COLLANA BIANCA
Le bussole
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ROMANZO
MARCO BIAZ
FUGA DAL MONSONE
Prefazione Maurizio DiMaggio Postfazione Marco Biaz
Due cartine e quarantasei illustrazioni
Titolo dell’opera: Fuga dal monsone © Copyright giugno 2008 by Marco Biaz © Gingko edizioni - San Lazzaro di Savena (Bo) I EDIZIONE giugno 2008 Collana Bianca - Le bussole ISBN 978-88-95288-03-1
Le illustrazioni contenute nel volume, ad eccezione di quelle di proprietà dell’autore, non sono coperte da copyright. Provengono da fonti ignote, libere comunità di fotografi, viaggiatori, i quali intendono divulgarle senza scopo di lucro.
Progetto grafico di copertina: Atalante
Per ordini rivolgersi a: Gingko edizioni via Fratelli Canova n° 66 40068 - S.Lazzaro di Savena Bologna Tel./Fax: 051.0868301
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Marco Biaz è nato a Ivrea nel 1964. Il sogno del viaggio gli ha fatto girare gran parte del mondo da solo. Ora, quando può, lo fa con suo figlio che ama osservare i paesaggi dai finestrini dei bus. E’ autore di racconti premiati in concorsi letterari e pubblicati su diverse antologie e sul sito de I Quindici della Wu Ming Foundation. Il suo primo romanzo, Trecentomila, è uscito nel 2007 per la Giraldi Editore di Bologna. Sul web suoi racconti di viaggi e scritti sono disponibili all’indirizzo: http://biazzetti.altervista.org/
Prefazione di Maurizio DiMaggio
ual è il peggior incubo di un viaggiatore? Ritrovarsi forse nel bel mezzo di un conflitto etnico, costretto ad inginocchiarsi una mattina all’alba con la faccia schiacciata nella sabbia di una spiaggia paradisiaca, mentre un miliziano con il fiato che puzza di arrack ti minaccia con il suo AK 47? O forse svegliarsi all’aeroporto di Mosca dopo una sbronza e scoprire che il tuo connecting flight è già partito, e che il prossimo volo sarà tra una settimana e dovrai sopravvivere senza soldi e bagagli nel limbo dell’Area Transiti, assieme ai profughi somali e bosniaci? Nel 1996 Marco Biaz raccolse i suoi bagagli di viaggio, i suoi appunti, e iniziò a scrivere questa storia partorita due anni prima nel corso del suo viaggio di ritorno dal Sud Est asiatico. Aveva girovagato in lungo e in largo per India, Sri Lanka, Nepal, Bangladesh, Thailandia, Malesia, Indonesia, zaino in spalla, per 12 mesi, in solitaria. Durante quel viaggio aveva conosciuto viaggiatori provenienti da ogni angolo del mondo, dei quali aveva annotato storie, sogni, itinerari, fallimenti. Dopo aver sfogliato le centinaia di pagine scritte dal giorno in cui era sbarcato con un biglietto di sola andata a Colombo, chiuse le sue finte Moleskine, lasciò sfogare i ricordi, rendendosi presto conto che tutto ciò che aveva appuntato non gli serviva più: era storia, passato. Bisognava soltanto assimilarlo. Ciò che ne scaturì non fu una storia regolare, lineare, che prevede un inizio e una fine, ma un file abbandonato per anni in un vecchio computer Olivetti che nel 2002 Biaz riprese e riscrisse completamente. Il lavoro terminò nel 2005, una volta superata per sempre l’onda lunga d’irrequietezza che lo aveva ubriacato durante il viaggio. “Fuga dal monsone”, ancora oggi, non è la narrazione classica di una splendida avventura, e non potrebbe mai esserlo. E’ una successione ad incastro d’immagini istantanee sulla vita dei diversi viaggiatori che Biaz ha incontrato e conosciuto. Impiegati, hippy attempati, musicisti, hostess, raccoglitori di tulipani, trekker, sognatori, spacciatori, finti guru, futuri barman berlinesi. Ciò
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che li accomuna è il viaggio inteso come un bivio, soluzione ai problemi o punto di rottura definitivo. Il romanzo non è un reportage di viaggio, ma un racconto sui viaggiatori occidentali. Ne racconta gli incubi peggiori, i sogni più intimi, gli amori, le disillusioni, le motivazioni, gli umori, i progetti. Ne registra la sete di vivere, l’anelito libertario, l’incerta serenità nella routine cittadina, la delusione per le menzogne del passato, le aspettative di rinnovamento sulle quali avevano investito per ricominciare tutto daccapo; la chimera di lasciarsi tutto alle spalle, di boicottare la vita ordinaria, di emanciparsi dai sentimenti guasti e ingannevoli, dai rapporti umani ridotti a semplice scambio d’informazioni, ma anche la sfida di mettere sotto assedio le vecchie abitudini, la noia, la propria corruzione come risorsa umana. Quarantenni, trentenni, ventenni accomunati dalla diserzione dal regime routinario. Nuovi viaggiatori, esploratori, avventurieri che hanno abbandonato gli impegni, il lavoro, il denaro, le bollette da pagare, le sicurezze economiche, sociali, affettive per scoprire come e dove si riesce a vivere la parte migliore di se stessi, a qualsiasi costo. Nel libro nascono leggende come quella di Peter Jackson e muoiono nuovi amori sbocciati sotto le piogge monsoniche. Francesca e Jean s’incontrano al duty free di Dubai e s’innamorano. Una volta sbarcati in Sri Lanka, finiscono sotto le bombe delle Tigri Tamil e poi, senza volerlo, come se fosse un automatismo di difesa indotto, affrontano il malessere di un effetto a breve termine che si ostinano a chiamare passione. Il terrore, anziché rafforzarli, pone l’urgenza di riflessioni più profonde circa la scelta di abbandonare una serie di clichè consolidati per provare a rifarsi un’altra vita altrove. Il sogno di partire e lasciarsi tutto alle spalle, che avevano a lungo bramato, s’impantana nelle ordinarie logiche dell’amore, nell’incapacità di liberarsi del tutto dalle abitudini che per trent’anni li avevano accomunati. Quel ritenersi veramente liberi - solo perché lontani da casa - impedisce ad entrambi di affrancarsi dal fardello degli egoismi, rendendo impossibile l’immersione spensierata in una realtà diversa, che avrebbe potuto rendere il loro amore privo dei fantasmi del passato. II
Solo dopo tanti anni Marco Biaz ha potuto percorrere questo suo viaggio a ritroso e stringere nuovamente la mano alle persone incontrate. La storia s’intreccia con le tematiche già affrontate da Seneca: il viaggio non è necessariamente un’esperienza che arricchisce. Spesso è una fuga da se stessi. E’ lo specchio infranto delle illusioni di chi lo compie, di chi lo persegue unicamente come un sogno. Il sogno stesso del viaggiare, se caricato di troppe aspettative, una volta realizzato rischia di sostanziarsi in un mero fatto compiuto. Un altro appuntamento con la nostra storia, come crescere, lavorare, proliferare e morire di tumore o infarto. Viaggiare non significa cambiare, o migliorare, ma disinnescare quella bomba ad orologeria collocata nella psiche umana, sovrapponendo ad ogni ripartenza un progetto, come un tentativo perpetuo di sublimare il senso dell’esistenza.
Maurizio DiMaggio è una delle voci più note di Radio Monte Carlo, dove è approdato nel 1988. Gli ascoltatori lo conoscono come “DiMaggio sempreinviaggio”, per il suo entusiasmo nel raccontare i posti lontani che ha visitato. E’ inoltre giornalista specializzato in viaggi ed eno-gastronomia, speaker pubblicitario e realizzatore di documentari di viaggio per la televisione del Principato di Monaco. Ha fatto anche il copywriter in un’agenzia pubblicitaria di Torino, ed è stato un apprezzato DJ in discoteca e sulle navi da crociera.
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FUGA DAL MONSONE
A Diego Pasinato
IL MIO TRENO SI CHIAMA BRENDA
’una di notte, Victoria station, Bombay, caos babelico. Scopro di aver dormito per terra, schiena contro schiena con un ragazzo indiano. Dov’è il mio treno per Delhi? Per qualche minuto resto imbottigliato in un caleidoscopio di colori, giochi, sonni, odori, preghiere, cartacce, e bambini, e gente che mangia e uomini che urinano contro i muri: l’India è qui, sotto i miei occhi. Un grappolo di migliaia di vite cinte da un abbraccio ferroviario. Inizio a saltare le persone come in una gara a ostacoli. Il mio treno è in partenza. Sul mio biglietto è segnato tutto per bene, orario, prezzo, vagone e cuccetta. Non sembra, ma in questo marasma i treni sono una cosa seria. Corro e corro così veloce che la gente stravaccata a terra mi guarda incuriosita. Ha gli sbirri alle costole lo straniero? Una lista affissa sulla porta del vagone, riporta decine di altri nomi. Il controllore è lì, in procinto di dare il via. Lui sa tutto. Punta il dito verso di me. - Come ti chiami? - Bauman. - Perfetto, su svelto, in carrozza! Non ha nemmeno verificato il biglietto. Dalla faccia si capisce che è uno che gli stranieri li inquadra e liquida con un colpo d’occhio. Una volta raggiunto il mio posto, zaino sulla cuccetta, tiro il fiato. C’è di tutto intorno a me. Bebè che urlano, donne che cercano di tranquillizzarli, di assopirli, uomini che fumano, venditori ambulanti che rimbalzano ovunque e che urlano a squarciagola frasi incomprensibili. Il finestrino è stato sprangato con tubi arrugginiti, e, come in un flash, il film di Cassandra Crossing scorre davanti ai miei occhi. Le cuccette sono dei pagliericci privi di imbottitura, bolle d’aria calda sono spinte da quattro ventilatori inchiodati al soffitto. Mi sdraio sulla cuccetta, lo zaino sotto la testa, e provo a non pen-
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Victoria Terminus, oggi Chhatrapati Shivaji, Bombay, India. Nel 2004 è stata inserita nell'elenco dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO.
3 sarci. Dopo alcuni mesi di viaggio, alcune ore su un altro treno non fanno molta differenza. Al momento dell’acquisto del biglietto, mi hanno garantito che per raggiungere Delhi ci vogliono dalle dieci alle quindici ore. Minuto più, minuto meno. Dipende da una serie di fattori legati a qualcosa d’inspiegabile; al fato, tenuto conto che sono in India. Mi chiamo Roland Bauman, da poco ho compiuto trentacinque anni e da qualche tempo un insistente mal di schiena mi affligge. Il dolore è arrivato per caso, fortissimo, un giorno di cinque anni fa, mentre ero seduto al computer dell’ufficio di Hannover. Avevo cercato di alzarmi e, tac, non c’era stato verso di rimettermi dritto. Colpo della strega. E’ finita. Mi sono dato per morto. Tanto tempo speso a lavorare, per poi ritrovarmi come quadrupede con le lacrime agli occhi. Sognavo aerei presi al volo, galoppate su spiagge immacolate, Sud America e Nuova Caledonia. In questo stato, non vai da nessuna parte: sei un cadavere che cammina. A quattro zampe. Mi sono affidato ai massaggiatori. Qualcosa hanno combinato. Il fatto inconfutabile è che ho le lombari schiacciate e che, ogni tanto, quando gli gira, si fanno le coccole sfregandosi l’un l’altra. Infiltrazioni, manipolazioni, antinfiammatori, fino a quando non mi rimettevo in piedi, o, per meglio dire, davanti al computer dell’ufficio. Ogni tanto mi chiedo se non ho perso degli anni seminando vento, anzichè combinare qualcosa di buono, come fanno gli inglesi che spesso incontro. Ne ho conosciuti un bel po’, nessuno che abbia più di ventisei anni. Come dire, per lavorare c’è sempre tempo. Io ho fatto il percorso inverso. Niente da dire, ma il mal di schiena non è un problema che infastidisce gli inglesi. Magari bevono un po’ troppa birra, ma di notte non passano ore a cercare una posizione nel letto. Ad ogni modo, e al diavolo gli inglesi, il sogno di prendere aerei al volo, di galoppate su spiagge immacolate, Sud America e Nuova Caledonia, è stato più forte dell’infiammazione alle lombari e, così, un bel giorno, ho spento il computer e sono andato a ritirare i soldi in banca. Non avevo mai viaggiato da solo per scelta. Ma era stato impossibile trovare qualcuno che mi seguisse in avventure che
4 richiedono una ghigliottina per il presente. Un taglio per alcuni versi drammatico: da domani, sotto i tuoi occhi scorreranno immagini diverse. C’è di che aver timore. Scongelare se stessi dalle abitudini, non è facile come sembra. E’ la prima volta che salgo sull’espresso Bombay-Delhi. Una ragazza londinese me ne ha parlato male. Si chiamava Wendy e l’ho incontrata alla Salvation Army di Colaba. Carina, bionda, sempre di buon umore, il brutto ricordo è stato provocato dalla sua sventatezza nel mettersi una gonna corta per affrontare il viaggio. Faceva caldo, e cos’altro di meglio che una mini avrebbe reso lo spostamento meno afoso? Non le ho chiesto la durata del tragitto, ma mi era chiaro che per lei doveva essere stato un vero incubo, a causa degli sguardi giaguari degli uomini indiani. Ore e ore a quel modo, mai uno sbadiglio. Se stai via tanto tempo e non hai risorse illimitate, ti devi arrangiare con ciò che costa meno e produce il maggior numero di fastidi. Non è per scelta, ma per necessità. A casa è un po’ lo stesso sbattimento; per mangiare, affitto e tutto il resto, anche se ogni mese incameri uno stipendio. E’ l’esatto contrario dell’homo oeconomicus , dell’ottimizzazione delle risorse: tutto ciò che fai è destinato a languire nell’effimero, a computare le briciole del quotidiano. Il viaggio ha il privilegio che ci pensi una sola volta e poi t’accontenti del peggio: il viaggio è la speranza avverata. Fa un caldo terribile. Se piazzo il viso di fronte al ventilatore del soffitto, le gocce di sudore schizzano via come schegge. Gli altri passeggeri sembrano non farci caso, imperturbabili, trascendono; le donne immobili e avvolte nei loro sari , gli uomini impegnati a masticare il paan e a sputacchiare grumi di saliva rossa come il sangue. Quella miscela di spezie allevia la stanchezza, e io ritengo che sia un segno evidente della brevità del percorso. Chi glielo farebbe fare di dormire poche ore e male? Chai, coppee, chaiiiii! Tè e caffè, una litania in lungo e in largo, sotto e sopra il treno, ovunque, che arriva direttamente dal fondo della notte indiana. Il treno è affollato di venditori ambulanti di tutto e di nulla, che
5 insistono nell’andare su e giù per i vagoni, incessantemente. Dal gabinetto arriva una puzza di piscio tremenda. Nessuno pare accorgersene, la porta resta aperta. Rallentiamo, il treno si ferma alla periferia di Bombay. Ci sono luci che brillano nell’oscurità, ma sono luci diverse, deboli, che sembrano affievolirsi a poco a poco. In molti scendono, si fumano una sigaretta finché non arriva un brusco scossone, improvviso, senza nemmeno il fischio che annuncia la ripartenza e così risalgono in carrozza in tutta fretta. Le donne si siedono, i bambini si rimettono a dormire, gli uomini sputano una selva di proiettili rossi e poi abbandonano i finestrini sprangati sui quali sembrano appollaiati da mezzo secolo, i venditori continuano a sbandierare la loro mercanzia. Forse, l’unico modo per viaggiare in India sospeso nella stessa forma di fatalità induista, prevede un’indipendenza netta rispetto alla vita del suo popolo. Vedi e metti in conto, nessun coinvolgimento emotivo. I bambini muoiono per una piccola infezione, i vecchi pure, le donne vengono ammazzate dai mariti per incamerare nuove doti, l’acqua è imbevibile, il caos è inenarrabile, lo smog nelle megalopoli è insostenibile, caste e non caste: non fa niente, fatalismo punto e basta. La morte non nuoce, non fa paura: c’è il Samsara da mandare avanti, il ciclo delle reincarnazioni che permette di raggiungere il Nirvana, perché prendersela se domani sarai steso su una pira o gettato in un fiume? Piacerebbe anche a me, davvero. Solo che io, da buon occidentale, ho bisogno di garanzie scritte: dio è una delle tante materie buone per non fidarsi. Non è una questione di autocontrollo, di determinazione, insensibilità, o capacità di giudizio, bensì di non coinvolgimento in fatti che non ti riguardano. Sei testimone di uno spettacolo che a casa potresti vedere soltanto alla tv, birra fresca, nessun odore strano, niente profumi, sudori, venditori che ti guardano come nessuno ha mai osato fare. E non sbagliarti a incrociare i loro occhi, altrimenti è finita: non te li levi più di dosso. - Biryani! - urla uno magro come un osso. Ha una cassetta di cartone legata al collo con una corda delle serrande, fuma, mastica paan, il bianco degli occhi talmente giallo che sembra essersi spalmato della maionese avariata. - Biryani !, Biryani !
6 Di primo acchito, sembra vendere delle confezioni di riso allo zafferano con canditi multicolor, e non mi pare una buona idea posare la mia attenzione un secondo di più su quella roba. Il treno abbandona la periferia di Bombay e s’infila nella notte. Un pacchetto di umanità sudaticcia avvolto nel buio. Per certi versi, l’India è stata una scelta involontaria: avevo in mente il Sudamerica e le spiagge immacolate della Micronesia, Nuova Caledonia su tutti. Diciamo che è stata questa cosa chiamata destino ad assegnarmela, anche se io ci credo poco; lascio agli indiani il compito di affidarsi alla Provvidenza. L’India deve rappresentare comunque un luogo scevro d’interessi emotivi, che sperimenta certe capacità di cavarsela in situazioni precarie, senza dover sventolare una carta di credito per un soffio d’aria condizionata. Molti errori, nessun rimorso. Un vanto. Ci dovrebbe essere tutta un’altra vita per guardarsi indietro e giudicare. Unico rischio la mia schiena. Il dolore mi manda a dire che c’è un’età per fare delle cose, e un’età per farne delle altre. Non puoi dilatare il tempo delle scelte all’infinito. Non ha senso. Non puoi nemmeno compiere gli stessi atti per un lasso di tempo troppo esteso. Chi sostiene che finché c’è vita c’è speranza, si riempie la bocca di stupidaggini. Alla mia schiena, a tutto ciò che frulla nella mia testa e che in qualche modo dubita sulla mia tenuta, dico che non c’è un solo motivo per tornare indietro: rimettersi davanti al pc e attendere il giorno che mi porteranno via in barella. Oggi sono vivo, prima facevo autostop al futuro, qualcosa che non esisteva. Tutto passa, privo dei mezzi per rendertene conto, seduto lì, soprattutto seduto, intorpidito, annebbiato da un sogno di novità che non ti darà mai un passaggio sul suo yacht. Ci sono solo barelle bianche che aspettano immacolate nella loro freddezza. Oggi sono vivo. Com’è potuto succedere? Non c’è una sola ragione per tornare sui miei passi. Ho piazzato un sacco di bersagli sulla strada, e finché non li avrò centrati tutti non rimetterò in gioco la partita. Un po’ come fanno i venditori ambulanti di questo treno: non smettono di strillare e di dondolarsi avanti e indietro fino all’ultimo pezzo venduto. Devono fare
7 fuori tutto. Anche se ciò gli costerà uno spostamento di settecento chilometri da casa. - Polish? Polissssssh? Leggermente chinato, come un serpente, muove la testa, gli occhi sbarrati, i baffetti e i capelli neri corti, la pelle della faccia che si affloscia sulle mascelle, i denti sverniciati di ‘rosso paan ’, le mani che tremano insieme alla cassetta che tiene al collo: un tutt’uno che si muove con il treno. Tu-tum-tu-tum... - Polish? - ripete. Sibila. Mi mostra una spazzola, un tubetto nero. Mi chiedo cosa possa mai volere da me, che ho i piedi al fresco, appena fasciati da un paio di sandali estivi con la chiusura in velcro. - Polish? Polish? E dire che lui non ha nemmeno le scarpe! Nessuno ad ogni buon conto si scompone, nemmeno i bambini che dormono. Studio brevemente la situazione e noto come una sorta di preghiera negli occhi degli altri viaggiatori. Fatti dare una spazzolata, su, così smamma e spegniamo la luce. Ehi, dove mai s’è visto che uno si fa lustrare i sandali prima di coricarsi? Cos’è, anche questo è preso da qualche divinità indù? Di solito me ne sbarazzo facilmente dei seccatori. Vai al diavolo, con aria cattiva, che allontana pure i bambini più insistenti. Stavolta però è notte, su un treno, e non c’è spazio per farmi largo altrove. Se mi sposto in un altro vagone cambia poco: prima o poi il Polishman ed io sbatteremo di nuovo addosso. Pim... pum... pam... si sente nel corridoio. - Biryani! Un tratto sconnesso di binario, d’improvviso, fa rotolare per terra il venditore di riso allo zafferano e canditi. Nessuno gli dà una mano. Lui si rialza da solo, rimette in sesto la cassetta di cartone e riattacca: Biryani! Biryani! Polishman, dal canto suo, gli lancia subito uno sguardo che è un monito a non mettere piede nel nostro scompartimento. Nel frattempo mi sorride come dovesse comunicarmi qualcosa di speciale: non ti preoccupare, abbiamo tutto il tempo io e te per trovare un’intesa. E’ un po’ come ritrovarsi in un vecchio film polve-
8 roso, stesso caldo, lui da una parte, io dall’altra: vince chi preme il grilletto per primo, chi è più preciso. Biryani però non si schioda. Sta lì, in attesa degli eventi, fa finta di allungare il collo e lo sguardo verso l’andazzo del corridoio, ma è chiaro il suo scopo: se va giù lui, mi butto nella mischia. Pim... pum... pam... Il treno rimbalza sui binari e lui rimbalza contro tutti. Le scatole di riso giallo volano ancora per terra e questa volta dalle cuccette del corridoio qualcuno si lamenta ma senza troppa convinzione. Lui non fa una piega, raccoglie la sua roba e riattacca. - Biryani! Biryani! Biryani! Polishman fa finta di scrutare un orologio che non possiede, una smorfia verso di me, una rapida panoramica dello scompartimento, si volta, fa due passi, noto che ha la camicia craterizzata di macchie di unto, poi si rigira, sbatte le palpebre, allarga le braccia e fa ruotare le mani. E’ un tipico gesto indiano. Significa diverse cose. Nel suo caso: io sono qui, vado fino dove vai tu. Imito il suo gesto: non mi muovo, vedi un po’ tu. Per liberarmene, in verità, l’idea che mi frulla in testa è di stuzzicare Biryani per far saltare i nervi a Polishman. Quanto costa il tuo risottino? Funzionerebbe. I due comincerebbero senz’altro a litigare, animatamente, e i passeggeri, che li hanno sopportati fino ad ora, li caccerebbero dal vagone. Ci penso un po’, in lungo e in largo, l’obiettivo di metterli contro non mi dà la sensazione della genialata. C’è un rischio da calcolare, anzi due: Polishman è sicuro che se faccio il filo a Biryani ho da spendere anche per una spazzolata ai sandali; Biryani, tutto sommato, qualche scatola di riso l’ha venduta, e la gente potrebbe tenerselo buono per la colazione, prima di giungere a Delhi. Mi viene da sorridere. Fino a qualche mese prima, tutti i giorni mi facevo cento chilometri per andare e tornare dal lavoro. Binario unico, tre ore di viaggio in totale. I vagoni non fumatori erano affollatissimi, mentre gli altri erano semivuoti e puzzolenti. D’inverno gelido e d’estate torrido. Tutti i personaggi bizzarri che lo affollavano, da quella che anda-
9 va al cesso dopo ogni fermata, al tizio della Mondialpol che puliva il revolver ogni sera. Chaiiii, coppiii, chaiiiii! Un bambino si mette a piangere, la luce è di nuovo accesa, un uomo si tira su e accende una sigaretta, un altro si stiracchia e sbadiglia come se si fosse appena svegliato da una lunga dormita. Guardo l’ora. Le quattro. Fa meno caldo. Ho la gola secca. Ci vorrebbe un chai. Mi calo giù dalla branda e fermo il venditore notturno. Mi porge il tè in un bicchiere di vetro, che si riprende con le cinque rupie dopo che l’ho svuotato. Il tè è caldo, al latte, molto zuccherato, tipicamente indiano: buono da morire (se non hai una sete da paura). Ne prendo altri due. I bicchieri li lava in una bacinella con dell’acqua che è superfluo osservare: se non nuotano batteri grossi come vipere, ci manca poco. L’India è India anche per questo, ti devi fidare di tutto, inclusi i suoi microrganismi che ti possono spedire in ospedale. Le infezioni intestinali sono un test necessario per la sopravvivenza. Dopo averle superate, puoi bere anche l’acqua delle pozzanghere di Calcutta e sentirti in splendida forma. Chaiii, coppi, chaiiii! Mi sento toccare sulla spalla, è il venditore di tè, la faccia stravolta dalla stanchezza. Ha un’età indefinibile, smunto, non mastica paan e ha i denti bianchi. - Chai? - mi chiede, sollevando un bicchiere vuoto. Ma sì, alla malora il sonno! Il tè è forte da queste parti. Se sei morto di sonno non fa niente, ma se sei in ballo con l’insonnia, la speranza di dormire è spacciata. All’alba i fanciulli smettono di piangere, gli uomini di fumare, le donne di cullare i bambini e di dire ai loro mariti di smettere di fumare. Basta un lampo rosso nel cielo e quel pacchetto di umanità cambia di colpo. Il treno rallenta e dopo un po’ si ferma in una stazione. E’ una stazione grande. Sono così stanco che non mi preoccupo del nome. Una delle tante, sulla rotta Bombay-Delhi. Salgono altri venditori, mentre Polishman e Biryani lasciano la truppa. Quest’ultimo ha la cassetta vuota: il suo lavoro l’ha fatto
10 fino in fondo. Adesso metterà su un nuovo carico e tornerà a Bombay con il prossimo treno. Avanti e indietro, carica e scarica, così per tutta la vita. Salgono anche altri viaggiatori. Una donna entra nel nostro scompartimento e si siede nell’unico posto rimasto libero. E’ una ragazza indiana, sui venticinque anni, filiforme, stranamente vestita all’occidentale, pantaloni di lino beige, camicia nera, sandaletti di cuoio, senza un filo di trucco. Si guarda intorno, prima distaccata, poi con un sorriso placido, passa in rassegna gli occhi di tutti; sui miei si ferma un nanosecondo. E’ uno schianto d’indiana! Pelle leggermente ambrata, lineamenti perfetti, portamento regale, aria da intellettuale femminista emancipata che mi mette addosso una certa carica. Vive in una grande città, ci scommetto l’anima. Ha una valigia blu, dalla quale pende un cartellino dell’Indian Airlines. Si chiama Brenda e abita a Calcutta. Brenda è una bellezza e, probabilmente, sta girando l’India in treno per dare una rinfrescatina alla sua vocazione sociologica. Mi sembra di sentire il suo profumo. Soffoca le zaffate di piscio, il sudore impregnato sui vestiti. Lei non mi considera, io me la spupazzo con gli occhi. Al collo porta una collana di oro bianco, ha un anello d’argento per mano, nessun segno di riconoscimento tipico delle donne indiane, come il terzo occhio sulla fronte o un accenno di piercing al naso, i capelli scuri, quasi lucidi, che sono raccolti da un fiocco nero, e labbra rosse che sembrano disegnate da un artista in una notte di follia creativa. Viaggia da sola. Nessuno la conosce. Se fosse bionda e con gli occhi azzurri, gli uomini le inchioderebbero gli occhi addosso; invece è una stronza dell’upper class che vuole farsi qualche ora sull’express Bombay-Delhi, una che non ha trovato posto in prima classe e che, per una volta, vuole vivere l’India anche con l’olfatto. Non è degna di uno sguardo. Fosse una bionda inglese, anche ricca, ma lei no. La trovo superba. Me ne invaghisco in pochi attimi. Basta poco, quando sei solo dall’altra parte del mondo. Ma come si fa con le donne indiane?
Dadar station, lungo la linea ferroviaria detta Central line che serve l’India meridionale, l’India orientale, e alcune zone dell’India settentrionale.
12 Nello scompartimento piomba all’improvviso un nuovo venditore di chai, che non urla ma è tutto sgangherato, dal fisico all’abbigliamento: peggio di tutti quelli che ho visto finora. Lancia una rapida occhiata all’interno e poi si pianta su Brenda. Fa un passo indietro, inchiodato sull’ingresso, sembra un lupo affamato, un cane da caccia, un falco che non ti aspetti. L’approccia in hindi, mentre gli altri passeggeri allungano le orecchie continuando a ostentare indifferenza. Puoi spendere tutta la notte a riflettere, ma non ti verrà mai in mente che un mescitore di tè indiano possa portarti via Brenda. Roba da pazzi. Non per altro, ma quello deve far fuori la sua brodaglia, mica perdere tempo con la fanteria pesante. Brenda gli risponde in perfetto inglese che non gradisce il suo tè. Magari più tardi. Svogliata, incurante, un palmo da terra. Il venditore passa all’inglese e le chiede dove sta andando di bello. Lei non risponde: lo squadra dal basso in alto senza espressioni particolari, ma non lo smonta. Per lui la tattica è uguale a quella del resto del mondo: battere e ancora battere, finché non te la danno per sfinimento. In effetti, devo ammettere, Chaiman non mi dispiace: ha del fegato. Al suo posto, non le avrei nemmeno rivolto la parola, timoroso per un probabile fallimento. Ma siamo diversi. Io ogni tanto mollo l’accelleratore, lui va dritto al punto, a tavoletta. Ogni lasciata è persa. Se non provi, non sai, tentare non nuoce, chi non risica non rosica, le donne sono come i nodi e basta insistere, chi la dura la vince, il lavoro paga e avanti così. A me certe bastonate fanno male dalla testa al cuore, per lui prenderle è una regola. C’è solo un modo per farlo fuori: intromettersi. Mi devo inserire nel loro botta e risposta fatto di avanches ruspanti e atteggiamenti blasé tipicamente femminili. Smonto dalla cuccetta, con il pacchetto di sigarette, e propongo alla ragazza di farci una fumata nel corridoio. C’è un attimo di impasse. Chi è ‘sto bifolco con l’odore da colonialista? Lei orienta la visuale nella mia direzione, nota le Marlboro, fa una leggera smorfia, poi solleva il pollice e mi segue. Chaiman mi fulmina con
13 lo sguardo e si fa da parte per farci passare. Se avesse un coltello, mi avrebbe già sbudellato. - Sei il suo boy friend? - mi chiede, fingendo un sorriso. Annuisco, e poi aggiungo: - Perché, non si vede? Brenda in piedi è ancora più affascinante. Mai più uno pensa d’incontrare tanta leggiadria sul treno per Delhi. - Fumi? - le domando. - Tu, che ne pensi? - mi fa, appoggiando una mano sul fianco. Cinque minuti prima una frase del genere mi avrebbe causato una vampata d’imbarazzo tale che mi sarei nascosto in cuccetta fino a destinazione. Ma adesso la musica è cambiata: il Chaiman giù, io con le Marlboro in mano. - I casi sono due… - I casi sono sempre due - m’interrompe. - Se non fumavo, mica stavo qui, no? Compatta, tutta d’un pezzo, da fioretto e sponda in un colpo solo. Le porgo il pacchetto, aziono l’accendino e si mette a fumare. Lunghe boccate... si gode la cicca con ingordigia, fino a metà, senza scambiare una parola. A un certo punto, poi, blocca la fumata e mi squadra con un bel sorriso. - Chi sei? - chiede. - Bauman, Roland Bauman. - Perché gli hai detto che sei il mio boy friend? - I casi sono due... - Sono sempre due - ripete. - Per levartelo dai piedi. - Se è solo per questo ci riuscivo anche da sola. Gli uomini basta ignorarli per farli correre. - Diciamo che mi faceva piacere informarlo che tu sei la mia donna. Lei si toglie la sigaretta di bocca e lascia andare la mano lungo il corpo. - Sarebbe questo il secondo caso? Scambiamo quattro chiacchiere informali, solite frasi introduttive, tenendoci a debita distanza dalla porta del bagno. Il tanfo è in aumento e per fortuna che si sono abbassati molti finestrini.
14 Brenda mi racconta di una sua amica che è andata a trovare per qualche giorno. Adesso sta tornando a casa. Le chiedo perché ha deciso di viaggiare in treno. - Ho cercato di viaggiare in prima classe - chiarisce, gonfiando il mio petto d’orgoglio. - Ma non c’era più posto. E poi mi hanno detto che negli ultimi tempi, se sei fortunato, su questa linea puoi anche assistere a un assalto al treno. - Ti rapinano e se la squagliano? - Sì, come nei film - precisa. A parte le rapine, i treni mostrano un sacco di cose. E’ la noia di usarli tutti i giorni che mi ha portato a osservare gli altri. Ho imparato a distinguere i pazzi dai normali, quelli che arrivano a casa e s’attaccano alla bottiglia, quelli che lucidano la pistola per nascondere il fatto che non hanno mai sparato un colpo nella vita, quelli che vanno in giro di notte a uccidere gatti e cani, le donne che muoiono di noia e quelle con l’amante che l’accompagna fino al treno. Basta salire tutti i giorni su un treno. Andata e ritorno. Brenda è di buona famiglia, è laureata, fa l’avvocato, legge parecchio; il suo scrittore preferito è Norman Mailer. Mailer va bene anche a me. Se fossimo saggi, ci sposeremmo all’istante, su questo treno. Il fatto che sia uno dei miei autori preferiti non cambia la situazione di una virgola: sono milioni i lettori che amano Mailer. Ma mettiamola in questi termini: la cosa insolita, è trovare una donna indiana appassionata di Mailer, ecco. Mentre parliamo la fantasia galoppa. Brenda ed io viviamo insieme in una città indiana, ci amiamo, ci sposiamo, dei bambini corrono attorno a noi. Cose semplici, naturali, facciamo quadrare il cerchio della vita, perché lei non dovrebbe accettare? Sposare un indiano o un occidentale, che differenza fa? Mentre il nostro dialogo s’infittisce, la pelle che vibra per l’emozione, quattro occhi incollati che non smettono di bramare il contatto fisico, si rifà vivo il venditore di tè, Chaiman. Stavolta non regge la cassetta con la mercanzia legata al collo. S’inserisce fisicamente tra noi due e mi scruta con aria di sfida appoggiandomi una mano sul petto.
15 - Stai correndo dei rischi - avverte, bocca storta, mento gagliardo. Con la coda dell’occhio, noto che nel corridoio si sono girati tutti, e dagli scompartimenti fanno capolino altri curiosi. Chaiman sembra convinto. Mi viene da inghiottire della saliva, cerco gli occhi di Brenda tra le fessure di quel fisico consunto che si frappone tra noi. Lui avvicina la fronte alla mia. - Siamo intesi? - strilla. - Cosa? - gli domando. Lui finge un sorriso. Si gira verso il pubblico, nutrito, grazie alla sua piazzata. - Perché hai detto che sei il suo ragazzo? - sbotta, indicando con il pollice dietro le sue spalle. - Perché non continui a vendere chai? - gli dico. Una persona di buon senso, mi avrebbe ascoltato, ma quello si sente il figlio del Lucky Luciano di Bombay e fa partire una capocciata che schivo per miracolo. A quel punto sblocco il destro e gli squarcio lo stomaco. Si piega in due, un fiotto rosso gli esce dalla bocca, paan, poca cosa. Reazione più che giustificata, ragiono. Legittima difesa: se non lo piegavo, mi sbriciolava il setto nasale. Appoggio un braccio attorno alle spalle di Brenda, che ha l’aria spaventata e, evidentemente, non ama trovarsi in situazioni di questo tipo, ma lei, divincolandosi, scoppia: - Ma cosa fai? - Come sarebbe a dire? - le dico stupito. - L’hai malmenato! Mezzo ammazzato! Ma ci si comporta in questo modo? Sei un violento, un picchiatore, un pazzoide! Scuoto il capo. - Pensa a Gandhi… - mi fa. - Il Mahatma non ci teneva al suo naso? - le domando. Le mie parole non la convincono: si contrae sempre di più. Il nostro coup de coeur è svaporato con un colpo preciso allo stomaco. Se il Chaiman aveva l’obiettivo di togliermela di torno... - Sei un attaccabrighe - aggiunge - giri il mondo per picchiare i più deboli. - Vecchi, donne, bambini - io sorrido amaramente, - e venditori di chai.
16 Il Chaiman intanto si alza, bava alla bocca, i crampi allo stomaco che gli impediscono di stare dritto. Brenda gli chiede qualcosa in hindi, lui la manda a stendere con un chiaro gesto della mano. - Che ti ha detto? - le chiedo, con una voglia matta di suonarlo ancora. - Niente - risponde lei, chinando il capo e morsicandosi il labbro inferiore. - E’ una puttana - s’intromette il Chaiman. Mi volto verso di lei. - Una puttana! - ripete. - Dimmi che sta scherzando? - chiedo a Brenda. - No - risponde lei. Il Chaiman pontifica: - Stranieri schifosi, rovinamondo, materialisti, inquinatori, consumisti, guerrafondai, razzisti, sporcaccioni, alcolizzati e puttanieri! Vorrei uno specchio per vedere come sono riuscito a trasformarmi in Ronald Reagan. Brenda accenna qualcosa in sua difesa, ma il Chaiman la zittisce ancora: - Chiudi il becco, sozzona, che ti sparo! E sì, che questa signorina ha mille risorse. Così fine, intelligente, bella, sensuale, femminista, soprattutto egualitaria; gli occhi gli pulsano di collera, scalda i muscoli, stringe i pugni e poi, pum!, parte con un ceffone in pieno volto. Il Chaiman si piega su un lato, lei scioglie l’altro braccio e gli molla un nuovo sganassone. Due colpi a freddo, destra e sinistra sul solco di una cristallina giustizia intellettuale. Il Chaiman è tramortito, nella sua esilità fa quasi pena, se non fosse per la linguaccia che si ritrova. Gli altri passeggeri annuiscono lentamente, facce tuttavia contrite e labbra accartocciate, come se la ragazza indiana avesse fatto un ottimo lavoro ma era meglio evitare certe scenate, anche se ora si può proseguire fino alla capitale in santa pace. Brenda tira un lungo respiro, si rimette a posto i capelli, poi si tocca il naso ed emette una sorta di sibilo. Bella metamorfosi! E pensare che fino a pochi minuti prima avevo già i nostri marmocchi tra le gambe! C’era qualcosa che non filava nella mia immagi-
17 nazione, certo troppo fervida, spontanea, direi malsana, basta un’occhiata e io mi creo un nuovo mondo per fuggire dal presente; ma cosa c’è che non va? Il caldo mi dà alla testa? Lo spettacolo è finito. Si torna in cuccetta. C’è chi prova a riaddormentarsi con il sole che picchia sulla testa. Il Chaiman decide che il pavimento può essere per lui una buona sistemazione per completare il tragitto. Brenda sparisce. La perdo di vista in un attimo, così come in un attimo era entrata nella mia vita. Non fosse arrivato questo seccatore, Brenda ed io saremmo impegnati a sussurrarci frasi d’amore, guancia a guancia, e a fissare la data delle nozze. Invece sono qui, l’amaro in bocca per aver suonato un indiano e aver smarrito un potenziale grande amore. Non ci conoscevamo, ecco tutto. Brenda faceva tanto la charmant, e poi… certe cose uno manco se le immagina, non pensa di ritrovarsi in una storia del genere, sull’espresso Bombay-Delhi. Vishnu, Sai Baba, santoni, Shiva e Parvati, il mistero della fede, Ganesh, storie millenarie, Benares , Osho, il Gange, l’Himalaya, il fumo, il Mandala, così tante religioni abbracciate da un immenso territorio di un miliardo di persone, Gandhi, la non-violenza, il colonialismo, l’indipendenza, Nehru, Indira, un intreccio di esperienze e spiritualità e, a te, cosa ti va a capitare? Non raccontarla, mi sono detto mille volte, è una vicenda che non vale nemmeno la pena di confidare dopo una cena intima, dopo aver trincato del buon vino, perché potrebbe soltanto dare una cattiva immagine di un paese meraviglioso. L’orologio adesso indica le nove. Tre ore e sarò a Delhi. Mi fermerò un paio di giorni e poi tirerò su fino a Srinagar dove ho in mente di riposarmi una settimana su una houseboat prima di affrontare il viaggio in bus fino a Leh, in Ladakh. Il treno fa sosta in una piccola stazione. C’è talmente tanta gente che entra ed esce dai convogli che non riesco nemmeno a leggere il nome della fermata. In ogni caso non voglio guardare fuori: non sopporterei di vedere Brenda allontanarsi senza salutare. Dopo almeno mezz’ora di sosta il treno riparte. Al posto di Brenda si siede un vecchio ingobbito, con tanto di bastone e guance rinsecchite, avrà almeno cent’anni e sta in piedi per miracolo.
18 Devo andare in bagno. Mi tappo il naso ed entro nella toilette. Con una mano mi sbottono e faccio pipì, mi rimetto in sesto ma quando sto per uscire sento uno sparo improvviso. Una scossa elettrica mi parte dai piedi e sale fino al cervello. Ho come mille aghi che mi pungono il cuoio capelluto. Subito mi vengono in mente le parole del Chaiman : “Chiudi il becco, sozzona, che ti sparo!”. Brenda… Una nuova schioppettata mi trattiene dall’impulso di uscire e di andare in suo soccorso. Infilo un occhio nella fessura della porta e vedo un paio di avanzi di galera con la pistola in pugno. E’ un classico assalto al treno, vecchio West, ma siamo in India, diamine! Sono matti, cosa vogliono rubare su un vagone di seconda classe? Mi blindo nel cesso, chiudo la porta con le palpitazioni che salgono a dismisura, parte un altro colpo, delle urla, minacce in hindi che non comprendo, ancora uno sparo, infine saggio la resistenza dei tubi di ferro saldati sulle finestre casomai il treno rallentasse... ma sono fissati a dovere e non mi resta che attendere la fine dell’assalto al treno, sperando che i due ceffi non vengano a curiosare nella toilette. Tutto dipende dal Chaiman, che era steso a terra: se sta zitto, la passo liscia. Resto con lo sguardo inchiodato all’orologio per lunghi minuti. Venti, esatti. Sudo copiosamente. Poi il treno si ferma e due bordate risuonano nell’aria, stavolta provengono da fuori. Sento la gente urlare ed esco con fare circospetto. I banditi stanno fuggendo su una Dodge nera. “Pakistani di merda!” gridano le persone. “Ladri e farabutti!”. Tra le moltitudini di mani e teste che sventolano, rivedo Brenda in fondo al vagone: fuma e osserva con distacco ciò che succede intorno a sé. Ci vuole un’ora buona prima che il convoglio riprenda la sua corsa. Finalmente sbuca il controllore che annuncia di aver avvisato la polizia. Gli agenti saliranno alla prossima stazione, e ci consiglia di fare un inventario del maltolto. Gli chiedo se è normale che assaltino un treno in pieno giorno. Lui risponde placido: - Siamo a Bollywood, può capitare. - Tutto finto, allora?
I tipici finestrini sbarrati e senza vetri dei treni espressi indiani, frequentati soprattutto dalle classi piÚ basse. Il 18 febbraio 2007 due bombe esplose sul Samjhauta Express, un treno notturno che andava da Delhi a Lahore nel Pakistan, hanno provocato 66 morti, anche perchè i viaggiatori non si sono potuti mettere in salvo uscendo da essi.
20 Film dei miei stivali! Il controllore sbatte le palpebre e mi guarda con occhi stanchi. Rientrando nello scompartimento scopro che non è finita: il mio zaino è sparito. Macchina fotografica, walkman, mutande: mi hanno fregato tutto! Il controllore mi rassicura che per il mio bagaglio non c’è più niente da fare. Gli attori del cast non c’entrano. Il problema è che non posso nemmeno prendermela con il Chaiman. - Quanto manca a Delhi? - gli domando in un quasi rantolo. -Tra finti rapinatori, ritardo, soste nei prati eccetera… - Una vita - mi dice. - Intanto favorisca il biglietto, per favore. Chiudo gli occhi, li riapro. Come può avere il coraggio di domandarmi il biglietto dopo quello che è accaduto? E’ un uomo sui quarant’anni, pantaloni blu, camicia verde, cappello con visiera, baffetti, occhiali da vista di metallo dorato, denti bianchissimi e regolari. - Biglietto? - ripete. Prendo il portafoglio dalla tasca dei pantaloni, sfilo il documento di viaggio e glielo porgo. - Un rompiscatole quel venditore di tè - osservo, indicando il Chaiman appoggiato contro una parete del vagone, faccia assente, inebetito. - Non è un venditore di tè. Ma un fannullone che non ha niente di meglio da fare che molestare la gente sui treni. Ha viaggiato più lui in treno che tutta l’India messa assieme. Poi si leva gli occhiali e scruta con maggiore attenzione il mio biglietto, accigliato. - Non va, mister Bauman - sospira. - Scusi? - Non va… non va - mi ripete, scuotendo il capo. - Se c’è qualcosa d’irregolare, sono disposto a pagare un supplemento, l’importante è scendere incolume da questo dannato treno. - Il suo biglietto è per Delhi, signore. - Mi prende per stupido. E allora?
21 - Il problema è che questo treno non è diretto a Delhi. Va a Calcutta. Vede, stiamo entrando adesso nella stazione di Hyderabad. Un leggero, un leggerissimo sorriso ironico sfila sulle sue labbra. La smorfia di uno che ne vede di tutti i colori, anche assalti al treno con una Dodge nera. - A Calcutta? Ma è dalla parte opposta di Delhi! - esclamo. - Bravo. Come ha potuto sbagliare? Mi allunga il biglietto e si passa una mano sulla faccia, esausto. - Il treno per Delhi partiva dal binario sette, e io… - Ma ha visto quanta gente c’era in stazione? C’è stato un incidente ferroviario sulla linea Bombay - Delhi, il Rajdhani Express è deragliato poco dopo Agra e sono stati cancellati alcuni treni locali e cambiati degli orari. Il treno per Calcutta, invece che dal binario dodici, è partito dal sette, alla stessa ora di quello diretto a Delhi, fermo sul binario diciotto a causa dell’incidente… non può che essere successo così, lei è salito sul convoglio sbagliato e io non le ho controllato il biglietto prima di partire. - Non può che essere andata così - annuisco mestamente. - Lo speaker l’avrà ripetuto almeno venti volte che il treno per Delhi non sarebbe partito dal binario sette! - continua dicendomi delle varie alternative che ho a disposizione per raggiungere Delhi da Hyderabad. Afferro che si tratterebbe di una trentina di ore di viaggio, forse qualcosa in più, ma non lo seguo, ho soltanto voglia di bere acqua. Acqua fresca. Stavo dormendo schiena a schiena con un indiano, mentre annunciavano le variazioni sulla linea Bombay-Delhi. Di Delhi non me ne importa più un accidente. Devo vedere qualcuno? Devo prendere un aereo per andare da qualche parte? Sono libero di muovermi a mio piacimento. Quindi Delhi o Calcutta non fa differenza. Srinagar e Leh invece possono attendere. Ho soltanto voglia di bere della buona acqua fresca e di smettere di sudare.