Quaderno di Lampedusa Marisa Albanese
postmedia ap
Alessandro Corso
Paura
Di avvicinarsi troppo a un cancello custodito dall’esercito.
Di inserirsi nell’isola promuovendo attività ricreative per giovani migranti. Di non trovare giovani migranti interessati alle proposte, e di non poter raccogliere materiale valido per il progetto preposto.
Di non essere in grado di creare ciò che si era ideato, definito, pensato, programmato.
L’isola di Lampedusa, se vissuta pienamente, si alimenta della paura. D’altro canto, solo accettandone i connotati incerti è possibile venir fuori da questo cerchio di insicurezze. A Lampedusa, questa verità è confermata da una forma di superficiale conoscenza del vero, che se osservata con poca più attenzione, lascia trasparire indefiniti altri veli di realtà. Paura di ammettere il proprio limite. Paura dell’incerto. Paura di sé stessi.
Ci si rende conto, a Lampedusa, che un progetto non può essere tale senza aver prima maturato la propria forma attraverso l’esperienza diretta del campo. Lì dove le urla di alcuni risuonano inudite, e le parole di altri rintoccano ormai spente, si ha paura di fidarsi. Paura del prossimo.
Paura della menzogna. Paura di essere delusi.
Alessandro Corso
Fear
To get too close to a gate guarded by the army.
To enter the island by promoting recreational activities for young migrants.
To be unable to find young migrants interested in our questions, and not to collect valuable material for the proposed project. To be unable to create what was expected, defined, conceived, and keenly planned.
For those who experience it fully, the island of Lampedusa feeds on fear. On the other hand, it is only by accepting its uncertainties, that one is able to escape a loop of insecurities. In Lampedusa, this is confirmed by a kind of superficial knowledge of the real, which if observed carefully, lets indefinite veils of truth shine through. Fear to admit one’s limit.
Fear of the uncertain.
Fear of oneself.
On the island of Lampedusa, one realizes that any project is the result of a transformative process, where it acquires its most definite form through the direct experience in the field. There, where the loud voices of some keep echoing unheard, and the words of many others have been differently interpreted and re-used, one is afraid of trusting. Fear of the other.
Fear of lies.
Fear of being disappointed.
Di fronte a una paura storicamente giustificata dal sopruso, dall’inganno, dall’utilizzo e lo sfruttamento di un’isola che sola ancora resta nel suo più basso lamento di insofferenza, l’insediarsi da artisti, scrittori, fotografi, o studiosi, richiede un superamento della paura. Paura da superarsi nell’ascolto.
Paura da sconfiggere tramite il dialogo.
Paura da accettare nel riconoscimento di ciò che sembra non essere tale.
A Lampedusa vigono le maschere, i ruoli, le categorie, le rappresentazioni di realtà vissute. Troppo spesso si crede di aver compreso. Altrettanto spesso si rischia di averne la presunzione. Ciò che si evince da un lavoro di pochi giorni non può bastare a determinare una realtà dell’esperienza migrante a Lampedusa. L’impatto con l’altro, isolano o migrante che sia, spiazza e confonde. Dalla confusione, e da un’apparente comprensione, nasce un primo processo di messa in discussione. Non avere paura di dubitare. Non avere paura di criticare.
Non avere paura di rivalutare.
Si pensa di aver conosciuto giovani migranti. Con loro, si crede di aver stabilito un rapporto unico e fondamentale per il lavoro che ci siamo preposti di sviluppare. Foto realizzate, disegni e sculture, sorrisi regalati, momenti condivisi. Tutto si snoda nella maniera in cui si approcciano questi ‘altri’. Nell’approccio, che è per alcuni versi di uso, consumo, interesse, profitto. Approfittare dell’altro è regola vigente nel caos migratorio. Ma sull’antica Lampoza, esiste un approccio che è in fine ultimo un atto. Atto del donare, atto d’amore, gesto fondante dell’essere morale. Moralità è gesto d’amore che della stessa paura si libera e dell’umano senso del reciprocare si nutre.
The fear which is historically justified by the use, deceit, exploitation and abuse of the island that is paradoxically still alone in its cry of impatience, must be overcome by artists, writers, photographers and scholars who are trying to settle in. Fear that one can overcome through listening. Fear to defeat through dialogue.
Fear to accept through the recognition of what was not yet recognized as such.
Masks, roles, categories and representations of lived realities reign in Lampedusa. One too easily believes s/he has understood. Equally often it is likely to have the certainty of it. What emerges from the work of several days cannot be enough to determine what ‘a migrant experience’ is. The impact with the other, local or migrant, astonishes and creates uncertainty. From uncertainty, and a kind of apparent comprehension, an important process of questioning begins. Not to be afraid of doubting.
Not to be afraid of critiquing.
Not to be afraid of re-considering.
One could believe s/he has come to know young migrants. With them, one believes to have built a unique relationship. This is fundamental for the work one has planned to carry on. Photographs taken, drawings, sculptures; beautiful smiles and shared moments. It all comes to the way in which these ‘others’ are met. Approaching the ‘other’ is somehow to be understood as use, interest, or profit. To take profit out someone else is the rule within the chaos of clandestine migration in the Mediterranean. However, on the ancient Lampoza, approaching can ultimately be experienced as an act. The act of giving and loving, which is the foundation of being moral. To be moral is a form of love that is freed by fear and nurtured by the human sense of reciprocity.
Mariella Pandolfi
Lampedusa
Il mio lavoro, racconta Marisa Albanese al nostro incontro nel suo studio, uno spazio tutto Soho newyorkese nel ventre di Napoli, vorrebbe dialogare con il Candide di Voltaire. L’ascolto, osservo le sue opere e ho un certo disagio nel perimetrare e limitare le emozioni contradditorie che mi abitano. Ho voglia di dirle: “Marisa sento che il tuo lavoro è «oltre»: la forza delle tue creazioni mi raccontano invece una storia molto più complessa e diversa, evocando un’immagine a me cara quella che l’artista Mark Tansey ci ha lasciato e dove Jacques Derrida e Paul De Man sembrano abbracciarsi sull’orlo di un abisso. Ma a ben guardare si sostengono? Oppure si spingono deliberatamente sull’abisso? Precipitano? Lottano. A me appare, nell’ambiguità di quell’improbabile abbraccio, la necessità di non poter configurare in una sola e lineare risposta il mistero del vivere”. Oltre Candide. Ne sono certa. Il lavoro di Marisa Albanese si dissocia dal percorso «lineare» di Candide. Ogni creazione è di certo un tragitto, ma ne inverte la logica del senso. In altre parole Candide che secoli dopo è costretto a incontrarsi con Gilles Deleuze. La Storia si avvita in una catena di storie ed è nei punti oscuri e ciechi della catena che si svela, il divenire dell’esperienza umana. Marisa Albanese narra come il tragitto, per diventare esperienza, deve provare la vertigine o la paralisi di essere anti-tragitto. L’agir e il sentir «politico» è sempre presente nelle sue opere; la Storia diventa storie e in questo passaggio una diversa genealogia dell’esperienza moltiplica le possibili identità dell’essere umano. Il movimento riconduce al passato che si apre e si sfalda a volte in movimenti stellari, a volte si chiude in cerchi concentrici. Il nucleo forte della domanda è sempre presente e i temi forti di Marisa, dai popoli in cammino alle esistenze precarie ne restano protagonisti. Il racconto di un’identità in progetto diventa, nelle sue opere, dubbio, diventa paradiso perduto o forse da sempre inventato, diventa e provoca disorientamento. E allora il nomadismo si avvale di una contemporanea e nuova complessità mostrandoci nelle figure bianche di una sua opera la singolarità e la moltitudine.
Mariella Pandolfi
Lampedusa
“My work”, says Marisa Albanese during our meeting in her studio, a typically Soho-like space in the womb of Naples, “would like to create a dialogue with Voltaire’s Candide”. I listen to her while she speaks, I observe her works, and I am struck by a particular form of uneasiness when I try circumscribe the contradictory feelings that inhabit me. I would like to say to her: “Marisa, I feel that your work is ‘beyond’: the strength of your creations tells me a different, more complex story; they evoke an image that is very dear to me: the one that the artist Mark Tansey has left to us, in which Jacques Derrida and Paul De Man seem to embrace each other on the edge of an abyss. Looking closer: are they support each other? Aren’t they rather deliberating pushing one another towards the abyss? Are they falling? They fight. It seems to me that the ambiguity of that implausible embrace reveals a necessity: the impossibility of conveying in a single, linear answer the mystery of living”. Beyond Candide. I am sure of that. The work of Marisa Albanese deviates from the “linear” path of Candide. Every creation is indeed a route, but it is also an inversion of the “logic of the sense”. In other words, Candide, after centuries, is forced to meet Gilles Deleuze. History goes into a spin of histories whose hidden ends and blind alleys the becoming of human experience is revealed. Marisa Albanese narrates how the route, in order to become experience, needs the vertigo or sense the paralysis of being an anti-route. Agency and the sense of “politics” is always present in her works; History becomes a series of histories and this passage defines a different genealogy of experience, which multiplies the possible identities of being human. This movement takes us back to a past that, according to circumstances, opens itself towards stellar movements or closes itself down in concentric circles. The core of strength of Marisa’s question and themes is always present, from the journeying people to their precarious existences. The story of an identity in progress becomes, in her works, doubt; it becomes the paradise lost (or maybe always invented): something that turns into and provokes disorientation. Nomadism thus gains a new and contemporary complexity; the white figures in one of her works reveal to us both singularity and multiplicity.
O ancora, il volto che si appoggia, sbilanciando il preteso equilibrio fra le due omogenee composizioni di fogli.
Quella sedimentazione della Storia suggerisce a Candide che siamo «oltre». L’incontro con la diversità non si colora mai di esotico, di orientalismi, al contrario perturba e traccia un percorso che introduce la vertigine.
Altra riflessione: lo spazio o meglio gli spazi che in Marisa disegnano e compongono la possibilità dell’altrove. Lo spazio come il luogo dell’altro-diverso, dell’altro-possibile, dell’altro-scarto, tensione perenne in cui gli esseri umani si muovono fra pratiche di libertà e pratiche di controllo. è una tematica che l’artista domina e impone.
Lo spazio raccontato nel progetto Lampedusa è il dispositivo del «dover chiudere»; Marisa impone il «poter aprire». Riprendiamo per un momento l’Utopia di Thomas More che inaugura il tema della insularità come necessaria separazione da territori esterni per un progetto di buon governo in una società che solo isolandosi permette poi l’utopia e la realizzazione del bene comune. L’utopia è miraggio dal quale poter ritornare se pur armati e pronti per il vero combattimento.
Ma perché si realizzi «il possibile» bisogna limitare lo spazio, disegnare il nemico fuori dal confine dell’isola, essere pronti a combattere per controllarne la porosità e la possibile invasione. Come allora non ricordare che all’origine di Utopia e per permetterne la realizzazione, Utopo conquistandola taglia l’istmo legato alla terraferma e il territorio, diventando isola, può fondare e costruire l’Utopia del vivere-altro. La violenza fondatrice nell’insularità dell’Utopia viene rielaborata dai lavori di Marisa Albanese che ci invitano a vivere in modo diverso l’oltraggio dell’isola di Lampedusa, la zona del dolore di corpi ammassati, di controlli intrisi di violenza e umanitarismo. E Lampedusa genera nell’impegno creativo e politico di Marisa un’inversione all’insularità di Utopia ricomponendone i legami dopo che una mano violenta l’ha staccata dalla terra ferma per farne un’eterotopia. E l’artista impone a Thomas More che Utopia torni a ritrovare legami, vincoli e responsabilità condivise con la terra ferma.
Furthermore: a face leans over, destabilizing the claimed balance between two homogeneous compositions of sheets.
That sedimentation of History suggests to Candide that we are “beyond”. The encounter with diversity is not tainted with exoticism or orientalism; rather, it unsettles and draws us onto a path that leads to vertigo.
Another thought: the space – or better: spaces – that, in Marisa’s work, draw and create the possibility of the Beyond. The space as the place of the different-other, of the possibleother, of the discarded-other: the perennial tension within which human beings move, split by practises of freedom and practises of control. The artist both dominated and imposed this theme.
The space narrated in the project Lampedusa is the dispositive of “the need to shut down”; Marisa imposes the “possibility to open up”
Let’s go back for a moment to Thomas More’s Utopia, a book that inaugurates the theme of insularity as that of a necessary separation from external territories as a prerequisite of good governance in a society that grants utopia and the realization of the common good only by isolating itself. Utopia is a mirage from which one has to come back armed and ready for the real combat.
Nevertheless, in order for “the possible” to be realized, one has to limit space, draw the enemy out of the confines of the island, be ready to fight and contrast its porosity and the possibility of invasion.
One has to remember that at the origin of Utopia – a necessary device that grounds its possibility – is the decision made by Utopos to cut the isthmus that tied that region to the mainland. Only by becoming an island is the foundation and building of the Utopia of livingotherwise is possible.
Marisa Albanese’s works re-elaborate the foundational violence of the insularity of Utopia; they challenge us to live in a different way the affront that is the island of Lampedusa, a region of pain of amassed bodies, of control filled with violence and humanitarianism. And Lampedusa promotes, pushed by the drive of Marisa’s creative and political engagement, an overthrow of Utopia’s insularity, wrapping up the bonds that a violent hand – cutting the island apart and transforming it into a heterotopia – had torn. And the artist forces Thomas More to bring back Utopia to its original bonds, links and responsibilities with the mainland.
Quaderno di Lampedusa di Marisa Albanese postmedia books 2018 128 pp. isbn 9788874901876
Crediti fotografici: Claudia Mozzillo, Marisa Albanese Testi Mariella Pandolfi, Alessandro Corso Si ringraziano Carmen Vicinanza, Gianmarco Biele IBBY Italia – Deborah Soria e Elena Zizioli Si ringraziano inoltre Pietro Bartolo, Irene Lacapra, Giovanni Contino, Don Mimmo Zampito, Mediterranean Hope - Alberto e Alice, Comitato 3 ottobre, Collettivo Askavusa, Loredana Giardina, Guardia Costiera di Lampedusa
Finito di stampare nel mese di marzo 2018 in 330 copie presso Ebod, Milano delle quali 30 con un disegno originale di Marisa Albanese firmate e numerate dall’artista tutti i diritti riservati / all rights reserved è vietata la riproduzione non autorizzata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia o qualsiasi forma di archiviazione digitale. All rights reserved. No part of this book may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic or mechanical, without permission in writing from the Publisher. Postmedia Srl Milano www.postmediabooks.it