Il giovane Hitler che conobbi

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l’ au to r e

AUGUST KUBIZEK, direttore d’orchestra e scrittore, fu il migliore amico di Adolf Hitler per quasi cinque anni, durante il loro periodo adolescenziale. Nacque a Linz, il 3 agosto 1888. Dopo aver lasciato la scuola trovò impiego come tappezziere nella bottega del padre, studiando privatamente musica, come violoncellista. Incontrò la prima volta Adolf Hitler in un teatro d’opera di Linz, nel 1904, stringendo con lui sin da subito un’amicizia intima ed esclusiva. Nel 1908 raggiunse Hitler a Vienna, condividendo con lui la stessa stanza ed entrando al Conservatorio, dove completò il suo ciclo di studi nel 1912. Divenne in seguito direttore d’orchestra a Marburgo sulla Drava, e poi al Teatro Comunale di Klagenfurt, in Carinzia. Allo scoppio della seconda guerra mondiale fu costretto ad arruolarsi come riservista nella fanteria austroungarica e, nonostante una ferita ricevuta in combattimento, concluse la guerra nei ranghi dell’esercito. Alla fine del conflitto accettò un incarico nell’amministrazione municipale della città austriaca di Eferding, dove visse per il resto della vita. Fondò qui un’orchestra sinfonica e diresse la vita culturale e artistica della cittadina. Alla fine della guerra, Kubizek fu arrestato dal commando investigativo dell’esercito americano. Venne arrestato e tenuto prigioniero per più di un anno. Fu rilasciato l’8 aprile 1947. Nel 1953 pubblicò il libro di memorie Adolf Hitler - Mein Jugendfreunde, presso l’editore austriaco Leopold Stocker. Ebbe tre figli. Morì a Eferding il 23 ottobre 1956.



august

Kubizek il giovane

hitler

che conobbi Traduzione dall’inglese di Daina Guidetti

GINGKO

EDIZIONI


Titolo originale dell’opera

THE YoUNG HITLEr I KNEw © 1953 by August Kubizec

IL GIoVANE HITLEr CHE CoNoBBI © 2016 Gingko edizioni ISBN 978-88-95288-70-3 Traduzione dall’inglese di Daiana Guidetti Il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1953, da Leopold Stocker Verlag, Graz - Stoccarda con il titolo: Adolf Hitler - Mein Jugendfreunde. La presente edizione italiana è stata tratta dall’ edizione del 1954, dal titolo Young Hitler, pubblicata da Allan wingate Publishers Ltd. GINGKo EDIZIoNI Molinella (Bo) www.gingkoedizioni.it Progetto grafico di copertina: © 2016 ATALANTE


i nd i c e Autore 11 18 26 36 44 51 61 74 85 100 104 119 130 141 156 171 180 187 196 206 216 229 240 253

1. Il primo incontro 2. La crescita di un’amicizia 3. ritratto del giovane Hitler 4. ritratto di sua madre 5. ritratto di suo padre 6. La scuola 7. Stefanie 8. Il giovane nazionalista 9. Adolf ricostruisce Linz 10. In quell’ora ebbe inizio 11. Adolf parte per Vienna 12. La morte di sua madre 13. Vieni con me, Gustl! 14. Il numero 29 di Stumpergasse 15. Adolf ricostruisce Vienna 16. Studio e lettura solitaria 17. Notti al Teatro dell’opera 18. Adolf scrive un’opera 19. L’‘‘orchestra Mobile del reich’’ 20. Interludio antimilitare 21. L’atteggiamento di Adolf verso le donne 22. risveglio politico 23. L’amicizia perduta 24. Epilogo



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I l p ri m o incont ro

S

e

ono nato a Linz, il 3 agosto 1888. Mio padre, prima di sposarsi, lavorava nella stessa città come garzone di un fabbricante di mobili. Quel lavoro gli serviva per pagarsi il pranzo in un piccolo caffè, laddove incontrò mia madre che faceva la cameriera. S’innamorarono e, nel luglio 1887, si sposarono. In un primo momento la giovane coppia andò a vivere nella casa dei genitori di mia madre. Il salario di mio padre era basso, il lavoro duro e, quando rimase incinta di me, mia madre dovette rinunciare al suo impiego. Così nacqui in circostanze piuttosto misere. L’anno seguente venne al mondo mia sorella, Maria, ma morì in tenera età. L’anno dopo fu la volta di Teresa; anche lei morì, all’età di quattro. La mia terza sorella, Karoline, si ammalò gravemente, resistette alcuni anni, infine morì all’età di otto. Il dolore di mia madre fu inconsolabile. Per tutta la vita visse nel terrore di perdermi, poiché ero l’unico dei quattro figli rimasti. E per questo motivo mi riversò addosso tutto il suo amore. Nel frattempo, mio padre si mise in proprio e aprì una bottega di tappezziere al numero 9 di Klammstrasse. La vecchia Baernreiterhaus, tozza e sgraziata, che si trova ancora lì come nulla fosse accaduto, diventò la casa della mia infanzia e della mia giovinezza. L’angusta e cupa Klammstrasse, in confronto all’ampio e arioso lungofiume lì vicino, con i suoi alberi e i prati, sembrava ancora più misera.


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Senz’altro, le nostre malsane condizioni abitative avevano contribuito a determinare la morte precoce delle mie sorelle, ma nella Baernreiterhaus le cose erano diverse. Al pian terreno c’era il laboratorio di mio padre e al primo piano il nostro appartamento, costituito da due stanze e una cucina, benché mio padre non fosse ancora libero dai suoi problemi economici. Gli affari andavano male, più di una volta pensò di chiudere l’attività e di riprendere il lavoro da dipendente presso qualche produttore di mobili, poi però riusciva sempre a superare all’ultimo minuto le difficoltà. Iniziai la scuola e fu un’esperienza molto spiacevole. Mia madre piangeva per i pessimi voti che portavo a casa e soltanto il suo dolore mi spingeva ad impegnarmi di più. Mentre per mio padre non v’era dubbio che a tempo debito dovessi rilevare la sua attività — a quale scopo altrimenti faceva lo schiavo dalla mattina alla sera? — il desiderio di mia madre era che continuassi a studiare nonostante gli scarsissimi risultati; avrei dovuto prima frequentare i quattro anni di scuola di grammatica, poi forse andare in un collegio di formazione per diventare insegnante. Ma io non volevo sentirne parlare, e quando mio padre decise risolutamente di mandarmi a dieci anni alla scuola pubblica ne fui contento. In questo modo, egli pensò che il mio futuro fosse finalmente determinato. Per molto tempo, tuttavia, ci fu un’altra influenza nella mia vita, per la quale avrei venduto l’anima: la musica. Questo amore esplose incontenibile a nove anni, quando mi fu regalato per Natale un violino. Ricordo distintamente ogni singolo istante di quel Natale, e quando oggi, da vecchio, ci ripenso, mi convinco che la mia vita cosciente sia iniziata proprio con quell’evento. Il figlio maggiore del nostro vicino di casa era un giovane allievo-insegnante e da lui presi le prime lezioni. Imparai bene e alla svelta. Quando il mio primo insegnante di violino ottenne un impiego nella regione, io entrai al Conservatorio di Linz, ma non mi piacque molto lì, forse anche perché rispetto agli altri allievi possedevo conoscenze molto più avanzate. Dopo le vacanze presi di nuovo lezioni private, questa volta con un vecchio sergente maggiore della Banda Musicale dell’esercito austroungarico, il quale mi chiarì da subito che non 12


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sapevo nulla e cominciò ad impartirmi i rudimenti del violino alla ‘maniera militare’. In realtà, con il vecchio Kopetzky si trattava di vere e proprie esercitazioni da piazza d’armi. Talvolta, quando ne avevo fin sopra i capelli delle sue brusche maniere da sergente maggiore, lui mi consolava assicurandomi che se avessi continuato ad impegnarmi sarei riuscito sicuramente a farmi prendere come apprendista nell’esercito, a suo parere la massima aspirazione per un musicista. Interruppi le lezioni con Kopetzky ed iniziai a frequentare la classe intermedia del Conservartorio, sotto la guida del professor Heinrich Dessauer, un insegnante di talento, scrupoloso e sensibile. Contemporaneamente, studiavo la tromba, il trombone, la teoria musicale, e suonavo nella banda studentesca. Già accarezzavo l’idea di far diventare la musica il lavoro della mia vita quando la dura realtà si annunciò. Avevo appena terminato la scuola pubblica e dovetti aiutare mio padre in qualità di apprendista. Quell’impiego mi era familiare perché in passato, quando c’era stata carenza di manodopera, avevo già dato una mano in bottega. Il compito di ritappezzare i vecchi mobili, svuotarli e riempirli di nuova imbottitura era ripugnante. Il lavoro si svolgeva tra nuvole di polvere, nelle quali il povero apprendista soffocava. Quali vecchi materassi senza valore venivano portati alla nostra bottega! Tutte le malattie che erano state vinte da chi vi si era steso sopra — nonché alcune che non lo erano state — avevano lasciato il proprio marchio su quei vecchi materassi. Non c’è da stupirsi che i tappezzieri non vivano a lungo. Senonché, ben presto imparai anche gli aspetti più piacevoli del mio lavoro: per svolgerlo sono necessari un certo buon gusto e una sensibilità artistica, il che non lo rende molto dissimile dall’arredamento d’interni. Si potevano inoltre visitare le case dei benestanti, vedere e sentire un mucchio di cose, e soprattutto durante l’inverno c’era poco o nulla da fare, e questo tempo libero, naturalmente, lo dedicavo alla musica. Quando ebbi superato con successo l’apprendistato, mio padre volle cercarmi un posto in altri laboratori. Le sue intenzioni le capivo, ma la cosa essenziale per mio conto non era migliorare le mie abilità di operaio, bensì far avanzare gli studi musicali. Ebbene, scelsi di rimanere nel laboratorio di mio padre per13


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ché lì potevo disporre del mio tempo con maggiore libertà di quanto avrei potuto fare alle dipendenze di un estraneo. ‘‘Di solito, ci sono troppi violini in un’orchestra, ma mai abbastanza viole’’. Ancora oggi sono grato al professor Dessauer per aver seguito questa massima nei miei confronti e avermi trasformato in un buon suonatore di viola. La vita musicale a Linz a quei tempi era di livello assai elevato; August Göllerich era il direttore della Società sinfonica. Discepolo di Liszt e collaboratore di Richard Wagner a Bayreuth, Göllerich non poteva che imporsi come la massima autorità musicale a Linz, tanto vituperata quale ‘‘città di contadini’’. Ogni anno la Società teneva tre concerti sinfonici e un concerto speciale, in occasione del quale, di solito, veniva eseguita un’opera corale con l’orchestra. Mia madre, che nonostante le sue umili origini amava la musica, non si perdeva quasi mai uno di questi eventi. Sin da ragazzino mi portava ai concerti e mi spiegava ogni cosa, e io, non appena iniziai a padroneggiare diversi strumenti, li apprezzai sempre di più. Il mio sogno più grande era quello di suonare in quell’orchestra, o la viola o la tromba. Ma per il momento bisognava riparare vecchi materassi polverosi e tappezzare pareti. In quegli anni mio padre soffrì molto a causa delle tipiche malattie del tappezziere. Quando un persistente problema ai polmoni lo costrinse a letto per sei mesi, dovetti mandare avanti da solo il laboratorio, e così le due cose che convissero fianco a fianco nella mia giovinezza furono il lavoro, che mi spossò non solo le forze ma anche i polmoni, e la musica, che era il mio unico amore. Non avrei mai pensato che ci potesse essere un collegamento tra i due, eppure ci fu. Uno dei clienti di mio padre era un membro del governo provinciale, organo che controllava anche il teatro. Un giorno quest’uomo venne da noi per far riparare i cuscini di una serie di mobili in stile rococò. Quando il lavoro fu compiuto, mio padre mi mandò a consegnarli al teatro. Il direttore di scena mi indirizzò verso il palco, dove avrei dovuto risistemare i cuscini. Era in corso una prova. Non ricordo quale pezzo stessero provando, ma si trattava di certo di un’opera. Ciò che ricordo è la magia che mi suscitò lo stare lì sul palco, in mezzo ai cantanti. Mi sentii rinato, come se solo allora, per la prima volta, stessi scoprendo me stesso. Teatro! Che mondo fantastico! Un uomo se ne stava lì in piedi, splendida14


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mente vestito, e mi sembrava una creatura di un altro pianeta. Cantava con così tanta gloria che non riuscivo ad immaginare come potesse parlare in modo ordinario. L’orchestra rispondeva alla sua voce potente. Pur trovandomi in un contesto assai familiare, tutto ciò che la musica aveva rappresentato per me fino ad allora parve insignificante. Solo in combinazione con il palco del teatro la musica sembrava raggiungere la sua più alta e solenne epressione, la vetta più elevata che si possa immaginare. E io, un miserabile piccolo tapezziere, me stavo lì, a sistemare i cuscini su quelle poltrone rococò. Che lavoro pietoso! Che grama esistenza! Teatro, era quella la parola che avevo cercato. Fantasia e realtà iniziarono a fondersi nella mia mente eccitata. Quel tipo impacciato, coi capelli arruffati, in grembiule e con le maniche di camicia arrotolate, che se ne stava lì dietro le quinte ad armeggiare con i suoi cuscini come per giustificare la sua presenza — era proprio solo un povero tappezziere? Un povero sempliciotto disprezzato, spinto di qua e di là dai clienti e trattato come fosse una scala, messo a destra e a sinistra a seconda del bisogno del momento e poi, una volta che non serviva più, messo da parte? Sarebbe stato assolutamente naturale se quel piccolo tappezziere con i suoi arnesi nelle mani si fosse fatto avanti verso le luci della ribalta e, a un cenno del direttore d’orchestra, avesse cantato la sua parte solo per dimostrare al pubblico in platea, anzi a un mondo attento, che in realtà non era quel pallido spilungone del negozio di Klammstrasse, ma uno che doveva avere il suo posto sul palco del teatro! Da quel momento rimasi prigioniero dell’incantesimo del teatro. Lavando le pareti in casa di un cliente, applicando la colla, apponendo una mano di fondo di giornali e poi incollando la carta da parati, per tutto il tempo mi perdevo a sognare un fragoroso applauso nel teatro, vedendomi come direttore di fronte a un’orchestra. Quel sognare non facilitava il mio lavoro, e a volte capitava purtroppo che i pezzi di carta da parati risultassero fuori posto. Ma tornato al laboratorio, la vista di mio padre malato mi faceva subito capire a quali responsabilità dovessi sottostare. E così oscillavo tra sogno e realtà. In casa, nessuno aveva sentore del mio stato d’animo; piuttosto che svelare una sola parola sulle mie segrete ambizioni, mi sarei morso la lingua. Anche a mia madre nascondevo le mie speranze e i miei pro-

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getti, anche se lei, forse, si figurava ciò che occupava i miei pensieri. Ma come avrei potuto aggiungere altre preoccupazioni? Il risultato era che non avevo nessuno con cui sfogarmi. Mi sentivo terribilmente solo, un emarginato, così solitario come solo un giovane a cui si è rivelata per la prima volta la bellezza della vita e la sua pericolosità può esserlo. Il teatro fece nascere in me un nuovo coraggio. Non perdevo un solo spettacolo. Anche se stanco dopo il lavoro, niente poteva tenermi lontano dal teatro. Naturalmente, con i piccoli stipendi che mio padre mi pagava, potevo permettermi solo un biglietto per i posti in piedi. Ero solito perciò andare nella cosiddetta ‘‘Promenade’’, dalla quale si aveva la vista migliore; e del resto, non trovai nessun altro posto con un’acustica migliore. Appena sopra la Promenade c’era il palco reale, sorretto da due colonne di legno. Queste colonne erano molto popolari tra i frequentatori abituali della Promenade poiché erano gli unici posti dove uno poteva sostenersi e godere di una visuale indisturbata sul palco. Se ti appoggiavi contro le pareti, invece, queste colonne ostacolavano sempre il tuo campo visivo. Io ero felice di poter riposare la schiena stanca a quelle lisce colonne dopo aver trascorso una dura giornata in cima alla scala! Naturalmente, per accaparrarsi quei posti, bisognava recarsi al teatro molto presto. Spesso, sono le cose banali che lasciano una traccia durevole nella memoria. Posso ancora vedermi correre dentro il teatro, indeciso se scegliere la colonna di destra o di sinistra. Di frequente, tuttavia, una delle due colonne, quella di destra, era già occupata; qualcuno era ancora più entusiasta di quanto lo fossi io. Tra l’infastidito e il sorpreso, fissavo il mio rivale. Era un giovane pallido e magro, più o meno della mia età, che seguiva lo spettacolo con gli occhi lucidi. Ipotizzavo che appartenesse a una classe più elevata perché era sempre vestito con meticolosa cura ed era molto riservato. Ci notammo a vicenda senza scambiare una parola. Nel corso dell’intervallo di uno spettacolo, qualche tempo dopo, iniziammo a parlare poiché entrambi non approvavamo l’esecuzione di una scena. Ne discutemmo e ci rallegrammo del nostro comune punto di vista critico. Mi colpì subito la sua sicumera. Se in questo egli era senza dubbio superiore a me, dall’altra 16


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parte, quando si trattava di parlare di questioni puramente musicali, ero io a sentirmi superiore a lui. Non riesco a ricordare la data esatta di quel nostro primo incontro, ma sono abbastanza certo che si trattasse di un giorno prossimo alla festa di Ognissanti del 1904. La discussione andò avanti per un po’ — egli non rivelò nulla dei suoi affari personali, né io pensai fosse necessario parlare dei miei. Senonché, ci mettemmo a discutere sempre più intensamente di tutti gli spettacoli a cui ci era capitato di assistere e intuimmo che entrambi avevamo la stessa passione per il teatro. Quando lo spettacolo terminò, lo accompagnai a casa, al numero 31 di Humboldtstrasse. Nel congedarci, mi rivelò il suo nome: Adolf Hitler.

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