Al di fuori del blocco rimasi paralizzato e alzai lo sguardo al cielo. Dov’erano le anime di milioni di persone che si erano sollevate in cenere? Ora, pensai, i colpevoli vivono da benestanti, prendono in braccio i propri bambini e sono buoni padri di famiglia e nonni.
Le BUSSOLe 10
OLOCAUSTO
BenjAmin jACOBS
il dentista di Auschwitz Una storia vera Traduzione e cura di Alessandro Pugliese
GINGKO
Titolo originale dell’opera: THE DENTIST OF AUSCHWITZ: A MEMOIR © Copyright 1999 BenjAmin jACOBS Traduzione dall’inglese: © 2012 ALeSSAnDrO PUgLieSe © Copyright 2012 gingkO eDiziOni San Pietro Capofiume (BO) www.gingkoedizioni.it i eDiziOne Ottobre 2012 Collana Le Bussole iSBn 978-88-95288-40-6 Progetto grafico di copertina: © 2012 ATALAnTe
IndIce PrefAziOne 17
CAPiTOLO 1 | Deportazione
21
CAPiTOLO 2 | Una piccola Shtetl in Polonia
33
CAPiTOLO 3 | La Blitzkrieg
43
CAPiTOLO 4 | L’occupazione tedesca
55
CAPiTOLO 5 | Il ghetto a Dobra
65
CAPiTOLO 6 | Steineck
95
CAPiTOLO 7 | Zosia
109
CAPiTOLO 8 | Krusche
129
CAPiTOLO 9 | Gutenbrunn
155
CAPiTOLO 10 | L’uccisione della mia famiglia
187
CAPiTOLO 11 | Sui carri bestiame verso Auschwitz
197
CAPiTOLO 12 | Auschwitz
219
CAPiTOLO 13 | Fürstengrube
229
CAPiTOLO 14 | Il dentista di Auschwitz
267
CAPiTOLO 15 | La marcia della morte
275
CAPiTOLO 16 | Dora-Mittelbau
285
CAPiTOLO 17 | Disastro sul Mar Baltico
297
CAPiTOLO 18 | Inferno
307
CAPiTOLO 19 | Dove andiamo?
325
CAPiTOLO 20 | La Germania del dopoguerra
POSTSCriPTUm
Prefazione
N
el luglio del 1985 mi unii a un gruppo di dodici uomini e donne ebrei provenienti dagli Stati Uniti in una missione d’inchiesta oltre la Cortina di Ferro. Nelle capitali di Polonia, Romania, Ungheria e Cecoslovacchia facemmo visita a un piccolo numero di ebrei troppo vecchi per partire e iniziare una vita altrove. La maggior parte di essi viveva in Altersheims, case per anziani sostenute dalla filantropia ebraica. La vita ebraica che avevano conosciuto un tempo, ormai non esisteva più, e l’antisemitismo era ancora diffuso. Per gli ebrei, Hitler aveva vinto la Seconda Guerra Mondiale. Quando tornai a Boston mi misi a sedere e feci il punto della situazione. Dovetti confrontarmi con il debito che avevo, e iniziai a parlare pubblicamente su come e perché quasi un intero popolo è stato cancellato dalla faccia della terra. Durante quel periodo i piccoli frammenti di memoria che si erano fissati nella mia mente come immagini olografiche, si ampliarono e riportarono indietro le mie esperienze sotto forma di vividi dettagli. Ma la vita non sempre segue una strada dritta, come ho imparato nella mia giovinezza. Un giorno, nel corso di una visita di routine nello studio del medico, in attesa di rassicurazioni sul buono stato della mia salute, appresi il contrario. « Hai un cancro alla gola » mi fu detto. Il mio buon amico, il dottor Goroll, devastato quanto me, insistette sul fatto che mi sottoponessi immediatamente a un’operazione, già il giorno successivo. I
Il dentista di Auschwitz
Mi figurai il peggio. La mia lingua era diventata indispensabile. Avevo visto quale effetto produceva sui giovani, come li aiutava a capire l’importanza del risentimento dinanzi ai pregiudizi. Avrò ancora una voce? mi chiedevo. Il pensiero di diventare muto era opprimente. Chiesi ai medici una prognosi, ma i medici sono prudenti, non speculano. Fortunatamente, il tumore era piccolo e, grazie a un intervento chirurgico tempestivo e a settimane di radiazioni, la mia voce cambiò di poco. Sapevo, però, che i medici non potevano nemmeno prevedere il futuro. Un presentimento continuava a dirmi: ‘‘Scrivi, potresti non essere in grado di parlare ancora a lungo’’. Dovetti mettere pertanto su carta le mie esperienze, e il mio lavoro si intensificò. I commenti da parte degli altri risultarono lusinghieri e incoraggiarono la mia stessa voglia di scrivere. Questa, dunque, è la mia storia. Anche se questo libro è il frutto dei miei ricordi — alcuni forse rimangono ancora bloccati nel mio subconscio, troppo profondi perché io riesca a farli emergere del tutto — esso non avrebbe potuto essere scritto senza il prezioso aiuto che ho ricevuto da molte fonti. Il numero enorme mi impedisce di ringraziarle tutte. Tuttavia, sarei negligente se ne omettessi alcune. Nel documentarmi su Auschwitz III, Fürstengrube, sono in debito con Tadeusz Iwaszko, scrittore e archivista presso il Museo Statale di Auschwitz. La mia gratitudine va al dottor Dirk Jachomowski del Ladesarchiv Schleswig-Holstein, e al dottor Marienhöfer del Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo, in Germania, per i documenti riguardanti il disastro della Cap Arcona sul Mar Baltico. Sono particolarmente riconoscente a Edith Pfeiffer della Hamburg-Südamerika Dampfschiffahrts-Gesellschaft e alla Hamburg-Amerika line (Hepag), per i registri aziendali, i documenti, II
Prefazione
e la storia del transatlantico di lusso Cap Arcona, nonché per avermi aiutato ad ottenere informazioni ‘top secret’ relative al bombardamento e all’affondamento della nave. Ringrazio Barbara Helfgot-Hyatt, professoressa alla Boston University e raffinatissima poetessa, che fin dal principio mi ha incoraggiato a scrivere questo libro. Vorrei anche esprimere la mia gratitudine a Ina Friedman, scrittrice prolifica sul tema dell’Olocausto, che ha letto le prime cento pagine del manoscritto e mi ha detto: « Scrivi. Stai bruciando del sacro fuoco dello scrittore ». Un ringraziamento speciale va ad Arthur Edelstein e Marge Garfield, per le loro revisioni di talento del manoscritto. Un grazie particolare a Marco Dane, per il suo tempo prezioso e per l’apparecchiatura fornitami per scrivere — senza la quale starei ancora battendo su una vecchia macchina. Nella realizzazione del progetto, una menzione molto speciale è d’obbligo per la dottoressa Karen E. Smith. Sono in debito con lei per i suoi indispensabili consigli. Infine, ringrazio mia moglie, Else, per aver mantenuto alto il mio spirito durante gli oltre quarantaquattro anni del nostro matrimonio. Al resto della mia famiglia, ai miei amici, e ai miei vicini di casa le mie più profonde scuse per essere stato un eremita mentre scrivevo. Ho volutamente evitato di appesantire il testo con note e riferimenti, in modo da non tormentare il lettore che non è interessato alla ricerca. Le imprecisioni, gli errori e i falsi giudizi sono miei e in nessun caso sono riconducibili alle persone qui menzionate, che hanno contribuito così generosamente.
III
il dentista di Auschwitz
A mio fratello, Josek, che per grazia di Dio è stato risparmiato dalla morte nei campi. A mia sorella, Pola, e a mia madre e mio padre. E ad altri che non sono stati risparmiati per raccontare la loro storia.
1
Capitolo DEPORTAZIONE
L
a mattina del 5 maggio 1941 tre vecchi camion sbuffavano su una strada di campagna polacca, con a bordo centosessantasette ebrei di Dobra, un villaggio nella regione del Warthegau. Erano diretti verso una destinazione nota solo ai loro rapitori. Era primavera, ma i campi, pieni di boccioli colorati, sembravano senza vita in quel cupo mattino. Gli uccelli canterini, le cui melodie di solito riempivano l’aria del paese a maggio, erano stranamente silenziosi. Quello era un giorno buio per la nostra comunità. Il Consiglio ebraico, per decreto di Herr Schweikert, il governatore nazista della regione, aveva consegnato per la deportazione in un campo di lavoro tutti gli uomini ebrei di età compresa tra i sedici e i sessant’anni, con l’eccezione di un maschio per ogni famiglia. Dato che mio fratello maggiore era di salute cagionevole, mio padre volle partire al suo posto e io mi offrii per andare con lui. Mio fratello rimase con mia madre e mia sorella nel ghetto. Mio padre ed io eravamo autorizzati a portare con noi due fagotti ciascuno, ma mia madre insistette affinché prendessi, insieme alle mie necessità, anche i pochi strumenti dentali che avevo avuto dal mio primo anno di formazione odontoiatrica. Non sapevo, allora, che quegli strumenti mi avrebbero salvato la vita. Il volto di mia madre era segnato dal dolore. Pola, mia sorella maggiore, con coraggio trattenne le lacrime, e mio fratello Josek promise di essere all’altezza del suo nuovo ruolo
Il dentista di Auschwitz
di capo famiglia. Tutti sentivamo l’angoscia della separazione, e volsi il capo a guardare lontano per trovare il coraggio di andarmene. I miei genitori non avevano manifestato spesso affetto reciproco in pubblico, e mai e poi mai di fronte a noi. Quel giorno, però, siccome poteva essere l’ultima volta, si strinsero senza pudore. Mentre ci voltavamo, mamma ricordò a tutti noi di non perdere di vista ciò che avevamo deciso di fare. « Quando quest’incubo sarà finito » disse, con le lacrime agli occhi, « ci ritroveremo tutti di nuovo qui ». Sulla strada per la scuola cittadina, il posto in cui dovevamo assemblarci, osservammo scene simili. Ad ogni porta un piccolo dramma si consumava. Una giovane ragazza piangeva e non voleva lasciare andare suo padre, all’apparenza sapendo che non lo avrebbero mai più rivisto. Quando giungemmo al cortile della scuola, gli uomini delle SS erano ovunque. Con le loro uniformi nere e gli stivali lucidi, con il teschio e le ossa incrociate sul berretto, personificavano il male. La fibbia delle loro cinture recava l’ironico slogan ‘‘Dio con noi’’. Al centro del cortile c’era il temuto Herr Schweikert, insieme a Morris Francus, il capo del Consiglio ebraico. Due dei poliziotti ebrei del ghetto dovevano venire con noi. Chaim Trzan, un ex macellaio, era perfettamente adatto a quel lavoro, ma l’altro uomo, Markowicz, sembrava non averne la stoffa, perché era un tipo semplice, con più compassione che rabbia. Sminuito dall’altezza degli uomini delle SS, c’era anche il deputato agli Affari ebraici per il Warthegau, il dottor Neumann. Tarchiato e di mezza età, aveva capelli bianchissimi e luminosi occhi azzurri. La sua postura diceva tutto: senza dubbio era lui che comandava. I nazisti sapevano come mettere ebreo contro ebreo. Avevano creato un Consiglio ebraico, il Judenrat, proprio a tal fine. A Dobra, i membri del Consiglio erano sedicenti leader della comunità, ma in realtà si comportavano come individui
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Deportazione
privi di una qualunque coscienza. Con l’aiuto dei poliziotti che essi stessi designavano, esercitavano su di noi un potere indiscriminato. E per quanto potesse essere difficile per loro districarsi nelle scelte che nessun essere umano dovrebbe mai fare, i membri dello Judenrat in primo luogo si premuravano di mettere al riparo se stessi, le loro famiglie, i loro amici dalle privazioni e discriminazioni che il resto di noi doveva affrontare. Non sapevano che dopo aver inviato la loro gente a morire, anche loro sarebbero caduti vittime alla fine della stessa sorte. Mentre Francus leggeva ad alta voce i nostri nomi, noi rispondevamo ‘‘Jawohl’’. Alle nove i cancelli del cortile della scuola furono spalancati e, in gruppi di circa cinquantasei per camion, ci imbarcammo sui tre veicoli. Le SS saltarono sulle sponde per controllarci di nuovo, dopodiché gettarono una rete al di sopra. Non appena prendemmo velocità per le strade acciottolate, vedemmo in un portone due donne che guardavano i camion che si avvicinavano. Ci facemmo più avanti, e papà e io riconoscemmo la mamma e Pola. Timidamente coprivano la loro toppa gialla con la Stella di David, e agitavano le mani verso di noi. Ci voltammo indietro a guardarle, il nostro cuore pesante come le nuvole scure in cielo, fino a quando non furono più visibili. Da quel momento la nostra famiglia fu divisa per sempre. Ebbene, eravamo centosessantasette uomini ebrei, dai sedici ai sessant’anni; uno, due, e in alcuni casi anche tre della stessa famiglia, con competenze, stili di vita e formazione differenti. Eravamo uniti nella stessa sorte, e legati assieme in un viaggio tanto a noi estraneo quanto i tempi che stavamo vivendo. Guardai mio padre e vidi il fiero capo della nostra famiglia impietosamente impotente. Appoggiato al cassone del camion, fissai il pennacchio scuro del gas di scarico che fuoriusciva, credendo di intravedere in esso il mio futuro nero. Per trovare un po’ di conforto, ripensai alla mia infanzia.
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