Cuori ruggenti 6
UP TON SINCLAIR (20 settembre 1878 - 25 novembre 1968), scrittore americano, premio Pulitzer, pubblicò quasi cento libri di vario genere. raggiunse una straordinaria popolarità agli inizi del ’900 con il romanzo ‘‘The Jungle’’, pubblicandolo per la prima volta a puntate su una rivista socialista, dopo che sei editori americani l’ebbero rifiutato. un consulente presso l’editore Macmillan dichiarò: « Sconsiglio senza esitazioni e senza riserve la pubblicazione di questo libro feroce e pieno d’orrori. Con tutta evidenza la sua ispirazione non è il desiderio di aiutare i poveri, quanto l’odio incondizionato verso i ricchi ».
UPTON SINCLAIR
LA GIUNGLA traduzione di
roSa giovanna orri
titolo originale dell’opera: THE JUNGLE titolo dell’opera: La giungLa traduzione dall’inglese: © 2011 roSa giovanna orri © Copyright 2011 gingko edizioni San Pietro Capofiume (Bo) i edizione giugno 2011 Collana Cuori ruggenti iSBn 978-88-95288-26-0
Progetto grafico di copertina: © 2011 ataLante in copertina: aMeriCan SunSet © 2009 tySon Foreg
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LA GIUNGLA
Ai lavoratori americani
I
iù o meno alle quattro del pomeriggio, dopo che la cerimonia si era conP clusa, cominciarono a giungere le vetture. Per tutto il tragitto erano state scortate da una folla enorme, pungolata dall’esuberante effervescenza di Ma-
rija Berczynskas. Il buon esito della festa, infatti, la responsabilità che ogni cosa filasse per il verso giusto — secondo le antiche tradizioni — cadeva totalmente sulle sue larghe spalle, anche se, a furia di correre come una dannata di qua e di là per tirare da parte chi si metteva in mezzo, e a forza di impartire ordini e moniti a questo e a quello con la sua voce roboante, Marija aveva finito per essere troppo occupata a badare che tutti si comportassero come si doveva per curarsi di se stessa. E così aveva lasciato la chiesa per ultima, e aveva dovuto intimare al vetturino di filare più alla svelta che potesse per permetterle di arrivare alla sala del ricevimento prima degli altri. Il vetturino aveva mostrato idee tutte sue al riguardo, e quindi Marija si era vista costretta a sporgersi fuori dall’abitacolo e urlargli cosa ne pensava sul suo conto, dapprima in lituano — lingua che il poveraccio ignorava del tutto — e poi in polacco. L’uomo a quel punto aveva capito bene il messaggio, ciononostante, potendo contare su una posizione elevata rispetto a Marija, non si era scomposto più di tanto e aveva persino osato risponderle a tono, con il risultato di appiccare una specie di furioso battibecco che si era protratto fino alla fine di Ashland Avenue, mentre la carrozza si tirava dietro uno sciame di monelli sbucati da tutti i vicoli nel raggio di mezzo chilometro. Quel ritardo, in ogni caso, era abbastanza imbarazzante. All’ingresso della sala si era già ammassata una piccola folla. I musicisti avevano attaccato a suonare da un po’ e, per mezzo isolato, echeggiava il monotono brum brum del violoncello a cui facevano da controcanto due gementi violini che sgomitavano e si accavallavano in complicati e pretenziosi ghirighori sonori. Nell’avvistare tutta quella gente in attesa, Marija interruppe precipitosamente il dibattito che aveva ormai scomodato persino gli antenati del vetturino, e saltò giù dalla carrozza quando ancora era in movimento, gettandosi tra la folla per raggiungere la sala; una volta all’interno, si voltò e cominciò a spingere nel senso opposto, mentre tuonava « Eik! Eik! Uzdaryk-duris! », con un timbro di voce che in confronto il frastuono dell’orchestra appariva una melodia flautata. ‘‘Z. Graiczunas, Pasilinksminimams darzas. Vinas. Sznapsas. Vini e Liquori. Sede sindacale’’ diceva l’insegna della sala. Il lettore che non ha molta pratica con la lingua della lontana Lituania sarà senz’altro felice di sapere che non si trattava d’altro che d’una saletta sul retro di una taverna ubicata in quella parte di Chicago che è conosciuta come il ‘‘quartiere dei macelli’’. Un’informazione precisa come questa, senza dubbio, corrisponde a pura realtà, anche se sarebbe potuta sembrare penosamente stridente a colui che avesse appreso che si trattava anche della scenografia in cui stavano per svolgersi gli attimi incomparabili della più grande gioia e della massima felicità nella vita di una fra le più dolci creature di Dio: ovvero la celebrazione del ricevimento nuziale e il compimento della più grande realizzazione della piccola Ona Lukoszaite. La piccola Ona era ferma sulla soglia in quel momento. Sotto lo sguardo amorevole di sua cugina Marija, dopo essere penetrata a fatica tra la folla, cercò
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di recuperare il fiato persa in una felicità dolorosa da guardare. C’era una luce di stupore nei suoi occhi e le palpebre le tremavano. Il suo viso, che di solito era pallido, appariva di un rosso purpureo. Indossava un niveo vestito di mussola sul quale, dalle spalle, ricadeva un morbido velo. C’erano cinque roselline di carta rosa intrecciata ad adornare quel velo, con undici petali di verde brillante per ciascuna di esse. La ragazza calzava immacolati guanti bianchi di cotone e, mentre se ne stava a fissare davanti a sé, sull’uscio della sala, le sue mani si muovevano in maniera febbrile. Era quasi troppo per lei tutto quello. Le si poteva leggere sul volto tutto il dolore dell’immensa emozione che la pervadeva, altrettanto evidente come il tremito che la scuoteva in tutto il corpo. Era così giovane! non ancora sedicenne; tanto piccola e fragile per la sua stessa età — praticamente una bambina — eppure s’era appena sposata e lo aveva fatto proprio con Jurgis, fra tutti gli uomini possibili! Jurgis Rudkus, con le sue spalle forti e le mani da gigante, il fiore bianco all’occhiello dell’abito nero mai messo prima. Mentre Ona aveva occhi azzurri e leali, quelli di Jurgis erano grandi e neri, sormontati da folte sopracciglia. I tanti capelli anch’essi neri, riccioli, gli ricadevano come onde fin sopra le orecchie. Formavano insieme una di quelle coppie di sposi alquanto incongrue e sorprendenti con cui tanto spesso Madre Natura si diletta a confondere i profeti. Jurgis, pur essendo capace di imporsi sulle spalle un quarto di bue di oltre un quintale e caricarlo su un carro senza neppure barcollare, se ne stava seduto in un angolo terrorizzato come una povera bestiola braccata, ed era costretto ad inumidirsi le labbra secche ogni qualvolta doveva rispondere alle parole di augurio e di felicitazioni degli amici. Nella sala, frattanto, si era andata realizzando una netta separazione tra ospiti e spettatori, o perlomeno una distinzione bastevole a che la festa potesse decollare. Infatti, non ci fu un solo momento per tutta la serata nel quale, fermi sulla soglia o pressati in un angolo, curiosi venuti da fuori non s’affollassero e, appena uno di questi prendeva coraggio e s’avvicinava un po’ di più, o mostrava di gradire qualcosa da mangiare, subito gli veniva allungata una sedia e veniva spinto a partecipare alla festa. Una delle regole della veselfia esigeva, d’altro canto, che nessuno se ne tornasse a casa a pancia vuota, e quindi, nonostante non fosse tanto facile nel quartiere dei macelli di Chicago (con il suo quarto di milione di abitanti) rispettare e conservare intatte tutte quelle consuetudini nate nelle foreste della Lituania, i festeggiati fecero del loro meglio affinché tutti coloro che arrivavano dalla strada, compresi perfino i cani, finissero per non rimanere delusi dell’accoglienza che gli veniva riservata. In più, era un’incantevole informalità che guidava quel genere di celebrazioni. Gli uomini mantenevano il cappello in testa o se lo toglievano solo se ne avevano voglia. Lo stesso valeva per la giacca; si mangiava quando e dove si voleva, ci si muoveva dove e quanto si desiderava. Ci sarebbero stati canti e discorsi ma nessuno sarebbe stato costretto a starli a sentire, e, se a qualcuno veniva l’idea di mettersi a cantare o di tenere un discorso, be’, era libero di farlo. La gazzarra di suoni che ne scaturiva non infastidiva nessuno, salvo forse i bambini che in gran numero gli invitati s’erano portati appresso al gran completo; il fatto era che non c’era proprio altro luogo dove avrebbero potuto lasciare i più piccoli, e così una gran parte dei preparativi per la serata consisteva nel radunare culle e carrozzine in un angolo della sala e, lì, in gruppi di tre o quattro, far dormire i piccolini che spesso però si svegliavano e urlavano a squar-
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ciagola. I più grandicelli, invece, che arrivavano all’altezza dei tavoli, se ne andavano a zonzo con aria soddisfatta, sgranocchiando qualche osso e riempiendosi la bocca di carne e salumi di Bologna. La sala era grande circa quattro metri. Aveva pareti imbiancate a calce e tutte senza alcuna decorazione, ad eccezione di un calendario, una fotografia di un cavallo da corsa e un albero genealogico dentro una cornice dorata. A destra c’era una porta che collegava la sala al saloon, con un paio di pappamolle che stavano di guardia sulla soglia, e in un angolo, al di là del bancone del bar, una sorta di genio vestito con un camice d’un bianco sporco, baffetti neri impomatati, il ciuffo oliato accuratamente e gettato di lato sulla fronte. All’angolo opposto, due tavoli che occupavano buona parte dello spazio disponibile erano letteralmente ricoperti di vassoi colmi di cibi freddi che già erano stati degustati dagli ospiti più affamati. Alla testa della tavola dove sedeva la sposa c’era una torta bianca come la neve, decorata con una Torre Eiffel costruita con lo zucchero, con in cima due angioletti, delle roselline e una generosa spruzzata di canditi di colore rosa, verde e giallo. Al di là si apriva un’altra porta che s’affacciava sulla cucina, dove, in mezzo al vapore che saliva, si vedevano diverse donne, giovani e anziane, che correvano di qua e di là. Nell’angolo a sinistra stavano i tre musicisti, su una piccola piattaforma, i quali lavoravano eroicamente per fare una qualche impressione al di sopra di tutta quella confusione. Anche i bambini, allo stesso modo, erano occupati a farsi sentire e, in più, c’era una finestra aperta da cui la folla rimasta fuori si godeva la musica, spiava quel che avveniva nella sala e annusava gli odori. Il vapore cominciò ad avanzare nella sala ed ecco d’un tratto che, scrutando in mezzo ad esso, si intravide la figura di zia Elisabetta, la matrigna di Ona — Teta Elzbieta, come la chiamavano. Teneva sollevato un grande piatto di anatra in umido. Dietro di lei Kotrina si faceva strada pian piano, barcollando sotto un simile fardello. Anche la vecchia nonna Majauszkiene, mezzo minuto più tardi, apparve. Portava una grande ciotola gialla ricolma di patate fumanti, grande quasi quanto lei. A poco a poco quindi la festa prese forma, c’era il prosciutto, un piatto di crauti, del riso bollito, maccheroni, salsicce di Bologna, grandi cumuli di funghi porcini, ciotole di latte e schiumosi boccali di birra. Non lontano si poteva anche ordinare quel che si voleva senza pagare, al bar. « Eiksz! Graicziau! » urlava Marija Berczynskas, e subito ritornava in cucina perché sulla stufa c’era tanta di quella roba che doveva essere mangiata. Tra risa e schiamazzi, in una confusione indescrivibile piena di allegria, gli ospiti presero posto. I giovani, che per la maggior parte si erano ammassati vicino alla porta, si risolsero una buona volta ad avanzare. I vecchi, intanto, pungolavano e rimproveravano Jurgis a sedersi alla destra della sposa, perché appariva più rigido e imbarazzato che mai. Alla fine il giovane cedette rassegnato. Le due damigelle d’onore, i cui abiti erano adornati da graziose ghirlande di carta, seguirono e, a ruota, vennero tutti gli altri, vecchi e giovani, ragazzi e ragazze. Lo spirito della festa si impadronì finalmente anche del maestoso barista, il quale finì per accettare un piatto di anatra in umido, e persino il grasso poliziotto — il cui compito sarebbe stato, più tardi, di tenere a bada le risse — prese da parte una sedia e l’avvicinò al tavolo. I bambini si misero a gridare e quelli più grandi si sgolarono. Tutti ridevano e cantavano e chiacchieravano in un clamore assordante, al di sopra del quale la cugina Marija impartiva come poteva i suoi ordini ai musicisti. I musicisti... be’... come cominciare a descriverli? Fino a quel
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momento se n’erano rimasti lì sulla piattaforma suonando in una folle frenesia. Ed è per questo che tutto lo scenario dovrebbe essere letto, o detto, o cantato attraverso la musica. Era la musica a renderlo ciò che era; la musica che trasfigurava il retro di una bettola nel quartiere dei macelli di Chicago in un luogo fatato, una specie di paese delle meraviglie, un po’ come un palazzo paradisiaco. Il piccolo uomo alla guida di quel trio era un uomo ispirato. Il suo violino era scordato, non c’era colofonia sul suo archetto, eppure, senza dubbio, non esisteva alcun’altro uomo ispirato come lui nelle cui mani le Muse avevano imposto le proprie. Suonava come un posseduto da un demone — da un’orda di demoni! Si potevano udire tutto attorno a lui che saltellavano freneticamente, dettavano il ritmo con i loro zoccoli e rizzavano in capo i capelli del capo orchestra. I suoi occhi fuoriuscivano dalle orbite e lui faticava a tenere il passo. Tamoszius Kuszleika era il suo nome. Aveva imparato a suonare il violino da autodidatta, esercitandosi per tutta la notte dopo aver lavorato tutto il giorno ai ‘‘banchi di macellazione’’. Se ne stava in maniche di camicia, un panciotto decorato con figure color oro sbiadito che riproducevano ferri di cavallo e una camicia rosa, a righe, che sembrava un bastoncino di caramello alla menta. Indossava un paio di pantaloni militari blu chiaro, con una banda gialla che serviva a dargli un certo contegno che ben si addiceva a un direttore d’orchestra. Sebbene fosse alto a malapena un metro e cinquanta, anche così quei pantaloni gli lasciavano scoperte le caviglie. Potevi chiederti dove mai li avesse rimediati quei calzoni, o, meglio, forse ti saresti potuto stupire di simili bazzeccole se l’emozione di trovarti in sua presenza te ne avesse dato il tempo — perché lui era davvero un uomo ispirato. Ogni cellula del suo spirito era ispirata, si potrebbe quasi dire che ogni parte del suo corpo, separatamente, lo era. Batteva il ritmo con i piedi, scuoteva la testa e ondeggiava e oscillava in avanti e indietro. Il suo viso era un po’ rugoso ma irresistibilmente comico. Quando eseguiva un giro di note o un virtuosismo, le sopracciglia gli si aggrottavano e le sue labbra e le sue palpebre si chiudevano al di sopra della cravatta che quasi sembrava volersi ribellare e fuggire via. Ogni tanto si volgeva ai suoi compagni e annuiva, ammiccava, ricamava cenni convulsi e frenetici, e, con ogni centimetro del suo essere, invocava e implorava in nome delle Muse, obbediente al loro richiamo. In tutta verità, gli altri due che lo accompagnavano non erano affatto degni di lui. Il secondo violino — uno slovacco — era un tipo alto, magro, con gli occhiali cerchiati di nero e lo sguardo muto e paziente da mulo affaticato. Be’, si limitava a rispondere alla frusta, ma debolmente. Finiva sempre col cadere nella sua consueta meccanica esecuzione. L’altro musicista, invece, era molto grasso, con un naso rotondo, rosso e sentimentale, e suonava con gli occhi rivolti al cielo e lo sguardo di infinita nostalgia. Stava suonando in quel momento una parte di basso con il suo violoncello, e davvero l’emozione che c’era tutt’intorno a lui nella sala, tra gli ospiti, non lo toccava minimamente, non aveva per lui alcuna importanza perché il suo compito era esclusivamente quello di segare via dallo strumento prolungate lugubri note una dopo l’altra, dalle quattro del pomeriggio fino a quasi la stessa ora del mattino seguente, per un terzo di ciò che percepiva complessivamente di solito, ovvero un dollaro all’ora. Ma non trascorsero neanche cinque minuti dall’inizio della festa che Tamoszius Kuszleika saltò in piedi, avvinto dall’eccitazione, e nel giro di tre minuti lo si vide aggirarsi tra i tavoli con le narici dilatate, il respiro mozzo,
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trascinato dai demoni mentre rivolgeva cenni ai due colleghi, faceva segni ipnotici col violino affinché anche la lunga sagoma magra del secondo violino si levasse in piedi e tutti e tre potessero avanzare insieme in mezzo ai commensali seduti a tavola, con Valentinavyczia, il violoncellista, che fra una nota e l’altra boccheggiava sospingendo il suo strumento. Alla fine si ritrovarono in fondo alla tavolata e qui Tamoszius montò su uno sgabello e in tutto il suo splendore si mise a dominare la scena. Alcuni stavano mangiando, alcuni ridevano e parlavano, ma si commetterebbe un grosso errore se si pensasse che ci fosse uno solo di loro che lo ignorasse. Le note di Tamoszius non erano mai complete, il suo violino ronzava in stridii sommessi in basso e squittiva e graffiava lassù in alto, ma erano dettagli a cui nessuno prestava attenzione, così come non si badava alla sporcizia, al rumore e allo squallore tutt’intorno; anche perché, in fondo, era prorio da questo materiale che quegli ospiti dovevano costruire la loro vita ogni giorno, attraverso quegli elementi dovevano dar sfogo alla propria anima. Era anche il loro modo di esprimersi quello: allegro, chiassoso, oppure triste e lamentoso, o passionale e ribelle; quella musica era la loro musica, la musica di casa. La melodia stendeva le sue braccia attorno a loro e tutti insieme non avevano che da arrendersi e abbandonarsi ad essa. Chicago, i suoi saloons, le sue baraccopoli d’un tratto svanivano, sostituiti da prati verdi e fiumi illuminati dal sole, foreste e possenti colline innevate. Essi rivedevano i paesaggi di casa, ritornavano alle scene dell’infanzia; rivivevano i vecchi amori e le amicizie, dentro di essi destavano vecchie gioie e antichi dolori, verso cui sorridere o versar lacrime. Alcuni si abbandonavano a tutto questo e chiudevano gli occhi, altri battevano i pugni sul tavolo. Di tanto in tanto uno saltava su con un grido e chiedeva che venisse eseguita la tale canzone o quell’altra; e così il fuoco negli occhi di Tamoszius si attizzava ancora di più, diventava più luminoso, e lui afferrava il suo violino e urlava ai suoi compagni dando così l’abbrivio a una folle melodia a cui il pubblico rispondeva con cori, grida di uomini e donne che sembravano tutti indemoniati. Qualcuno balzava su all’improvviso e pestava i piedi sul pavimento, levando i bicchieri al cielo e scambiando brindisi con chi gli stava accanto. In breve accadeva che qualcun’altro richiedeva una vecchia nenia di nozze, che magari celebrava la bellezza della sposa e le gioie dell’amore, e così nell’emozione di quel capolavoro Tamoszius iniziava a bordeggiare tra i tavoli e a farsi strada verso il centro della sala dove sedeva la sposa. Non vi era che un centimetro tra le sedie accostate degli ospiti, e Tamoszius, che pure era così minuto, non poteva evitare di urtare con il suo archetto chi gli stava attorno ogni volta che raggiungeva una nota bassa, ma neppure quello era importante, neppure di inezie come quelle gli importava, pensando solo e soltanto ad insistere senza sosta e a ordinare ai suoi compagni di seguirlo. Durante quella loro marcia in mezzo ai tavoli, manco a dirlo, i suoni del violoncello finivano per oscurarsi del tutto. Alla fine tutti e tre si ritrovavano alla testa della tavolata e Tamoszius prendeva il suo posto alla destra della sposa e cominciava a riversare la sua anima in delle specie di fusa musicali. La piccola Ona, dal canto suo, era davvero troppo eccitata per mangiare. Di tanto in tanto spiluzzicava un po’ di qualcosa, proprio quando sua cugina Marija le pizzicava il gomito e glielo ricordava, ma, per la maggior parte del tempo, rimaneva seduta a guardare con gli stessi occhi timorosi di meraviglia. Teta Elzbieta, al contrario, era tutto un frullo d’ali, un colibrì. Le sue sorelle continuavano a correrle dietro sussurrandole qualcosa ormai prive di fiato. Ona
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sembrava non accorgersi della loro presenza. Era solo la musica che pareva chiamarla. Il suo sguardo continuava ad essere vacuo e a un certo punto si sedette con le mani congiunte sul cuore. Poi le lacrime iniziarono a velarle gli occhi, e siccome si vergognava tanto di asciugarle quanto di lasciarle scorrere sulle guance, si girò e scosse un po’ la testa, e vampate di rosso la invasero nel momento in cui si accorse che Jurgis la stava guardando. Quando Tamoszius Kuszleika le si sedette accanto, e agitò l’archetto magico sopra di lei, le sue guance divennero scarlatte e sembrò che volesse alzarsi e fuggire via. Da quella impasse fu fortunatamente salvata da Marija Berczynskas, anche lei posseduta dalle Muse. Marija era appassionata di una canzone in particolare, una canzone d’addio tra amanti, e la voleva sentire. Poiché i musicisti non la conoscevano, d’improvviso si impennò in piedi e iniziò ad insegnargliela. Era piccola ma potente di costituzione. Lavorava in una fabbrica di conserve e tutto il giorno aveva a che fare con latte di carne di manzo che pesavano anche sette chili. Aveva una bella faccia larga da slava, con prominenti guance rosse. Quando apriva la bocca i suoi lineamenti diventavano tragici, ma non si poteva fare a meno di pensare anche a un cavallo. Indossava una camicia di flanella blu, con le maniche ravvolte che rivelavano le sue braccia muscolose. Teneva in mano un forchettone con il quale si mise a disegnare ghirighori nell’aria dettando il tempo all’orchestra. Mentre ruggiva la sua canzone, la sua voce basti dire che non risparmiava nessun angolo della sala. I tre musicisti la seguivano come potevano, faticosamente, nota per nota, ma in sostanza rimanevano sempre di una nota indietro e allora si sforzavano e sudavano strofa dopo strofa per tutta la canzone, che era per l’appunto il pianto di quel giovane contadino innamorato. ‘‘Sudiev’kvietkeli, tu brangiausis; Sudiev’ir laime, man biednam, Matau — paskyre teip Aukszcziausis, Jog vufgt ant svieto reik vienam!’’. Quando la canzone finì, fu tempo per il discorso. Il vecchio Dede Antanas — il nonno Antonio, il padre di Jurgis — si alzò in piedi. Non aveva più di sessant’anni, sebbene si poteva pensare che ne avesse ottanta. Si trovava lì in America da soli sei mesi, però il cambiamento non gli aveva fatto granché bene. Da giovane aveva lavorato in un cotonificio, gli era venuta la tosse e aveva dovuto lasciare. In campagna il problema era scomparso ma qui in America, dacché lavorava nientemeno che negli stanzoni della salamoia della Durham, con il respirare freddo e l’aria umida per tutta la giornata, la tosse gli era ritornata. Appena si alzò per pronunciare il discorso fu colto da un attacco di tosse e fu costretto ad abbracciare la sedia e ad allontanarsi con il volto pallido e malconcio, finché non gli passò. In genere, era consuetudine per il discorso della veselija di trarre spunto da uno dei libri e imparare le parole a memoria. Però nella sua giovinezza Dede Antanas era stato uno studioso e davvero aveva scritto di suo pugno le lettere d’amore dei suoi amici. E così si capisce che aveva composto un discorso originale di congratulazioni e di benedizione per gli sposi, e quello infatti era uno degli eventi della festa. Persino i ragazzi, occupati a fare i rompiscatole per la stanza, si avvicinarono e ascoltarono, e alcune delle donne si misero a singhiozzare asciugandosi gli occhi nei grembiuli. Il momento fu molto solenne perché, tra l’altro, Antanas Rudkus, da quando era venuto in America, aveva finito col fissarsi sull’idea che non gli sarebbe stato concesso poi tanto tempo per vivere accanto ai figli. Così il suo discorso li lasciò tutti così commossi e pieni di lacrime che uno degli ospiti, Jokubas Szedvilas, che
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teneva un negozio di specialità gastronomiche su Halsted Street, ed era un personaggio grasso e cordiale, fu spinto ad alzarsi in piedi anche lui ed assicurare che le cose dopotutto potevano essere non così gravi come si pensava, continuando poi con un piccolo discorso di sua invenzione in cui rivolse congratulazioni e profezie di felicità alla volta della sposa e dello sposo, per soffermarsi infine su certi particolari che fanno molto piacere ai giovani, ma che causarono in Ona un arrossimento più furioso che mai. Jokubas possedeva d’altro canto ciò che sua moglie amava descrivere con compiacenza come ‘‘poetiszka vaidintuve’’, ovvero un’immaginazione poetica. Giunti a quel punto della serata, un buon numero di ospiti aveva ormai finito di mangiare e, poiché non vi era alcuna pretesa di ufficialità, il banchetto cominciò a sciogliersi e alcuni degli uomini si riunirono davanti al bar mentre altri andarono a fare una passeggiata, ridendo e cantando; qui e là si formarono gruppetti che intonarono allegri canti e tutto nella più sublime indifferenza per gli altri ospiti e pure nei confronti dell’orchestra stessa. Il fatto era che tutti, chi più chi meno, erano inquieti — pareva che qualcosa li pungolasse nel pensiero. E lo dimostravano. Gli ultimi ritardatari ebbero appena il tempo di finire di mangiare che già i tavoli e i resti del banchetto furono spinti in un angolo e le sedie e i bambini vennero ammassati da parte e la vera festa ebbe inizio. Tamoszius Kuszleika, dopo aver mandato giù l’ultimo boccale di birra, tornò sul palco e, ritto in piedi, sciabolò con lo sguardo attento l’intera scena, autorevolmente tamburellò con le dita sul lato del suo violino, se lo sistemò attentamente sotto il mento e infine diede avvio con l’archetto a un elaborato fioretto. Colpiva le corde e socchiudeva gli occhi, e parve fluttuare via come uno spirito sulle ali di un valzer sognante. I suoi compagni gli diedero man forte, ma con gli occhi aperti, guardando dove la strada li dirigeva, per così dire, e infine Valentinavyczia, dopo aver atteso per un po’ battendo con il piede il tempo, levò gli occhi al soffitto e cominciò a segare brum! brum! brum! Le coppie al ballo si formarono velocemente. L’intera sala si mise subito in movimento. Apparentemente nessuno sapeva come ballare un valzer, ma questo non ebbe nessunissima importanza: c’era la musica, e quindi si ballava, ognuno come preferiva, proprio come prima si era cantato. La maggior parte di loro preferiva il ‘‘passo doppio’’, in particolar modo i giovani presso i quali era di moda. Le persone anziane invece danzarono i loro balli di casa, strani e complicati, eseguiti con grave solennità. Alcuni non ballarono proprio niente, semplicemente si tenevano per mano e permettevano alla gioia indisciplinata di esprimersi attraverso il movimento dei piedi. Tra questi c’erano Jokubas Szedvilas e sua moglie, Lucija, che insieme gestivano il negozio di specialità gastronomiche e consumavano quasi quanto vendevano:erano troppo grassi per ballare, ma si distinguevano al centro della sala tenendosi stretti e dondolando lentamente da destra a sinistra mentre sorridevano seraficamente... una fotografia di estasi sdentata e sudaticcia. Tra queste persone anziane ve n’erano molte che indossavano abiti che ricordavano un qualche dettaglio del proprio paese (un gilet ricamato, un panciotto, un fazzoletto variopinto, un cappotto con polsini e grandi bottoni fantasia... ). Tutte quelle cose erano accuratamente evitate dai giovani, la maggior parte dei quali avevano imparato a parlare l’inglese e sfoggiavano l’ultimo vestito alla moda. Le ragazze esibivano abiti confezionati, o camicette, e alcune di loro sembravano davvero attraenti. Qualcuno tra i giovani l’avresti po-
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tuto scambiare tranquillamente per un americano, del tipo di un impiegato, se solo non si fosse tenuto calcato sulla testa il cappello dentro la sala. Ciascuna delle coppie più giovani ballava con uno stile tutto suo. Certe si tenevano abbracciate strette, altre se ne stavano pudicamente a distanza. Alcune muovevano rigidamente le mani, altre lasciavano cadere mollemente le braccia lungo i fianchi. Certe volteggiavano in un qualche modo snodato, come planassero dolcemente; altre si muovevano con dignità grave. Ce n’erano alcune chiassose, che solcavano selvaggiamente la sala urtando bruscamente gli altri, e ce n’erano delle altre alquanto nervose che, spaventate, gridavano: ‘‘Nustok! Kas yra?’’ quando venivano urtate. Ogni coppia, comunque, rimaneva fissa per l’intera serata e non si sarebbe mai potuto vederle cambiare. Alena Jasaityte, per esempio, stava ballando senza interruzione da ore con Juozas Raczius, il suo fidanzato. Alena era la bellezza della serata, e sarebbe stata veramente bella se solo non fosse stata così altezzosa. Indossava una camicetta bianca che valeva, forse, una mezza settimana di lavoro di tinteggiatura di lattine alla fabbrica in cui lavorava. Sorreggeva la sua gonna con la mano mentre danzava, con una precisione signorile alla maniera delle grandi dame. Juozas guidava uno dei carri della Durham, e stava facendo carriera, guadagnava bene. Sicché ostentava un aspetto da duro, indossava il suo cappello di sgimbescio e teneva una sigaretta in bocca tutto il tempo. Ma c’era anche Jadvyga Marcinkus, che era altrettanto bella, ma, al contrario di Alena, umile. Anche lei verniciava lattine alla fabbrica, però la differenza con Alena consisteva nel fatto che lei aveva una madre invalida e tre sorelline da mantenere, e così non spendeva certo il suo salario per belle camicette. Jadvyga era piccola e delicata, con grandi occhi neri e capelli corvini, raccolti in una piccola crocchia sulla sommità del capo. Era fasciata in un vecchio abitino bianco che lei stessa si era ricamato, cinque anni prima, e che indossava sempre a tutte le feste. L’abito era a vita alta, le arrivava quasi fin sotto le ascelle, e non le stava tanto bene seppure la cosa non la disturbasse affatto, in quanto l’unica cosa che contava era ballare con il suo Mikolas. Se lei era minuta, il ragazzo era grande e grosso e possente, ed era come se Jadvyga si annidasse tra le sue braccia e volesse nascondersi alla vista di tutti. Appoggiava la testa sulla sua spalla, mentre lui, a sua volta, la teneva avvinghiata come volesse trascinarla via. Così ballavano e ballavano, tutta la sera, e ballavano sempre in un’estasi di felicità. Si sarebbe potuto sorridere, forse, nel vederli, ma non lo avreste fatto se foste stati a conoscenza di tutta la storia. Quello infatti era il quinto anno che Jadvyga era fidanzata con Mikolas, e il suo cuore era triste. Avrebbero voluto sposarsi sin da subito, ma Mikolas aveva un padre che si beveva ogni spicciolo ed era ubriaco da mattina a sera, e così il peso della grande famiglia ricadeva interamente sulle spalle del giovane. C’è da dire che anche in quelle condizioni Mikolas, che era un operaio specializzato, avrebbe potuto farcela a sposarsi, però, per via di alcuni crudeli incidenti che gli erano capitati, era stato costretto a riversare tutto se stesso e ogni sua forza nel tener botta. Il suo compito era quello del disossatore di manzi, e si tratta di un mestiere pericoloso, soprattutto quando si lavora a cottimo e si cerca di guadagnare una sposa. Le tue mani sono scivolose tutto il tempo, il coltello è scivoloso, e comunque si deve faticare come matti. Quando qualcuno ti rivolge la parola o ti capita di colpire un osso, la mano scivola sulla lama e ti procuri una ferita terribile. Questo non sarebbe poi così tanto grave se la ferita non finisse per infettarsi mortalmente. Il taglio può guarire, però può anche non farlo, non
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si può mai dire. Due volte negli ultimi tre anni Mikolas era rimasto a casa mezzo morto a causa di un avvelenamento del sangue: l’ultima volta per tre mesi, la volta prima per quasi sette. L’ultima volta aveva perso il lavoro, e ciò aveva comportato altre sei settimane di fila alle porte delle industrie conserviere per farsi riassumere, dalle prime ore di quelle terribili mattine di gelo invernale con i piedi immersi nella neve mentre molta altra turbinava dal cielo. Ci sono persone colte che possono snocciolarvi delle statistiche sui disossatori di bovini, e farvi notare che questi operai guadagnano fino a quaranta centesimi l’ora, ma probabilmente nessuno di questi signori ha mai guardato con attenzione una mano di un disossatore. Quando Tamoszius e i suoi compagni musicisti si fermavano per una pausa, perché dovevano farlo per forza, di tanto in tanto anche i ballerini si fermavano lì dove si trovavano e attendevano con pazienza. Non sembravano mai stancarsi, e del resto non ci sarebbe stato posto per sedersi, anche se lo avessero desiderato. In ogni caso si trattava solo di un minuto perché subito il capo orchestra ripartiva nonostante tutte le proteste degli altri due colleghi. In quel caso si cominciò un altro tipo di ballo, un ballo lituano. Coloro che avrebbero preferito continuare con il passo doppio se ne andarono, abbandonarono la pista, ma la maggior parte rimase e iniziò una serie intricata di movimenti che assomigliavano più che a una danza a una specie di pattinaggio di fantasia. Il culmine fu un furioso prestissimo che le coppie accolsero con un congiungere di mani e un turbinio folle. Lo spettacolo era davvero irresistibile e tutti nella stanza si unirono fino a quando il luogo divenne una specie di labirinto di gonne che volavano e una baraonda eccezionale che riempiva gli occhi. Ma il vero spettacolo era ancora lui, Tamoszius Kuszleika. Lo scricchiolio del suo vecchio violino e i suoi gemiti di protesta non lo muovevano a compassione. Il sudore iniziò a colargli dalla fronte, lui arcuò la schiena come un ciclista all’ultimo tornante di una gara, il suo corpo tremò e pulsò come un motore a vapore in fuga, e l’orecchio non poteva seguire il caracollare e il sovrapporsi delle sue note; calò come una sorta di nebbiolina azzurra in mezzo alla quale il suo braccio che andava avanti e indietro si smarriva. Con una corsa a capicollo, un allungo meraviglioso, il musicista arrivò alla fine del brano, e allora abbandonò le mani e barcollò indietro esausto. Con un gemito finale deliziò i ballerini e li congedò ed essi volarono così da una parte all’altra della sala, si spostarono verso le pareti e, dopo questo, cominciò a scorrere birra a fiumi per tutti, compresi i musicisti, e la festa trasse un profondo respiro e si preparò per il grande evento della serata, che era la acziavimas. L’‘‘acziavimas’’ è una cerimonia che, una volta iniziata, si protrae per tre o quattro ore, e si concretizza in una danza ininterrotta. Gli ospiti formano un grande anello tenendosi per mano e, quando la musica si avvia, iniziano a muoversi in un cerchio. Al centro si erge la sposa e, uno a uno, gli uomini entrano nel cerchio e danzano con lei. Ognuno balla per diversi minuti finché gli pare e piace, ma è un procedimento molto allegro, con risate e canti, e non appena il ballerino ha finito, si ritrova faccia a faccia con Teta Elzbieta che gli porge il cappello. Dentro il cappello il ballerino lascia cadere una somma di denaro, un dollaro, o forse cinque, a seconda di quanto può, ma anche in base al valore che attribuisce al privilegio di aver ballato con la sposa. Tutti gli ospiti sono tenuti a pagare per questo spettacolo; se sono proprio ospiti dignitosi, si vedrà cadere nel cappello una somma di tutto rispetto, affinché la sposa e lo sposo possano iniziare la loro vita insieme come si deve. Del resto, le somme
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che se ne vanno via per organizzare una festa del genere non sono uno scherzo. Ammontano certamente a più di duecento dollari e forse anche trecento, e trecento dollari è più di quanto in un anno percepisca la maggior parte di queste persone presenti nella sala. Ci sono uomini che lavorano dalla mattina presto fino a tarda notte in cantine gelide dove ci sono due centimetri di acqua sul pavimento; uomini che per sei o sette mesi all’anno non vedono mai la luce del sole dalla domenica pomeriggio fino al mattino della domenica seguente, e che non arrivano a guadagnare nonostante questo trecento dollari in un anno. Ci sono bambini che a malapena arrivano a toccare la parte superiore dei banchi di lavoro, i cui genitori hanno mentito sulla loro età per farli lavorare, e che non fanno nemmeno la metà di trecento dollari l’anno, e forse neanche un terzo per la verità. Eppure questa gente spende una tale somma, tutta in un solo giorno, per una festa di nozze! (Perché, ovviamente, è la stessa cosa in fondo che la si spenda in una sola volta, per il tuo matrimonio, o in un tempo più lungo per il matrimonio di tutti i tuoi amici). È una cosa alquanto imprudente, persino tragica... ma, dio del cielo! è così bella! A poco a poco questa povera gente ha dovuto rinunciare a tutto il resto, ma a questa faccenda della festa di nozze non rinuncia affatto, ci si è aggrappata con tutta la potenza della propria anima... non si può rinunciare alla veselija! Farlo significherebbe non solo darsi per vinti, ma riconoscere la sconfitta, e la differenza tra queste due cose è ciò che mantiene in vita il mondo. La veselija è giunta fino a loro da un tempo lontano, e il suo significato era che si poteva abitare anche in una grotta, con lo sguardo immerso nell’ombra, senza luce, alla sola condizione che una volta nella propria vita si dovessero spezzare le catene, prendere il volo e volgere lo sguardo al sole, a condizione che una sola volta nella vita si sarebbe potuto testimoniare il fatto che la vita stessa, con tutte le sue preoccupazioni e le sue paure, non è una cosa poi così grave e impietosa, bensì una bolla sulla superficie di un fiume, una cosa che si può prendere tra le mani e scagliare in aria per gioco, come un giocoliere lancia in aria le sue palle dorate, una cosa che si può tracannare come un calice di prezioso vino rosso. Avendo così riconosciuto se stessi come padroni della vita, gli uomini possono tornare al proprio duro lavoro e godere di quel ricordo di onnipotenza per il resto dei loro giorni. I ballerini volteggiavano nella sala, convulsamente, e quando venivano presi da capogiro volteggiavano nel senso opposto. Ora dopo ora la festa continuava, scese l’oscurità e la sala divenne semioscura a causa del fatto che solo due lampade ad olio emanavano una fioca luce. I musicisti ormai avevano consumato tutta la loro folle frenesia. Si gingillavano con un’unica melodia, stancamente. Il motivetto prevedeva una ventina di battute e, quando arrivavano alla fine, attaccavano daccapo. Una volta ogni dieci minuti si fermavano e non riuscivano a ripartire se non dopo esser ricaduti esausti sulle seggiole. La scena che seguiva era piuttosto penosa e poco edificante, tanto che anche il grasso poliziotto sogguardava a disagio dal suo angolino dietro la porta. Era tutta colpa di Marija Berczynskas. Marija era una di quelle anime affamate che si aggrappano con disperazione alla gonna delle Muse quando esse si ritirano. Per tutta la giornata Marija si era mossa in preda a una meravigliosa esaltazione. Ora che ne veniva abbandonata non voleva rassegnarsi a lasciarla andare. La sua anima gridava con le parole di Faust ‘‘Fermati istante, sei così bello!’’. Che si trattasse della birra, o di urla, o di musica, o di movimento, ella si aggrappava a ogni cosa pur
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di non lasciarlo andare. Andava a caccia di esso, non appena il suo carro veniva buttato fuori pista, per così dire, dalla stupidità di quei maledetti tre musicisti. Ogni volta gli lanciava contro un urlo e volava verso di loro, agitandogli i pugni in faccia, battendo sul pavimento, rossa e pazza di rabbia. Invano il povero Tamoszius, spaventato, cercava di rabbonirla, di far valere i limiti della carne; invano Ponas Jokubas sbuffava, senza fiato; invano Teta Elzbieta la implorava. « Szalin! » si sgolava Marija. « Palauk! Kelio isz! Cosa vi abbiamo pagati a fare? Possiate bruciate all’inferno! ». E così, con puro terrore, l’orchestra si rimetteva in moto, e lei tornava al suo posto e riprendeva a svolgere i suoi compiti. Portava tutto il peso dei festeggiamenti sulle sue spalle, ora, più che mai. Ona era mantenuta solo dall’eccitazione che ancora la pervadeva, ma tutte le donne e la maggior parte degli uomini erano sfiniti... l’anima sola di Marija era invitta! Lei sollecitava ancora i ballerini (quello che era stato prima l’anello era ormai divenuto la forma di una pera, con Marija a monte che tirava da una parte e spingeva dall’altra, gridando, battendo il ritmo, cantando — un vero e proprio vulcano in eruzione). Di tanto in tanto qualcuno veniva dentro o usciva fuori lasciando la porta aperta, e siccome l’aria della notte era molto fredda, Marija passandovi davanti assestava alla maniglia un calcione e la porta faceva slam e batteva. Prima questa procedura era stata la causa di una piccola tragedia di cui Sebastijonas Szedvilas era stata la vittima sventurata. Il piccolo Sebastijonas, di tre anni, stava gironzolando senza badare a nulla per la sala, tenendo alzato sulla bocca il boccaglio di una bottiglia di una bibita conosciuta come ‘‘pop’’, di colore rosato, ghiacciata, deliziosa. Era passato davanti alla porta e questa lo aveva colpito in pieno, facendogli uscire dalla bocca un grido tremendo che aveva interrotto di botto le danze. Marija, che solitamente minacciava di morte orribile chiunque, un centinaio di volte al giorno, ma che poi piangeva anche per l’uccisione di una mosca, aveva afferrato il piccolo Sebastijonas e lo aveva soffocato di baci. Per quella spiacevole circostanza l’orchestrra si era potuta godere per lo meno un lungo riposo, e un nuovo giro di bevande, mentre Marija faceva la sua pace con la piccola vittima, dopo averla messa seduta sul bancone del bar, e, in piedi le aveva portato alle labbra un bicchiere schiumoso di birra. Ma nel frattempo, in un altro angolo della sala, si teneva un ansioso conciliabolo tra Teta Elzbieta e Dede Antanas, con alcuni amici intimi di famiglia. C’era un problema. La veselija, si sa, è un accordo, un accordo non espresso, implicito, ma proprio per questo assai più vincolante per tutti. Ognuno vi contribuisce in maniera diversa, anche se tutti sanno perfettamente qual è la propria parte, e si sforzano sempre di darne un po’ di più. Ora, però, dal momento che erano venuti in quel nuovo paese, tutto questo era cambiato, sembrava che vi fosse un qualche sottile veleno nell’aria che si respirava in America, e che esso avesse avvelenato soprattutto i giovani, in una sola volta. Venivano a frotte alle feste e si rimpinzavano per bene con una bella cena, e poi sgattaiolavano via. Magari lanciavano fuori dalla finestra il cappello di qualcuno, e così l’uno e l’altro uscivano insieme adducendo che sarebbero andati a cercarlo, però poi non si vedevano più. Oppure una mezza dozzina di loro si ritrovava e si parava davanti alla porta, ti guardava, si prendeva gioco di te fino a quando non li lasciavi entrare. Altri ancora, ed erano i peggiori di tutti, si ammassavano davanti al bar, si ubriacavano a dovere alle spalle del connazionale ospitante, bevevano soltanto, non prestavano attenzione a niente e nes-
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suno, e lasciavano pensare di aver già ballato con la sposa, o di volerlo fare in seguito. Ciascuna di queste situazioni si era verificata, e la famiglia si ritrovava impotente e piena di sgomento. Così tanto avevano faticato, ed eccoli lì con un tale esborso da pagare! Ona se ne stava paralizzata con gli occhi spalancati di terrore. I conti per le spese della festa erano spaventosi, l’avevano già perseguitata nei giorni precedenti; ogni singola voce di spesa le aveva roso l’anima tenendola sveglia tutto il giorno e rovinandole anche il sonno. Quante volte li aveva ripetuti quei conti, uno a uno, e quanto ci aveva rimuginato su mentre andava al lavoro: quindici dollari per la sala, ventidue dollari e un quarto per le anatre, dodici dollari per i musicisti, cinque dollari la chiesa, la benedizione della Vergine, e così via senza fine... Ma peggiore di tutto era il conto terribile che ancora doveva arrivare: ovvero quello che gli avrebbe presentato Graiczunas per la birra e i liquori. Uno non poteva mai sapere, o arrivare a prevedere in anticipo, quello che un oste avrebbe potuto chiedere. Perché quando veniva il momento, ti si presentava sempre davanti grattandosi la testa e diceva che i conti che aveva fatto prima della festa erano troppo bassi, che aveva fatto del suo meglio ma i tuoi ospiti ci avevano dato giù un bel po’. Con lui si poteva essere sicuri di essere truffati senza pietà, anche se ti stimavi il più caro tra le centinaia di amici che aveva. Avrebbe cominciato a servire i tuoi ospiti da un barile che era mezzo pieno, e sul finire delle serata gli sarebbe rimasto un barile mezzo vuoto, ma ugualmente lui avrebbe conteggiato due fusti di birra. Aveva accettato di servire una certa qualità di birra e a un certo prezzo concordato, ma quando veniva il momento tu e i tuoi amici avreste bevuto un veleno terribile che non può essere nemmeno descritto. Avresti potuto lamentarti, ma non sarebbe servito a nulla, non ti avrebbe risarcito la figuraccia né la serata rovinata, mentre, se volevi rivolgerti alla legge, be’, potevi anche andare in paradiso e far ritorno. L’oste infatti aveva agganci con tutti i grandi uomini politici del distretto, e, se solo una volta ti era capitato di capire cosa significa mettersi nei guai con quel genere di persone, ciò era sufficiente a persuaderti che era meglio pagare ciò che l’oste pretendeva e stare zitto. Ora, ciò che rendeva la situazione dei lituani ancora più dolorosa era che quell’imprevedibile esborso sarebbe ricaduto proprio sulle spalle di quelle poche persone che avevano già veramente fatto del loro meglio. Il povero vecchio Ponas Jokubas, per esempio, da parte sua aveva già donato cinque dollari, e tutti sapevano che aveva appena ipotecato il suo negozio di specialità gastronomiche per duecento dollari per pagare l’affitto scaduto da diversi mesi. E anche l’avvizzita vecchia Poni Aniele, che era vedova, aveva tre figli e un bel po’ di reumatismi, e faceva il bucato per i commercianti di Halsted Street per un compenso che al solo nominarlo spezzerebbe il cuore, aveva fatto quanto era in suo potere. Aniele aveva offerto l’intero ricavato di diversi mesi dei suoi polli. Ne possedeva otto, e li teneva chiusi in un piccolo recinto sotto la scala di servizio di casa sua. Per tutto il giorno i figli rastrellavano nella discarica alla ricerca di cibo per questi polli, e talvolta, quando la competizione in quel posto era troppo forte, si poteva vederli girovagare anche su Halsted Street, mentre camminavano a piedi nudi vicino le grondaie, con la loro madre che li seguiva per vedere che nessuno li derubasse dei rifiuti che avevano raccattato. Il denaro potrebbe non esprimere al meglio il valore che questi polli avevano per la vecchia signora Jukniene. Lei li valutava infatti in maniera diversa, in quanto aveva come la sensazione di ricevere da essi qualcosa in cambio di nulla, e che gra-
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zie a loro otteneva il meglio da un mondo che si stava prendendo il meglio da lei in tanti altri modi. E così li sorvegliava incessantemente, ad ogni ora del giorno, e aveva imparato a vedere come un gufo durante la notte per sorvegliarli ancora meglio. Uno dei polli però gli era stato rubato qualche tempo prima, e non era passato un mese che qualcuno ci aveva provato di nuovo con un altro. Poiché cercare di sventare un furto autentico comporta sempre come minimo una ventina di falsi allarmi, si comprende bene che tipo di contributo la vecchia signora Jukniene poteva offrire alla festa, per riconoscenza a Teta Elzbieta che una volta le aveva prestato dei soldi per un paio di giorni e l’aveva salvata così dallo sfratto. Sempre più amici si riunivano attorno alla famiglia, mentre il lamento per il terribile debito contratto continuava. Anche qualcuno che era tra i colpevoli si avvicinava sperando di origliare la conversazione, e questo era davvero una cosa che metteva a dura prova la pazienza di un santo. Ad un certo punto si mandò a chiamare Jurgis e il problema venne spiegato anche a lui. Jurgis ascoltò in silenzio, con le grosse sopracciglia nere che rabbuiavano ancor di più il suo viso. Di tanto in tanto da sotto ne usciva un barlume e lui si metteva a guardare attorno. Con ogni probabilità il suo desiderio sarebbe stato quello di avvicinarsi a qualcuno di quegli scrocconi e piazzargli in faccia uno dei suoi poderosi pugni, ma, senza dubbio, si rese conto di quanto poco ne avrebbe ricavato. Nessuno di quei conti si sarebbe certo diminuito e, in più, ci sarebbe stato uno scandalo, mentre lui non voleva nulla in più che prendere da parte Ona e andarsene e lasciare che il mondo continuasse per la sua strada. E quindi rilassò le mani e disse solo, a voce bassa: « Quel che è fatto è fatto, e non serve a niente piangere, Teta Elzbieta ». Dopo che il suo sguardo si fu posato su Ona, che stava vicina al suo fianco, si rese conto del terrore nei suoi occhi. « Piccola » le disse, sempre sussurrando, « non preoccuparti, non importa, li pagheremo tutti in qualche modo. Lavorerò di più ». Era sempre quello che diceva. Ona era abituata a quelle parole e ormai le concepiva come la soluzione di tutti i guai. ‘‘Lavorerò di più!’’. Jurgis le aveva pronunciate anche in Lituania quando un ufficiale aveva sequestrato il suo passaporto, e un altro lo aveva arrestato perché era rimasto senza, e i due poi si erano spartiti un terzo di quello che aveva in tasca. L’aveva detto di nuovo a New York, quando l’agente che parlava come un fulmine aveva offerto loro la sua protezione salvo poi spennarli di parecchi soldi, e quasi gli aveva impedito di lasciare il suo ufficio nonostante avessero pagato. Ora glielo diceva una terza volta, e Ona trasse un profondo respiro, perché era così bello avere un marito, proprio come una donna adulta, e un marito che era in grado di risolvere tutti i problemi, che era così grande e forte! L’ultimo singhiozzo del piccolo Sebastijonas si era spento, il piccolo si era placato e l’orchestra fu ricondotta nuovamente al suo dovere. La cerimonia riprese anche se, oramai, erano rimasti solo pochi invitati che dovevano ballare con la sposa. Ben presto la raccolta di denaro finì e le danze delle coppie riattaccarono. Si fece l’una, e le cose non furono come prima. I ballerini infatti erano stanchi e appesantiti, la maggior parte di loro aveva bevuto troppo e da tempo aveva superato la fase di euforia. Si ballava monotonamente, ballo dopo ballo, giro dopo giro, ora dopo ora, con gli occhi fissi spersi nel vuoto come coscienti a metà, in un torpore che aumentava sempre di più. Gli uomini stringevano a sé molto strette le donne, ma sarebbe passata da lì almeno un’ora prima
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che l’uno rivolgesse lo sguardo all’altra. Alcune coppie non si curavano di danzare, e si erano ritirate negli angoli, dove sedevano con le braccia incrociate. Altri, che avevano bevuto ancor di più, bighellonavano per la sala, urtando tutto; alcuni erano in gruppi di due o tre, e cantavano, ogni gruppo una sua canzone. Col passare del tempo si poté avvistare ogni gradazione di ebbrezza, tra gli uomini più giovani in particolare. Ce n’erano alcuni che barcollavano tra le braccia di chi li sorreggeva, sussurrando parole malinconiche; altri avviavano litigi per minimi pretesti, e venivano alle mani e dovevano essere separati. E qui il grasso poliziotto si svegliava definitivamente e metteva mano al suo manganello che era pronto all’uso. Doveva essere pronto perché quel genere di risse delle due del mattino, se sfuggivano di mano, erano come un fuoco in una foresta, e potevano richiedere l’intervento dell’intera squadra di riserva alla stazione di polizia. La cosa da fare pertanto era spaccare ogni testa che si vedeva nella mischia, prima che ci fossero così tante teste che non se ne poteva spaccare neanche una. Vi era una scarsa considerazione delle teste spaccate nel quartiere dei macelli perché degli uomini che dovevano rompere le teste degli animali per tutta la giornata sembravano finire col farci l’abitudine, e così capitava che facessero pratica con i loro amici e qualche volta anche con qualche familiare. E questo era un motivo di vanto, cioè il fatto che con metodi così moderni pochi uomini potessero compiere la dolorosamente necessaria opera di spaccar teste per l’insieme del mondo colto. Ma non ci fu nessuna rissa quella notte. Forse anche perché Jurgis tenne d’occhio la situazione ancora più che il poliziotto. Sebbene Jurgis avesse bevuto molto, come chiunque altro abbia a disposizione un’occasione per bere senza pagar nulla perché è tutto pagato, era un uomo molto forte e non perdeva facilmente il controllo. Solo una volta si rischiò il parapiglia, e naturalmente fu colpa di Marija Berczynskas. Perché lei aveva apparentemente concluso, circa due ore prima, che se l’altare lì nell’angolo, con la sua divinità bianco-sporca, non era la vera patria delle Muse, era, in ogni caso, ciò che più gli si avvicinava qui sulla terra. Allora, ubriaca, quando alle sue orecchie giunsero i fatti riguardanti quei mascalzoni che non avevano pagato, scese sul sentiero di guerra di getto, senza nemmeno il preliminare di una qualche sua maledizione bene urlata. Quando finalmente la tirarono via dalle sue vittime, era ancora lì a strapazzare i colletti dei cappotti di due ragazzacci. Per fortuna il poliziotto era disposto a essere ragionevole e non fu Marija quella che fu buttata fuori dalla sala. Il parapiglia interruppe la musica per non più di un minuto o due. Poi di nuovo la musica riprese, lo stesso brano che era stato suonato nell’ultima mezz’ora senza nemmeno un singolo cambiamento. Si trattava di un brano americano che i musicisti avevano tratto dalla strada, e che tutti sembravano conoscere o, in ogni caso, ne conoscevano il primo verso e lo giaculavano senza sosta. ‘‘Nella buona vecchia estate... nella buona vecchia estate’’. Pareva che ci fosse qualcosa di ipnotico in esso, con le note dominanti che si rincorrevano all’infinito. Finì con l’indurre una specie di torpore in ciascuno che lo ascoltava, così come sugli uomini che lo suonavano. Nessuno riusciva a separarsene, o anche solo pensare di andarsene. Tuttavia erano le tre del mattino, e ormai si era sputata fuori ogni energia, si era sperperata ogni singola forza, tutte quelle che il bere illimitato può offrire. E poi, puntualmente, alle sette di mattina come ogni lunedì ciascuno doveva essere al proprio posto alla Durham o alla Brown o alla Jones, ciascuno nella sua divisa da lavoro. Se qual-
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cuno avesse fatto un solo minuto di ritardo, si sarebbe vista decurtata un’ora intera di salario; e se poi avesse avuto molti minuti di ritardo, be’, poteva anche darsi che il suo gettone di presenza fosse voltato verso il muro, il che equivaleva a riconoscere di aver perduto il posto, e ciò lo avrebbe mandato ad unirsi alla folla affamata che attendeva ogni mattina alle porte delle fabbriche conserviere, dalle sei fino quasi alle otto e mezzo. Non c’era eccezione a questa regola, neppure per la piccola Ona che aveva chiesto le ferie per il giorno del suo matrimonio — un giorno di ferie non pagato — ma a cui era stato rifiutato. E questo accadeva perché fintanto ci sono molti che sono ansiosi di lavorare a tutte le condizioni, non c’è alcun motivo per andar dietro a chi vuole lavorare con le proprie regole. La piccola Ona stava quasi per svenire, un po’ per lo stesso torpore che invadeva anche gli altri, un po’ per l’aria mefitica che aleggiava ormai nella sala. Non aveva bevuto un goccio, ma tutti gli altri stavano letteralmente bruciando alcol, come le lampade bruciano petrolio. Alcuni degli uomini grufolavano profondamente sulle sedie o si erano gettati sul pavimento. Erano così puzzolenti d’alcool che non gli si poteva nemmeno andare vicino. Di tanto in tanto Jurgis guardava sua moglie avidamente, da tempo aveva dimenticato la sua timidezza, ma poi si rendeva conto della gente che li circondava e allora si frenava, guardava la porta oltre la quale doveva arrivare una carrozza che li avrebbe portati via ma che non era ancora arrivata. Jurgis non ce la faceva più ad aspettare e così si avvicinava a Ona che sbiancava e tremava, le metteva il suo scialle sulle spalle e poi la copriva con il suo cappotto. Dacché vivevano a solo due isolati di distanza, la carrozza non aveva più importanza. Non ci furono quasi saluti, i ballerini non si accorsero neppure di loro, tutti i bambini e molti dei vecchi erano troppo storditi dalla stanchezza. Dede Antanas stava dormendo e così i Szedvilases, marito e moglie, con lui che russava come un oboe. Non vi era Teta Elzbieta, solo Marija, che singhiozzava ad alta voce, e poi c’era anche la notte silenziosa, con le stelle che cominciavano ad impallidire un po’ ad est. Jurgis, senza una parola, si caricò Ona fra le braccia e si incamminò. Lei affondò la testa sulla sua spalla con un gemito. Quando arrivarono a casa, Jurgis non era sicuro se lei fosse svenuta o si era semplicemente addormentata, ma quando dovette reggerla con una mano sola perché doveva aprire la porta, vide che Ona apriva gli occhi. « Piccola, oggi non andrai alla Brown » le sussurrò, mentre saliva le scale. Lei gli prese il braccio in preda al terrore, ansimando: « No, no, non posso, saremmo rovinati ». Ma Jurgis rispose di nuovo: « Lascia fare a me, lascia fare a me, guadagnerò più soldi... lavorerò di più ».
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II
acché Jurgis era giovane, del lavoro soleva parlare con disincanto e legD gerezza. Tutte le volte che gli raccontavano le diverse storie di uomini distrutti dalla fatica, lì nei macelli di Chicago — storie terrificanti, che lascia-
vano sbigottiti — e gli parlavano anche di ciò che accadeva a quegli uomini in seguito, il nostro amico si metteva a ridere perché si trovava in città da appena quattro mesi e non solo era giovane e aveva un fisico da gigante, ma aveva sempre avuto una salute di ferro. Non riusciva proprio a figurarsi come ci si doveva sentire ad essere abbattuti. « Questo capita a uomini come voi » diceva, « perché siete tutti silpnas, mezzecalzette. Mentre io ho le spalle larghe! ». Era come un ragazzone di campagna, Jurgis; il tipo d’uomo che i padroni gradiscono e rimpiangono perché non ve sono mai abbastanza. Quando gli si diceva d’andare in un certo posto, lui ci andava di corsa; se rimaneva senza nulla da fare, anche per poco tempo, cominciava a scalpitare e a inquietarsi per la troppa energia che gli ribolliva dentro. Se lavorava alla catena di montaggio, la linea d’uomini secondo il suo gusto si muoveva sempre troppo lenta, e lo si vedeva fremere e svolazzare per il nervosismo. Era per questa sua inclinazione che l’avevano scelto in un’occasione importante, il secondo giorno che era arrivato a Chicago. Era rimasto non più di mezz’ora davanti all’Ufficio Controllo Tempi della Brown & Company. Uno dei capi gli aveva fatto cenno di avvicinarsi, e lui andava fiero della cosa e si sentiva ancora più ispirato nel farsi beffe di coloro che si mostravano pessimisti. Anche se gli dicevano che nella folla da cui era stato prelevato c’erano uomini che aspettavano da un mese, o da parecchi mesi senza mai venir presi, ribatteva: « Sì, come no, ma che razza di uomini sono? Vagabondi, buoni a nulla, debosciati a cui non bastano mai i soldi perché li buttano al vento per un goccio. Volete farmi credere che con queste armi » e stringeva i pugni levandoli al cielo, in modo da mettere in evidenza i muscoli gonfi, « con queste armi potrebbero mai lasciarmi a morir di fame? ». Quegli altri gli ribattevano in tutta risposta: « È evidente che vieni dalla campagna, e da molto lontano, per giunta! ». E, in effetti, era vero. Una città Jurgis non l’aveva mai vista. A malapena aveva visitato una qualche cittadina di media grandezza prima di decidersi ad andar via per cercar un po’ di fortuna nel mondo, e di guadagnare la mano di Ona. Suo padre e, prima di lui, il padre di suo padre e così via lungo la sfilza di suoi antenati, tutti erano vissuti in quella parte della Lituania che va sotto il nome di Brelovicz, la Foresta Imperiale: una grande distesa di centomila ettari che da tempo immemore è riserva di caccia della nobiltà. In quelle lande abitavano pochi contadini che sin dai tempi più antichi vantavano il diritto a un po’ di terra, e tra questi appunto vi era Antanas Rudkus, che era stato allevato — a sua volta allevando i propri figli — su una mezza dozzina di ettari di terra autorizzata nel bel mezzo del deserto. Antanas Rudkus aveva un solo maschio oltre a Jurgis, e poi una figlia femmina. Il fratello di Jurgis s’era arruolato nell’esercito più di dieci anni prima e, da allora, non si era mai più sentito parlare di lui; la sorella s’era sposata e suo marito aveva comprato la loro casa quando il vecchio Antanas aveva deciso di andare in America insieme a Jurgis.
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Era trascorso quasi un anno e mezzo da quando Jurgis aveva incontrato Ona, a una fiera di cavalli a un centinaio di chilometri da casa.Il ragazzone non aveva mai pensato di sposarsi prima di allora; anzi, aveva sempre riso giudicando sciocca quell’eventualità secondo cui un uomo dovesse spontaneamente cacciarsi in trappola. Era accaduto che, senza quasi mai aver detto una parola a Ona, e dopo solo una mezza dozzina di sorrisi, s’era ritrovato viola in volto per l’imbarazzo e pieno di timore nel chiedere ai suoi genitori la mano della loro figlia. Aveva offerto in cambio i due cavalli che suo padre gli aveva affìdato per venderli alla fiera. Il padre di Ona si era rivelato inamovibile come una roccia. Sua figlia era ancora bambina e del resto lui era un uomo ricco; non era quello il modo per chiedergli sua figlia. Jurgis se n’era tornato a casa con il cuore pesante, e per tutta quella primavera e l’estate si era messo sotto nel lavoro cercando di dimenticare. Quando era giunto l’autunno, una volta finito il raccolto, si era reso conto però che non poteva dimenticare e così aveva deciso di mettersi in viaggio per quindici giorni, colmando a piedi tutta la distanza che lo separava da Ona. Aveva trovato degli inaspettati cambiamenti. Il padre della ragazza era morto e il suo patrimonio si trovava nelle mani dei creditori. Il cuore di Jurgis per poco non era scoppiato. Si rendeva conto che il suo premio era a portata di mano. Nella famiglia di Ona però c’era Elzbieta Lukoszaite, Teta, o la zia, come la chiamavano. Era la matrigna di Ona, aveva sei figli. C’era anche il fratello di Ona, Jonas, un tipino minuto e rinsecchito che aveva lavorato tutta la vita alla fattoria. Erano persone di grande importanza, così sembrava a Jurgis fresco di boschi. Ona sapeva leggere, sapeva molte cose che lui non sapeva. Ora che la fattoria era stata venduta, l’intera famiglia era alla deriva. Tutte le loro proprietà ammontavano a circa settecento rubli che, all’incirca, equivalevano alla metà di molti dollari. Avrebbero potuto ottenere tre volte tanto se l’avessero venduta direttamente, ma si erano rivolti a un tribunale e il giudice aveva deciso contro di loro e, così, per fargli cambiare sentenza avevano dovuto pagare un bel po’! Ona avrebbe potuto d’altro canto sposarsi e abbandonare i suoi parenti, ma non voleva perché amava Teta Elzbieta. Jonas propose che tutti loro se ne andassero in America dove un suo amico si era arricchito. Avrebbero lavorato e anche le donne avrebbero fatto la propria parte e, senza dubbio, anche i bambini avrebbero dato il loro contributo; insomma, in qualche modo avrebbero vissuto. Anche Jurgis aveva sentito parlare dell’America. Era un paese — gli avevano detto — in cui un uomo poteva guadagnare tre rubli al giorno. E Jurgis sapeva bene cosa significassero tre rubli rispetto ai prezzi che c’erano là dove viveva. Decise immediatamente d’andarsene in America con loro, sposarsi e diventare un uomo ricco! In quel paese, ricco o povero, un uomo era libero, si diceva. Non v’era alcun obbligo di arruolarsi nell’esercito e non si doveva pagare nessun funzionario mascalzone. Avrebbe potuto vivere a suo piacimento e contare su se stesso come un qualunque altro uomo. Per questo l’America era un luogo che gli innamorati e i giovani sognavano! Se riuscivano a mettere da parte le spese per il viaggio, potevano esser certi che i loro guai sarebbero finiti. Fu stabilito che avrebbero abbandonato il paese la primavera successiva e nel frattempo Jurgis avrebbe venduto se stesso a un imprenditore per un certo periodo, pestando quasi quattrocento chilometri a piedi da casa fino al luogo del lavoro, insieme a una squadra d’operai per andare a costruire una ferrovia a
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Smolensk. Si trattò di un’esperienza infernale: sporcizia, cibo avariato, crudeltà, lavoro per bestie da soma. Ma Jurgis si era tirato su le maniche e n’era uscito in piedi, con ottanta rubli cuciti nel cappotto. Non aveva bevuto neppure un goccio perché pensava tutto il tempo a Ona, e, del resto, era un ragazzo tranquillo e posato di suo, che faceva tutto quanto gli veniva detto senza mai perdere la testa (e quando pure accadeva, chi lo aveva stuzzicato desiderava ardentemente che non perdesse la testa di nuovo!). Quando gli davano la paga, salutava e si teneva alla larga dai giocatori e dalle bettole. Avevano cercato di ucciderlo ma era riuscito a fuggire e a ritornarsene a casa a piedi, continuando a sbarcare il lunario con lavori saltuari e dormendo sempre con un occhio aperto. E poi, in estate, avevano cominciato a prepararsi per il viaggio in America. All’ultimo momento si era unita a loro anche Marija Berczynskas, che era una cugina di Ona. Era orfana e aveva sempre lavorato sin dall’infanzia per un ricco agricoltore di Vilna che la picchiava regolarmente. Solo all’età di vent’anni le era venuto in mente di saggiare la propria forza contro di lui. Gli si era scagliata contro e quasi lo aveva ucciso, per poi fuggirsene lontano. Erano dodici in tutto alla partenza, cinque adulti e sei bambini, oltre a Ona che apparteneva un po’ agli uni un po’ agli altri. La traversata li mise a dura prova, non fu uno scherzo. Un agente che dapprima li aiutò, si svelò poi un mascalzone e li cacciò in trappola con alcuni funzionari. L’inconveniente costò loro un bel po’ dei preziosi quattrini che si portavano appresso, a cui essi si aggrappavano con una paura feroce. Un’esperienza simile gli accadde una volta che giunsero a New York, perché naturalmente non sapevano nulla del nuovo paese e non avevano nessuno che potesse istruirli. Per un uomo in divisa era facile raggirarli, portarli a un albergo, tenerceli e fargli pagare somme spropositate per lasciarli andare via. La legge dice che il listino dei prezzi deve essere esposto alla porta di un albergo, ma non dice che deve essere scritto in lituano! Era ai macelli che l’amico di Jonas aveva fatto fortuna, e così fu in quella parte di Chicago che la famigliola si diresse. Conoscevano una sola parola d’inglese, ‘‘Chicago’’ per l’appunto, e in fondo era tutto ciò di cui avevano bisogno almeno fino a quando non avrebbero raggiunto la città. Poi, quando furono scaricati dal treno senza troppi complimenti, non si trovarono certo in una situazione migliore. Si misero a fissare Dearborn Street con i suoi grandi edifici neri torreggianti sullo sfondo, incapaci di rendersi conto che fossero giunti a destinazione, e perché, quando dicevano ‘‘Chicago’’, la gente non gli indicasse più alcuna direzione, ma li guardava perplessa, o rideva, o se ne andava senza degnarli di attenzione. Erano pietosi nella loro impotenza; soprattutto erano mortalmente terrorizzati da una qualunque persona in divisa. Ogni volta che avvistavano un poliziotto, attraversavano la strada e si allontavano in fretta. Per tutto il primo giorno vagarono in mezzo alla confusione assordante, del tutto sperduti, e solo quando fu notte, mentre se ne stavano rannicchiati nell’androne di un palazzo, furono notati da un poliziotto che li portò al commissariato. In mattinata un interprete fu trovato per loro, e così furono caricati su un tram e gli fu insegnata una nuova parola, ‘‘macelli’’. La loro gioia nello scoprire che stavano per uscire da quella brutta avventura senza perdere un altro po’ del loro denaro, è difficile da descrivere. Dunque, si accomodarono sulla vettura e si misero a guardare fuori dai finestrini. Si trovavano su una strada che sembrava non aver mai fine, che sfilava
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davanti ai loro occhi chilometro dopo chilometro — trentaquattro per la precisione, se lo avessero saputo. Sui lati di questa strada scorrevano file ininterrotte di miseri piccoli edifici di due piani. Ciò che si vedeva di sfuggita tra gli uni e gli altri erano sempre baracche di legno, brutte e sporche, e mai una collina, mai una piccola valle, un declivio. Solo un ponte su uno squallido ruscelletto con delle sponde raggrumate di fango, altrettanto squallidi capannoni e banchine lungo di esse, e più in là un passaggio a livello con un groviglio di interruttori e locomotive sbuffanti e crepitanti vagoni merci. Poi una grande fabbrica, un altro squallido edificio con innumerevoli finestre, volute immense di fumo che si levavano dai camini e obnubilavano il cielo per poi ricadere sudice sulla terra, ma, dopo queste interruzioni, riprendeva la desolante processione dei tetri piccoli edifici. Dopo più di un’ora di viaggio, che non fu comunque sufficiente per entrare nella vera e propria città, la famiglia cominciò a notare alcuni sconcertanti cambiamenti nell’aria. L’oscurità sembrò farsi più cupa e l’erba sempre meno verde. Più il tram avanzava, più i colori delle cose si offuscavano. I campi diventavano secchi e gialli, l’ambiente nero e orribilmente esanime. Al fumo, che diveniva più impenetrabile, si aggiungeva adesso uno strano e pungente lezzo. Loro non riuscivano a dire se era sgradevole o meno (forse qualcuno l’avrebbe definito rivoltante, ma i loro gusti in fatto d’odori non erano raffinati e quel che sapevano per certo era che si trattava d’un odore curioso). Seduti in quel tram, si resero conto d’esser sul punto di giungere alla fonte di quell’odore, di aver fatto tutta quella strada dalla Lituania per andargli incontro. Dopo qualche altro chilometro quell’odore non era più una cosa vaga e distante, ma arrivava a folate decise, robuste ai loro nasi; si poteva letteraralmente gustarlo, per così dire, oltre che annusarlo, quasi cingerlo con le braccia, afferrarlo, esaminarlo con tutto il comodo. Erano divisi nelle loro opinioni. Era un odore elementare, nudo e crudo; oppure era vivace, saporito, quasi acido, o ancora inebriante e avvolgente; c’era qualcuno tra loro che lo respirava come fosse stato un profumo meraviglioso e altri che si portavano il fazzoletto al naso. I nuovi emigranti erano ancora persi nello scoprire le meraviglie di quel segreto quando di colpo il tram s’arrestò, la porta fu spalancata e una voce urlò: « Macelli! ». Scesero e si fermarono all’angolo, imbambolati. Vi erano due lunghe file di costruzioni in mattoni e, tra esse, più alte dei più alti edifici, una mezza dozzina di ciminiere che sembravano voler bucare il cielo. Dalle loro bocche si innalzavano colonne di fumo catramoso, nero come le tenebre della notte, un fumo che sembrava emergere dal cuore della terra dove i fuochi dei secoli ancora covano sotto la cenere. E sprizzavano queste colonne di fumo come fossero esplose da una pressione costante (la fuoriuscita non aveva fine e uno lo guardava nella convinzione che prima o poi dovesse pur cessare, ma l’eruzione non smetteva mai di rigurgitare fuori). Vaste nubi turbinavano, si contorcevano fondendosi in un unico fiume gigante che oscurava il cielo con un nero drappo fino a dove l’occhio poteva arrivare. Poi la famigliola notò un’altra cosa ben strana. Al pari dell’odore, era una cosa elementare, chiara, indubitale. Si trattava di un suono, un suono che era la somma, la fusione di migliaia e migliaia di altri suoni più piccoli. Era quasi impossibile farci caso in un primo momento, perché si depositava nella coscienza come un vago elemento di disturbo, come il ronzio delle api in primavera o i sussurri inafferrabili della foresta (suggeriva un’attività senza fine, le scosse di un mondo in movimento), però subito dopo, con uno sforzo, prestando atten-
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zione, si poteva capire che era provocato da animali, che era il lontano muggito di decine di migliaia di bovini, il grugnito lontano di decine di migliaia di maiali. Avrebbero voluto seguirlo ma, ahimé, non avevano tempo da dedicare a simili avventure. Il poliziotto all’angolo cominciava già a fissarli, e, come al solito, si avviarono lungo la strada. Appena dopo l’isolato udirono Jonas cacciare un grido. Lo videro indicare qualcosa sull’altro marciapiede. Ancor prima che potessero afferrare il significato di quel suo gesticolare, lui era già corso via entrando in un negozio sormontato da un’insegna che diceva: ‘‘J. Szedvilas, salumeria’’. Quando uscì era in compagnia di un signore piuttosto tarchiato, in grembiule e maniche di camicia, che gli stringeva le mani e rideva a crepapelle. Fu Teta Elzbieta che si ricordò improvvisamente che Szedvilas era il nome del mitico amico di Jonas, quello che aveva fatto fortuna in America. E quindi si scoprì che quella sua fortuna consisteva appunto nel negozio di salumi. Era mattina ma non avevano fatto colazione. I bambini cominciavano già a piagnucolare. Quello era il lieto fine di un triste viaggio. Le due famiglie caddero letteralmente nelle braccia l’una dell’altra, poiché erano anni che Jokubas Szedvilas non incontrava qualcuno proveniente dalla sua stessa zona della Lituania. Prima di mezzogiorno erano già amici per la pelle. Jokubas conosceva tutte le insidie di quel nuovo mondo, ne sapeva spiegare ogni mistero. Poteva insegnare ai nuovi arrivati tutto ciò che andava fatto in caso di emergenza e, ciò che più contava, gli avrebbe istruiti su ciò che bisognava fare adesso, ora, sul momento. Come prima cosa ci avrebbe pensato lui ad accompagnarli da Poni Aniele, che gestiva una pensioncina alle spalle dei macelli. Quelle della vecchia Jukniene non sarebbero state certo sistemazioni di prima scelta, però per il momento potevano andare. Teta Elzbieta lo rassicurò che non c’era niente di meglio che degli alloggi a buon mercato dal momento che erano molto preoccupati per le somme di denaro che avevano già dovuto sborsare. Pochissimi giorni di esperienza pratica in quel paese dagli alti salari erano stati sufficienti a fargli capire la crudele realtà secondo cui si trattava anche d’un paese dagli alti prezzi, dove il povero era altrettanto povero come in una qualunque altra parte del mondo. Nel giro d’una sola notte erano svaniti anche tutti i sogni di ricchezza che avevano ossessionato Jurgis. Ciò che rendeva ancor più dolorosa quella scoperta era il fatto che stavano spendendo in prezzi americani somme che avevano guadagnato con pieni salari di tipo lituano, e si trattava di un’autentica truffa! Negli ultimi due giorni avevano digiunato, tutti, compresi i bambini, perché si sentivano troppo male a pagare la quantità di denaro che richiedeva la ferrovia per un po’ di cibo. Eppure, quando si trovarono di fronte la casa della vedova Jukniene, nonostante tutta quella loro consapevolezza, non poterono fare a meno di rabbrividire. Non avevano visto nulla di così squallido lungo tutto il viaggio. Poni Aniele possedeva un appartamento di quattro stanze in mezzo a quel deserto di edifici a due piani che si trovava ‘‘dietro i macelli’’. In ciascuno edificio c’erano quattro appartamenti, tutti adibiti a ‘‘pensione’’ per forestieri: lituani, polacchi, slovacchi, boemi. Alcune di quelle pensioni erano gestite da privati, altre da cooperative. Ogni stanza, in media, veniva occupata da una mezza dozzina di persone, in taluni casi persino tredici o quattordici, per un totale di cinquanta o sessanta pensionanti per appartamento; ciascun pensionante doveva provvedere al proprio giaciglio, cioè disporre di un materasso e qualche coperta. I ma-
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terassi venivano distesi sul pavimento, in file parallele, e, a parte la stufa, nella stanza non c’era nient’altro. Non era affatto inusuale, inoltre, che due persone dividessero lo stesso materasso. Chi lavorava di giorno vi si stendeva di notte e chi lavorava di notte ne disponeva di giorno. E molto spesso il padrone di uno di questi ricoveri finiva per affittare gli stessi materassi a due turni diversi di operai. La signora Jukniene era una donnina striminzita, con la faccia tutta raggrinzita. La sua casa era indicibilmente sozza. A causa della grande quantità di materassi era impensabile poter entrare dall’ingresso principale. Se poi si provava a salire su per i gradini sul retro, la scoperta spiacevole a cui si andava incontro era che la porta era sbarrata con vecchie assi che facevano una specie di pollaio. Tra i pensionanti circolava la battuta secondo cui Aniele pulisse la casa lasciando libere le galline di razzolare per le stanze, perché in sua vece eliminavano, perlomeno in parte, vermi e insetti. E, in effetti, questo era vero, e rappresentava un escamotage ideato apposta dalla vecchia per dar da mangiare alle sue galline e, al contempo, tenere pulite le stanze. La verità era che la vecchia Poni Aniele aveva rinunciato del tutto all’idea di pulizia, dopo aver subito un attacco di reumatismi che l’aveva lasciata paralizzata in un angolo per più d’una settimana. La conseguenza era stata che ben undici dei suoi ospiti, in arretrato di diversi mesi con l’affitto, avevano approfittato della sua immobilità per darsela a gambe e tentar la sorte a Kansas City. Ora era luglio, e i campi erano verdi, ma non c’erano campi e non c’era nemmeno uno spicchio di verde a Packingtown, ma ci si poteva buttare in strada alla maniera degli hoboes, come dicevano alcuni, vedere la campagna e tutto il resto, spassarsela un po’ e viaggiare a scrocco sui vagoni merci. In ogni caso, fu quella la prima casa che diede il benvenuto ai nostri amici arrivati di fresco dalla Lituania. Non vi sarebbe stato proprio nulla di meglio. Pur cercando altrove, non si sarebbe cavato un ragno dal buco. Perlomeno, la signora Jukniene s’era offerta di dividere la stanza che aveva riservato per sé e per i suoi tre bambini con le donne e le ragazze della famigliola dei nuovi arrivati. Spiegò loro dove potevano acquistare un giaciglio usato, sebbene in verità, finché faceva tanto caldo, non ce ne sarebbe stato nemmeno un gran bisogno. Anzi, in serate come quelle si sarebbero accorti che conveniva dormire all’aperto, sul marciapiede, come facevano quasi tutti i suoi ospiti. « Domani » disse Jurgis quando furono da soli, « domani cercherò un lavoro... e forse anche Jonas ne troverà uno. E poi cercheremo un posto tutto per noi ». Lui e Ona uscirono nel tardo pomeriggio a fare quattro passi per dare un’occhiata in giro e farsi un’idea del quartiere che doveva diventare la loro casa. Quelle baracche di legno a due piani erano state costruite più distanziate tra di loro alle spalle dei macelli, e tra l’una e l’altra s’aprivano ampie aree deserte che sembravano essere state risparmiate dalla voracità di una città che gradualmente stava divorando la prateria tutt’intorno. Quegli spazi aperti e selvaggi erano ricoperti per lo più da stoppie ed erbaccia giallognola e polverosa che nascondeva alla vista i cumuli di scatole di conserva di pomodoro gettate alla rinfusa, tra i quali gruppi di bambini si rincorrevano urlando e facendo la lotta. La cosa più sorprendente del quartiere era proprio il numero incredibile di bambini che si potevano vedere ovunque: se in un primo momento si poteva pensare che la scuola fosse appena finita, dopo che ci si era bene inseriti nella comunità si ve-
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niva a sapere che non c’era alcuna scuola, e che quelli erano i bambini del quartiere, e che Packingtown ribolliva di così tanti di loro che, dappertutto, per la strada cavalli e vetture erano obbligati a procedere a rilento. D’altro canto, andare più spediti sarebbe stata un’impresa impossibile visto lo stato in cui versavano le strade. Quella lungo la quale s’erano incamminati Jurgis e Ona somigliava per esempio più a una miniatura topografica di una strada che non una vera strada. Il livello del manto stradale correva parecchi centimetri al di sotto del livello delle case, le quali in genere erano collegate l’una all’altra mediante alte passerelle fatte di assi; non c’era selciato, però c’erano collinette, avvallamenti, buche, rigagnoli, scoli e grandi pozze d’acqua verdastra e putrescente in cui sguazzavano i bimbi quando non si rotolavano nel fango, scavando in cerca di piccoli, misteriosi tesori intravisti chissà come. Uno si domandava come tutto ciò fosse possibile. Così come si domandava come fosse pensabile la sola idea di vivere in mezzo a così tanti sciami di mosche che ronzavano dappertutto, tanto da annerire letteralmente l’aria, in un ributtante fetore che dilaniava le narici, un odore che faceva ribrezzo poiché apparteneva a tutte le cose morte dell’universo. Era un odore che spingeva il visitatore a porre delle domande. Domande alle quali coloro che vi abitavano rispondevano con calma, dicendo che tutta quella terra che si poteva vedere intorno era ‘‘terra fatta’’, terra artificiale che derivava dalla putrefazione dei cumuli di immondizia che dalla città vi venivano scaricati. Dopo qualche anno, il puzzo e le mosche e ogni altro effetto non sarebbe stato più così noioso, così dicevano. Intanto, però, d’estate, con il caldo e soprattutto con le piogge, le mosche si scatenavano. Ma non è poco sano? chiedeva il visitatore; e a questo i residenti rispondevano: « Forse; ma non si può essere sicuri ». Un po’ più di strada in avanti, e con gli occhi spalancati per lo stupore e senza parole per l’incredulità, Jurgis e Ona proseguirono fino a giungere alla località in cui si produceva quella “terra artificiale’’. Dinanzi gli si spalancava un’enorme voragine, grande quanto forse due interi isolati cittadini, con lunghe file di carri per l’immondizia che andavano e venivano sul suo ciglio. Il posto esalava un fetore che sarebbe impossibile descrivere con parole gentili, eppure era spalmato letteralmente di frotte di bambini che vi si grufolavano dall’alba al tramonto. Qualche volta visitatori provenienti dagli stabilimenti della carne in scatola andavano a vedere questa ‘‘discarica’’, per ammirarla. Vi si soffermavano e dibattevano se quel cibo che i bambini raccoglievano se lo mangiavano oppure fosse destinato alle galline di casa; però, a quanto pare, nessuno di loro andava mai giù a scoprirlo. Al di là di questa discarica c’era una grande fabbrica di mattoni, dalle ciminiere fumanti. Il fatto che prima si tirasse via quel terreno della discarica per ricavarne mattoni, e poi si riempissero le buche che si formavano con della nuova spazzatura, sembrò a Jurgis e Ona una soluzione ingegnosa, una caratteristica di un paese intraprendente come l’America. Poco più in là c’era un’altra grossa voragine che era stata svuotata ma non ancora riempita. Dell’acqua stagnava sul fondo e si trovava lì da tutta l’estate, con il terreno sui bordi che, franando, vi finiva dentro, marciva e sobbolliva al sole. Quando giungeva l’inverno qualcuno tagliava quel ghiaccio che vi si formava per venderlo alla gente di città. E anche questo sembrò ai nuovi arrivati un metodo economico, perché non leggevano i giornali e non avevano la testa piena di timori per ‘‘i germi’’. Jurgis e Ona rimasero lì a guardare il sole che tramontava sulla scena, mentre il cielo ad occi-
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dente si tingeva di un rosso sanguigno e i tetti delle case scintillavano come infuocati, ma entrambi non pensavano al tramonto. Rivolgendo le spalle a quell’incanto, tutti i loro pensieri si concentravano su Packingtown che si poteva vedere così chiaramente in lontananza. I profili degli edifici erano neri ed evidenti contro il cielo e, qua e là, dalla massa rossa spiccavano le grandi ciminiere con il loro denso fiume di fumo che saliva in aria levandosi fino alla fine del mondo. Quel fumo, alla luce del tramonto — nero e marrone, e grigio e viola — era una tavolozza di colori. Ogni suggestione di sordidezza che emanava da quel luogo si volatizzava ora al crepuscolo, e lasciava il posto solo a una visione di potenza. Per loro, che stavano a guardare mentre l’oscurità l’inghiottiva pian piano, quell’orizzonte appariva come un sogno di meraviglia, con la sua storia di energia umana, di obiettivi raggiunti, di occupazione per migliaia e migliaia di uomini, di opportunità e di libertà, di vita e di amore e di gioia. Mentre si allontanavano, tenendo a braccetto sua moglie, Jurgis disse: « Domani andrò lì e troverò un lavoro! ».
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