Infrasottile

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Elio Grazioli

Infrasottile L’arte contemporanea ai limiti

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UNI

Comitato editoriale Anna Barbara (Politecnico di Milano) Cristina Casero (Università di Parma) Emanuela De Cecco (Libera Università di Bolzano) Luca Peretti (Yale University) Roberto Pinto (Università di Bologna) Carla Subrizi (Sapienza Università di Roma)

Infrasottile. L'arte contemporanea ai limiti di Elio Grazioli © 2018 Postmedia Srl, Milano In copertina: un disegno di Gianluca Codeghini www.postmediabooks.it ISBN 9788874901999


Infrasottile L’arte contemporanea ai limiti Elio Grazioli

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Introduzione 7

1~ Guardare due volte 9 2~ L’opera schermo 25 3~ Lo scarto minimo 37 4~ L’impossibile 57 5~ La tautologia 71 6~ Copia e ripetizione 77 7~ Simulare e raddoppiare 95 8~ Re-interpretare 103 9~ Empatia 123 10~ Finezza 137 11~ Fotografia 159 12~ Al limite 173 13~ Infine 191

Bibliografia 193



Introduzione

Oggi prendiamo con disinvoltura immagini da qualsiasi parte, le copiamo, le ritagliamo, le montiamo con pezzi di altre, o le lasciamo tali e quali e le facciamo circolare perché ci piacciono, vi abbiamo visto qualcosa che vogliamo condividere. D’altro canto la società dello spettacolo è diventata così pervasiva che tutto si fa per immagine, alla televisione o sulla rete, e distinguere il senso dal vacuo o la sincerità dalla finta o dalla falsità è diventata questione più che sottile. E ancora: droni e cloni, robot e avatar stanno diventando realtà diffusa. In arte: morte dell’autore, morte dell’arte, di una determinata concezione dell’arte, fine delle avanguardie, creatività diffusa, contraffazione, dispersione, formattazione... Ebbene, ciò di cui si parlerà in questo libro è dell’arte come capacità dell’artista di vedere e di mostrare diversamente la realtà, non per rimuoverne i lati spiacevoli, tragici o imbarazzanti, ma per delineare un verso da cui prenderla e un modo determinato di starci dentro. Al centro sta la nozione duchampiana di inframince, infrasottile. Essa indica innanzitutto ciò è all’estremo della percezione, del discernibile, della differenza, ma senza essere né l’invisibile, né l’indiscernibile, né il trascendente, ma invece una presenza al limite, un possibile ma reale, o una compresenza di due stati che «si sposano», dice Duchamp, dando vita a un terzo tutto da cogliere. Attraverso i suoi diversi caratteri si presenteranno diverse strategie, a cui corrispondono i titoli dei capitoli, attraverso le quali si disegnerà un percorso particolare

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dell’arte degli ultimi decenni, trasversale, non rispondente a movimenti e tendenze, fatto invece di affinità, di atteggiamento, di sensibilità e di pensiero. Il libro è nato dall’incontro tra l’idea che l’infrasottile fosse una chiave interpretativa del readymade duchampiano non ancora così indagata, maturata durante l’elaborazione del libro La polvere nell’arte, con l’interesse per la fotografia accentuatosi lungo la via1. Da quel momento ne ho scritto in varie occasioni, raccogliendo materiale e affinando il taglio, messo a punto nel recente Duchamp oltre la fotografia2, che si configura come una sorta di prima parte o introduzione a quanto qui finalmente trova la sua esposizione per esteso.

1. La polvere nell’arte è uscito nel 2004 (Bruno Mondadori, Milano) e la prima sortita su fotografia e infrasottile è stata in occasione di un convegno al Museo di fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo nel 2003, la cui sintesi è pubblicata con il titolo "Qualche elemento di riflessione su fotografia

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e post-fotografia", nel volume È contemporanea la fotografia?, edito dal museo l’anno seguente. 2. Elio Grazioli, Duchamp oltre la fotografia, Johan & Levi, Monza 2017.


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Guardare due volte

Nell’aprile del 1964 Andy Warhol inaugura una nuova mostra personale alla Stable Gallery di New York. Vi espone per la prima volta i boxes, scatole d’imballaggio di vari prodotti – detersivo Brillo, ketchup Heinz, pesche sciroppate Del Monte, succo di mela Mott e altro – rifatte in compensato, con i marchi perfettamente serigrafati su tutti i lati come nelle scatole originali. La resa è così accurata da essere quasi impossibile distinguerli da quelle. Inoltre Warhol ha allestito le scatole a pile fitte, con passaggi stretti che fanno sembrare di essere in un vero magazzino di deposito merci piuttosto che in una galleria d’arte. Simulazione che rovescia il readymade, la mostra pare restituire al reale ciò che è dell’arte, in ogni caso rendendo indistinguibili i due oggetti. Il filosofo e recensore d’arte Arthur Danto visita la mostra e ne rimane sconvolto: se l’opera d’arte non è più distinguibile dall’oggetto, se siamo cioè in situazione di “indecidibilità”, allora salta lo statuto stesso dell’arte, giunta per questa via al suo esito estremo, alla sua “morte”. È la fine di una storia dell’arte, non di tutta, ma pur sempre punto estremo di non ritorno. È una morte giunta per via ottica, perché è visivamente che le opere non sono più distinguibili dagli oggetti; e per via tecnica, perché è una tecnica riproduttiva industriale comune, la serigrafia, a rendere di fatto uguali i due prodotti; è la produzione in serie ad annullare il rapporto tra originale e copia, e a cortocircuitare origine e fine. Da allora Danto partirà sempre da qui per impostare le sue riflessioni, inanellando tanto una “destituzione filosofica” dell’arte quanto una “trasfigurazione del banale”, per sintetizzare attraverso i

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Robert Rauschenberg con Jasper Johns, John Cage e altri nel suo studio in Johns's Pearl Street, New York 1955 ca. Foto di Jerry Schatzberg

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L'opera schermo

Conviene forse ripartire da Robert Rauschenberg e John Cage, per ricollegarci in filo diretto a Duchamp. Ebbene, quando Rauschenberg realizza le sue tele monocrome bianche, nel 1951, non ha in mente un azzeramento, una negazione, né il compimento della bidimensionalità della pittura secondo il mandato modernista di Clement Greenberg, ma uno schermo su cui si proietti la realtà, le sue ombre, la sua polvere, come scrive Cage presentandole dieci anni dopo: «aeroporti per le particelle di polvere e le ombre che sono presenti nell’ambiente»1. Siamo dunque in pieno clima duchampiano e infrasottile: ombre e polvere sono fenomeni e sostanze infrasottili e le tele diventano lo sfondo per una sorta di readymade cangiante. Inizia con queste tele tutta una serie di percorsi dell’infrasottile che non riguarda solo materie, la polvere in primis2, ma anche un monocromo inteso in senso diverso dal modernista greenberghiano, cioè come esito radicale di una riflessione e pratica della specificità della pittura, ma invece in quanto esercizio delle differenze minime, prodotto di una sensibilità sensorial-concettuale, se così si può dire, più che di formalismi autoreferenziali. Qui infatti la pittura ritrova una sensorialità al di là del retinico – o infraretinica – e al tempo stesso uno slancio concettuale che si appella alla “materia grigia”, come la chiamava Duchamp, o allo sguardo secondo, come andiamo chiamandolo qui. Dipingere con un solo colore significa chiedere più attenzione e di spostarla su altro, secondo una strategia che è tipica di ogni riduzione nell’arte delle avanguardie: riducendo, semplificando,

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Michael Asher, Pomona College Gallery, Claremont, 1970

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Lo scarto minimo

Oggetti geometrici ripetuti e posti sullo stesso piano dello spettatore, nel suo stesso spazio reale, le sculture minimaliste sarebbero come cose tra le cose, se non fosse per quella loro forma innaturalmente geometrica, la lavorazione e i materiali inesorabilmente umani, per quanto e proprio perché meccanici, industriali. Altrettanto e soprattutto la ripetizione, anch’essa geometrica, innesca dei meccanismi che rendono questi oggetti sofisticati e sottili, se non propriamente infrasottili. Ma della ripetizione si dirà più avanti, intanto interessa affrontare un altro aspetto dell’infrasottile che è più vicino a quanto visto finora e in parte ne è uno sviluppo in ambito che potremmo definire postminimalista, cioè quello della differenza minima, dell’intervento, piccolo o anche molto grande ma indistinguibile, indecidibile, invisibile se non si guarda due volte o per la seconda volta, cioè se non si conosce già l’oggetto, lo spazio o il contesto su cui l’intervento è realizzato: nella galleria vuota1 manca una parete che prima c’era, o si apre una finestra che prima non c’era, oppure si cambia l’illuminazione o la si devia, o si ridipingono le pareti o si inseriscono forme nel pavimento come fossero accidenti dello stesso, comunque si introducono cambiamenti che per lo spettatore è impossibile decidere visivamente se sono l’opera o qualcosa che è parte integrante dell’ambiente, e altro ancora con altri media che intanto entrano a pieno titolo nel mondo dell’arte. Così nel 1970 Michael Asher modifica gli spazi della galleria del Pomona College di Claremont, in California, inserendo delle pareti nuove che trasformano le due stanze in triangoli isosceli

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Eric Baudelaire, Everything Is Political II, 2016

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L'impossibile

In ambito concettuale c’è comunque ancora almeno un punto che riguarda l’infrasottile ed è quello che si potrebbe chiamare il “compito impossibile”. Già la trasmissione telepatica di Barry ha questo sentore, ma in un altro senso altri artisti hanno concepito opere che sono dei veri e propri progetti intrinsecamente senza fine, nel senso di impossibili da portare a termine non per pure questioni di tempo o di spazio ma, che è ciò che sposta il senso di questa impossibilità, perché irrealizzabili fin dalla formulazione del progetto. Così Variable Piece No. 70 di Douglas Huebler, del 1971, che prevede di «documentare fotograficamente fino alla fine dei miei giorni l’esistenza di ogni persona vivente, con lo scopo di produrre la rappresentazione più autentica e più completa della specie umana che possa venire così riunita». Che cosa significa questo «ogni persona vivente»? Non è una pura formula di quantità, ma una tensione, un progetto dell’ordine del puro possibile, cioè del pensabile ma materialmente, concretamente irrealizzabile. Come si può fotografare tutti? È un paradosso; è come pretendere di inseguire l’istante presente, che è già passato appena lo si prende in considerazione. Una dimensione, a ben vedere, prettamente fotografica, quella della pretesa archivistica assoluta: tutto deve essere documentato, registrato, conservato, ma in realtà tutto è infinito e per definizione incontornabile. L’effetto infrasottile però non si limita a questo, ma a ciò che provoca: da un lato l’atteggiamento di inseguimento di un compito che si sa inesauribile, che tuttavia apre gli occhi, costringe all’osservazione, alla ricerca, alla memoria e all’anticipazione;

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Giulio Paolini, D867, 1967. Fotografia su tela emulsionata, 80 x 90 cm. Courtesy Archivio Giulio Paolini, Torino

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La tautologia

L’infrasottile permette di rileggere anche il dispositivo tautologico, al centro di un’intera parte dell’arte concettuale. Proposizione che ripete nel predicato ciò che si prefigge di definire, invece che esito radicale della metarappresentazione e

dell’autoreferenzialità

moderniste

trasportate

in

ambito

linguistico, alla Joseph Kosuth teorico analitico dell’«arte dopo la filosofia»1, la tautologia può essere vista come il condurre una proposizione fino al limite della sua verificabilità e della sua logica, dove, piuttosto che identificarsi perfettamente a se stessa in una sorta di utopica macchina senza attrito2, trova di fatto uno scarto minimo, una sottilissima differenza, che la apre su altro. Diventa così la dimostrazione stessa dell’impossibilità della ripetizione senza differenza (Differenza e ripetizione sarà il titolo di uno dei libri conclusivi degli anni sessanta, di Gilles Deleuze). L’ha mostrato già il readymade duchampiano e in fondo il «Questo non è una pipa» di René Magritte è anche la negazione non solo della corrispondenza ma anche della tautologia. Quest’ultima diventa così un vortice piuttosto che una chiusa identità di punto di partenza e punto di arrivo, di termine e definizione, per restare all’esito paradigmatico di Kosuth. La sua citatissima opera Una e tre sedie (1965) potrebbe essere letta come “Questa non è una sedia”. Ma si prendano piuttosto altri esempi, come la serie di Luciano Fabro – non per niente in ambiente milanese, sul filo di Lucio Fontana, Piero Manzoni, Vincenzo Agnetti – sottotitolata appunto Tautologia, del 1967, e in particolare Pavimento, che porta all’estremo vertiginoso non solo la tautologia concettuale ma

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Rirkrit Tiravanija, Untitled (One revolution per minute), 1996 Le Consortium, Dijon, 21 giugno - 14 agosto 1996

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Re-interpretare

In questo contesto problematico mutato, lo si chiami postmodernismo o altro, tornano infatti giustamente riveduti anche i temi della ripetizione e del rifacimento, a cui si aggiungono quelli della digitalizzazione, dell’archiviazione e della rielaborazione, in cui la citazione e la simulazione, decostruttive o meno, sono scavalcate dalla virtualità, dalla memoria e dalla manipolazione che creano altro. Siamo nell’epoca della postproduzione, del remake, della cover, del re-enactment, dei cloni, degli avatar: ricostruire, rifare significa lavorare sul già esistente e farne altro. Tutto dipende da come si intende il prefisso “post”. Scrive uno dei primi e maggiori teorici del postmoderno, Jean-François Lyotard, che esso non indica un’epoca nuova bensì la riscrittura di alcuni tratti delle epoche che l’hanno preceduta. Riscrivere, a sua volta, non significa né ripetere né rimemorare, secondo la nota distinzione introdotta da Freud – che allora verrà automatico allacciare a quanto già visto sul trauma e altro –, ma “perlaborare”. La ripetizione, secondo tale distinzione, è quella a cui ci sottopone il desiderio inconscio in cerca del suo compimento. La sua forma è quella del destino che ci attende inesorabile, in cui «l’inizio e la fine della storia rimano tra loro»; esso stabilisce in anticipo gli eventi, che noi non facciamo che ripetere. La rimemorazione dal canto suo è il ripercorrere il tempo all’indietro per cercare la causa, l’origine della situazione presente, riraccogliendo il tempo sfuggito, smembrato, perduto. La sua forma è quella dell’inchiesta in cui si ricostruisce la trama di «un intrigo di secondo livello, che dispiega la sua storia al di sopra di quella in cui si compie il destino,

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Allen Ruppersberg, installazione alla retrospettiva Allen Ruppersberg: Intellectual Property 1968–2018, Walker Art Center, Minneapolis (17 marzo – 29 luglio, 2018)

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Finezza

C’è insomma finezza e finezza, non solo quella aristocratica o machiavellica, così come non è questione di spessore o di sole apparenze. Con il rimando alla sensibilità si è voluto indicare una finezza che è sfondo, coltivato, matrice della concezione infrasottile. “Eccesso di vitalità” sarebbe invece una bella definizione della sua faccia indiscreta ed esuberante fino alla provocazione, nel caso di Cattelan, o comunque ardita e radicale. Tornando a Heiser, gli esempi degli anni più recenti sono artisti più sottili anche nel senso di meno spettacolari e anzi sofisticati, a volte per alcuni versi ermetici, come Gonzalez-Torres, già visto, e Allen Ruppersberg, Rodney Graham, Tacita Dean, che preme riconsiderare. Ruppersberg assomma molti dei temi qui raccolti sotto la rubrica dell’infrasottile, ma con un taglio ulteriore. Alla fine degli anni sessanta, in pieno clima minimalista e concettuale, apre un bar, Al’s Café, luogo di incontro e condivisione, non una simulazione, piuttosto un’operazione pre-relazionale, dove subito si manifesta la sua impostazione personale, ovvero il carattere esistenziale della sua attività artistica. Ruppersberg ha letteralmente fatto delle sue opere la sua vita e viceversa. Così per il suo atelier, di fatto un luogo di raccolta di libri, dischi, giornali, riviste e quant’altro, poi usati per le sue opere ma già opera a sé, e soggetto di sue opere. È l’idea di collezione di cui si è già parlato, in lui perfettamente personalizzata: così come il bar anche l’atelier e la collezione sono luoghi di ritrovo con gli “amici”, come li ha chiamati in

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Davide Mosconi, Drawing Air/Skies, 1995. Fotografia a colori. Courtesy: Galleria Milano, Milano

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Fotografia

Il rapporto tra immagine ferma e immagine in movimento, fotografia e video o cinema, ha forse subito un rovesciamento inatteso: non solo l’elogio della lentezza ha portato tanti film e video a sequenze lunghe e lunghissime in cui accade così poco, così lentamente, che tutto appare quasi-fermo, ma a volte invece che un’immagine ferma che pare mettersi in movimento sembra che l’immagine in movimento tenda alla stasi come sua realizzazione, suo compimento, per non dire sua verità. Come se l’evoluzione tecnologica venisse rovesciata e, invece che dalla fotografia evoluta in cinema, assistessimo a un’involuzione dal cinema alla fotografia. Da un lato c’è l’idea di smascherare, decostruire la presunzione evolutiva come assunto ideologico, interpretazione e non dato oggettivo, dall’altro ci può essere anche la scoperta di una nuova dimensione nell’immagine ferma, una riscoperta della fotografia come “immagine”. Mentre infatti in quella in movimento la trama, l’azione, lo svolgimento coinvolgono lo spettatore, lo guidano e lo portano fuori dall’immagine in se stessa, la singola fissa della fotografia recupera i caratteri propri del visivo. Quali caratteri? Di nuovo non quelli della specificità modernista, già smontati, decostruiti, denunciati dai postmodernismi1, ma altri che vanno verso l’infrasottile. Siamo ora in quella situazione che da più parti è detta postmediale. La si può intendere come la fine della specificità dei media su cui era basato il modernismo, come viene perlopiù presentata soprattutto in ambito americano, e dunque segnata dall’utilizzo libero di qualsiasi medium utile ai fini di volta in volta stabiliti per ogni opera e ogni contenuto, ma meglio la si

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Marina Ballo Charmet, Con la coda dell’occhio, 1996. Fotografia in b/n

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Al limite

Forse queste ultime tematiche, della sensibilità, della finezza, di una certa discrezione anche, del rifiuto comunque della retorica e dell’enfasi, fino a sfiorare quello che passa per understatement, all’insegna di un certo modo di tenere insieme arte e vita, sono infine una chiave di lettura di varia arte italiana recente. Gli esempi sarebbero in realtà numerosi, ma quello che interessa qui, come in tutto il percorso svolto, sono quelli che permettono di aggiungere altre sfaccettature e altre questioni che l’infrasottile comporta e interpreta. Spesso, il più delle volte anzi, tali aspetti riguardano i limiti, i bordi, i margini delle questioni estetiche. E d’altro canto, un tale atteggiamento non è già di per sé una sfida alla centralità, al noto, al condiviso? Così, tornando alle questioni che riguardano la fotografia, numerosi sono gli artisti che indipendentemente l’uno dall’altro e dai tracciati dei movimenti artistici, hanno in particolare affrontato questioni riguardanti i suoi limiti. A partire da Marina Ballo Charmet, il cui lavoro ha i bordi anche proprio come argomento. Il nostro occhio guarda sempre al centro, ma che cosa succede ai margini della visione? Lo sguardo periferico o “la coda dell’occhio”, come lo chiama l’artista, o i “dintorni dello sguardo”, come li chiama Jean-François Chevrier1, sono un paradosso, ma illuminante. Paradosso perché la macchina fotografica non possiede questo tipo di sguardo, tuttavia il tentativo di riprodurlo restituisce immagini singolari e invita a guardare diversamente. Nelle periferie infatti, nei margini, sui bordi ci sono cose diverse, piccoli segni, forme, presenze, metafore, che ci portano altrove:

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La sparizione è un’ulteriore versione del mimetismo: mi confondo con le forme dell’ambiente per emanare dei segni che, differenti quel tanto che basta, emergono come fenomeni naturali, o come «piccoli miracoli», come li ha anche chiamati l’artista, eventi che sembrano nati da soli, dietro ai quali “fa capolino” l’artista, come da una dimensione diversa, quella dell’«uomo come sempre». Dice ancora l’artista: «L’abilità sta nella fusione di due mondi: l’impero dell’impegno e della storia con l’accadere panico dei giorni e degli accidenti; il talento è costruire un senso senza mostrare di occuparsene»10. Dunque niente sottolineature, rivendicazioni, esibizionismi, atteggiamenti epici o pretese risolutive, niente spettacolo, niente “sistema dell’arte”... Non distante dall’atteggiamento di Martegani è quello di Eva Marisaldi: fili d’erba appena visibili tra il parquet della galleria (Vegetare, 1994), biglietti e guanti nelle tasche di una giacca appesa (Divisa, 1994), paesaggi di polvere (Una ragazza senza un gioiello, 1996), rabdomanti (Zone neutre, 1998), farfalle e insetti (Voliera, 1998), camaleonti (Musica per camaleonti, 2004), percorsi ad ostacoli (Jumps, 2007) o a scelta (Grigio nonlineare, 2010) e molto altro, attraverso i modi e i materiali più diversi, dal bassorilievo al ricamo, dal video alla maquette, dal disegno all’installazione. Ma di che cosa si occupa in realtà? Qual è il suo argomento infrasottile? La polvere la lega alla riconciliazione11, gli insetti all’attrazione chimica, il camaleonte al mimetismo, Senza fine (2000) è sul contatto fisico, Tempesta (2002) parla del pensiero, Legenda (2002), un video in cui piccoli sassi stanno al posto delle persone in una seduta tumultuosa in un anfiteatro tipo Parlamento, parla di «verità che non sappiamo»12. Insomma Marisaldi si occupa dei comportamenti umani, dei loro aspetti più impalpabili ma al tempo stesso determinanti, in un certo senso più “reali”, concreti, quotidiani dei grandi sistemi o delle questioni generali. Sono il lato infrasottile dei comportamenti umani, le soglie, le zone di passaggio tra l’individuale e il sociale, l’intimo e il pubblico, le motivazioni, le condizioni.

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Eva Marisaldi, Pixeland, 2003. Installazione di 94 disegni formato A4, pesce in polistirolo e coriandoli. Courtesy: Maxxi, Roma

Questo

Marisaldi

lo

fa

con

discrezione,

recuperando

molte modalità e tecniche obsolete – «iperfluo» lo chiama, contrapponendolo al superfluo (avrebbe potuto dire “infrafluo”...) –, rischiando volutamente una «bassa risoluzione» che ritiene necessaria: «La grazia ha a che fare con la spartanità, il provvisorio, l’opposto del leccato»13. D’altro canto, afferma con decisione, rovesciando certi luoghi comuni: «La realtà non imita l’arte, però è potente e negativa in certi casi. Gli artisti che lavorano sulla provocazione» – si potrebbe dire: che lavorano sulla realtà in modo diretto, specchiante – «oggi sono in difficoltà»14. Anche Luca Vitone cerca temi e comportamenti che leghino il personale con il sociale in maniera infrasottile. Ha iniziato il suo percorso con un’apparente tautologia: la pianta della galleria, composta di un’unica stanza, riportata in scala 1 a 1 su un grande foglio di carta steso sul pavimento della galleria stessa (Galleria Pinta, 1988). Poi interviene la cancellazione: le Carte atopiche (1988-1992) sono carte geografiche da cui sono cancellati i toponimi. Che cosa rappresentano ora? Che cosa si conosce o riconosce? Che cosa si vede? Di seguito l’artista si apre a una varietà di interventi diversi: dal 1993 abbina mappe a musiche dei luoghi rappresentati (Sonorizzare il luogo, 1989), offre cibi tipici locali (Pratica del luogo, 1992), oppure invita musicisti

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Infine

Con la Rete entriamo nella dimensione più critica del presente. Con essa sono cambiate molte cose, come sotto lo sguardo di tutti. Distinguere diventa sempre più difficile e vitale, vedere diversamente anche e soprattutto. Molti pensano sempre di essere alla fine, che tutto sia già stato fatto, e non vedono, non vogliono vedere ciò che è in atto, che qualcuno sta già inventando altro. L’arte sta cambiando e cambierà di nuovo. Diventerà tutto spettacolo o virtualità? Si fonderà o confonderà con gli altri usi, vernacolari, ludici, esteticamente indifferenti? In parte lo sta già facendo, ma in fondo proprio il futuro, il cambiamento, la nascita del nuovo sono dimensioni infrasottili.

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Infrasottile L'arte contemporanea ai limiti di Elio Grazioli

postmedia books 2018 198 pp. 79 ill. isbn 9788874901999

in questa collana: Nicolas Bourriaud, L'exforma, 2016 Roberto Pinto, Artisti di carta, 2016 Molly Nesbit, Il pragmatismo nella storia dell'arte, 2017 Teresa MacrĂŹ, Fallimento, 2017 AA.VV., Roberto Daolio. Aggregati per differenze (1978-2010), 2017 AA.VV., Arte fuori dall'arte, 2017 Alessandro Demma, Il museo come spazio critico, 2018

Finito di stampare nel mese di marzo 2018 in 590 copie presso Ebod, Milano tutti i diritti riservati / all rights reserved è vietata la riproduzione non autorizzata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia o qualsiasi forma di archiviazione digitale. All rights reserved. No part of this book may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic or mechanical, without permission in writing from the Publisher. Postmedia Srl Milano www.postmediabooks.it


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