Estratto Il ventre della Terra

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Apri gli occhi!

Aceh, Indonesia, dopo lo tsunami, 29 dicembre 2004



COLLANA BIANCA

Le bussole

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ROMANZO



VALENTINA FRANCOLINO

IL VENTRE DELLA TERRA

GINGKO


Titolo dell’opera: Il ventre della Terra © Copyright novembre 2007 by Valentina Francolino © Gingko edizioni - San Lazzaro di Savena (Bo) I EDIZIONE novembre 2007 Collana Bianca - Le bussole ISBN 978-88-95288-02-4

www.gingkoedizioni.it www.fuggicalipso.net


Valentina Francolino, venticinque anni, vive a Bergamo. Dopo essersi diplomata al Liceo scientifico ed aver terminato il corso triennale di naturopatia all’Istituto Riza di Milano, attualmente studia all’università Statale del capoluogo lombardo, alla facoltà di Tecniche Erboristiche. “ II ventre della Terra” è il suo esordio letterario. Racchiude la sua passione per i libri, la natura, lo yoga, e le storie antiche di uomini e popoli.



IL VENTRE DELLA TERRA

Questo libro è dedicato a molte persone. Sentiti ringraziamenti vanno alla mia amorevole e numerosa famiglia per l’incoraggiamento e il sostegno incondizionato e, in particolare, a mio padre, mia madre, mio fratello Andrea, mio zio Stefano. Ai miei nonni, perché le loro vite sono state il romanzo più affascinante. A Luca, senza il quale questo libro non sarebbe mai stato scritto. Un enorme grazie va alle mie amiche e amici, Chiara, Cinzia, Cora, Francesca, Manuela, Mina, Barbara e Steve, per tutti gli anni di risate, pianti, scelte e riflessioni, e a Sabrina, la mia erborista. A Luna, Duky, Tristano, Lulù e Gatto, perché con la loro presenza silenziosa sanno rendere ogni giorno un po’ più dolce. Infine ringrazio le persone che hanno creduto in questo romanzo tanto da decidere di pubblicarlo.



1. UNO STRANO INCONTRO

utto ebbe inizio il 22 aprile 2181, nel primo pomeriggio di una giornata nuvolosa ma caldissima. Mancava poco meno di dieci minuti al termine di Chimica del terreno, l’ultima asfissiante lezione del venerdì. Gran parte degli studenti aveva pensato bene di dileguarsi e tornarsene a casa anticipando il weekend, io fissavo in continuazione il mio orologio ad alimentazione termica e riflettevo su ciò che mi aveva spinto a scegliere, tra le tante facoltà, proprio Archeologia della flora e della fauna l’anno precedente. Doveva essermi sembrata perlomeno interessante dal momento che qualcuno, così pensavo, avrebbe potuto illustrarmi le cause della perdita del patrimonio naturale terrestre e avrei potuto visitare i siti di scavo, gli antichi Erbari; vi sarebbe stata la possibilità concreta di toccare con mano le piante essiccate ormai visibili solo nei musei. Ma in realtà, di ‘archeologico’, almeno fino a quel momento, nei miei studi v’era stato ben poco. Si trattava di un’indigeribile accozzaglia di materie di cui la chimica era la regina assoluta e indiscussa. Chimica delle datazioni, Chimica del metabolismo animale, Chimica fotosintetica, Chimica del terreno, Chimica Organica e Inorganica, Laboratori di chimica, in una spirale infinita di abominevole noia mortale. Volsi lo sguardo in direzione di Londra. Era poco interessante in giornate come quella, giornate di sole nelle

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quali appariva solo maestosa ma, come dire, non più al di fuori del tempo come quando le fitte e aleggianti nebbie autunnali la invadevano. Gli enormi ponti sul Tamigi, la gente indaffarata, il traffico roboante, mi facevano sentire inadeguata instillando in me un senso di grande stanchezza. Al rumore delle sedie e al vocio crescente, afferrai la crema anti-Uv alla vanillina, la mia preferita, la spalmai abbondantemente sul viso e sulle mani, indossai la mantellina estiva con cappuccio traspirante e, salutando un paio di amiche, mi allontanai velocemente dall’aula. Alla fermata in Pimlico scesi dal treno ad alta velocità di una delle 103 linee che attraversavano la città a 200 piedi di altezza, e mi incamminai verso casa. Dopo aver superato Northumberland Street, la via stretta e lunga in cui vivevo, con le file ordinate di villini tutti simili a se stessi - due piani, bianchi, con un vialetto e un minuscolo giardino in erba sintetica, un tetto che culminava a punta nascondendo un solaio (che nel mio caso era diventato la mia camera) - mi addentrai lungo il vialetto della numero 73 e, d’un tratto, fui colta da un’apparizione insolita che mi mozzò il fiato. Un vecchio vestito con un lungo scialle di colore nero e una specie di caftano che gli arrivava fino alle caviglie, battendo la porta d’ingresso, mi urtò correndo come una furia in direzione del cancello. Dato l’abbigliamento, e per il fatto che mia madre non era solita ricevere visite, a parte quelle dei suoi colleghi di lavoro che conoscevo bene (e che di certo non sarebbero fuggiti a quel modo in ogni caso), immaginai che quell’uomo dovesse essere un qualche venditore ambulante, probabilmente un venditore di tappeti o di stoffe, sebbene un che di strano, un aspetto insolito, comunicava il suo giungere da molto lon12


tano. Il particolare che più mi risaltò agli occhi furono le sue manine magre e ossute con le quali sfiorò il cancello prima di dileguarsi e, insieme, quel misterioso sguardo che mi aveva rivolto come temesse qualcosa proprio da parte mia. Ad ogni modo ero esausta. Dimenticai l’accaduto non appena entrai in bagno e feci scorrere l’acqua per concedermi una lunga doccia bollente. Il mio minicellulare computerizzato lesse a voce alta un messaggio di Lucien dicendomi che il nostro appuntamento sarebbe avvenuto per quella sera alle otto in punto e ciò contribuì maggiormente a distrarmi. Lucien era il mio ragazzo. Lavorava nel negozio di antiquariato di suo padre, Book antiqua, una deliziosa compravendita di oggetti, mobili, e perfino qualche vero vecchio libro di carta, simile a quello che mi aveva regalato per il Natale dell’anno precedente: un meraviglioso Erbario risalente ai primi degli anni ’100. Io e Lucien ci frequentavamo ormai da un anno. Ci eravamo conosciuti al Tamigi, il pub di proprietà di mio padre, il più affascinante locale di Londra, senza falsa modestia! Il Tamigi s’affacciava sul fiume in Albert Embankment, godeva di una visuale meravigliosa che ben pochi altri locali potevano vantare. Lucien vi trascorreva immancabilmente da anni la sua pausa pranzo e, un bel giorno, lo vidi. Con la sua aria spavalda, la sua voce sicura, mi domandò molto semplicemente se volessi bere qualcosa in sua compagnia, e allora sedemmo in uno dei tavoli di falso legno fuori dal pub, sotto l’insegna nera e oro, con la casa del Parlamento che troneggiava di fronte, il Big 13


Ben che si rifletteva nel fiume e in lontananza il solido Westminster Bridge, il quale trasportava uomini e donne frettolosi e i fiammanti autobus a due piani e, così, da quel giorno, ebbe inizio la nostra storia. Credo proprio, però, che sia opportuno fare prima un piccolo passo indietro e spiegare un pò di cose. Il ventesimo secolo, come tutti sapevano, oltre che dalle guerre, era stato un secolo contrassegnato da un vorticoso progresso in tutti i campi: scientifico, medico, chimico, industriale, militare. Il passaggio al nuovo millennio era avvenuto con crescente preoccupazione riguardo alle conseguenze dello sfruttamento eccessivo delle risorse naturali del nostro pianeta. Gli scrupoli nella coscienza dei Paesi cosiddetti ‘ricchi’, tuttavia, avevano cominciato a farsi strada già troppo tardi, ovvero quando già le foreste incontaminate e l’aria pulita potevano essere considerate come cose rare, e questo, come è ovvio, sebbene si trattasse di beni fondamentali per la sopravvivenza umana e di tutte le creature viventi. La situazione sfuggì facilmente di mano. Sulle prime i capi di Stato si riunirono con l’intento di contrastare l’effetto serra ma, evidentemente, le parole di apprensione degli scienziati di tutto il mondo non contarono poi molto al confronto degli enormi interessi monetari coinvolti. Diverse leggi furono emanate ed applicate, le emissioni di gas tossici furono ridotte di piccole percentuali, eppure non fu nulla al confronto della crescita esponenziale dei fattori inquinanti; senza contare che alcuni Stati si rifiutarono comunque di accettare il compromesso tra la produttività e la salvaguardia dell’ambiente. 14


Nel ventiduesimo secolo risultò chiara l’inevitabilità del destino che ci attendeva. Il ‘punto del non ritorno’ che gli studiosi avevano profetizzato da anni, ovvero il raggiungimento della soglia massima oltre la quale nulla sarebbe mai più tornato come prima, si avvicinò paurosamente. Nessuno fece ancora nulla. O, meglio: quasi nessuno, dacchè le migliaia di organizzazioni ambientaliste sparse in tutto il mondo non fecero altro che riunirsi e riunirsi per cercare di coordinare e impiegare tutte le proprie forze all’unisono. Queste associazioni, questi enti, questi gruppi di persone di ogni cultura e interesse, si batterono strenuamente e con ogni mezzo a loro disposizione per incentivare il riciclaggio e per fermare l’abbattimento delle foreste, nonchè per sensibilizzare la popolazione; centinaia di uomini e di donne si incatenarono a piante secolari, manifestarono di fronte alle sedi dei governi, raccolsero fondi per proteggere il patrimonio naturalistico dell’umanità, ma, forse per inerzia, forse per paura del cambiamento, o per incredibile cecità, i più restarono indifferenti. Si verificò che gli stravolgimenti climatici iniziarono a manifestarsi non solo con forza crescente, ma anche con un’incredibile velocità, come le calamità naturali, le tempeste, gli uragani, la desertificazione, gli inverni polari, e il deperimento delle colture (incapaci di adattarsi alle nuove temperature). Il 2150 fu l’anno tremendo della Grande Crisi , l’anno in cui lo strato di ozono che circondava l’intero pianeta proteggendo i suoi abitanti dalle radiazioni solari fu completamente squarciato e dissipato dai prodotti chimici di scarto immessi nell’atmosfera. In una giornata di luglio tutti i giornali del mondo annunciarono in prima pagina che il nostro ‘scudo protettivo’ era ormai ridotto a un 15


colabrodo e che gli enormi buchi erano cresciuti talmente tanto da poterli ritenere irreversibili. Ciò che accadde in seguito fu altrettanto spaventoso, seppur graduale. Per prima cosa vi fu la crescita smisurata dell’incidenza di tumori alla pelle. Si parla di percentuali sconvolgenti: circa il cinquanta per cento degli abitanti della Terra ne fu colpito nel giro di pochi anni (il divieto di esporsi al sole nelle ore più calde servì in parte nei Paesi più ricchi, come in Europa e in America, ma i Paesi in via di sviluppo vennero praticamente decimati senza nemmeno sapere il perchè). In questa parte di mondo l’informazione era sempre stata scarsa, i fondi per attuare misure di sicurezza adeguate praticamente inesistenti e così quella povera gente, che come non mai fece le spese di colpe non sue, non potè certo permettersi le tute anti-Uv e le creme barriera, le quali avrebbero consentito una maggiore esposizione al sole (di circa un’ora senza pericoli) e che da noi erano vendute come il pane. L’Africa centrale, l’India, gran parte della Russia e dell’America meridionale, il Medio Oriente! L’emergenza radiazioni si unì alla loro già critica situazione. Mancavano le medicine, i vaccini, l’acqua potabile, il cibo, e le condizioni igienico-sanitarie erano a dir poco pessime; la mortalità raggiunta in quegli anni è indicibile; alla fine anche gli aiuti umanitari vennero ritirati per mancanza di fondi. Un grido di dolore allora si levò (inascoltato) da queste popolazioni, ma a cosa servì! Nel giro di circa dieci anni, qualcosa come tre miliardi di individui perirono portandosi dietro civiltà millenarie le quali scomparvero per sempre. Ma qualcosa di altrettan16


to inaspettato e terribile doveva ancora accadere; qualcosa che portò veramente alla fine del mondo fino ad allora conosciuto. La mano divina calò la seconda sua terrificante mannaia sul collo dell’umanità, già in ginocchio, quando si verificò l’inarrestabile olocausto del regno vegetale e animale. Occorre ricordare che già prima dell’emergenza Uv di foreste rimaste ancora intatte sulla Terra ne restavano ben poche. Il legno era servito per la carta, per scaldare, per produrre energia, per costruire case, e l’uomo era stato talmente irresponsabile da pensare di poter depredare questa risorsa senza doverne subire le conseguenze. Aree di foreste protette rimaste per legge intoccabili al fine di rifornire di ossigeno l’atmosfera ve n’erano ancora ma, dopo che lo strato di ozono venne meno e i nuovi climi si impiantarono, anch’esse iniziarono a perire una dopo l’altra. Si pensò a decine, centinaia di soluzioni per arginare questo processo distruttivo; nessuna di queste si rivelò attuabile. Accadde tutto troppo in fretta! Come il mondo degli alberi, anche tutti gli organismi fotosintetici terrestri alla base della catena alimentare (i cereali, le verdure, tutto: dai licheni alle piante officinali) assorbirono le radiazioni morendone o modificando il proprio genoma e così si trasformarono in qualcosa di immangiabile per chiunque. L’uomo, animale ‘intelligente’, non stette certo a guardare e il risultato fu che l’industria chimica da quel momento in poi ottenne il monopolio assoluto del commercio mondiale! Nacquero le Imprese Produttrici di Ossigeno, le IPO, i cui dirigenti assursero a ‘signori’ incontrastati della 17


nuova società. Potenti, spregiudicati, ricchi più del Re d’Inghilterra (e infinitamente più influenti). Dall’acqua, l’ossigeno e l’idrogeno venivano scissi con grande dispendio di energia e il primo era immesso continuamente nell’atmosfera mediante gigantesche pompe. Ogni città aveva la sua pompa, e la pagava a caro prezzo. Le auto non inquinanti furono messe in circolazione, ma solo dopo il ’150, perchè il petrolio iniziava a scarseggiare persino in Arabia Saudita. La paura che anche il petrolio si esaurisse, mandando tutto il pianeta nel caos, rese obbligatorio il cambio di auto a tutta la popolazione con soli due anni di tempo. A spese degli acquirenti, ovviamente! Padroni di un bene di così primaria importanza, i magnati dell’ossigeno si arricchirono a dismisura. Non solo costoro divennero così ricchi da comprare i politici e condizionare le elezioni, ma finirono con l’impadronirsi dell’ultimo campo ancora sfruttabile ormai completamente in crisi: l’alimentare. Grandi quantità di energia furono utilizzate in laboratorio con l’anidride carbonica di scarto del nostro respiro per produrre glucosio e altre sostanze nutritive quali vitamine, proteine e acidi grassi, tramite processi molto complessi ad imitazione del metabolismo vegetale. Queste ‘pappette’, simili agli antichi omogeneizzati, entrarono ben presto a far parte dell’alimentazione quotidiana di chiunque e, c’è da crederci, non erano certo gratis!, dimostrando una volta per tutte, se ve ne fosse stato pur il bisogno, quanto anche di fronte ad una tragedia di quelle proporzioni l’unica cosa importante si chiamasse guadagno. Ad ogni buon conto, gli sforzi e l’ingegnarsi non bastarono. Sebbene l’ossigeno sintetico sembrò sostituire mano a mano quel poco di originale rimasto, e l’uomo accettò 18


gli integratori come pasto, non fu la stessa cosa per gli animali e per nessuno di loro vi fu scampo. Non mi soffermerò a descrivere la progressiva pietosa agonia di tutti gli erbivori che pian piano caddero denutriti o malati, e quella successiva dei carnivori. Basti dire che tutti morirono, senza eccezioni. E, come sulla terra, anche nel mare arrivò la morte: la moria del plancton causata dalle radiazioni fu l’inizio della fine. Il plancton era stato fino ad allora alla base dell’alimentazione di tutti i pesci, come l’erba lo era per i mammiferi. La scomparsa del plancton significò per gli organismi marini la stessa triste sorte dei loro ‘parenti’ terrestri. L’uomo, il solo, sopravvisse. L’uomo, la causa di tutto lo sfacelo, l’arbitro della sua stessa distruzione, riuscì ad adattarsi. Si adattò ai suoi integratori di sintesi, alla morte dei propri animali domestici, al triplicamento delle malattie causate anche da un sistema immunitario indebolito (in compenso crebbe l’industria farmaceutica, anche se con un problema: su chi testare i nuovi farmaci visto che non v’erano più animali da sacrificare a nostro piacimento?), e trovò anche il modo di adattarsi ai libri solo su computer, ai cibi omogeneizzati arricchiti di aromi, ai ristoranti ‘sapore di…’, insomma si adattò a tutto. L’inquinamento, con gli anni, iniziò lentamente a regredire, sia per opera delle auto ecologiche, sia grazie al fatto che l’umanità ormai si era tragicamente dimezzata. La risposta ad un crescente bisogno di energia per far funzionare gli impianti dell’aria e delle industrie alimentari, ora che il petrolio era poco, divenne il nucleare. Furono costruite centrali in ogni regione. In uno di questi impianti, circa cinque anni dopo la Grande Crisi , si verificò una delle più ingenti perdite di materiale radioattivo 19


mai registrate nella storia. Numerosi altri incidenti si contarono un pò ovunque. Nessuno se ne allarmò in quanto queste disgrazie non potevano certo peggiorare la situazione dell’atmosfera oltre il grado di deterioramento nel quale già si trovava. Anzi, la stragrande maggioranza della popolazione terrestre non se ne accorse neppure. Le scorie nucleari, che divennero in breve tempo innumerevoli, tonnellate di tonnelate, che non potevano certo essere smaltite sulla Terra, alla fine si decise di scaricarle nello spazio, e di preciso sulla luna, grazie a regolari viaggi di shuttles attrezzati. La luna, un tempo Musa dei poeti,divenne ed è tuttora la nostra principale pattumiera. A grandi linee questo accadde di contorno alla Grande Crisi. Nei decenni immediatamente successivi la situazione andò stabilizzandosi se così si può dire. Zone rimaste deserte si ripopolarono pian piano, i programmi d’aiuto verso i più bisognosi ripresero ad attivarsi, le coscienze dell’uomo comune si aprirono a comprendere profondamente gli errori commessi e a cercare di porre un rimedio, per quanto fosse possibile, in certi casi pure la geografia mutò. I confini di alcuni Stati, soprattutto quelli più poveri, furono accorciati, frammentati, disposti ad incastro come su un grosso puzzle. I sopravvissuti di queste terre, con lingue e culture diverse, si ritirarono a vivere nei medesimi congestionati agglomerati urbani, sperando uniti di sopravvivere. Alcune città vennero ribattezzate, come a indicare un nuovo inizio. L’inglese divenne il mezzo di unificazione anche in questi luoghi remoti: si trasformò in una sorta di koinè neutra che i più giovani pian piano imparavano a padroneg20


giare per rendere possibile la comunicazione tra le più disparate etnie e tra esse e gli occidentali (i quali finanziavano i progetti di aiuto). La Terra era morente. Con i suoi doni, le sue meraviglie, il suo ritmo costante, le sue stagioni, i suoi cicli, non era più la stessa. L’uomo sosteneva l’uomo. Non era più la Natura a farlo. Essa si vendicava contro di lui, operava al fine di distruggerlo. La più grande delle sfide mai affrontate dall’uomo bussava alla sua porta. Per quanto tempo ancora sarebbe stato capace di sopravvivere?

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