NONFICTION
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Zeno Ferigo è nato a rovigo e vive a Verona. Ha pubblicato per gingko Pantani: l’ultimo trascinatore di folle (2016). Tra i suoi lavori, 4 gennaio: la maledizione, in cui cerca di far luce sul mistero della scomparsa di un bimotore islander YV 2615, il 4 gennaio 2013, al largo dell’arcipelago di Los roques, in Venezuela, con a bordo quattro italiani. ne Il fumo di Satana tra le mura vaticane entra nei giochi di potere della Chiesa, svelandone una quotidiana precarietà, tra affari assai poco trasparenti e congiure di palazzo. Sul Vaticano, ha anche scritto Serpenti, in cui diventa un cronista malizioso e attentissimo su quanto è ruotato attorno al recente Sinodo dei Vescovi, analizzando gli interventi e le risultanze attraverso i contrasti e le divisioni dottrinali che minacciavano un nuovo scisma, e le trappole che sono state tese al Papa nel corso di quel periodo. il libro analizza le difficoltà che Papa Francesco incontra nella riforma della Curia e la trafugazione dei documenti riservati da parte di manovali, probabilmente diretti da una mente occulta all’interno delle mura vaticane.
ZENO FERIGO
Macchie nere sul
GINGKO
EDIZIONI
MaCCHie nere SuL PaLLone © 2016 Zeno Ferigo © 2016 gingko edizioni iSBn 978-88-95288-69-7
gingko ediZioni Molinella (Bo) www.gingkoedizioni.it
Progetto grafico di copertina: © 2016 aTaLanTe
i n di c e Autore 13 26 31 34 50 55 73 81 85 103 115 119 150 157 164 170 181 197 204 220 246 263 278 287
1. Le origini 2. Cos’è il calcio? 3. La FiFa 4. Blatter 5. Platini 6. Pagine nere in italia 7. Fideiussioni false 8. Passaporti falsi 9. drammi e tragedie nel mondo 10. Violenza in italia 11. recenti interventi del legislatore 12. drammi italiani 13. doping 14. Controlli e timori 15. SLa 16. La maledizione Fiorentina 17. altre morti sospette 18. doping bianconero 19. Calcioscommesse 20. Le tappe dell’era Moggi 21. Scandali e... scandaletti 22. diritti TV 23. omofobia 24. operazione Fuorigioco Note
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Quello che c'è di scandaloso nello scandalo, è che ci vi si abitua. Simone De Beauvoir
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l moderno gioco del calcio affonda le radici in tempi assai remoti. Il viaggio a ritroso alla ricerca degli antichi prodromi di quello che oggi è lo sport più praticato nel mondo è ricco di suggestioni. Le prime tracce di un’attività ludica che presenti analogie con il calcio sono rinvenibili già nel venticinquesimo secolo a.C., in Estremo Oriente. L’imperatore cinese Xeng Ti obbligava gli uomini del suo esercito a praticare, fra i vari esercizi di addestramento militare, un gioco imperniato sul possesso di un oggetto sferico formato da sostanze vegetali, amalgamato e ammorbidito in superficie da crini annodati. Il gioco era chiamato Tsu-Chu. In Giappone, circa un millennio più tardi, godeva di largo seguito il Kemari, finalizzato non più all’avviamento alle armi, bensì al diletto delle classi nobili. Si giocava su un campo segnalato agli angoli da quattro diversi tipi di albero: un pino, un ciliegio, un mandorlo e un salice. La palla, il cui strato esterno era di pelle, misurava ventidue centimetri di diametro ed era manovrata con le mani e con i piedi, in una sorta di rugby ante litteram. Diversamente da quello che avviene ai giorni nostri, il gioco era improntato a un fair play che farebbe sorridere: veniva spesso interrotto per scambi di scuse e complimenti. Più o meno quattro secoli dopo, intorno al 1.000 a.C., in Grecia era in auge l’epískyros (il nome derivava dalla linea centrale che divideva il campo in due sezioni), il quale, insieme a tanti e più importanti usi ellenici, venne trapiantato a Roma, dove prese
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il nome di harpastum e assunse connotazioni decisamente più rudi. L’arpasto consisteva nel sottrarsi la palla senza troppi complimenti, e divenne il passatempo preferito dell’esercito. Lo praticavano con grande soddisfazione i legionari di Giulio Cesare, suddivisi in squadre regolari, e furono probabilmente loro a farlo conoscere ai britanni durante l’invasione dell’isola, gettando così un seme destinato a germogliare nella terra che secoli dopo avrebbe dato ufficialmente i natali al calcio moderno. Le fortune di tutti i giochi con la palla declinarono bruscamente nel Medioevo, per un generale deprezzamento delle attività ludiche. Bisognerà attendere il Rinascimento per assistere in Europa a una riaffermazione di questo genere di pratiche agonistiche. Nel pieno splendore dell’età medicea, Firenze divenne la capitale del gioco con la palla. Nel 1410 un anonimo poeta fiorentino, cantando le glorie e le bellezze della città, accennava a una popolarissima forma di divertimento che veniva espressamente chiamata ‘‘gioco del calcio’’.1 Piero de’ Medici, appassionato cultore di questa attività, chiamò alla sua corte i più abili giocatori, dando vita al primo esempio di mecenatismo applicato al calcio. I Medici furono anche i primi a comprendere come il gioco costituisse una formidabile valvola di sfogo per il malcontento popolare (alla stregua degli antichi circenses romani), e quindi s’impegnarono a incoraggiarlo e a diffonderlo. Nel calcio fiorentino l’obiettivo di entrambe le squadre era quello di collocare la palla all’interno di una porta custodita da uno dei difensori, il solo che potesse utilizzare le mani, come l’attuale portiere; il gol era chiamato ‘‘caccia’’. Si trattava di autentiche battaglie, di grande violenza, le quali si protraevano per un’intera giornata. Esaminato con la mentalità odierna, il calcio fiorentino mostra alcune affinità con il calcio moderno e altre con il rugby.2 Riservate in un primo tempo ai nobili, le disfide fiorentine si aprirono presto alla ricca borghesia dei mercanti e dei banchieri, e in seguito ai più abili giocatori di tutte le contrade, oltre ai veri professionisti reclutati dai Medici. Fu però in Inghilterra che si sviluppò l’embrione di quello che poi divenne il vero gioco del calcio, come lo conosciamo oggi — probabilmente, come si è accennato, introdotto dalle legioni di Giulio Cesare. Nel Re Lear, Shakespeare fa dire a Kent, 14
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che atterra Osvaldo con un abile sgambetto: ‘‘Beccati questa, cattivo giocatore di calcio!’’. Nel diciannovesimo secolo si inaugurò, insieme con la rivoluzione industriale e il progresso tecnico-scientifico, un interesse prima di allora sconosciuto verso l’attività sportiva. E il gioco della palla con i piedi, o football, che si era diffuso da tempo a livello popolare, cominciò a fare proseliti presso le classi superiori, secondo la gerarchia sociale dell’epoca: nobili e intellettuali videro nello sport un mezzo di aulica competizione, nella naturale cornice del college. Nel 1857 venne costituito il primo club di calcio non universitario, lo Sheffield Club. Nel 1862, a Nottingham, nacque il Notts County Football Club, comunemente noto come Notts County, e da quel momento fu tutto un proliferare di società calcistiche. La data storica cui si fa risalire la nascita del gioco del calcio moderno è il 26 ottobre 1863. Quel giorno, alla Free Mason’s Tavern (la taverna dei Framassoni o dei Liberi Muratori) di Great Queen Street, nel rione di Holborn, si riunirono undici club dell’area di Londra. Lo scopo primario dell’incontro era quello di codificare in maniera organica e omogenea il nuovo gioco, al fine di uniformare i regolamenti. Due erano le tendenze prevalenti: la prima intendeva consentire l’uso delle mani e dei piedi, mantenendo nel gioco le sue originarie caratteristiche di scontro anche fisico; la seconda era favorevole al solo impiego dei piedi e a un’impostazione nettamente meno violenta. I fautori di quest’ultimo orientamento confluirono nella FA (Football Association), la prima federazione calcistica nazionale. Nel 1885, di fronte al dilagare della pratica calcistica che vedeva ormai impegnati numerosi club e moltissimi giocatori, la FA riconobbe la possibilità di corrispondere al calciatore, per le sue prestazioni agonistiche, un modesto compenso che avrebbe potuto integrare le entrate derivanti dalla sua attività lavorativa abituale. Questo riconoscimento rappresentò la prima espressione di un fenomeno, il professionismo, che avrebbe profondamente segnato la disciplina sportiva, promuovendo, come effetto iniziale, una svolta decisiva a favore dei club più dotati di mezzi economici. Proprio l’opportunità di un guadagno integrativo cominciò a lusingare e ad attirare in Inghilterra i giocatori più abili. 15
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Un ulteriore passo in tale direzione venne compiuto qualche anno più tardi, nel 1897, allorché fu istituita a Londra la prima associazione dei giocatori britannici, un’embrionale forma di sindacato calciatori, la quale si sarebbe trasformata, dieci anni dopo, nella potente e organizzata PFA (Professional Footballer’s Association). Il fortissimo anticipo con cui gli inglesi pervenirono a un vero e proprio ordinamento sindacale dei calciatori, rispetto al resto del mondo, può essere spiegato anche nel riconoscimento di una mentalità associativa particolarmente viva nel paese. Un altro momento fondamentale nel processo storico di organizzazione del calcio moderno fu l’istituzione, nel 1886, dell’IFAB (International Football Association Board), ad opera delle quattro federazioni britanniche d’Inghilterra, Scozia, Irlanda e Galles, con il compito di far rispettare le regole del gioco e, se necessario, di apportarvi modifiche. Tale organo è tuttora vigente ed è l’unico, a livello mondiale, a decidere in tema di regolamento del gioco. Dalla Gran Bretagna, che gli diede forma e normazione, il football nell’ultimo trentennio del diciannovesimo secolo cominciò ad espandersi nel continente europeo e nelle nazioni sudamericane. In Europa, a recepire e a praticare il gioco furono per prime le città sedi di affermati porti commerciali o militari. La sua diffusione si ebbe dalle navi inglesi alla fonda: i marinai impiegavano il tempo libero in accese sfide sui moli, stimolando prima la curiosità, poi l’interesse ed infine l’emulazione. In Francia, il club calcistico più antico nacque a Le Havre, nel 1872. Nello stesso anno in Spagna venne istituto l’Huelva Ricreation Club. In Italia, il primato fu di Genova, nel 1893, mentre in Portogallo, in Olanda e nelle altre nazioni affacciate sul mare il gioco venne via via introdotto con le stesse modalità alcuni anni dopo. Agli inizi del ventesimo secolo la Francia, ospitando nel 1900 le seconde Olimpiadi dell’era moderna, inserì nel programma, come torneo dimostrativo, un triangolare di calcio che riscosse un notevole successo di pubblico. Fu proprio in forza di questo promettente sviluppo che il giornalista francese Robert Guérin si recò a Londra due anni dopo, presso il potente presidente della FA, Frederich Wall, per sottoporgli un progetto ambizioso, ovvero istituire una confederazione che regolasse e organizzasse l’attività delle federazioni nazionali e si ponesse 16
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come obiettivo ultimo quello di dare vita a un vero e proprio Campionato del Mondo. Guérin, in quell’occasione, ottenne un netto rifiuto (gli inglesi evidentemente erano troppo gelosi della propria posizione dominante per accettare l’idea di una super-federazione), tuttavia, il 21 maggio 1904, con il pretesto di un match internazionale tra Francia e Belgio, Guérin invitò a Parigi i delegati di otto federazioni (oltre alla Francia, Olanda, Belgio, Germania, Svezia, Svizzera, Spagna e Danimarca) e fondò la FIFA (Fédération Internationale de Football Association), di cui fu eletto primo presidente (Guérin resterà in carica fino al 1906), con Cornelis August Hirschman alla carica di Segretario Generale (dal 1906 al 1931). Rafforzata da successive adesioni, la FIFA riuscì a convincere, nel 1905, le federazioni britanniche ad entrare a far parte del nuovo organismo. Nel congresso di Berna del 1906 il nuovo presidente della FA, Daniel Burley Woolfall, divenne anche presidente della FIFA, subentrando al dimissionario Guérin. Nel suo discorso d’investitura, il dirigente inglese accantonò subito l’ambizioso progetto di un Campionato del Mondo e, dopo aver riaffermato il fondamentale ruolo dell’International Board come garante del regolamento calcistico, propose di sfruttare l’opportunità offerta dal Comitato Internazionale Olimpico (CIO) di ospitare un torneo ufficiale di calcio nell’ambito dell’appuntamento quadriennale dei Giochi Olimpici. È da notare che i britannici ottennero di entrare nella FIFA con tutte e quattro le loro federazioni, nonostante una norma dello statuto prevedesse la partecipazione di una sola federazione per ciascuna nazione. Al di là di qualche opposizione di principio, alla fine prevalse la considerazione secondo cui l’ingresso di quattro federazioni della scuola calcistica dominante rappresentasse una possibilità da non lasciarsi sfuggire in vista di un ulteriore sviluppo del calcio. Tale anomalia, che tuttora resiste, può essere vista come un indiretto riconoscimento agli inventori del calcio moderno.
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La diffusione del calcio in Italia risale, come accennato, alla fine del diciannovesimo secolo. Il diritto di primogenitura è da 17
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sempre rivendicato dal Genoa. La storia della Serie A, ovvero la massima serie del campionato italiano di calcio, ebbe inizio nel 1898, con l’organizzazione del primo campionato ufficiale. Il torneo assunse la denominazione di Serie A a partire dalla stagione 1929-1930, allorché venne introdotta stabilmente la formula a girone unico. Il termine ‘‘calcio’’ fu quasi certamente coniato da Luigi Bosisio, nel 1907. Prima d’allora, il gioco in Italia veniva chiamato foot-ball, come in originale. Bosisio propose la sostituzione deltermine anglofono con quello italico, già in uso in età rinascimentale. La proposta di ‘‘calcio’’ ebbe successo e la Gazzetta dello Sport, in un articolo del 17 ottobre 1907, dal titolo ‘‘FootBall o calcio?’’ la investì di ufficialità: Una proposta giudiziosissima ci vien posta dal nostro amico rag. Bosisio, il quale ci consiglia ad iniziare l’invocata italianità del football sostituendo a questo ostico titolo straniero una parola italiana, quella onde veniva denominato il giuoco nelle sue origini, allorquando la gagliarda gioventù vi si dedicava al tempo dei comuni italici tra una battaglia e l’altra sulle spianate dei dolci colli toscani. Il calcio! Questa proposta probabilmente avrà sapore di ‘‘forte agrume’’ per molti. Ed è per questo motivo che noi, intitolando ‘‘Calcio’’ la presente rubrica, intendiamo abituare le orecchie ostili e degli ignari alla nostra idea... in modo che il trapasso di abitudini sia automatico e quasi non avvertito. Gli italiani, purtroppo, non si creano d’un tratto.
Appena dopo la fine della prima guerra mondiale il calcio, già molto diffuso nel nostro paese, conobbe un’autentica esplosione di popolarità che lo rese in pochissimi anni lo sport nazionale. Al Fascismo bastarono pochi anni, dopo l’ascesa al potere nel 1922, per accorgersi del potenziale attrattivo che questo gioco esercita sulle masse, e per desiderare di sottometterlo al proprio disegno totalitario. Se il Duce ebbe sempre altri interessi sportivi (tennis e nuoto), non fu così per i gerarchi che, da tifosi o da dirigenti, entrarono da subito e con entusiasmo nel mondo del pallone: un caso emblematico, che approfondiremo 18
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più avanti, fu quello di Leandro Arpinati, alto esponente del regime e contemporaneamente vicepresidente del Bologna. L’occasione per l’ingerenza fascista nel mondo del calcio fu la grave crisi che colpì la FIGC3 nella primavera del 1926. Al termine del campionato 1925-26, rovinato dal principio dalle ‘‘liste di ricusazione’’ con cui le società calcistiche posero all’indice arbitri a loro non graditi (in genere gli arbitri erano ex giocatori e perciò ritenuti di parte), scoppiò una pesante contestazione arbitrale che sfociò in uno sciopero ad oltranza dei direttori di gara. Il 27 giugno, il Consiglio Direttivo della Lega Nord4 (che gestiva anche gli arbitri del campionato maggiore) rassegnò le dimissioni. Il presidente uscente della Lega, Enrico Olivetti (non il Presidente Federale, Luigi Bozino), anziché convocare l’assemblea per le nuove elezioni, delegò i suoi poteri al CONI5, già asservito al regime tramite il suo presidente Lando Ferretti. Questi nominò a sua volta una commissione di tre esperti — il bolognese Paolo Graziani, l’abruzzese Italo Foschi e l’avvocato Giovanni Mauro (presidente dell’AIA, Associazione Italiana Arbitri) — col compito di redigere un documento concernente la nuova organizzazione del calcio italiano. Riunitisi a Viareggio, i tre conclusero rapidamente il lavoro assegnato e il 2 agosto pubblicarono la Carta che fu approvata d’urgenza dal CONI e resa operativa il giorno stesso. La cosiddetta ‘‘Carta di Viareggio’’ organizzò il mondo del calcio italiano a livello nazionale. Andò a riformare profondamente l’ordinamento calcistico del nostro paese, sia in termini di statuto dei calciatori, sia a livello organizzativo della Federazione e dei campionati. Con essa si attuò la prima storica svolta nel passaggio del calcio italiano verso il professionismo. Il documento divise i calciatori in due categorie, dilettanti e non-dilettanti, rischiando di compromettere gli impegni assunti verso la FIFA che prevedeva solo giocatori dilettanti. Dietro la definizione ‘‘non-dilettanti’’, con alone di ambiguità tipicamente italiana, stava il riconoscimento dei numerosi precedenti di calciomercato avvenuti clandestinamente nel torneo italiano, e dei relativi stipendi pagati ai giocatori più bravi, mascherati come artificiosi rimborsi spese o salari apparenti erogati dalle imprese facenti capo alle stesse proprietà delle società di calcio. Tre erano stati i casi più clamorosi: il primissimo, il passag19
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gio di Renzo De Vecchi dal Milan al Genoa nel lontano 1913, per 24.000 lire; il secondo, quello di Virginio Rosetta dalla Pro Vercelli alla Juventus nel 1923, per 50.000 lire; e il terzo, quello di Adolfo Baloncieri dall’Alessandria al Torino nel 1925, per 70.000 lire. Il secondo caso era peraltro costato pesanti sanzioni disciplinari alla Juve che ne avevano compromesso la corsa allo scudetto per quell’anno. La Carta riordinò anche le liste di trasferimento, non più ristrette alla provincia di residenza: dal luglio 1926 ogni vincolo territoriale venne sciolto permettendo l’emigrazione dei giocatori da una regione all’altra. Da allora, il calciomercato fu sostanzialmente legalizzato, anche se formalmente sottoposto a delle clausole. Queste clausole, nella forma, sembravano condizionare il trasferimento dei giocatori, ma nella sostanza venivano facilmente aggirate con un duttile e malleabile espediente strategico: si invocava un “dissenso morale’’ fra calciatore e società e una ‘‘messa fuori rosa”. (Della nuova norma approfittarono subito due società: il Torino, che prelevò il centravanti Gino Rossetti dallo Spezia, e soprattutto l’Inter che, per la stagione 1926-27, strappò alla Lazio Fulvio Bernardini. Ma il vero scambio record fu il passaggio di Carlo Reguzzoni dalla Pro Patria al Bologna nella stagione 1930-31, per 80.000 lire in contanti, con intervento del gerarca fascista Leandro Arpinati). Più prettamente ispirata alle idee di nazionalismo del Fascismo fu invece la regola che chiudeva il campionato italiano agli stranieri. Come norma transitoria venne permesso per la stagione entrante di mantenere in rosa due giocatori esteri per ogni squadra, a patto di farne scendere in campo uno solo, mentre dal 1928 non fu più ammissibile nessun tesseramento di calciatori stranieri nel torneo tricolore. Il provvedimento colpì duramente diverse società, visto che si contavano più di ottanta calciatori esteri in Italia, la maggior parte dei quali ungheresi e austriaci, cioè appartenenti a quella scuola danubiana assai in voga a quei tempi. Il tentativo di aggirare queste disposizioni da parte delle più facoltose società, specie al riguardo dei giocatori sudamericani, diede inizio al fenomeno degli oriundi. Il decennio successivo alla prima guerra mondiale fu dunque quello in cui il calcio italiano si allontanò dalla dimensione dilettantistica e si avviò sulla strada del professionismo. Fu un 20
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decennio di grandi trasformazioni, contraddistinto dal dissidio tra chi pensava a un calcio improntato all’ideale olimpico e chi invece reputava impossibile arrestare l’inevitabile progresso e l’introduzione di criteri manageriali. Fu il decennio delle vittorie delle provinciali, come Pro Vercelli e Genoa, ma anche quello della nascita di grandi club del nostro calcio, a partire da Roma, Napoli e Fiorentina. In questi anni il calcio entrò prepotentemente nelle abitudini domenicali degli italiani e provocò l’insorgere di grandi passioni, anche per effetto della doppia vittoria della Nazionale di Pozzo ai Mondiali del 1934 e del 1938. Guidate da stranieri fortissimi, tra cui moltissimi oriundi (basti ricordare Monti, Orsi, Guaita, Andreolo, solo per citarne alcuni) strappati al Sud America tra roventi polemiche, si fecero notare soprattutto la Juventus dei cinque scudetti di fila, e il Bologna che ‘‘tremare il mondo fa’’, una squadra che incantò con risultati prestigiosi, tra cui il Trofeo per l’Exposition Internationale “Arts et Techniques dans la Vie moderne” (l’Expo di Parigi), alla quale parteciparono le più importanti squadre del tempo. Fu inoltre il decennio in cui il calcio cominciò ad unificare un paese (sino ad allora tagliato in due dal dominio degli squadroni del nord), grazie agli ottimi risultati raggiunti da Roma e Napoli. Il periodo 1939-49 fu, senza ombra di dubbio, quello del Grande Torino, la squadra più bella mai prodotta dal nostro calcio, trascinata dal leggendario Valentino Mazzola. Il 4 maggio 1949, un Fiat G.212 della compagnia aerea ALI, con a bordo l’intera squadra, il quale stava riportando a casa i giocatori da Lisbona, dove avevano disputato un incontro amichevole con il Benfica, organizzato per aiutare con l’incasso il capitano della squadra lusitana Francisco Ferreira, in difficoltà economiche, si schiantò contro il muraglione del terrapieno posteriore della Basilica di Superga, che sorge sulla collina torinese. Nessuno si salvò all’impatto. La tragedia, che lasciò un vuoto pressoché incolmabile, si trascinò dietro per molti anni una crisi del calcio italiano a livello internazionale, il quale continuò comunque a godere dell’entusiastico apporto delle folle.6 Negli anni successivi nuovi protagonisti, soprattutto stranieri, entrarono in campo: si fecero notare soprattutto Hansen e Martino (Juve), Skoglund, Nyers e Wilkes (Inter), il cosiddetto trio Gre-No-Li [contrazione delle iniziali dei tre famosi calciatori 21
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svedesi Gunnar Gren, Gunnar Nordahl e Nils Liedholm] (Milan), e Julinho (Fiorentina). Meno brillante risultò la Nazionale, che continuò a risentire del vuoto lasciato dalla sciagura di Superga, tanto da mancare la qualificazione ai Mondiali del 1958, in Svezia. Sarà il primo e ultimo mondiale senza la nostra selezione. Il 1959-69 vide la preminenza delle squadre milanesi. Guidate da Helenio Herrera e da Nereo Rocco, Inter e Milan vinsero scudetti e coppe internazionali, caratterizzando in maniera prepotente tutto il periodo in questione e rilanciando alla grande l’immagine del nostro calcio, appannata da tanti anni di insuccessi. Anche la Juve, dopo i fasti di Omar Sivori e John Charles, dovette inchinarsi alla superiorità delle grandi meneghine, e riuscì a vincere solo lo scudetto del 1966-67, all’ultima giornata. Da segnalare l’ultimo scudetto (1964-65) del Bologna, guidato dal mitico Fulvio ‘‘Fuffo’’ Bernardini. Il decennio1969-79 registrò l’imperioso ritorno della Juve, che fece incetta di titoli. Anche altre squadre fecero capolino, come la Lazio di Tommaso Maestrelli e Giorgio Chinaglia (primo titolo della sua storia); il Torino di Paolo Pulici e Francesco Graziani, soprannominati ‘‘i gemelli del gol’’ per la loro abitudine a segnare, che tornò sulla vetta dopo la sciagura di Superga; il Cagliari, trainato da Gigi Riva (per la notevole potenza di tiro del piede sinistro e la prolificità sotto rete, Gianni Brera lo soprannominò ‘‘Rombo di Tuono”) e guidato in panchina da un personaggio unico come il ‘‘filosofo’’ Manlio Scopigno; infine la Fiorentina, al suo secondo scudetto. La Nazionale andò avanti tra alti e bassi. Arrivò in finale ai Mondiali messicani del 1970, perdendo col Brasile, ma uscì subito in Germania nel 1974. Il decennio 1979-89 fu quello della sfida tra Juventus e Roma, con i giallorossi che riuscirono a vincere il secondo titolo della loro storia. I duelli verbali tra Dino Viola e Giampiero Boniperti, presidenti delle due grandi, riempirono le prime pagine dei quotidiani sportivi. Quegli anni videro la grande sorpresa del Verona, guidato da Osvaldo Bagnoli, che vinse il suo primo titolo (1984-85). La squadra giunse al salto di qualità grazie all’innesto di due campioni stranieri, il tedesco Hans-Peter Briegel e il danese Preben 22
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Elkjær, inseriti in un’intelaiatura composta in gran parte da comprimari ‘bocciati’ dalle grandi squadre, ma esplosi in terra scaligera. Era dagli anni venti che una città non capoluogo di regione non chiudeva la classifica davanti a tutti, e mai più sarebbe accaduto nei decenni a venire. Fu il periodo del Napoli, che riuscì finalmente a cucirsi lo scudetto sul petto (10 maggio 1987), facendo esplodere d’entusiasmo la gente partenopea, e furono gli anni di alcuni dei più grandi campioni che abbiano mai calcato i campi italiani, come Diego Armando Maradona, Paulo Roberto Falcão e Michel Platini. Anche la Nazionale tornò sul tetto del mondo vincendo il Mondiale di Spagna (1982). La gioia di Pertini ai gol di Paolo Rossi, Marco Tardelli e Alessandro Altobelli diverrà uno dei pezzi d’archivio più celebri della Rai. Nel decennio successivo, 1989-99, dopo lo scudetto vinto dalla Sampdoria di Gianluca Vialli e Roberto Mancini, la scena venne totalmente occupata da Milan e Juve. Il Milan degli olandesi (Ruud Dil Gullit, Frank Rijkaard e Marcel van Basten) dominò la prima parte del decennio, per poi lasciare il posto alla Juventus di Marcello Lippi, una squadra che faceva della straripante forza fisica la sua principale caratteristica. Da ricordare per il Milan, in negativo, la famosa notte di Marsiglia di mercoledì 20 marzo 1991. Si giocavano al Vélodrome i quarti di finale della Coppa dei Campioni. Durante la partita, d’un tratto si spense il riflettore alla sinistra della tribuna. Vi fu un netto calo della visibilità. L’arbitro sospese la partita, ma alle 22:22 una parte delle luci, circa il quaranta per cento, riprese a funzionare. La visibilità non era perfetta, ma si poteva giocare, tant’è che tutti i rossoneri rientrarono sul terreno di gioco. Ad un certo punto arrivò dalla tribuna Adriano Galliani, amministratore delegato del Milan. Galliani trattenne per un braccio Franco Baresi per impedirgli di entrare in campo. L’arbitro invitò Baresi a seguirlo, ma il capitano non lo seguì. Galliani reputò che non si vedesse abbastanza e non voleva disputare la partita. Trascorsero alcuni minuti e alla fine il Milan si ritirò dietro la porta, mentre i francesi rimasero immobili in campo. Alle 22:33 il fischio definitivo del direttore di gara decretò la fine della competizione. Negli spogliatoi Galliani disse: ‘‘Presenteremo reclamo alla 23
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UEFA. Non si poteva continuare’’. In tribuna, il commissario tecnico della Francia, Michel Platini, esclamò: ‘‘Milan, che vergogna’’. Il giorno dopo, giovedì 21 marzo, i giornali italiani non uscirono a causa di uno sciopero. Venerdì, la Gazzetta pubblicò il comunicato del Presidente del Milan, Silvio Berlusconi, che annunciava: ‘‘Niente reclamo, ma scuse e complimenti ai francesi’’. Il Milan perse sul campo (1-0). E a tavolino (3-0). I giudici UEFA squalificarono la squadra per un anno, e a Galliani inflissero due anni. La sentenza venne confermata in appello. Il danno che ne risultò fu enorme, anche economico. Si parlò di una perdita di cinquanta miliardi di lire, circa venticinque milioni di euro. Arrigo Sacchi, l’allenatore, alla fine della stagione lasciò la panchina e andò in Nazionale. Un po’ di tempo dopo Sacchi ammetterà: ‘‘Quella sera ero confuso, me ne sono lavato le mani’’.7 Il Milan affidò la panchina a Fabio Capello. Il tecnico di Pieris rigenerò lo spogliatoio, costruendo una stagione in cui i rossoneri non ebbero rivali: vinsero lo scudetto e chiusero il torneo imbattuti, guadagnandosi così l’appellativo di ‘‘Invincibili’’. Mai nel secondo dopoguerra erano trascorse otto stagioni consecutive senza che la Juventus cogliesse un titolo. Decisi a non prolungare la striscia negativa, Gianni e Umberto Agnelli rivoluzionarono l’assetto organizzativo della società, affidandone la gestione al manager Antonio Giraudo, a Luciano Moggi e a Roberto Bettega: i tre dirigenti formarono un efficace gruppo di amministratori, detto la Triade. E fu un vero e proprio duopolio quello instaurato dalle due squadre. Nei successivi quindici anni il duopolio si spostò sull’asse Juventus-Inter, ma fu caratterizzato anche da uno scandalo, con un intermezzo denso di significati, poco edificante. A due settimane dall’assegnazione dello scudetto 2006, il 2 maggio la Procura della Repubblica di Napoli iscrisse nel registro degli indagati, con l’ipotesi di frode sportiva, numerosi dirigenti dei club calcistici italiani. Secondo gli inquirenti, questi si erano adoperati per accomodare varie gare del campionato 2004-2005, tramite la costruzione di un sistema di potere in grado di condizionare la classe arbitrale, come parte di una più ampia macchinazione ideata da una cupola in grado di influenzare l’attività della FIGC ai massimi livelli. 24
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In seguito al coinvolgimento diretto nello scandalo del Presidente Federale Franco Carraro e del suo vice Innocenzo Mazzini, dimessisi in quello stesso mese, la Federcalcio venne commissariata dal CONI. Furono inquisite varie società, accusate di essersi rivolte a Luciano Moggi per ottenere indebiti favori. Oltre ai bianconeri, anche la Fiorentina, la Lazio, il Milan e la Reggina risultarono coinvolti in quello che fu battezzato dai giornali ‘‘Calciopoli’’, che sfociò in sentenze capaci di rivoluzionare bruscamente lo status quo del calcio italiano. Dopo un procedimento disciplinare, la società maggiormente colpita dalla giustizia sportiva risultò proprio la Juventus. Riconosciuta colpevole di illecito sportivo, le venne revocato il titolo di Campione d’Italia 2004-2005 e non le fu assegnato nemmeno quello 2005-2006, in quanto retrocessa all’ultimo posto in classifica dopo aver sentito il parere di una Commissione di tre saggi appositamente incaricata. Il 26 luglio 2006 la FIGC emise un comunicato stampa in cui riconosceva all’Inter, prima classificata dopo le sanzioni inflitte a Juventus e Milan, il titolo di Campione d’Italia 2005-2006.8
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