il tempio
degli sciacalli
FICTION
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Ne Il tempio degli sciacalli l’autore racconta la storia del suo percorso professionale all’interno di uno dei tanti ‘templi’ in cui gli uomini-sciacalli competono per una ricchezza che altro non è che la storia della loro miseria.
l’ au to r e
VINCENZO RAIMO nasce a Ravenna, il 22 settembre 1950, da madre insegnante e padre musicista. Dopo essersi dedicato in giovane età al giornalismo stampato e poi a quello televisivo, in qualità di annunciatore del TG serale per un’emittente del ponente ligure, viene attratto dal mondo delle vendite ed entra a far parte di un importante gruppo multinazionale. Trentenne, trasferitosi a Torino, Raimo inizia un percorso manageriale che, dopo alcuni anni, gli permette di dedicarsi alla conduzione e formazione del personale di vendita di un’altra nota multinazionale, gestendo in prima persona anche il core business di una delle sue divisioni.
iL TEMPIO DEGLI
SCIACALLI vINCENZO
raIMO
GINGKO
EDIZIONI
IL TEMPIO DEGLI SCIACALLI Copyright © 2015 Vincenzo Raimo © 2015 Gingko edizioni ISBN 978-88-95288-53-6 GINGKO EDIZIONI Molinella (BO) www.gingkoedizioni.it
Progetto grafico di copertina: © 2015 ATALANTE
i n di c e INTRODUZIONE 13 17 21 26 30 35 40 43 50 58 65 71 79 84 90 93 99 104 111 116 120 124 127 133 139 144 150
CAP. 1. CAP. 2. CAP. 3. CAP. 4. CAP. 5. CAP. 6. CAP. 7. CAP. 8. CAP. 9. CAP. 10. CAP. 11. CAP. 12. CAP. 13. CAP. 14. CAP. 15. CAP. 16. CAP. 17. CAP. 18. CAP. 19. CAP. 20. CAP. 21. CAP. 22. CAP. 23. CAP. 24. CAP. 25. CAP. 26. CAP. 27.
Quando un giorno ci troveremo a dover rispondere di ciò che abbiamo fatto di buono sulla Terra, ci perderemo a cercare nel libro della nostra vita almeno una bella pagina da leggere.
I nt roduzi o ne e
P
asseggiando in riva al mare, mi soffermo per qualche istante a guardare le onde che s’infrangono sulla scogliera e non riesco a fare a meno di volgere lo sguardo al passato. Da bambino, lungo la battigia c’erano le barche dei pescatori. Raccoglievo conchiglie e l’acqua era di una tale limpidezza che faceva venire la voglia di fare il bagno anche in pieno inverno. Oggi non è più così. Il mare è sempre lì, ma sembra non essere lo stesso. Lungo il bagnasciuga, al posto delle barche e delle conchiglie ci sono pezzi di legno e qualche bottiglia. Io vivo qui, in una cittadina del ponente ligure, per certi aspetti un piccolo paradiso baciato sempre dal sole, dove l’aria che si respira è diversa da quella delle città nelle quali l’essere e l’apparire sono per molti gli unici infiniti di una radicata cultura. Durante gran parte della mia vita ho viaggiato, sempre in corsa e sempre in tiro, scoprendo alla fine che premere troppo sull’acceleratore non rende felici. Dove vivo io non si corre troppo dietro l’orologio, e si riesce ancora a riconoscere i colori che danno un senso alla vita. Per rendersi conto di come tutto stia continuamente cambiando, occorre aprire il giornale o fare il giro dei canali TV, dove molti predicano la menzogna avendo scelto come unico Dio il denaro. Sono molti i personaggi che ho conosciuto negli ultimi quindici anni — alcuni fatti con lo stesso stampino, come avessero avuto un’unica mamma. Ho compreso che tutto ciò che è scritto nel libro della vita d’ogni uomo serve a cogliere gli insegna-
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menti di un raccolto, anche se a prima vista può non sembrare dei migliori. Mi sono reso conto di quanto sia importante levare lo sguardo al cielo e capire che nessuno di noi è l’unico regista della propria storia. Questo libro descrive una delle tante storie dei giorni nostri. Parla di un uomo che, negli ultimi anni della sua carriera professionale, è stato vittima di mobbing, tradito da coloro che reputava i suoi migliori amici. Ma il soggetto principale è il profitto. Il mobbing, nel mondo del lavoro dipendente, è stato ed è tut’oggi una strategia messa in atto dal datore di lavoro al fine di indurre qualcuno a dimettersi dal proprio incarico, facendo pressione sulla sua psiche, isolandolo e privandolo della propria dignità, sino a distruggerlo psicologicamente. E siccome uccidere non significa soltanto togliere la vita a un uomo, ma anche solo privarlo della propria dignità, vorrei far riflettere con quanto ho scritto tutti coloro che vivono una vita inutile, ovvero priva di buone azioni e ricca di miseria, i quali non hanno alcun rispetto della dignità umana e utilizzano troppo spesso parole come solidarietà, carità, amicizia, fratellanza, dimostrando con i fatti di non conoscerne il significato; vorrei far riflettere tutti coloro che non sono di esempio alla dottrina che professano e usano frasi evangeliche per incantare le grandi platee. Pur trattandosi di una storia realmente accaduta, i nomi contenuti in quest’opera sono unicamente frutto dell’immaginazione artistica dell’autore. Ogni descrizione e riferimento a fatti, persone, aziende, nomi e luoghi è puramente casuale e non intenzionale.
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Uno e
Le b ra v e p ersone e l a t ort a con l e ca ndel i ne
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avoravo in una multinazionale, la multinazionale delle multinazionali, l’azienda che tutti invidierebbero, dove tutti desidererebbero fare anche solo uno stage, in cui i giovani che escono dalla Bocconi sognerebbero di fare Marketing per poi decollare per mete lontane. Lavoravo per quest’azienda con sede operativa per l’Italia a Milano, ed ero uno dei tanti uomini del settore commerciale. Milano è una città che ti prende in un modo incredibile. È il centro di tutto e, a volte, il tutto di niente — dipende dai punti di vista e dal prezzo che si è disposti a pagare, perché l’importante è comprendere dove si voglia andare e da che parte si voglia stare. Occorre discernere e poi decidere se la tua storia debba basarsi sull’essere, oppure renderti consapevole che nulla è eterno e che ciò che conta è cercare di aggiungere al libro della tua vita qualche bella pagina da ricordare. Milano può offrirti tanto ma anche toglierti ogni cosa, quando meno te lo aspetti. Per sopravvivere si è sempre di corsa, con lo sguardo puntato sull’orologio, spesso incazzati con i più deboli e sorridenti con i forti. Eravamo nell’aprile del 2006. Da pochi giorni avevo rassegnato le mie dimissioni e il Direttore Commerciale dell’azienda per la quale avevo lavorato per oltre dieci anni aveva inviato alla rete di vendita una comunicazione organizzativa, il cui contenuto era:
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Vi comunico che il sig. Omiar Zeno, Champion Retail dei Marchi Regionali dell’area Nord Ovest, ha lasciato la nostra azienda per andare in pensione.
Ciò che conta è sempre la forma. In verità, in quei giorni mi stavo dando tanto da fare per cercare un nuovo impiego, altro che pensione! Non avevo ancora l’età per indossare le pantofole. Trovare lavoro a cinquantacinque anni in un paese di disoccupati, dove la preferenza era rivolta a giovani precari, la cui offerta prevedeva profili da super manager, con contratti di lavoro spesso vergognosi, era veramente duro. La comunicazione continuava: Omiar ha lavorato per undici anni nel nostro Gruppo, maturando una lunga esperienza all’interno dell’area commerciale, ricoprendo diversi ruoli nella Divisione dei Marchi Regionali e contribuendo in modo propositivo alla loro integrazione nel portafoglio prodotti dell’azienda.
E ancora:
Ringrazio l’amico Omiar per l’attività che ha svolto con noi in tutti questi anni, e sono certo che tutti voi vi unirete a me nell’augurargli un periodo di meritato riposo e di soddisfazioni personali.
Non era mio amico, e fortunatamente non sono mai stato superstizioso, altrimenti per il periodo di meritato riposo mi sarei dovuto aggrappare a un ferro di cavallo, o allungare le mani verso il basso, subito dopo la cintura. Avevo pensato, invece, a una grande buffonata, anche perché tutta la rete sapeva. L’azienda, per salvaguardare la propria immagine, non potendo permettersi uno scandalo, come sempre adottava la forma delle candeline sulla torta, mettendoci anche la ciliegina. Per quanto mi riguardava, non avevo certo bisogno di un periodo di meritato riposo. Il lavoro per me era stato la 14
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vita, avevo dato tutto, lavorato il giorno e anche la notte. Avevo gestito profitti e vendite per riempire la pancia di qualcuno, in un’azienda dove in molti del “non fare un cazzo tutto il giorno” avevano fatto una professione. Ma facciamo un salto indietro e cominciamo questa storia dal principio. Mi pare quasi di aver attraversato tutto l’universo, ma sono gli anni ad essere passati, come le foglie che in autunno cadono e volano via accarezzate dal vento. Ricordo il tempo in cui mi sentivo padrone del mondo. Volevo correre sempre avanti e tutto mi andava stretto, mettendo da parte i consigli dei miei vecchi e credendo di sapere quando ingranare la prima o inserire la quinta. Io non provenivo dalla Bocconi — lì avevo partecipato a corsi di formazione aziendale negli ultimi anni della mia carriera lavorativa, per migliorare il mio sapere. La mia vera scuola era stata la vita, il marciapiede, dove non esiste teoria e per far pratica e apprendere ciò che non sai paghi in prima persona, dove sei solo e per guadagnarti un tozzo di pane e uno spazio devi stringere i denti e guardare avanti. Avevo studiato da perito elettronico, senza alcuna passione per l’elettronica, solo perché in quel tempo non ero stato io a poter decidere del mio futuro. Ero stato costretto a rispettare le scelte dei miei genitori, condizionate a loro volta dai consigli e dalle valutazioni dei miei insegnanti. Mi piaceva moltissimo scrivere e la mia immaginazione mi portava lontano da quelli che stavano con i piedi incollati a terra. Ricordo che l’insegnante di Religione mi riprendeva spesso perché, nell’ultimo banco in fondo a destra, durante la sua ora scrivevo dei fantastici racconti, volando sopra le nuvole. Altro che elettronica! Avrei fatto confusione tra una lampadina e un lampione. Il mio piccolo grande sogno era quello di fare il giornalista, e, una volta terminati gli studi, iniziai a lavorare nel settore della carta stampata. Quell’impiego, come accade sempre quando si entra nel mondo del lavoro, prevedeva tanta e tanta gavetta. Trascorrevo le mie giornate andando a tro15
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vare i Vigili del Fuoco, i Carabinieri, la Croce Rossa per avere quotidianamente informazioni, trovare qualche spunto e buttare giù due righe — l’importante era apprendere e non pretendere. Se avessi guardato al salario, be’, riuscivo appena a comprare le sigarette. Ma la paga non m’interessava. Tutto sembrava andare per il verso giusto, credevo di sapere cosa avrei fatto da grande. Un bel giorno ricevetti una cartolina — la patria chiamava per il servizio di leva — e fui obbligato ad interrompere ciò che avevo iniziato. Al mio ritorno, molte cose erano cambiate e non potendomi più accontentare delle sole sigarette, avendo urgenze ed esigenze diverse, valutai un’altra opportunità e iniziai a lavorare come impiegato per le Poste Italiane. Anche allora non era facilissimo per un giovane trovare lavoro. Contavano molto le conoscenze, quelle buone, le amicizie, il partito, le brave persone, il rispetto. In ogni caso, c’era molta solidarietà. Quella era ancora l’Italia dei valori, dove chi era su una zattera con il mare in tempesta avrebbe preferito annegare, anziché passare dalla parte opposta. Lavoravo allo sportello dei vaglia telegrafici e gli amici che mi vedevano dietro quel vetro non potevano nascondere la loro invidia. Non dimentichiamo che allora un impiego statale era visto come un terno al lotto, anzi una cinquina. Quella fortuna, però, non durò a lungo — non mi entusiasmava stare seduto dietro a uno sportello.
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Due e
I l p ri m o i m p i eg o nel l e v endi t e
A
vevo sempre invidiato l’attività del commesso viaggiatore. Così si definiva a quel tempo un rappresentante di commercio inquadrato come lavoratore dipendente, con un contratto a tempo indeterminato, al quale un’azienda affidava un “parco clienti e un territorio” con l’obiettivo di distribuire i propri prodotti, acquisire nuovi clienti, e generare business e profitto. Di questa professione avevo sentito parlare bene e male; bene, perché alcuni dicevano fosse un’attività che consentiva guadagni elevati e poca fatica; male, in quanto altre linguacce descrivevano i viaggiatori come elementi poco affidabili, ciarlatani e incantatori di serpenti. Chissà perché l’erba del vicino sembra sempre più verde! In ogni caso, ciò che avevo udito non rispecchiava totalmente la realtà, anzi direi proprio per nulla. Era un po’ come la prima volta in cui avevo messo piede in un ristorante. Sul menù, notando la parola consommé, per inesperienza o per mancanza di quel termine nel mio usuale vocabolario, avevo pensato a un gran bel piatto — forse per le due emme. Avevo chiamato il cameriere e ordinato. Be’, non vi nascondo la mia delusione quando vidi arrivare un brodino con un tuorlo d’uovo. Conobbi allora uno di quegli uomini che vale sempre la pena
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di ricordare, quelli che non sono solo conoscenti, ma molto di più, quelli che lasciano un segno. Si chiamava Franco Palumbo e lavorava come Direttore alle Vendite per una media azienda torinese che produceva e distribuiva un ottimo caffè. Non so quanto pesasse il fatto di essere amici e forse anche prossimi parenti, sta di fatto che Franco mi propose di iniziare quell’attività e imparare a vendere caffè. Mi disse, molto apertamente, che non avrebbe fatto preferenze. Mi offrì la bicicletta invitandomi a pedalare e facendomi capire che non amava le brutte figure, aspettandosi i migliori risultati. Nel 1971 iniziai così a lavorare per quell’azienda in qualità di venditore impiegato di terza categoria, con un primo stipendio centoventimila lire al mese, tredici mensilità, premi in denaro al raggiungimento degli obiettivi e rimborso spese. A differenza di ciò che si pensava o si diceva a proposito di quella professione, di cose da fare ne avevo anche troppe e dovevo rimboccarmi le maniche. Dopo aver trascorso una settimana in Veneto con un ispettore dell’azienda, allo scopo di apprendere le prime nozioni e ritirare i ferri del mestiere, rientrai nella zona affidatami e iniziai a seminare. In realtà, ero proprio tagliato per quel lavoro. La faccia giusta, sempre camicia e cravatta, una buona presenza, la parola non mi mancava e la penna era sempre pronta a scrivere. In breve, ottenni i migliori risultati, tanto più che Palumbo mi disse che, continuando in quel modo, avrei potuto sperare per un’ottima carriera — peccato che sei mesi dopo l’azienda fallì. Quel caro amico che mi aveva teso una mano pensò bene di segnalare ad altre aziende il nominativo di molti, che come il sottoscritto erano rimasti senza lavoro, poi intraprese un’altra strada. A causa di scelte obbligate, cambiò anche il suo programma e non divenne mai mio parente. Nel luglio del 1972, grazie a Palumbo, iniziai quindi una nuova avventura con un’importantissima azienda, leader di mercato, che decantava la morbidezza dei suoi prodotti e la lunghezza dei suoi rotoli — cento piani, non di cemento, nulla a 18
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che fare con il settore immobiliare. Anche qui lo stipendio non era male — centoquarantacinquemila lire al mese per tredici mensilità — l’inquadramento era il medesimo e in più avevo l’auto aziendale anche per uso personale. Era un ottimo inquadramento, quasi a livello di un impiegato bancario. Avevo ventun’anni ed era un buon inizio per uno sbarbatello della mia età. In quel tempo, l’affitto di un trilocale vista mare variava dalle quaranta alle cinquantamila lire al mese. Avevamo ancora la televisione in bianco e nero e il giradischi, il telefonino non era ancora stato partorito — per telefonare ci si recava al posto pubblico. Oggi il rapporto tra il costo dell’affitto di un appartamento e la retribuzione è cambiato; la televisione è a colori, anche se spesso continuiamo a vedere tutto in bianco e nero; il giradischi rappresenta ormai un pezzo di antiquariato e la musica che sentiamo più frequentemente è quella della suoneria del telefonino. A quel tempo ero animato da tanta voglia di apprendere, anelavo a conquistarmi uno spazio e, soprattutto, possedevo tanta voglia di emergere. Avevo sempre pensato che vendere fosse un’arte e che, oltre ad una certa competenza, la ricetta prevedesse: solarità, creatività ed entusiasmo. Un venditore, più che mai, doveva apparire entusiasta, simpatico, credibile, corretto nei limiti del consentito, ma soprattutto essere dotato di una tale sensibilità e percezione da comprendere sempre le esigenze e le attese del proprio cliente. Non guastava parlare di calcio se il cliente fosse stato tifoso di una squadra. Senza presunzione, io ero un fenomeno, di una solarità speciale; vestivo sempre i miei clienti come fa un buon sarto, prendevo loro le misure, consigliavo, e difficilmente tradivo le aspettative. Evitavo però di parlare di calcio — era uno sport che non mi aveva mai attratto, non avevo mai fatto il tifo per nessuna squadra e avrei rischiato di dire degli strafalcioni. Cercavo piuttosto di trovare un punto d’incontro tra gli obiettivi dell’azienda e quelli del cliente, ovviamente guardando in primis gli interessi di chi mi pagava lo stipendio. 19
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Il canvass era l’arco di tempo nel quale la clientela doveva essere visitata, avente una durata di circa quarantacinque giorni. Iniziavo sempre il giro partendo da Varazze, in provincia di Savona, e arrivavo oltre Ventimiglia, sino ai confini con la Francia. Negli anni cinquanta l’automobile era un gran lusso e chi faceva quel mestiere viaggiava in treno. Fortunatamente, i tempi erano cambiati, io viaggiavo su una splendida Fiat 850 di colore blu. Visitavo a tappeto tutti i negozi, salumerie, frutta e verdura, alimentari, casalinghi, ferramenta, profumerie, eccetera. Mi recavo ovunque si presentasse la minima possibilità di vendere, con una tale motivazione che avrei venduto brillantina anche a un calvo. L’azienda per la quale lavoravo era allora agli inizi. Possedeva prodotti eccezionali e di ottima qualità e il mio compito consisteva nell’acquisire nuovi clienti attraverso un censimento capillare. Era la cosiddetta ‘‘gavetta’’, in parte anche l’arte di arrangiarsi. Pur non essendomi seduto sui banchi della Bocconi, cercavo di farmi spazio ponendomi a ogni traguardo un nuovo obiettivo, guardando sempre al miglior risultato. I mercati in quel periodo erano in crescita e i risultati di vendita non erano condizionati solo ed esclusivamente da ottime strategie o da eccellenti piani di marketing, ma la materia prima di maggior importanza era l’essere umano. Lo scenario distributivo era totalmente diverso da quello che è diventato oggi; le drogherie in molte città attualmente non esistono più, il negozio tradizionale ha lasciato spazio alla Moderna Distribuzione, ai Supermercati, agli Ipermercati, ai Centri Commerciali. Sono cambiati i personaggi e anche le tecniche di vendita. Già allora pretendevo da me stesso il massimo, censivo tutto ciò che trovavo, per poi selezionare meglio nel tempo i vivi e i morti (era la mia personale definizione tra i clienti potenziali e quelli da cancellare dopo le prime tre o quattro visite a vuoto). In poco tempo, riuscii ad acquisire un tale numero di clienti che l’azienda decise di assumere altri due venditori e restringermi la zona, affidandomi anche qualche cliente di maggiore importanza, che in precedenza era stato gestito da altri. 20