nella terra della
NONFICTION
morte bianca
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Valerian IvanoviÄ? Albanov
l’ au to r e
Valerian iVanoVič albanoV nacque nel 1881, nella città di Voronež, nei pressi del fiume Don, nella russia centrale, a circa cinquecento chilometri da Mosca. Suo padre, un veterinario, morì quando lui era bambino e il piccolo Valerian fu allevato da uno zio che viveva a Ufa, una città portuale sul fiume belaja, negli Urali sudoccidentali. affascinato fin dalla tenera età dai racconti dei marinai, intraprese la sua prima avventura per mare quando ancora era uno scolaretto, ma fu costretto a rinunciare prematuramente all’impresa perché la sua piccola imbarcazione affondò. benché suo zio volesse farne un ingegnere, albanov entrò nel Collegio navale di San Pietroburgo a diciassette anni e si laureò quattro anni dopo, nel 1902. nel 1904 si addestrò su diverse navi sul Mar baltico prima di viaggiare a Krasnojarsk, nella Siberia centrale, dove navigò lungo il fiume enisej fino al Mare di Kara, come primo ufficiale sul piroscafo Ob. Dal 1909 al 1911 intraprese numerosi viaggi tra arcangelo e i porti britannici a bordo del piroscafo Kildin. nel 1912 si arruolò come navigatore sullo scuna (un tipo di veliero a due, o più alberi, generalmente inclinati verso poppa, dotato di vele di diverso tipo) Sant’Anna, sotto il comando del capitano Georgij l’vovič brusilov, diretto da Vladivostok attraverso il Passaggio a nord-est — il viaggio così sfortunato che viene raccontato vividamente nelle pagine che seguono. nell’ottobre del 1914 albanov incontrò l’idrografo leonid ludwig breitfuß, il quale lo convinse a scrivere un resoconto della prova stu-
l’aut ore
pefacente che aveva appena affrontato. Queste memorie vennero pubblicate inizialmente a San Pietroburgo, come appendice ad una rivista di idrografia, nel 1917, alla vigilia della rivoluzione d’ottobre. l’opera apparve poi sotto forma di libro in diverse edizioni russe, venne tradotta in tedesco e di seguito in francese (per approfondimenti, si leggano le ‘‘note di traduzione’’ in fondo a questo libro). nonostante la sua fuga straziante dalla Sant’Anna e l’odissea che patì per due anni e dalla quale uscì vivo per miracolo, albanov continuò ad andare per mare. Per un certo periodo servì con il suo compagno superstite, alexander eduardovich Konrad, a bordo del Canada, una rompighiaccio che serviva il porto di arcangelo. Dopo una breve degenza in un ospedale militare di San Pietroburgo, navigò ancora sulle navi dei porti baltici di Tallinn e Haapsalu, e da Krasnojarsk, sul fiume enisej. Morì nell’autunno del 1919. nel trentesimo anniversario della morte di albanov, il noto geografo russo ed esploratore artico Vladimir Jul’evič Vize (il quale si trovava a bordo della nave San Foka quando essa recuperò albanov) scrisse queste parole sulla rivista Letopis’ Severa (Memorie del nord) [Mosca, 1949, 1:279-81]: Albanov doveva la sua sopravvivenza alle sue qualità personali: coraggio, energia, e forza di volontà... Il suo libro, con il suo intrigante dramma e l’affascinante semplicità e sincerità, è tra gli scritti più importanti sull’Artico della letteratura russa. nel 1975, l’esperto di artico William barr ha scritto: Il nome di Valerian Albanov deve essere annoverato tra quelli immortali delle esplorazioni polari.
valerian
albanov
nella terra della morte
bianca una storia epica di sopravvivenza nella siberia artica
Traduzione dal francese di Cristine Blanchet
GINGKO
EDIZIONI
Titolo originale dell’opera
na iUG, K ZeMle FranTSa ioSiFa (i° ed. 1917) nella Terra Della MorTe bianCa
© 2015 Gingko edizioni iSbn 978-88-95288-65-9 Traduzione dall’edizione Payot, Paris, 1928 aU PayS De la MorT blanCHe a cura di Cristine Blanchet
GinGKo eDiZioni Molinella (bo) www.gingkoedizioni.it
Progetto grafico di copertina: © 2015 aTalanTe
i n di c e AUTORE 11 17 29 37 53 67 85 103 115 135 145 157 165
1. Perché abbandonai la Sant’Anna 2. Preparativi per la spedizione in slitta 3. l’ultimo giorno a bordo della Sant’Anna 4. Sopra la banchisa polare 5. la morte del marinaio bayev, ulteriore scoraggiamento 6. alla deriva verso Sud 7. Terra, finalmente! 8. la Terra di alexandra 9. il fatidico viaggio verso Capo Flora 10. Capo Flora e i campi di Jackson e di Ziegler 11. Preparazione all’inverno a Capo Flora 12. ehi, di bordo! 13. lasciando la Terra di Francesco Giuseppe NOTE DI TRADUZIONE
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La Sant’Anna in partenza dal porto di San Pietroburgo, nel 1912.
Uno e
Perché a b b a ndona i l a Sa nt ’ A nna
Q
uante settimane e mesi sono trascorsi da quando ho lasciato la Sant’Anna, dicendo addio al tenente Brusilov! Non sapevo che la nostra separazione sarebbe stata per sempre. La nave era completamente intrappolata dalla banchisa. Era andata alla deriva verso nord per un anno e mezzo, lontano dalla Terra di Francesco Giuseppe. Nel mese di ottobre del 1912, imprigionata dal ghiaccio nel Mare di Kara, alla latitudine di 71°45’ Nord, si era mostrata incapace di avanzare o arretrare, in balia dei venti e delle maree. Insieme ad altri tredici membri dell’equipaggio abbandonai la nave alla sua corsa senza meta e partii a piedi verso la Terra di Francesco Giuseppe, alla ricerca di una costa abitata. Benché non sia passato troppo tempo da quando la lasciai, ora trovo un po’ difficile ricreare a memoria un’immagine completa di quelle settimane e di quei mesi lugubri a bordo della Sant’Anna. Ho dimenticato del tutto parecchi incidenti, ma alcuni mi rimangono incisi nella mente. Se il diario che tenevo sulla nave fosse sopravvissuto, il mio racconto ovviamentre avrebbe attinto al suo intero contenuto. Ma tutti gli appunti, affidati a due dei miei compagni alla vigilia del mio salvataggio, sono scomparsi con
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loro, allorquando non sono riusciti a raggiungere Capo Flora, sull’Isola di Northbrook, nell’arcipelago di Francesco Giuseppe. Le poche note che ho tenuto con me sono intatte, e coprono il periodo che va dal 14 maggio al 10 agosto 1914. Qui di seguito sono riportati i brani del giornale di bordo del tenente Brusilov, relativi agli eventi che causarono la nostra separazione e che io presentai al mio ritorno all’Ufficio Idrografico di Pietrogrado: 9 settembre. Ho sollevato l’ufficiale di navigazione dai suoi doveri. 9 gennaio. Allungato il cavo di scandaglio Thomson con un cavo di fortuna, perché quello da settecento metri che abbiamo a disposizione era inadeguato. L’ufficiale di navigazione Albanov, che ho sollevato dal suo incarico, mi ha chiesto l’autorizzazione e i materiali per costruire un kayak con cui egli pensa di lasciare la nave in primavera. Stimando la sua difficile posizione a bordo, ho accordato il mio assenso. Aurora boreale in serata. 22 gennaio. L’equipaggio della nave mi ha domandato di riunirci nei loro quartieri, e quando l’ho fatto anch’essi hanno chiesto il permesso di costruire kayak, seguendo l’esempio dell’ufficiale di navigazione. Gli uomini hanno paura di trascorrere un terzo inverno in tali pericolose circostanze e con così poche provviste. Dapprima, ho cercato di parlare con loro invitandoli a mettere da parte il piano, promettendo che, se la nave non si fosse liberata dal ghiaccio entro l’estate successiva, anche noi l’avremmo abbandonata servendoci delle scialuppe di salvataggio. Ho ricordato loro il destino della Jeannette, i cui uomini di equipaggio erano stati costretti a coprire una distanza ancora maggiore nei loro piccoli natanti, purtuttavia riuscendo a raggiungere alla fine un porto sicuro. Ma i miei sforzi sono stati vani, in quanto nessuno di essi credeva che la Sant’Anna sarebbe stata di nuovo libera, e il loro unico desiderio era quello di rivedere la propria patria. Ho annunciato quindi che potessero tutti ritenersi liberi di partire, se era ciò che desideravano. Un piccolo ma crescente numero ha deciso di restare, più di quanti in realtà
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avrei sperato, ma non ho voluto forzare nessuno a recedere. Oltre all’infermiere, coloro che alla fine sono rimasti a bordo sono due ramponieri, l’ingegnere, il fuochista, l’assistente, il cuoco, e due giovani marinai. Necessitavo dei loro servigi in ogni caso, per mantenere e gestire la nave. In considerazione del loro numero, le nostre provviste sarebbero durate un anno, se razionate con attenzione, e così in ultima analisi sono stato abbastanza contento di questo inaspettato volgere degli eventi. Il mio senso di responsabilità è rimasto intatto, perché gli altri stavano lasciando di propria spontanea volontà e avevano scelto liberamente il loro destino...
Su mia richiesta, il paragrafo seguente, il quale spiega le mie ragioni di lasciare la Sant’Anna, venne accluso al giornale di bordo di Brusilov: Dopo che il tenente Brusilov si è rimesso dalla sua lunga e grave malattia, le nostre relazioni sono diventate via via sempre più tese, al punto da essere intollerabili nella nostra attuale, disperata condizione. Poiché non riuscivo a scorgere una soluzione al nostro conflitto, ho chiesto al tenente di sollevarmi dall’incarico di navigatore. Dopo aver riflettuto, il tenente Brusilov ha soddisfatto la mia richiesta, per la quale gli sono stato estremamente grato.
Il suo resoconto dimostra senza alcun dubbio che domandai io di andarmene, come unico membro. Fu solo il 22 gennaio che Brusilov m’informò che alcuni uomini dell’equipaggio avevano intenzione di accompagnarmi. L’unica ragione per la quale volessi andarmene era la mia disputa personale con Brusilov, mentre gli altri intendevano evitare di trascorrere un terzo inverno abbandonati sul ghiaccio con le scorte che diminuivano. Ora, se guardo a posteriori il mio litigio con Brusilov, mi rendo conto che la pressione esercitata dalla nostra disperata situazione ci aveva logorato i nervi fino al punto di rottura. Il nostro viaggio era stato perseguitato dalla cattiva sorte fin dall’inizio. Gravi malattie, un dubbio pervasivo sul fatto che le nostre fortune sarebbero presto mutate, la certezza di ritrovarci 13
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alla mercé di ostili forze della natura, infine la preoccupazione crescente circa l’insufficienza delle nostre provviste erano motivi per ogni genere di disaccordo e infiammavano gli animi. Gli attriti minori, che una prolungata condivisione dei quartieri inevitabilmente induce, ci spinsero ancor più e sempre più a separarci, e infine creò quasi una barriera insormontabile tra di noi. Nessuno compiva alcuno sforzo per trascurare le divergenze e metterci una pietra sopra. L’aria era elettrica ogniqualvolta ci incontravamo; un’ostilità latente diventava sempre più evidente, e insensati attacchi di rabbia prevalevano in qualsiasi occasione. Talora, litigavamo in maniera così aspra — in pratica, per nessuna ragione al mondo — che restavamo senza parole e dovevamo stare lontano l’uno dall’altro per evitare esplosioni più gravi. Se ciascuno avesse cercato, dopo averlo fatto, di ricordare esattamente perché avessimo litigato, avrebbe raramente trovato un valido motivo. Anche dopo aver a lungo riflettuto, non riesco a ricordare se dopo il settembre del 1913 avemmo almeno una volta una normale, civile conversazione! Eravamo sempre tesi emotivamente e spesso interrompevamo le nostre discussioni in un impeto rabbioso. Oggi, sono certo che ci saremmo compresi l’un l’altro abbastanza bene se solo fossimo stati tutti in grado di mantenere la calma. Senza dubbio, avremmo accettato che nella maggior parte dei casi non vi fosse alcuna ragione per litigare, e che un po’ di reciproca pazienza avrebbe velocemente migliorato il nostro rapporto. Ma questo era impossibile in quella sovraeccitazione. Ciò nonostante, non ci separammo in cattivi rapporti. Lo strano, sbilanciato stato d’animo che aveva prevalso sulla nave ora sembra difficile da immaginare...
e
La Sant’Anna era stata attrezzata molto bene e rifornita di provviste per diciotto mesi. C’erano solo ventiquattro membri d’equipaggio, ma le nostre scorte erano state calcolate per trenta uomini. Pertanto, al momento, non c’era pericolo di penuria. Nel corso del primo anno, d’altronde, la nostra caccia agli orsi aveva avuto un discreto successo, e si era aggiunta notevolmente 14
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alle provviste. Avremmo potuto quindi ipotizzare che la rigorosa gestione delle risorse avrebbe consentito all’intero equipaggio un ulteriore anno di grazia, fino al dicembre del 1914. Una caccia abbondante avrebbe potuto migliorare un po’ la nostra situazione, ma dal momento che nel secondo anno non avevamo incontrato nessun animale da cacciare, non c’era nessuna buona ragione per contare su questo. All’inizo del 1914, inoltre, ci rendemmo conto che sarebbe stato impossibile liberare la Sant’Anna dal ghiaccio; al massimo, saremmo andati alla deriva fino all’autunno del 1915, più di tre anni dopo esser partiti da Alexandrovsk. Se fossimo rimasti a bordo, la fame sarebbe diventata una minaccia vera e propria da gennaio 1915, se non prima. Nell’oscurità della lunga notte polare, una lotta contro la fame non implica alcuna speranza di salvezza. Durante questa stagione, la caccia è fuori discussione, poiché tutti gli animali sono in letargo. L’unica certezza per coloro che sono intrappolati nel suo regno è che la ‘‘morte bianca’’ è in agguato. Anche se un gran numero di membri d’equipaggio era in procinto di abbandonare la nave in un momento in cui le condizioni per viaggiare e la caccia erano per loro più favorevoli, ed essi stavano prendendo con sé due mesi di forniture — principalmente gallette — coloro che rimanevano a bordo della Sant’Anna avrebbero comunque avuto ancora vettovaglie a sufficienza per resistere con una certa tranquillità fino all’autunno del 1915. Ipotizzavamo, inoltre, che la nave nel frattempo sarebbe stata in grado di aprirsi un varco d’acqua da qualche parte, tra la Groenlandia e le Svalbard. La nostra partenza avrebbe dunque compromesso il funzionamento della nave? Brusilov stesso era del parere che un equipaggio di dieci membri fosse più che bastevole a manovrarla, anche in mare aperto. In più, la nostra dipartita avrebbe aggiunto al razionamento dei viveri un altro vantaggio apprezzabile, ovvero il risparmio del carburante, il quale era pericolosamente scarso. Non c’era un solo tronco o pezzo di carbone rimasto a bordo; tutto ciò di cui disponevamo per scaldarci era grasso d’orso e olio di foca mescolato ad olio di macchina. Il samovar aveva continuato a bollire grazie al legno delle pareti della cabina e 15
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delle altri parti non strutturali della nave. Nel corso dell’inverno del 1913-1914, l’intero equipaggio visse in due cabine a poppa, una superiore che era più piccola e più fredda, e un’altra su un ponte inferiore che era abbastanza calda perché serviva anche da cambusa. In seguito alla nostra partenza ciascuno avrebbe avuto la possibilità di alloggiare in quella cabina inferiore, il che sarebbe stato di grande aiuto per alleviare il problema del riscaldamento. La loro salute sarebbe migliorata di conseguenza, poiché la temperatura dell’altra cabina raramente si alzava sopra i 5° Celsius durante il giorno, e facilmente calava al di sotto dei -2° nel corso della notte. Date tutte queste evenienze, il tenente poteva guardare al nostro allontanamento solo come a una benedizione che sarebbe giunta a beneficio di ognuno. Nondimeno, lo stesso futuro incerto attendeva tutti noi. Nessuno poteva prevedere che cosa si sarebbe verificato in quell’impari lotta contro gli infidi elementi dell’Artico.
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Due e
Prep a ra t i v i p er l a sp edi zi one i n sl i t t a
I
miei preparativi ebbero inizio il 10 gennaio 1914. C’era molto da fare. Dovevamo costruire sette slitte e sette kayak, preparare il nostro abbigliamento, cucire e riparare gli stivali, raggruppare tutte le provviste, e pensare contemporaneamente a mille altre cose. Siccome ci mancavano i materiali essenziali e gli strumenti adatti, il lavoro era straordinariamente difficoltoso. Il legno messo a nostra disposizione risultava di scarsa qualità. Dovevamo fabbricare rivetti dai rottami di rame; e costruire anche molti degli attrezzi che ci erano necessari. I numerosi pezzi di legno che segavamo per ciascun kayak venivano dapprima assemblati mediante i rivetti, poi legati saldamente con resistenti spaghi. Una volta assemblato completamente, anche l’intero scheletro di legno veniva avvolto con lo spago, quindi ricoperto con la tela tagliata dalle vele di ricambio. Tutto questo lavoro si svolgeva nella profondità della stiva, dove la temperatura precipitava a partire dai 2° Celsius, al debole bagliore delle lampade alimentate con olio di foca che noi chiamavamo ‘‘caffettiere sbuffanti’’, poiché davano vita più a fumo che a luce. Dato che gran parte del lavoro era delicata e accurata, bisognava che fosse svolta a mani nude, nonostante il freddo terri-
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bile. Le dita diventavano presto gelide fino alle ossa ed occorreva scaldarle di continuo sopra le lampade. Nelle pungenti temperature sottozero, era particolarmente straziante rivettare i kayak e cucire le tele da vela che li coprivano. I nostri aghi, fatti in casa, erano tanto freddi al tocco che bruciavano come ferro rovente e ci riempivano le dita di vesciche. Lavoravamo dalla mattina presto fino a notte inoltrata, e poco a poco la stiva fu piena di kayak e slitte. Alleggerivamo l’estenuante fatica raccontandoci barzellette e intonando canzoni. Ogni kayak era progettato per trasportare due uomini, nonché il loro equipaggiamento e le provviste, e a ciascuno di essi era stato dato un nome, come ‘‘Gabbiano’’, ‘‘Gazza’’, ‘‘Zigolo delle nevi’’, ‘‘Alzavola’’, ‘‘Procellaria’’. A causa del freddo estremo della stiva, era impossibile dare alle imbarcazioni una mano di finitura di pittura. Risolvemmo il problema calando i kayak attraverso un lucernario del ponte di poppa nel relativo calore della cambusa. Per una settimana la cambusa fu così stipata di kayak che riuscivamo a muoverci all’interno solo piegati in due, quasi a quattro zampe. In marzo, una piccola fessura si aprì nel ghiaccio, a prua della nave, e si dilatò fino a tre metri e mezzo di diametro. Riuscimmo a calarvi le nostre piccole imbarcazioni per una prova in mare, e scoprimmo che reagivano meglio di quanto i nostri strumenti e materiali ci avrebbero permesso di sperare. I kayak si rivelarono capienti e stabili. I materiali non erano affatto consoni, è vero, e di certo non quelli che avremmo scelto, ma dovevamo adoperare tutto ciò che avevamo per le mani. Per i longheroni dei telai fummo costretti ad utilizzare il tavolato in abete stagionato, strappandolo dal soffitto della mensa; neanche a dirlo, questi pannelli non erano particolarmente forti o flessibili. La maggior parte delle costole venne fabricata da vecchie doghe per botti, quindi ogni telaio dovette essere avvolto con dello spago per evitare che il legno si scheggiasse. Le slitte erano ancor meno raccomandabili. Per pattini utilizzammo fragili assi di betulla rimediate da un malconcio tavolo della mensa. Molti di questi pezzi si frantumarono al primo nostro tentativo di piegarli in forma corretta, costringendoci a fabbricare alcuni pattini con dei remi di frassino. In più d’una occasione, i materiali scadenti messi per noi a disposizione da 18