interrogante ampia, ispirata e problematica che si manifesta in ricognizioni singolari. Per lo più parliamo di critica d’arte in senso molteplice: consideriamo “critica” l’analisi stilistica, la ricostruzione iconografica, l’analisi sociologica o istituzionale. Sarà inevitabile riferirsi a tutti questi diversi tipi di critica. Premetto però che il saggio nasce come tentativo di risposta a una domanda specifica. Come stabilire virtuose collaborazioni tra critica stilistica e critica “militante” (o “civile”, come preferisco dire)? Cerco taluni riferimenti fondativi nella tradizione illuministica e nella filosofia pratica più recente.

L’utile segreto È possibile coniugare connoisseurship e dissenso, filologia e politica? Sono persuaso che la critica che chiamiamo “militante” presupponga tutti gli altri tipi di critica: sia cioè chiamata non a sostituire ma a integrare in modo eclettico e responsabile, di volta in volta conforme al compito specifico. Il modo in cui corrispondiamo a un’opera d’arte figurativa, a un testo o a una melodia - come pure a un paio di sneakers o a uno smalto per unghie - non è il frutto di preferenze arbitrarie e “soggettive” né un atto di consumo irriflessivo. Coinvolge invece in profondità le nostre


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Sketch Book postmedia journal

Che dire dell’esperienza di lettura di un testo narrativo? A mio avviso è difficile che questa possa dissolvere da sola i presupposti narcisistici del processo di autoformazione. Non si vede chi, nella teoria di personaggi finzionali che si dispiegano nella mente del lettore, possa infliggere l’umiliazione maieutica. Eppure è proprio così che si instaura l’autorità del ragionamento. Dove sta Socrate? Oppure, se vogliamo usare una metafora clinica: chi ci opporrà un controtransfert? Obiezioni analoghe possono formularsi anche per la contemplazione “ingenua” delle opere d’arte o per l’ascolto di una sinfonia. “La realtà del mondo”, conclude Arendt, “diviene certa solo qualora punti di vista molteplici e discordi possano considerare la cosa stessa senza che questa smarrisca la propria identità”21. Appare futile opporre un genere artistico all’altro - il romanzo alla tragedia, la poesia alla critica o alla saggistica - se ci prefiggiamo di prendere parte al mondo condiviso. Battersi contro la seduzione è tanto importante, all’occorrenza, quanto capire che viene il momento di capitolare ad essa.

Una parzialità dai vasti orizzonti Il sottogenere letterario che chiamiamo “critica” corrisponde, nei suoi apici potenziali, all’esercizio di una piena cittadinanza: la congiunzione tra vita activa e vita contemplativa si manifesta in esso con immediata efficacia22. Ma come innalzare l’inevitabile presupposto polemico a piani sinceramente “maieutici”? Arendt e Nussbaum si interrogano a fondo sui modi attraverso cui la singola voce individuale giunge a possedere legittimità storica. È importante distinguere la pungente acutezza dalla sterile recriminazione23. “La critica deve essere parziale”, assicura Baudelaire, “appassionata e politica, vale a dire condotta da prospettive esclusive, capaci però di aprire il più vasto orizzonte”24. Provo a tradurre le parole del poeta. La critica è filosofia pratica esercitata sub specie estetica. E cioè: interroga l’opera in relazione al mondo che essa stessa istiga e porta in scena25. Per l’autore dei Fiori del male “arte” non è che un modo diverso per dire “libertà”. Niente potrebbe essere più estraneo a Baudelaire di una critica dogmatica che si misuri con le opere da punti di vista stabiliti ex cathedra, ideologico-morali, filosofico-storici o altro. Si tratta invece di

21. Hannah Arendt, Vita activa, op. cit., p. 42. 22. Michael Sandel, Giustizia, Feltrinelli, Milano 2010 (2009), pp. 272, 279, 294-295. 23. id., Quello che i soldi non possono comprare, Feltrinelli, Milano 1013 (2012), p. 19. Per la distinzione tra excandescentia e rancor cfr. Edgar Wind, Misteri pagani del Rinascimento, op. cit., p. 86, nota 57. 24. Charles Baudelaire, Salon del 1846, in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1981, p. 57. 25. Cfr. Tzvetan Todorov, Critica della critica, Einaudi, Torino 1986 (1984), p. 187: “ritrovo ancora l’affinità tra letteratura e critica. A volte si dice: la prima parla del mondo, la seconda dei libri. Non è vero... La critica non deve né può limitarsi a parlare dei libri: anch’essa si pronuncia sempre sulla vita”.


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SketchBook ritrovare la comune radice storica che congiunge la sfera estetica e la sfera pratica26. Nel regredire dalle “forme” alla scaturigine (e nel contendere all’opera l’emozione che essa stessa suscita) la critica rinvia, al di là del molteplice, alla totalità intatta del mondo della vita. Per questo è anche “politica”: perché estende l’ambito dell’inchiesta alla pienezza del processo immaginativo e dischiude così, in modo reminiscente, gli “orizzonti più vasti”. Saggi critici, recensioni, omaggi o fugaci segnalazioni assolvono nell’autore dei Fiori del male a compiti per così dire araldici: dare voce a ciò che è più degno. È scorretto affermare che la “parzialità” baudelairiana sia capriccio o arbitrio: non lo è neppure nel sarcasmo o nell’opposizione più aspra27. La responsabilità del filosofo-esteta incontra in essa lo scrupolo linguistico del critico-scrittore: l’una e l’altro cercano “il Grande, l’Immenso, l’Universale” o si fanno beffe del prevedibile e del manierato28. L’ambito della produzione culturale è oggi modellato in profondità da obiettivi di marketing politico e commerciale: la circostanza comporta gravi limitazioni per la libertà di artisti, scrittori, ricercatori. Come affrancare l’expertise critico-curatoriale dagli obblighi di “complicità” (con galleristi, amministratori, artisti etc.) cui l’attuale involuzione delle pratiche “militanti” sembra predestinarla?29 Storia dell’arte, patrimonio o arte contemporanea non sono in sé il “bene comune” che conferisce rilievo alla nostra attività: vale la pena ricordarlo. Lo è invece l’immaginazione: una risorsa vulnerabile che chiede di essere coltivata nelle sue relazioni pragmatiche con la giustizia e la felicità.

26. Charles Baudelaire, Salon del 1859, in Scritti sull’arte, op. cit., p. 226. 27. Alfonso Berardinelli, La forma del saggio, op. cit., p. 185. A mio avviso Berardinelli si lascia sviare dall’ingannevole soggettivismo della nozione baudelairiana di “idiosincrasia”. 28. Charles Baudelaire, L’opera e la vita di Eugène Delacroix (1863), in Scritti sull’arte, op. cit., p. 331. 29. Michele Dantini, Geopolitiche dell’arte, Christian Marinotti, Milano 2012, pp. 143-166.

Piero Manzoni, Achrome, 1959


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Sketch Book postmedia journal

Jeremy Deller, Poster 24 Hour Rockshow, Helsinki, 2015 Original photo: Bill Owens, Rolling Stones fans, Altamont 1968

Jeremy Deller è l’artista che più metodicamente, ecletticamente e criticamente concatena una ricerca sull’azzeramento delle barriere che frappongono high e low culture.


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SketchBook Teresa Macrì

Jeremy Deller. Do Touch Pop Culture, Pop Music

Jeremy Deller the artist that most methodically, eclectically and critically connects research on resetting barriers that places obstacles between high and low culture. The artist is in strict contact with the thinking of Stuart Hall’s sociology, which places cultural analysis at the heart of the political question, right where cultural production has political and real ideological effects in the way in which it erodes class alliances, with a consequent feeling of ‘class absence’.

Jeremy Deller è l’artista che più metodicamente, ecletticamente e criticamente concatena una ricerca sull’azzeramento delle barriere che frappongono high e low culture. L’artista è in stretta relazione con il pensiero del sociologo Stuart Hall1 che pone l’analisi della cultura al centro della questione politica, laddove la produzione culturale ha effetti politici e ideologici reali nella maniera in cui essa erode le tradizionali alleanze di classe, con un conseguente senso di ‘assenza della classe’. Hall ritiene la cultura popolare cruciale nella ‘ri-descrizione’ del socialismo elaborando una lettura completa di essa. Il sociologo adotta una prospettiva che mira alla dissoluzione della distinzione tra cultura ‘alta’ e cultura ‘popolare’ affermando che il significato e il valore della cultura popolare sono storicamente contingenti: ciò che in un determinato momento costituisce ambito di resistenza, può diventare luogo di assimilazione. La cultura popolare non può mai essere spiegata riducendola alle solite opposizioni binarie con cui viene descritta: alto e basso; resistenza contro inautentico; empirico contro formale; opposizione contro assenso. In questo varco concettuale Deller ha costruito un lavoro ventennale pressante e ironico, che destabilizza concetti come identità e memoria nazionali e che amalgama invece quelli di storia e pop culture. Se Acid Brass (1997) è l’incipit indiscusso dell’ellittico iter intorno a tali concetti, Do Touch (2015) è l’ultimissimo frame del suo discorso.


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Sketch Book postmedia journal

FEAR OF MUSIC La musica è dunque il fulcro paradigmatico della sua ricerca e si evince già in quel mirabolante Acid Brass a cui l’artista inizia a lavorare nel 1996 e che nasce e si sviluppa in un humus di solidarietà popolare, in cui le brass band seguivano i cortei dei minatori in sciopero. Le brass band fanno parte della cultura sonora inglese fin dai primi dell’Ottocento quando nacquero all’interno delle piccole industrie rurali e, nel giro di poco tempo, si diffusero su tutto il territorio dell’isola. Oltre a costituire un fenomeno musicale, furono il collante per la costituzione di nuovi gruppi sociali, in un paese in rapido sviluppo economico. Suonare insieme, nel tempo libero, con le stesse persone con cui si condivideva il lavoro, contribuiva a rafforzare l’identità collettiva e a prendere coscienza dei propri diritti sul lavoro. Le città, le scuole, le comunità si sviluppavano attorno alle fabbriche e alle miniere e dunque la diffusione delle brass band era sostenuta sia dall’apertura di scuole di musica di ottoni sia dalla sperimentazione di nuovi strumenti a fiato. L’artista invita la storica Fairey Brass Band (fondata a Stockport nel 1937) a suonare dei pezzi di Acid House, arrangiati da Rodney Newton. Fondendo i due generi musicali apparentemente antitetici, uno tradizionale e modulato, l’altro emergente e acido, connette due fasi storiche che si stanno succedendo e connette due generazioni, due modi di vivere il mondo. Dal declino dell’era industriale e dello stile di vita a esso legato e di cui la brass band se ne fa registro, all’avvento dell’era post-industriale in cui l’Acid House diventa il più forte detonatore culturale. I rave si diffondono alla fine degli anni Ottanta sia negli Stati Uniti che in Europa sullo slancio della contestazione controculturale generata dalle difficoltà politiche ed economiche. Diventano subito delle espressioni di antagonismo sociale, attaccando le forme di produzione commerciale delle discoteche, e dando vita ad una microeconomia alternativa attraverso l’autoproduzione come concetto di massa. Ciò che Deller ibrida attraverso Acid Brass è l’elemento vernacular della brass band con i contenuti destabilizzanti contenuti nell’Acid House. Proprio lo spirito destabilizzante dell’electronic dance music viene consacrata con lo psichedelico poster Bless This Acid House realizzato da Deller nel 2005, usato come statement e reiterato come ‘form in progress‘ assertiva in differenti contesti. La musica, si sa, è uno dei più vasti collanti di trasformazione e aggregazione sociale e l’artista ne usa la propulsione per fondere i due generi musicali inconciliabili tra loro e, al tempo stesso, il dissenso politico che trainano. Sia la cultura dei rave che la brass band sono antitetici alla politica conservatrice di Margaret Thatcher. Ambedue i generi musicali includono uno spirito politicizzato e vitale. Acid Brass è dunque una sorta di sintesi tra il recupero di una tradizione musicale e l’impatto di una nuova realtà generazionale travolgentemente combattiva. Per Deller, inoltre, brass band e Acid House sono entrambe due autentiche forme di folk art, radicate nelle specifiche comunità. Acid Brass è, dunque, la realizzazione di un’opera collettivizzata attraverso l’interazione di distinti gruppi sociali. La particolarità delle sue azioni versatili (film, installazioni audio, processioni, posters, sculture, assembramenti collettivi, interventi pubblici, banners, flash mob) non sarebbero possibili e credibili se non nascessero dalla sua attitudine e dal suo istinto anticonvenzionale. Jeremy Deller fuoriesce decisamente dall’equilibrio dei ruoli in cui l’establishment artistico è


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SketchBook

Jeremy Deller ripreso davanti a Acid Brass racconta il suo concetto di "fallimento". "Artist Jeremy Deller on Failure", Contemporary Art Museum St. Louis (2013). YouTube: https://youtu.be/zJHG78jTOxg

felicemente congelato e attraverso cui preserva il proprio status. Distaccato dal conformismo che connota l’art system, per una sua connaturata verve caratteriale, tende a rovesciare il reale, così che, provare, sperimentare, azzardare diventa il filo conduttore di un percorso affatto allineato. Come ricorda Stuart Hall il suo talento inventivo è da accomunare ad “un etnografo, un assemblatore di cose, uno stager di eventi, persone e artefatti, un remaker di living environment, un metteur-en-scène”.

1. Stuart Hall (Kingston, Giamaica,1932 – Londra, 2014). Sociologo e teorico, è stato uno dei fondatori della New Left Review. Nel 1964 ha collaborato con il Centre for Contemporary Cultural Studies dell’Università di Birmingham diventandone il direttore nel 1969 e rimanendovi alla guida per 10 anni. Della sua attività critica e del suo impegno politico restano i testi fondamentali: The Popular Arts (1964, con P. Whannel); trad. it. Arti per il popolo, Officina Ed., 1970; Encoding and Decoding in the Television Message (1973); Resistance Through Rituals. Youth Subcultures in Post-War Britain (1976, con T. Jefferson); Culture,

the Media and the “Ideological Effect” (1977); The Hinterland of Science. Ideology and the Sociology of Knowledge (1977); Reproducing Ideologies (1987), Questions of Cultural Identity (1996); Different: A Historical Context: Contemporary Photographers and Black Identity (2001, con M. Sealy); Il soggetto e la differenza, Meltemi, (2006); Politiche del quotidiano. Culture, identità e senso comune (con E. Greblo), Il Saggiatore, (2006); La cultura e il potere. Conversazione sui cultural studies, (con M. Mellino), Meltemi, (2007). Su Stuart Hall, il fotografo John Akomfrah ha girato il film The Stuart Hall Project, 2012.


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Sketch Book postmedia journal

Hiroshi Teshigahara, Bambu passage, 1989. Particolare dell'installazione nella mostra Magiciens de la terre al Centre Georges Pompidou (18 maggio -14 agosto 1989) curata da Jean-Hubert Martin. Courtesy: Centre Pompidou. Foto: Béatrice Hatala

Questo saggio intende affrontare il fenomeno della globalizzazione culturale, nel settore specifico dell’arte contemporanea, rilevando alcuni tra i suoi lati più significativi e i suoi limiti, evidenziando soprattutto il sostanziale rischio dell’appiattimento delle diversità e delle identità. Considerando come un incipit la mostra Magiciens de la terre, curata da Jean-Hubert Martin nel 1989, se ne ricostruisce e ripercorre in parte il dibattito critico, quindi vengono tratteggiati alcuni degli aspetti caratterizzanti l’allargamento dello scenario artistico attuale. Viene, infine, ipotizzata l’altra strada della globalizzazione: una negoziazione tra ciò che è locale e ciò che è globale, un immaginario ibrido composto da un vocabolario che rende ovunque riconoscibili i contorni e gli elementi chiave di esperienze comuni.


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SketchBook Maria Cristina Bastante

Globalizzazione: le conseguenze sull’arte contemporanea

“Come mostrare (…) che lo scontro delle civiltà profetizzato da Samuel Huntington1 ha come causa profonda il nostro fondamentalismo, ridotto e inasprito a “cultura-mondo”, “mondalizzazione felice” e tribalismo “nomade”, incapace di vera universalità, quella che cerca la coincidenza dei contrari nell’interiorità e dall’alto, invece di immaginare che essa sia già presente e completa nelle protesi esterne delle tecnologie della comunicazione che si suppone producano un pacifico “multiculturalismo” e un irenico “meticciato”?2 La mostra che inaugura al Centre Pompidou e alla Grande Halle de la Villette di Parigi il 18 maggio 1989 è nelle intenzioni del curatore Jean Hubert Martin il coronamento di un progetto nato per riunire - in un unico, innovativo, allestimento - artisti occidentali e artisti provenienti dai cosiddetti paesi emergenti: Africa, Medio ed Estremo Oriente, Oceania. Hubert, commissario dell’esposizione e allora direttore del Pompidou, accosta artisti affermati ad artisti sconosciuti3, artisti inseriti nel sistema dell’arte contemporanea – per carriera e per formazione - ad artisti eccentrici rispetto ad esso; avvicina opere d’arte ad oggetti antichi e manufatti tradizionali in nome di una supposta, comune aura, di un valore metafisico in grado di trascendere le differenze e di comunicare un senso che oltrepassi la banalità dell’uso quotidiano4. 1. Cfr. Samuel P. Huntigton Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, 2000 p. 479: “La mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologia né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legata alla cultura. (…) Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”. Una prima versione del saggio, pubblicata sotto forma di articolo (“The Clash of Civilization?”, 1993) sulla rivista Foreing Affairs è rintracciabile alla url http://www.foreignaffairs.com/articles/48950/samuel-p-huntington/ the-clash-of-civilizations. 2. Marc Fumaroli, Parigi – New York e ritorno. Viaggio nelle arti e nelle immagini, Milano 2009, p. 722.


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Sketch Book postmedia journal

The members of Gruppo 66 meeting in the basement of Cafe Sant’Orsola, Milan 1967. Gelatin silver print, 24X30 cm. Courtesy: Gruppo 66 - Centro Italiano della Fotografia d’Autore. Photo: Mario Finocchiaro

Il saggio di Nicoletta Leonardi analizza la fotografia amatoriale italiana del secondo dopoguerra attraverso il caso del Gruppo 66. Fondato a Milano nel 1965, il gruppo ha operato per dieci anni come collettivo con lo scopo di produrre, oltre che ricevere da altri operatori non professionisti, fotografie documentarie storiche e contemporanee sulla città di Milano da conservare in un archivio aperto al pubblico. A lungo trascurate da una storia della fotografia che privilegia singole figure autoriali di artisti e professionisti e mostra scarso interesse nei confronti del lavoro collettivo, le fotografie del Gruppo 66 sono documenti straordinari della trasformazione del tessuto urbano di Milano e dei cambiamenti nelle abitudini sociali e nello stile di vita degli abitanti della città industriale più grande d’Italia a cavallo fra il boom economico e gli anni di piombo.


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SketchBook Nicoletta Leonardi

Amateur photography and documentary practice in Italy during the 1960s and 1970s: the case of Gruppo 66

This essay looks at post-World War II Italian amateur photography through the case of the Milanese Gruppo 66. Founded in 1965, the group operated as a collective and was aimed at producing, as well as receiving from other non-professional practitioners, contemporary and historical documentary photographs about the city of Milan. The final goal was that of creating a public archive that would convey the city’s banal, ordinary and everyday realities1. The photographs produced by Gruppo 66 are extraordinary documents of the transformation of Milan’s urban spaces and of the changes in social habits and lifestyles of people living in Italy’s largest industrial city during the economic boom and at the dawn of the 1968 contestation movement. Long neglected by a history of photography mostly preoccupied with the contribution made by single individuals, this material deserves more attention2. As indicated by Gil Pasternak, despite the fact that amateur photography has been at times addressed through the notion of the vernacular, this has never produced a decentering of dominant narratives about photographic history. The canonical and the new histories of photography “have both paved orthodox courses to tell the story of photography, inserting it into different filing cabinets in a library that fails to record how vital photography has been to private experiences of modern everyday life and public experiences of the ordinary. Indeed, other than fine art, commercial and professional photography, the vast majority of photographic activities, practices and imagery have at least until fairly recently remained mainly unclassified, unnamed, and therefore known primarily by tacit knowledge alone.”3


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Sketch Book postmedia journal

La Rinascente, Piazza Duomo, Milan, 1966. Gelatin silver print, 24X30 cm Courtesy: Gruppo 66 - Centro Italiano della Fotografia d’Autore. Photo: Ernesto Fantozzi

As announced in a statement of intent and a call for contributions published on photo magazines in 1965, Gruppo 66 had no political or lucrative goals and was aimed at producing documentary photographs that would have a social use. Members were united by the will to give an ethical and civic sense to their activities. Coherently, upon foundation they started contacting non profit foundations and associations operating within the realm of cultural heritage such as Italia Nostra, a campaigning organization founded in 1955 with the aim of protecting and promoting Italy’s historical, artistic and environmental patrimony menaced by the rapid modernization the country was undergoing as a result of the economic miracle.12 The founding members belonged to different generations (some of them were in their thirties, some in their forties, some in their sixties) and came from different cultural and social backgrounds. Valentino Bassanini (1936) was a graphic designer; Gualtiero Castagnola (19031989) was a technician employed at Optar, Italy’s distributor of Zeiss optics; Carlo Cosulich (1910-1978) was a textile consultant; Ernesto Fantozzi (1931) worked for a company that produced materials for the construction industry; Mario Finocchiaro (1920-2000) was an immigrant from Sicily who arrived in Milan right after World War II and became a traveling salesman; Giovanni Rosa (1930-1990) owned of a photography and optical shop; Giuseppe Serravezza (1940) was a chemical engineer and the executive manager of a major oil company.


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SketchBook

Via Carafa, Milan, 1971. Gelatin silver print, 24X30 cm Courtesy Gruppo 66 - Centro Italiano della Fotografia d’Autore. Photo: Ernesto Fantozzi

In addition to producing new photographs, pictures shot by members before the group’s founding were annexed to the archive: people in public parks, bars and restaurants, people at work with old and new jobs (a peddler at the food market, a typist), people celebrating the advance of the Italian Communist Party at the 1963 election, the composite audience at the San Siro football stadium made of immigrants from the south, respectable Milanese white collars, a “bad” girl with a cigarette in her mouth attending the event alone and looking very aggressive, a reassuring smiling housewife in company of her husband.20 The most conspicuous portion of the archive was dedicated to the ambitious and never completed project of a meticulous mapping of the city. Each member was assigned one district and was in charge of documenting urban transformations, people, street life and events in the area. Among the most compelling photographs of this kind are the ones depicting areas subject to major modernizing interventions that generated controversies and


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Sketch Book postmedia journal

Seth Price, Totem in Perspective, 2012 Acrylic, ink, molding paste and gesso on plywood. At Eden Eden, Berlin, 2014


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SketchBook Domenico Quaranta

Arte contemporanea e distribuzione digitale

Scommettendo, con Marcel Broodthaers, che “la definizione dell’attività artistica avviene, in primo luogo, nell’ambito della distribuzione”, l’articolo segue le linee principali del dibattito in corso sulla circolazione online delle immagini e, più in generale, dell’arte contemporanea, e di come questa stia influenzando non solo il livello del consumo, ma anche quello della produzione. Partendo dal seminale saggio Dispersion di Seth Price, attraverso le idee di Groys, Joselit, Bourriaud e Steyerl, il saggio arriva a considerare il lavoro di artisti che hanno fatto della dispersione digitale il fulcro della loro pratica artistica, e a sollevare questioni come: può la Rete essere considerata un contesto legittimo di fruizione dell’arte? Cosa differenzia lo spazio immateriale della comunicazione dallo spazio istituzionale del museo? Cosa succede all’arte quando esce dal suo contesto protetto e viene messa in circolazione senza connotazione artistica? Che fine fa la figura dell’autore?

Nel maggio 2014, il critico americano Ben Davis, senior editor di Artnet News, ha scritto nel testo inaugurale di una sua nuova rubrica: What are the major themes of contemporary art discourse right now? Inequality and the Internet. Money, which is making unique objects ever more expensive, and technology, which is making images ever more placeless. On the one hand, the ultra-exclusive auction room where prices rise ever higher, where art is touted as a timeless store of value. On the other, the Internet, where images fluoresce quickly and compete for attention in a universe of technological novelty. [...] The way that people consume art, and what art seems worthy, is changing, will change1. Davis collega strettamente questi due temi: la gratuità e l'ubiquità delle immagini online, e il valore economico dell'arte contemporanea, divenuto uno dei pochi beni di investimento capace di reggere la sfida di una crisi ormai congenita. Il punto di contatto, come nota più avanti, è costituito dalla nozione di “classe” e dall'idea di arte come forma di lavoro: In the case of technology, the idea that class has a place probably seems more abstract. I think of it this way: If you are talking about how art traffics on Google or how people consume images via smartphones, you are talking about how the products of large corporations affect the way we see the work of what amounts to a small community of craftspeople, mainly individuals or small groups. Without an idea of visual art as a form of labor done by certain kinds of people, it is very difficult to understand the pressures on art, the stakes of technological transformation, or the angst that it engenders2.


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Marcel Broodthaers, Invitato alla sua prima mostra alla Galerie Saint-Laurent di Bruxelles, moi aussi, Je me suis demandé si je ne pouvais pas vendre quelque chose et réussir dans la vie, 1964 [Moi aussi je me suis demandé si je ne pouvais pas vendre quelque chose et réussir dans la vie. Cela fait un moment déjà que je ne suis bon à rien. Je suis âgé de quarante ans… L’idée enfin d’inventer quelque chose d’insincère me traversa l’esprit et je me mis aussitôt au travail. Au bout de trois mois, je montrai ma production à Ph. Edouard Toussaint le propriétaire de la Galerie Saint-Laurent. Mais c’est de l’art, dit-il, et j’exposerais volontiers tout ça. D’accord, lui répondis-je. Si je vends quelque chose il prendra 30%, Ce sont paraît-il des conditions normales. Certaines galeries prenant 75%. Ce que c’est ? En fait, des objets.]

Come notava Davis, il modo in cui facciamo esperienza dell'arte sta cambiando, e continuerà a cambiare. E se, come ha detto Marcel Broodthaers, “la definizione dell'attività artistica avviene, in primo luogo, nell'ambito della distribuzione”24, non dovrebbe stupirci che la distribuzione digitale stia avendo ripercussioni sulla pratica artistica e sulla stessa idea dell'arte. Se questa nuova idea contemplerà ancora nozioni come quella di “autore”, “originale” e “museo”, se queste nozioni decadranno completamente o se andranno incontro a una rinegoziazione, è ancora presto per dirlo. Ma in tempi di accelerazionismo, la risposta non dovrebbe essere lontana. 23. Ibid. 24. Broodthaers, cit in Price, Dispersion, cit.



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Sketch Book postmedia journal

Italian architect, philosopher, architectural theorist, visionary and design practitioner, Alessandro Mendini, has been selected to receive the 2014 European Prize for Architecture. Awarded annually by the European Centre for Architecture, Art Design and Urban Studies and The Chicago Athenaeum: Museum of Architecture and Design, the European Prize for Architecture aims to recognize “influential architects that have changed and challenged the direction of contemporary architecture today and who have blazoned a more humane and intellectual approach to architecture.” “Alessandro Mendini is one of the rare, most iconic architects and architectural minds in the history of art and architecture and clearly within the profound ranks of Leonardo Da Vinci, Palladio, Alberti, and Ledoux. His philosophic thinking is more than original. He has pushed concept beyond the perimeters of the inventive, relentlessly searching, in a most non-compromising way, for the most essential design idea. And the results center on the most visionary and far-reaching of our times. In an era where architectural ideas are copied and duplicated worldwide faster than ‘viral,’ Mendini and his works remain singular, prophetic, and original with the unique finger print of nothing less than a genius architect.” _ Christian Narkiewicz-Laine, Museum President of the Chicago Athenaeum


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SketchBook Alessandro Mendini

Lectio Magistralis

Il 9 febbraio 2015, all'interno della Torre UniCredit, Alessandro Mendini ha tenuto una Lectio Magistralis in occasione del ricevimento del premio The European Prize for Architecture 2014 assegnato - per la prima volta ad un architetto italiano - da “The European Centre for Architecture Art Design and Urban Studies”. On February 9, 2015, the architect Alessandro Mendini received the 2014 European Prize for Architecture in the prestigious and futuristic setting of the UniCredit skyscraper complex at Piazza Gae Aulenti, Milan. For the first time, the Prize has been given to an Italian architect. On this occasion Mendini held a Lectio Magistralis.

SENSAZIONE DI SPAZIO N. 1 La parete verso facciata è una vertiginosa lastra di vetro trasparente nella notte. Mi trovo al settantesimo piano. Percepisco il senso della quota. Sono in alto. Conto il numero dei piccolissimi led presenti nella camera dell’albergo perfetto. I led, quei puntini, sono trentacinque e sono distribuiti nell’intera geometria del mio luogo, ingresso salotto, bagno. Sono le attente spie di ogni tipo di apparecchio messo al mio servizio. Controlli, segnali e allarmi per ogni funzione. Gialli, rossi, bianchi, blu, verdi, lilla. Collocati nello spazio sopra sotto accanto a me. Alcuni fissi, altri intermittenti. Spenta la luce, ecco che la mia personale costellazione di led brilla nel buio in tutto il suo splendore. Per una notte in questo albergo perfetto esiste la costellazione “Alessandro Mendini”. Avviene l’esperienza siderale. Posso dare il nome alle mie 35 stelle personali. Traccio mentalmente le possibili geometrie e le configurazioni simboliche di un universo a mia misura. Astrologia più ipertecnologia. Tensioni elettriche e attrazioni mitologiche giocano nel mio occasionale e assoluto microuniverso. Guardo fuori dalla vertiginosa lastra di vetro trasparente. La mia micro costellazione entra in contatto con miriadi di firmamenti urbani. Milioni di stelle del diametro di qualche millimetro competono con le enormi galassie che vedo immobili sopra di me.


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Sketch Book postmedia journal

REPRINT

Mariangela Priarolo

S peciale Guy Debord

Guy Debord, La società dello spettacolo, 1967 (reprint da: “Allegoria”, anno XXI, III serie, n. 59, gennaio/giugno 2009, pp. 146-152)

Claudia D'Angelo ll Situazionismo dimenticato. Superare Debord (pre-print libro in progress)

Christian Pugliese Il Male nelle Cose. Epifania, Passione e Gloria della Merce (reprint da: Guy Debord, Questa cattiva reputazione..., Postmedia Books 2014, pp. 69-78)

Guy Debord, Questa cattiva reputazione..., Postmedia Books 2014


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SketchBook Guy Debord, La società dello spettacolo, 1967

Mariangela Priarolo

L’espressione “società dello spettacolo” è ormai entrata nell’uso comune per definire e giustificare i fenomeni mediatici più disparati. Eppure, come Guy Debord1 rilevava in quello che a buon diritto può essere considerato il suo chef-d’oeuvre, della società dello spettacolo i mezzi di comunicazione di massa rappresentano soltanto «la manifestazione superficiale più opprimente» (La Société du Spectacle – d’ora in poi Sds – § 24)2, e non ne costituiscono affatto la struttura essenziale. All’analisi di tale struttura Debord si era invece dedicato almeno dal 1957, quando in un paesino della Liguria, Cosio d’Arroscia, aveva fondato – assieme a Michéle Bernstein, Asger Jorn, Giuseppe Pinot-Gallizio, Piero Simondo, Elena Verrone, Ralph Rumney e Walter Olmo – l’Internationale Situationniste, una delle associazioni più discusse e influenti nel dibattito politico e culturale degli anni Sessanta3. Nata dalle ceneri dell’Internationale Lettriste, movimento sorto da una scissione interna al Lettrisme di Isidore Isou – peraltro provocata dallo stesso Debord – e dell’italiano Movimento Internazionale per una Bauhaus Imaginista (MIBI), l’Internationale Situationniste aveva fatto propria la tesi fondamentale delle avanguardie artistiche e letterarie della prima metà del Novecento, ovvero la necessità di uno stravolgimento radicale e completo della vita quotidiana e «dell’idea borghese di felicità»4. Nella neonata prospettiva situazionista, tuttavia, tale stravolgimento doveva compiersi non solo attraverso il superamento dell’arte – come avevano sostenuto Dadaisti e Surrealisti, affascinando un Debord adolescente – o la trasformazione della vita in arte – come già invocava il megalomane Isou –, ma anche e soprattutto attraverso una messa in discussione radicale della società capitalistica ispirata dagli scritti del giovane Marx, dal Lukács di Storia e coscienza di classe e dalla Critica della vita quotidiana di Henri Lefebvre5. Pubblicata pochi mesi prima dell’esplosione del Maggio ’68 e ritenuta da molti suoi lettori «il Capitale del nuovo movimento»6, La società dello spettacolo può essere considerata la summa teorica del pensiero situazionista sia dal punto di vista dei contenuti, sia sotto l’aspetto stilistico-formale. Divisa in nove capitoli, per un totale di 221 paragrafi, sebbene sia più corretto definirle “tesi”, la Società dello spettacolo fa ampio uso di una delle tecniche predilette dai situazionisti – e che avrà molta fortuna, per ironia della storia, proprio in quell’araldo della società dello spettacolo costituito dal mondo della pubblicità: il détournement. Come recita la definizione che compare nel primo numero della rivista «Internationale situationniste» del giugno 1958, il termine «si impiega come abbreviazione della formula: détournement di elementi estetici prefabbricati. Integrazione di produzioni attuali o passate delle arti in una costruzione superiore dell’ambiente. In questo senso non vi può essere pittura o musica situazionista, ma solo un uso situazionista di tali mezzi. In un senso più primitivo,il détournement all’interno delle sfere culturali antiche è un metodo di


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Sketch Book postmedia journal

Asger Jorn, 1964


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SketchBook Il Situazionismo dimenticato Superare Debord

Claudia D'Angelo

Lavorando gomito a gomito alla redazione di Fin de Copenhague (1957), Debord avrà modo di avvedersi di come il ruolo di Asger Jorn all’interno del movimento — diventato sempre più ampio e riconosciuto — risulti tanto più prezioso in qualità di trait d’union con la sua dissidente ala scandinava. Già dopo i primi anni di attività — dal 1957 al 1962 — era emersa con forza la necessità di definire l’evoluzione delle istanze che in origine avevano fatto da collante ad esperienze tanto diverse; ci si chiedeva, in sostanza, se si potesse coralmente parlare di un’arte situazionista o piuttosto non fosse meglio ammettere soltanto un uso situazionista dell’arte. Lambiccamenti intellettuali che mostrano, già nei primi anni ’60, il vacillamento di quell’unità di intenti che aveva caratterizzato il primo consesso a Cosio di Arroscia. In realtà Debord aveva già perso interesse nei confronti della pittura tout court e, in accordo con Constant, si mostrava sempre più orientato a privilegiare l’architettura in qualità di rappresentante delle forze estetiche del movimento; unitamente al fatto che aveva smesso da tempo di rivolgersi a Gallizio con l’affettuoso epiteto di «Grande e Nobile Amico», probabilmente deluso da un suo graduale accantonamento della pittura industriale in favore di una deriva pittorica autoreferenziale, a scapito di qualsiasi obiettivo condiviso1. A queste considerazioni preliminari va aggiunta la tendenza sempre più comune tra gli artisti situazionisti a coniugare la militanza nel movimento con una carriera indipendente e fin troppo disinvolta nel relazionarsi al mercato dell’arte. Gli esempi abbondano e sono da leggere come il sintomo della mancanza di fiducia nei confronti delle reali intenzioni estetiche della propaganda situazionista; così, uno ad uno, tutti i protagonisti di cui si erano già apprezzate le prove cominceranno a defilarsi, o quantomeno a tentare di coniugare la loro carriera personale con gli obiettivi comuni di un movimento sempre meno coeso. Partiamo da Asger Jorn. Nel 1957 lo avevamo visto tentare un detournément grafico della sua carriera pittorica con quel Fin de Copenhague che sancirà il sodalizio operativo con Debord. Da allora i loro rapporti si raffredderanno gradualmente, incrinati anche dalla caparbietà con cui Jorn proverà a fare concretamente del detournément un’arma ludica di ribaltamento della realtà; anche perché la sua, di realtà, continuava a svolgersi tutta dentro i limiti geometrici di un quadro — quanto di più lontano dall’idea situazionista dell’arte — per la precisione di un dipinto. Peraltro non suo, ma recuperato rigorosamente tra i banchi di un mercatino delle pulci per essere riveduto e corretto, in una parola, modificato.

1 G. Bertolino, "L'arte nella formazione dell'Internazionale situazionista: il contributo di Pinot Gallizio", in M. T. Roberto, Pinot Gallizio: Catalogo generale delle opere 1953-1964, Mazzotta, Milano, 2001, p. 47.


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Sketch Book postmedia journal

Secondo: la volontà di interpretare il pensiero del Pubblico e di costituirsi strumento estetico per offrire un’opportunità di discussione sociale. Il caso del muro indigesto di Copenaghen è in tal senso emblematico perché si presta a diventare un’occasione di connessione tra gli stessi abitanti del quartiere. Per formalizzare questo e gli altri interventi che la Seconda Internazionale collezionerà, Jens Jørgen Thorsen darà alle stampe nel 1966 il già citato manifesto divenuto noto semplicemente con il titolo “La fase comunicativa in arte”28. A scanso di equivoci, non si tratta dell’ennesimo testo critico sulla morte dell’arte ma sulla ben più succosa scomparsa dello spettatore e, con lui, dell’arte tradizionale; a prima vista, nulla di nuovo rispetto a quanto detto fino a qui. Se non fosse che coerentemente ai nostri obiettivi originari non possiamo esimerci dal rilevare ciascuna delle occasioni in cui Pubblico e Città compaiono insieme: tra queste righe, infatti, si certifica ulteriormente la staffetta in atto tra spettatore e partecipatore e si insiste sull’opportunità che l’artista ceda il passo all’urbanista dello spazio sociale29. Tutte potenzialità già intuite dalla prima IS e poi formalizzate da CORITUS nel 1962.

28. J. J. Thorsen, Op. cit., 1966, numerazione pagine assente 29. Ibidem


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SketchBook Il Male nelle Cose Epifania, Passione e Gloria della Merce

Christian Pugliese

Lo spettacolo non canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni. È in questa lotta cieca che ogni merce, seguendo la sua passione, nell’incoscienza realizza in effetti qualcosa di più elevato: il divenir-mondo della merce, che è altrettanto il divenir-merce del mondo. Così, per un’astuzia della ragione mercantile, il particolare della merce si logora combattendo, mentre la forma-merce va verso la sua realizzazione assoluta.1 Guy Debord A ben guardare il naufragio è ovunque Petronio, Satyricon

La società dello spettacolo, il testo fondamentale del “situazionismo”, apparso nel 1967, costituisce il fondo di tutto il lavoro intellettuale ed esistenziale di Guy Debord, di cui Cette mauvaise réputation, uscito nel 1993, per Gallimard, è solo l’ultimo corollario. L’ultimo atto, cioè, di chiarificazione dello “spettacolo”, il cui termine non costituisce soltanto una categoria filosofica, storica e sociologica, ma - secondo l’interpretazione di Debord – è espressione genuina di una realtà concreta, che anima e organizza la nostra vita quotidiana. Non è possibile, pertanto, data questa premessa, consigliarne la lettura senza aver alle spalle la lettura del testo che è diventato guida e ispirazione non solo del Maggio francese, ma di tutti i movimenti di contestazione scoppiati in Europa dopo 1968; libro che nel tempo ha, probabilmente, costituito la coscienza e, insieme, l’oblio della nostra percezione. Per tale ragione, questa postfazione non può che avere come dato di partenza l’esplicitazione delle tesi centrali de La società dello spettacolo e come dato di approdo, invece, un commento alla opportunità di suddette tesi nel mondo di oggi. “Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”. Questo è il primo paragrafo de La società dello spettacolo. Da allora, se assumiamo la categoria di “spettacolo”2 per leggere e interpretare il mondo e le sue trasformazioni, non sembra si possa modificare nulla di questo primo enunciato. Due etiche, infatti, quella dei “consumi” e quella della “tecnica”, creano la Forma di questo mondo e la Legge (nomos) che lo governa. Etica dei Consumi ed etica della Tecnica generano l’oiko-nomia del mondo. Se l’etica dei Consumi è la forma del mondo entro cui si installa la vita (bios) dell’uomo, l’etica della Tecnica (che non è più possibile pensare solo in quanto mero strumento) è la forma entro cui si installa il pensiero dell’uomo3. L’unità che esse formano produce l’immensa accumulazione di spettacoli di


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INTERVISTE PreDialogo. Costruire l’architettura è il modo migliore per sperimentarla Luca Galofaro e Beniamino Servino Arte e femminismo in Italia negli anni Settanta Conversazione con Tomaso Binga, Cloti Ricciardi e Suzanne Santoro a cura di Raffaella Perna Roman Signer Dealing with Euphoria Michele Robecchi


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SketchBook Pre-Dialogo

Luca Galofaro e Beniamino Servino

LG 04 04 20 14 Caro Beniamino, ti scrivo alcune note per cominciare la nostra discussione. Inizio semplicemente ripensando alla tua conferenza a Roma alla Cornell University, e lo faccio sfogliando le mie annotazioni. Ecco una pratica che io trovo fondamentale nel lavoro di un architetto: Annotare. Quella delle Annotazioni è allo stesso tempo un processo progettuale ed un sistema di archiviazione di informazioni, una pratica che cerco di sviluppare in chiave teorica, per questo ho creato dei blog. I blog mi aiutano a dare forma al mio archivio. Le annotazioni sono di due tipi; piccoli testi, che in realtà raccontano libri e segnano un percorso culturale. La produzione di immagini, che serve ha dare forma ad un archivio visivo da usare per il progetto. Le annotazioni prese alla tua conferenza si compongono di una serie di parole in sequenza, che mi hanno colpito molto. Due in particolare: riscrittura e traduzione. Nel loro significato letterale sono due parole che funzionano molto bene assieme. La traduzione ci consente di riscrivere un testo già scritto, significa ripensare il reale. Farlo con le immagini poi ne rafforza il significato e ci guida alla scoperta della tua architettura che è esattamente un lavoro di riscrittura della memoria. Suggerisco quindi di cominciare a riflettere attorno a queste tre parole a cui aggiungerei, l’idea di interpretazione, che le reassume tutte in un unica azione. Annotazioni - Interpretazione - Traduzione - Riscrittura. Che ne dici? BS 06 04 20 14 L’annotazione prova a portare un testo da fuori da sé a dentro di sé. A fissarlo. A conservarlo. Ne scava la carne e tiene gli organi sotto formaldeide. Poi quando trapianti un organo questo [l’organo] non si vede. Il corpo in cui è trapiantato appare inalterato. Però l’organo funziona. Svolge la sua funzione vitale. … Un testo esiste se può essere interpretato. … Traduzione-Tradimento-Tradizione descrivono un movimento [un trasporto] da una lingua a una altra, da un corpo a un altro, da un tempo a un altro.


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DIALOGO LG 07 04 20 14 È interessante come, senza un manifesto comune, il nostro modo di pensare all’architettura si stia confrontando negli ultimi anni, scoprendo una linea comune. Quest’empatia non si è formata su uno stile, su una frequentazione negli anni di formazione o su una lingua architettonica. E’ cresciuta su un metodo, su un modo di affrontare la ricerca e il pensiero prima del progetto. Il progetto poi è il nostro interesse comune. Sono sempre convinto che le mie annotazioni, sulle fotografie che scatto o che incontro nella mia pratica quotidiana siano molto vicine alle tue traduzioni del reale, esiste infatti un rapporto diretto di questi segni e montaggi e il nostro modo comune di affrontare l’inizio di un nuovo progetto. È una ricerca che agisce sulla memoria. Siamo entrambi attratti da quell’armonia spontanea che esiste tra artificiale e naturale. È dalla loro combinazione che prende forma la nostra architettura. Ho scelto quest’immagine per cominciare il nostro discorso, un’ immagine che combina un paesaggio astratto, ostile, in cui la vita è possibile solo attraverso la costruzione artificiale. È l’immagine della roccia, primo archetipo e segno che rappresenta per l’uomo un luogo sacro, un rifugio per proteggersi da una realtà ostile, l’origine del pensiero architettonico. Una volontà di pensare l’architettura (in realtà è una rielaborazione di un vecchio collage che avevo fatto per la mia tesi di laurea) come atto primordiale lontano dai segni della contemporaneità, dalle esperienze del moderno, ma anche dalle immagini radicali che consideravano lo spazio come un’estensione del mondo oltre la modernità. BS 07 04 2014 Le tue immagini, costruite usando come sfondo la luna o lo spazio vuoto e nero, mi fanno riflettere sulla forma dell’architettura e sulla sua origine. Di come la funzione [ma prima ancora il bisogno] e la fisica dei corpi l’abbiano generata [abbiano generato la forma, abbiano plasmato la forma]. Di come, poi, la forma sia stata astratta [separata, ritagliata, imparata, insegnata] per caricarsi di connotazioni iconografiche e simboliche. Di come l’archetipo diventa lessico collettivo, riconoscibile e rassicurante. … LG 07 04 20 14 Questo tuo disegno al tratto è una sintesi perfetta del tuo lavoro enciclopedico avviato con Monumental need e che sta proseguendo con Obvius, due volumi che superano l’idea di libro per definire un vocabolario di azioni da applicare all’architettura e al paesaggio. La tua pennata, è segno primordiale, riparo (anche lui archetipo che completa e trasforma in architettura la caverna) ma allo stesso tempo diventa una possibilità per l’architettura, una riscrittura. Gli Innesti propongono come tema ricorrente l’idea di metamorfosi del non finito e la sua continua evoluzione.


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SketchBook BS 07 04 2014 [2] La forma si è liberata dal bisogno che l’ha generata e è diventata icona e simbolo. E’ diventata [la forma] uno strumento di comunicazione. Verso uno strumentario di comunicazione alle masse. Per generare una nuova forma [non per inventarne una nuova] occorre quindi partire da un nuovo bisogno e da una nuova fisica dei corpi? LG 07 04 2014 [2] Usare la forma come strumento di comunicazione mi spaventa, è questo che ha portato l’architettura alla deriva negli ultimi anni, sostengo invece che questo lavoro sulla manipolazione ci aiuti a superare il problema della comunicazione attraverso la forma. Sostengo con forza che il nostro sia un esercizio per ritornare all’essere dell’architettura. Come diceva Costantino Dardi: Le architetture disegnate o dipinte, esposte o stampate, riprodotte o esibite, troppo spesso chiudono la ricerca appena raggiunto un risultato valido entro l’universo della rappresentazione. L’architettura non si rappresenta: l’architettura si presenta, l’architettura è. Noi presentiamo l’architettura. BS 07 04 2014 [3] Il pensiero architettonico è espresso [prende corpo, si consustanzia] attraverso la costruzione dell’architettura. Anche quando questa [la costruzione] è condizionata da motivi economici o di opportunità. O da altri motivi, di qualunque natura. Anche allora. Quando ciò non è possibile [quando non è possibile la costruzione dell’architettura] allora il disegno diventa un manifesto. Di un disagio. Di una utopia possibile. Di propaganda. Il disegno [l’immagine di architettura] è un surrogato per la diffusione del pensiero di architettura. [Il disegno sostituisce in modo imperfetto l’architettura costruita]. La diffusione del pensiero di architettura avviene attraverso la sua [della architettura] costruzione. Il disegno [l’immagine di architettura] è imperfetto perché è incorrotto. Il pensiero invece è corrotto per necessità genetica. L’architettura [la costruzione dell’architettura] è generata dalla malattia. E di questa [della malattia] si nutre per resisterle. Omeopaticamente. … La costruzione dell’architettura[la sua pratica]è l’ambiente naturale alla sua sperimentazione. COSTRUIRE L’ARCHITETTURA è IL MODO MIGLIORE PER LA SUA SPERIMENTAZIONE. I tempi della costruzione[più o meno lunghi] favoriscono la contaminazione inevitabile del proposito originario, però aiutano anche a definirlo. ... Al contrario la elaborazione di una immagine di architettura restringe in tempi


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estremamente abbreviatiil processo della variazione-adeguamento.In entrambi i casi [la costruzione dell’architettura e la elaborazione della sua immagine] l’esercizio della variazioneadeguamento è vitale per la messa a fuoco del pensiero architettonico.... L’architettura è specchio più o meno fedele della storia del suo autore.... Gli specchi e la dilatazione dell’angusto. OBVIUS, Letteraventidue 2014 LG 08 04 2014 [1] Costruzione e disegno raccontano una storia difficile, almeno in Italia, da sempre vengono usate come figure retoriche per cambiare significato alla storia dell’architettura. Chi costruisce non disegna, chi disegna non costruisce. Per questo motivo ho sempre preferito non disegnare e usare il montaggio. Montaggio di Modelli. Modelli (oggetti tridimensionali architetture reali ridotte nelle loro dimensioni). Montaggi di frammenti. Immagini che rappresentano la mia idea di architettura, frammenti da usare per costruire l’idea di spazio che solo il progetto, poi, può trasformare in architettura. Ovvio che l’unico modo per sperimentare sia costruire, ma il montaggio serve proprio a questo, creare le condizioni del progetto. La condizione del progetto, è fisica, sensoriale ma anche concettuale prima che costruttiva, poi lo spazio deve crescere attorno a questa idea. Quest’ultima immagine che hai inserito è composta di pezzi della tua memoria, costruiti ed immaginati è quindi per me uno spazio reale. Architettura LG 09 04 2014 [1] Cercando tra gli appunti presi alla tua conferenza, ho pescato alcune parole a cui ho affiancato quelle che invece uso io [quando è ripetuta la usiamo entrambi] Parole: traduzione - annotazione autobiografico - autobiografico memoria - archivio corruzione - contaminazione innesto – stratificazione. Tu usi molto: riscrittura – traduzione. Io uso molto: ripetizione e frammento.


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SketchBook BS 09 04 2014 [1] La riduzione a parole-chiave ordina il pensiero e ne consente il confronto. E forse ne agevola la sua [del pensiero] evoluzione. Le tue annotazioni a un testo mi riportano alla fecondissima pratica della digressione. Agganciarsi alle storie altrui. Agganciarsi alle utopie altrui. E portarle in direzioni diverse. Autobiografico è atto liberatorio. Porta l’IO in primo piano, non con l’uso di pezzi del suo repertorio ma con la dichiarazione di uso dell’istinto. La memoria conserva e adatta a sé. L’archivio conserva fuori da sé. Corruzione è spesso contaminazione ma è anche dispersione della materia, riduzione della consistenza, passaggio di stato. Innesto è spesso stratificazione. Ma è anche digressione. Parto dalla tua storia e me ne faccio una tutta mia. I frammenti mi inquietano. Tendo a comporre un quadro che li contenga.

LG 09 04 2014 [2] Dici: La memoria conserva e adatta a sé. L’archivio conserva fuori da sé. La parola Archivio nasconde molte altre interpretazioni, con diversi significati, gli archivi da sempre rappresentano la memoria collettiva o raccontano le ricerche degli individui. Internet in un certo senso ha cambiato due aspetti fondamentali dell’atto di archiviare, ha aumentato la quantità d’informazioni e la loro selezione, ha costretto tutti a questa pratica. Siamo condizionati dalle immagini e dai dati da catalogare. Io l’ho sempre fatto, il raccogliere oggetti, fotografie ed informazioni, sono questi i frammenti di cui parlo, i montaggi mi permettono di dare forma al mio immaginario, sono l’archivio di questi frammenti. L’archivio è reale ed è legato ad un luogo fisico particolare la mia casa, il mio studio, i blog1 li uso per combinare e raccogliere parte di questi frammenti. Il montaggio delle tre piramidi sopra un edificio in costruzione, e quello che segue 1. www.the-imagelist.com \ www.the-booklist.com


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sono un esempio di questo metodo di raccolta, (da tempo raccolgo fotografie di edifici in costruzione, specialmente la costruzione dei grattacieli in America, l’ho cominciata durante la scrittura del mio libro sul concorso del Chicago Tribune) raccolgo le fotografie le scansiono e poi ne mischio i frammenti li campiono, cerco di vedere in quelle vecchie fotografie qualcosa di diverso, cerco una traccia da sviluppare, dopo, attraverso il progetto. BS 10 04 2014 Come si arriva alle forme di affezione? Dalla sensazione di familiarità? Fanno parte cioè di un paesaggio domestico, noto, ricorrente…? Sono quelle che seppur familiari appaiono meravigliose? Di una familiarità dilatata deformata trasfigurata ma pur sempre riconoscibile e rassicurante quindi? Sono quelle usate con la leggerezza disinvolta e istintiva di un dialetto? Sono quelle che allontanano l’horror vacui perché da quelle parte ogni racconto? O sono quelle alle quali si arriva dopo aver sperimentato l’altro da sé?... BS 11 04 2014 Il bello si colloca fra la familiarità e la meraviglia. Il bello è una danza macabra fra l’Io e gli scheletri che l’Io conserva. LG 14 04 2014 [1] Le annotazioni sono sempre una lettura di un archivio personale….l’archivio nasce da un’affezione a dei segni, un frammento, uno spazio, un’ immagine ci colpisce più di un altra allora la conserviamo. Poi attraverso le annotazioni gli restituiamo un nuovo significato. Quello che sto facendo in questo periodo (attraverso i blog) ed ora attraverso la scrittura di un libro è quello di costruire un Atlante di questi frammenti. Costruire un Atlante nella definizione che ne dà Georges Didi-Huberman uno strumento di narrazioni parallele tra realtà e immaginazione. L’archivio è l’inizio poi la sua interpretazione produce infinite possibilità di progetto. E questo è un fatto importante per noi. Non considero il nostro come un ritorno al disegno, ma un’evoluzione di questa pratica. La sua attualizzazione, noi non disegnamo, mettiamo assieme un’esperienza culturale di ricerca, legata alla nostra professione, essere architetti, significa attraversare il mondo alla ricerca dello spazio, la nostra è un operazione di montaggio, degli spazi che attraversiamo ed osserviamo ogni giorno. La nostra è una pratica per Ricomporre per immagini il reale e agire sul nostro guardare.


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SketchBook

EPILOGO BS 14 04 2014 [1] Luca, credo che a questo punto ci sarebbe bisogno -come per l’apertura c’è stato un antefatto-, per la chiusura, di un epilogo. Tipo: “…vogliamo aggiungere qualcosa? Non so... senza nulla a pretendere! In data odierna”. LG 14 04 2014 [1] Per concludere. In un montaggio esiste una doppia temporalità capace di trasformare il disegnare (non il disegno) in un working process fondamentale nel nostro lavoro di progettisti (non artisti). Quando si realizza un montaggio, se ne può fare uno leggermente diverso immediatamente dopo, prima di incollare si può sempre cambiare, il processo come il progetto non è mai finito. Completato il primo, subito dopo ne comincia un’altro, legato al precedente e a quello che segue, un processo narrativo continuo ed interrotto. In uno stesso montaggio è importante avere diversi livelli di lettura (o complessità) che definiscono i differenti livelli della realtà.


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Sketch Book postmedia journal

Roman Signer, Slow Movement, 2015. Photo courtesy: Tristan Fewings / Getty Images Installation view 'Roman Signer: Slow Movement' The Curve (Barbican), London, England (2014) Courtesy the artist and Hauser & Wirth


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SketchBook Roman Signer

Michele Robecchi

Chairs, the piece you made on the occasion of your solo exhibition in London at Hauser & Wirth in 2008, must be one of the few occasions where people have had a chance to interact with your work in such a direct way. It’s quite a departure from what you have done so far. Yes, it’s a structure that is continuously changing. The idea came up five or six years earlier. I had a vacuum cleaner at home that operates with the same principle, but it never really worked, it wouldn’t clean the house. It used to stop every five minutes and I always had to go back and re-programme it. That’s where I got the idea for doing a piece with the vacuum cleaner. But it didn’t work either; it didn’t work as a vacuum cleaner and it didn’t work as an art piece. (laughs) And then one summer in 2006, I saw an automatic lawnmower in the garden of a friend of mine and I though it could work. And it did. The role of the lawnmower suggested that it’s almost as if it was a living presence. Do you place this kind of value on your objects? Absolutely – it’s kind of alive. I remember two friends of mine sitting around on two chairs and the machine just stopped next to them while they were talking, as if it was listening. It totally looked as if it was interacting. It’s a very playful work, but there’s also a very dramatic element to it. It anxiously keeps moving around in circles as if it’s a prisoner of a labyrinth of chairs. There is no escape. This often happens in my work. On the one hand, there is something very humorous about it and it’s kind of tragic and not at all funny. This can be a problem, because people very often overlook the more complex aspects and just see the humorous side. They say things like, ‘Ah, Roman Signer just makes works that make you laugh’, but it’s not that simple. The fun stops at a certain point. Did losing this side of your work behind a smokescreen of slapstick humour generate a transition, in terms of how it affected your working process? My work has certainly changed over the years, but not as a direct consequence of this. There were more formal changes. They have a very open structure. Before, they were more compact.


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Sketch Book postmedia journal

Tomaso Binga, Donna in scatola bis (n.37), 1972 Courtesy: Ciocca Arte Contemporanea, Milano


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SketchBook Arte e femminismo in Italia negli anni Settanta Conversazione con Tomaso Binga, Cloti Ricciardi e Suzanne Santoro

a cura di Raffaella Perna

Raffaella Perna: Grazie a Roberta Perfetti, curatrice della mostra Zitta tu non parlare di Tomaso Binga, questo pomeriggio siamo qui a discutere del rapporto tra arte e femminismo in Italia negli anni Settanta, e lo facciamo con tre protagoniste di quella stagione: Tomaso Binga, Cloti Ricciardi e Suzanne Santoro. Queste autrici, pur avendo percorsi autonomi, hanno tutte condotto ricerche artistiche sperimentali volte a mutare i rapporti di potere tra uomo e donna, e a sconfessare l’universalità e la naturalità delle pratiche discorsive maschili. Le loro opere condividono il medesimo sguardo sessuato sul mondo, la stessa volontà di ripensare l’arte, mostrando come le connotazioni di genere non soltanto pervadano gli ambiti dell’informazione, della comunicazione mediatica e della cultura alta, ma siano anche connaturate al linguaggio: lavori fondati quindi sulla consapevolezza che stare al mondo in quanto donna comporti una posizione di alterità. Di qui l’esigenza di interrogare la differenza come strategia per decostruire parole e immagini maschili, partendo da sé, dal proprio vissuto e quindi dalla propria corporeità. Le opere di Binga, Ricciardi e Santoro parlano del e col corpo femminile: lo usano per tracciare “controalfabeti”, non più astratti, ma incarnati nell’individualità della donna (Alfabetiere Murale di Binga); ne evidenziano il passaggio da dato biologico a costruzione sociale (Expertise di Cloti Ricciardi); ne esplorano l’anatomia, mostrando ciò che storicamente è rimasto nascosto e invisibile, perché ritenuto osceno e impronunciabile (Towards New Expression di Santoro). Se la consapevolezza della differenza di genere avvicina l’esperienza di queste autrici a quella delle numerose artiste internazionali che, nella seconda metà degli anni Sessanta e soprattutto nei Settanta, hanno posto in atto una critica radicale del ruolo subalterno della donna nella società tardocapitalista, il contesto artistico entro cui operano è tuttavia considerevolmente diverso. In Italia si assiste, infatti, a una sostanziale chiusura da parte della critica e delle istituzioni culturali, e in particolare museali, verso un’arte delle donne alternativa al canone patriarcale dominante. Negli anni Settanta, a eccezione dell’impegno di poche critiche, artiste e curatrici militanti – come Mirella Bentivoglio, Lea Vergine o Annemarie Sauzeau Boetti – l’arte femminista non riceve un’accoglienza paragonabile a quella ricevuta nel contesto anglosassone, né sul piano critico, né su quello istituzionale. Tale disinteresse si è protratto nel tempo e, benché negli ultimi anni si registri un’inversione di rotta – inizialmente timida, oggi forse più decisa –, le lacune da colmare sono molte. Resta soprattutto l’esigenza di comprendere come e perché ancor oggi l’attenzione riservata al rapporto tra arte e femminismo nel nostro Paese sia spesso esigua, quasi inesistente, come nel caso delle ultime mostre istituzionali dedicate all’arte italiana


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Sketch Book postmedia journal

Wong Kar Way, Chungking Express, (Hong Kong 1994)


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SketchBook In materia di superficie

Giuliana Bruno

“Che cos’è, oggi, un’immagine per gli studi visuali?” Per me l’oggetto degli studi visuali non è (solo) l’immagine. Ciò che mi sta a cuore non è semplicemente visuale, bensì tangibile, spaziale e ambientale: vale a dire, materiale. Dovrei dunque riformulare la domanda e chiedere: “Che posto occupa la materialità nel mondo virtuale in cui oggi viviamo?” Per misurarci con la materialità, suggerisco di pensare alle superfici piuttosto che alle immagini e di esplorare i tessuti del visivo e la tensione sulla superficie dei media. Fautrice di un nuovo materialismo, propongo di compiere atti critici che indaghino la superficie in arte e in architettura, focalizzandosi in particolare sulla superficie dello schermo e mobilitando l’ampio potenziale di espressione materiale che caratterizza gli “schermi” dei diversi media1. Sostengo da tempo che, per capire la spazialità concreta delle arti visive, le loro mobili, abitabili sedi, e l’esperienza intima che esse offrono allorché percorriamo gli spazi pubblici che le ospitano, è necessaria una diversa messa a fuoco, un passaggio dall’ottico all’aptico2. L’aptico, modalità relazionale derivante dal senso del tatto, è ciò che rende “capaci di entrare in contatto con” le cose. Questo mutuo contatto fra noi e gli oggetti o gli ambienti avviene sulla superficie. È grazie a questo contatto epidermico, “superficiale”, che comprendiamo l’oggetto artistico e lo spazio dell’arte, trasformando il contatto nell’interfaccia comunicativo di un’intimità pubblica. Ecco perché preferisco parlare di superfici piuttosto che di immagini: per sperimentare come il visuale si manifesti materialmente nella superficie delle cose, dove il tempo diventa spazio materiale. Scavando negli strati delle immagini mentali e insinuandosi attraverso le loro superfici, l’intreccio teorico dei materiali da me proposto mette in evidenza le strutture reali del visuale: lo stato della superficie, la sua apparenza esteriore e il supporto nonché la collocazione dell’opera, tela, parete o schermo che sia. Mi interessa in particolare quello che potremmo chiamare il fenomeno del “diventare schermo”, vale a dire il gioco della materialità portata insieme alla luce su diversi schermi intersecati, e dare veste teorica all’assunto che il tessuto reale dello schermo è uno spazio-superficie materiale. Mi interessano altresì i modelli migratori di questi costrutti visuali, di cui mi preme tracciare la storia materiale e la geografia mutevole. Così facendo, intendo ripensare la materialità e mostrare quanto pesi la superficie nei tessuti del visuale.

il peso della superficie nei tessuti visuali

In quest’epoca di virtualità, caratterizzata da una rapida trasformazione di media e materiali, che ruolo può avere la materialità? In che modo si modella nelle arti o si manifesta


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Sketch Book postmedia journal

Nicoletta Boraso, Council Chamber, 2012 (Sala del Consiglio di Brugnera – PN - circa 9300 abitanti)

Council Chamber fa parte di un progetto più ampio chiamato “Politica Minore” che indaga la natura della politica attraverso la lettura fisica dei luoghi in cui si rappresenta. Ho preso a campione nel territorio Veneto una rosa di circa quindici comuni differenti tra loro, di diverse provincie, diverse politiche amministrative e diversa dimensione di popolazione ed ho cominciato a realizzare una mappatura visiva di questi spazi: dalle sale di rappresentanza (quali sala del consiglio, sala della giunta, ufficio del sindaco) agli uffici amministrativi e tecnici (quali uffici dei segretari, uffici degli assessori e uffici tecnici), per dare una lettura completa di quei luoghi in cui si svolge la gestione di un territorio attraverso il fare politica. Il risultato è una sorta di documento visivo di quei luoghi utilizzati quotidianamente con un punto di vista non comune all’interno dei nostri piccoli municipi.

www.nicolettaboraso.com


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SketchBook Brand & the City

Leggere una città: il Place Branding Silvia Barbieri

Brand and the City, come geografia urbana, come anima dei non-luoghi, come ritmo scandito, come visione pubblica delle pulsioni collettive, come riconoscimento di una appartenenza, come aggregazione o facilitazione di esperienze, a volte come fastidio o come piacere. E oggi, sempre di più, come branding del luogo. Un tema di grande attualità che ha scatenato la produzione per tante città italiane di un logo. Ma, ahime, di poco logos. Un’attività di branding dovrebbe essere prima di tutto un’attività di logos: implica un percorso di consapevolezza della propria identità, delle proprie forze e debolezze, del dna, della personalità, dei valori costitutivi. Richiede un’attività di auto-analisi e compilazione, di raccolta di quel materiale che indirizzi strategici trasformeranno poi in materia viva. Così la consapevolezza dei propri asset distintivi, a volte irripetibili, si trasforma in progetto, l’analisi si fa visione. Una volta identificate le proprie fondamenta, si cerca il concetto di sintesi ritenuto il più identificante e il più fertile per una direzione di sviluppo e gerarchizzazione di priorità e risorse nel futuro. Nel caso di una città, le fondamenta sono il frutto della sua storia, della cultura e della geografia che hanno determinato a loro volta un’economia, una società, un patrimonio artistico, centri di eccellenza, etc… A volte succede di “maneggiare” stereotipi culturali o segni identitari molto forti e, diversamente da quanto si pensi, possono essere molto utili se rivitalizzati: infatti, spesso, dietro a quel immaginario fisso come una fotografia, si nasconde una grande energia generativa. Riattivarla, rompere le rigidità può diventare un fortissimo acceleratore di evoluzione e ispirazione. Un esempio? Il Duomo di Milano è la “cartolina” più famosa della città. Dentro, si nasconde il concetto di una fabbrica mai finita, di un fare continuo che – guarda un po’ – rimanda all’idea di una progettualità aperta, un tratto potenzialmente molto forte della città. E potenzialmente molto, molto fertile. Quindi, Duomo di Milano o Progettualità Aperta? Il primo potrebbe generare un logo, il secondo logos. Trovato il concetto alto che può diventare attivamente identitario, si possono poi identificare delle tematiche “narrative” sottostanti quel concetto, in modo così da comprendere tutta la complessità multi-strato di una città. Prendiamo sempre Milano: supponiamo che il concetto alto questa volta possa essere una rivitalizzazione della sua radice di terra di mezzo. Terra di mezzo come porta tra l’eccellenza italiana e il mondo, luogo di attrazione dei talenti italiani, vetrina delle nostre eccellenze, punto di contatto tra una cultura italica e una cultura nordica. Fosse questo il concetto, si dovrebbe poi definire dei filoni tematici, per esempio l’eccellenza universitaria, la ricerca medica, il design, il cibo, e così via.


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Sketch Book postmedia journal

Arrivati a questo punto del percorso, allora sì, serve anche un logo, una materializzazione di quelle scelte contenutistiche e strategiche che hanno la capacità di costruire un’unicità del luogo e indirizzare risorse e priorità. Solo e soltanto alla fine, il logos diventa logo. Il Place Branding in Italia è un interesse molto, molto recente e troppo spesso svolto solo nella corsa a un logo che salta la parte del processo che può dare vero valore, che dà sostanza e significato al punto di arrivo. Viste con questa prospettiva mentale, molte attività di logo – ripeto, non branding – sembrano operazioni dal respiro corto Prendiamo la nuova identità della città di Roma, che ricorda troppo una tariffa telefonica. Non è e non vuole essere il mio un giudizio estetico, che comunque è importante ma spesso soggettivo. Rome & You – che gioca con il “me and you" – non è bello o brutto. Davvero pensando a Roma, alla sua ricchezza, alla sua unicità, alla sua impressionante stratificazione di storia, significati e ruoli, si è ritenuto che il tratto forte, il concetto alto che riassume, identifica e proietta nel futuro questa città sia la sua natura inclusiva e dialogica? Forse, ma ho qualche grande riserva. Roma non è meno di New York, che nel raccontarsi punta sulla sua statura iconica e centripeta. Allora la domanda è: perché abbiamo smesso di vederci?


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SketchBook INTERVISTAgram

Hans Ulrich Obrist Gianni Romano

You were not known as a frequent social media enthusiast, what brought you to use Instagram? What do you appreciate about it?

Non eri conosciuto nelle vesti di entusiasta dei social media, cosa ti ha portato ad utilizzare Instagram? Quale suo aspetto apprezzi particolarmente?

In December 2012 I visited the artist Ryan Trecartin and the curator Kevin McGarry in LA. Ryan took my iPhone and downloaded the Instagram App, and at the same time posted on his Instogram a picture of me joining Instagram. Soon after, I went on vacation over New Year with the poet Etel Adnan. While in a cafe she wrote a poem on a piece of paper. I thought her handwriting was so beautiful and it reminded me of a text by Umberto Eco which said we had to protest against the disappearance of handwriting. This is when I thought my Instagram could become on online exhibition project, where I could regularly post sentences by the artists, architects, scientists and poets that I meet on a day to day basis.

Nel dicembre del 2012 sono andato a trovare Ryan Trecartin e il curatore Kevin McGarry, a Los Angeles. Ryan ha preso il mio telefono, ha scaricato l’applicazione e contemporaneamente ha postato sul suo Instagram una foto che ritraeva me che la utilizzavo. Poco dopo, a Capodanno, sono andato in vacanza con la poetessa Etel Adnan e mentre sedevamo in un caffè mi scrisse una poesia su di un pezzo di carta. La sua grafia era molto bella e mi sono ricordato di un testo di Umberto Eco nel quale diceva che dovremmo protestare contro la scomparsa della scrittura a mano. In quel momento pensai che il mio profilo Instagram sarebbe diventato un progetto espositivo online, dove avrei regolarmente postato frasi di artisti, architetti, scienziati e poeti che incontro di giorno in giorno.

Why are you using a social app (deliberately programmed for images and visuals) to convey handwritten texts mostly?

PerchĂŠ stai usando un'applicazione social (deliberatamente pensata per immagini e illustrazioni) per mostrare principalmente testi scritti a mano?

I use it as a way to reintroduce and celebrate handwriting in the 21st Century. Though in the description the handwriting is always transcribed, it is the actual image of the handwriting which is very effective.

Paul McCarthy


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Sketch Book postmedia journal

INTERVISTAgram

Nedko Solakov Gianni Romano

I was surprised to find you on Instagram, I know you are active on Facebook, but I also know your work hasn't much to do with the media hype. At the end anyway, you are a storyteller: so what story are you going to tell your followers?

Sono sorpreso di trovarti su Instagram. Ti vedo molto attivo su Facebook, ma allo stesso tempo so che il tuo lavoro è lontano dai meccanismi del clamore mediatico. Alla fine, comunque, resti uno storyteller. Che storie vuoi raccontare ai tuoi follower?

Yes, you got it. I just look for another path for my storytelling and reaching slightly different, I guess, audience than the Facebook one. But what I will tell, I still don't know :)

Sì, hai ragione, sto esplorando un nuovo modo di narrare e di arrivare ad un pubblico leggermente diverso da quello di Facebook. Se mi chiedi cosa racconterò, ancora non lo so :)

In your first post you mispell I(n)stagram and you call people to action: are you trying to play relational?

Nel tuo primo post hai sbagliato la grafia I(n)stagram esortando il pubblico ad agire: è la tua svolta verso il relazionale?

No, no relational at all. Just having fun, in an old fashioned way :)

No, relazionale proprio no. Mi stavo solo divertendo, alla vecchia maniera :)


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