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NONFICTION
l’ultimo trascinatore di folle
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l’ au to r e
Zeno Ferigo è nato a rovigo e vive a Verona. È autore di antologie poetiche, saggi e romanzi. Tra i suoi lavori, 4 gennaio: la maledizione, in cui cerca di far luce sul mistero della scomparsa di un bimotore islander YV 2615, il 4 gennaio 2013, al largo dell’arcipelago di Los roques, in Venezuela, con a bordo quattro italiani, che tanto ha scosso l’opinione pubblica per la notorietà delle vittime. ne Il fumo di Satana tra le mura vaticane entra nei giochi di potere della Chiesa, svelandone una quotidiana precarietà, tra affari assai poco trasparenti e congiure di palazzo. in particolare, l’autore analizza un triplice omicidio-suicidio tra le guardie svizzere, avvolto ancora nel mistero, malgrado le risultanze ufficiali degli organi della giustizia vaticana. Sul Vaticano, Ferigo ha anche scritto Serpenti, in cui diventa un cronista malizioso e attentissimo su quanto è ruotato attorno al recente Sinodo dei Vescovi, analizzando gli interventi e le risultanze attraverso i contrasti e le divisioni dottrinali che minacciavano un nuovo scisma, e le trappole che sono state tese al Papa nel corso di quel periodo. il libro analizza le difficoltà che Papa Francesco incontra nella riforma della curia e la trafugazione dei documenti riservati da parte di manovali, probabilmente diretti da una mente occulta all’interno delle mura vaticane.
ZENO F ERI GO
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l’ultimo trascinatore di folle
ANTANI
Da madonna di campiglio al residence ‘‘le rose’’
GINGKO
EDIZIONI
PanTani - L’uLTimo TraSCinaTore di FoLLe da madonna di CamPigLio aL reSidenCe ‘‘Le roSe’’ © 2016 Zeno Ferigo © 2016 gingko edizioni iSBn 978-88-95288-66-6
gingko ediZioni molinella (Bo) www.gingkoedizioni.it
Progetto grafico di copertina: © 2016 aTaLanTe
i n di c e AUTORE 13 27 33 51 61 73 87 91 95 103 107 113 125 129 133 137 141 151 155 159 165 169 173 189
1. La sostanza 2. gli ultimi giorni 3. L’uomo 4. una vita in salita 5. 5 giugno 1999 6. L’omertà si sfalda 7. Vittima sacrificale? 8. interrogativi senza risposta 9. il doping 10. Pantani e il doping 11. La morte 12. ipotesi sollevate 13. Sport e politica 14. Perizia Fortuni 15. nuove indagini 16. Perizia avato 17. il video 18. Contrasto tra periti 19. Code giudiziarie 20. nuovo processo a Forlì 21. autopsia psicologica 22. autopsia letteraria 23. Super-perizia Tagliaro 24. Conclusioni
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Non c’è supermarket dove si compra la grinta: o ce l’hai, o non ce l’hai. Puoi avere il tecnico migliore, lo stipendio più alto e tutti gli stimoli di questo mondo, ma quando sei al limite della fatica sono solo le tue doti ad aiutarti. Marco Pantani
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La sost a nza
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a sostanza. Così Marco Pantani, forse per pudore, chiamava la cocaina. Nel giugno del 2003, poco dopo la fine del Giro d’Italia, il Pirata si trovava nella villa di Sala di Cesenatico insieme a due compagni di squadra, Fabiano Fontanelli e Roberto Conti. Quando i due si resero conto che l’amico era in preda ad allucinazioni, si rivolsero immediatamente al dottor Giovanni Greco, specialista in dipendenze, in servizio al SERT di Ravenna. Andarono a prenderlo, preavvisandolo delle condizioni in cui versava Marco. “Sta male, pronuncia frasi senza senso”. Era la prima volta che il dottore visitava Marco. Gli somministrò venticinque gocce di neurolettico, associate — per compensarne gli effetti — a una compressa di un farmaco prescritto in genere ai malati di Parkinson. Il campione rientrò subito in sé, riacquistando la lucidità perduta. Le sue prime parole furono: “Scusate, non succederà più. Non sono un tossicodipendente”. Pantani accettò di seguire i consigli del medico, che divenne da allora il suo unico riferimento sanitario. Greco gettò via gli ipnotici che qualche ‘amico’ del sabato sera aveva suggerito a Marco al fine di contenere gli effetti della droga e, nelle settimane che seguirono, attraverso i racconti dei genitori, della manager Manuela Ronchi e della cerchia di amici, riuscì con fatica a ricostruire la storia clinica del Pirata. Tutto era iniziato dopo i fatidici eventi di Madonna di Campiglio, nel 1999. Da quella
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data, Marco non era stato più lo stesso: sospettoso, diffidente, malinconico, irascibile, irrequieto, sfuggente ai suoi genitori. Con il trascorrere dei mesi cominciò ad aprirsi con la manager, con cui aveva intrattenuto fino ad allora un esclusivo rapporto di natura professionale, riguardo la gestione dei diritti d’immagine. Marco raccontò alla Ronchi come lo facesse stare male la sensazione di aver subito un’ingiustizia; si sentiva logorato, imputato unico al processo sul mondo del ciclismo. “Mi sono sempre rialzato’’ le disse, ‘‘ma stavolta non ce la faccio”, ribadendo quanto affermato il giorno in cui lasciava Madonna di Campiglio, attorniato dai giornalisti ed accompagnato dai carabinieri.* Pochi mesi più tardi confessò anche di ricorrere, di tanto in tanto, nei momenti di disperazione, alla cocaina. Il 2000 fu l’anno della sentenza di Forlì, originata da un’indagine del pubblico ministero torinese Raffaele Guariniello. L’11 dicembre, il giudice Luisa Del Bianco inflisse al campione tre mesi (con la condizionale) per frode sportiva; la pena, quasi un anno dopo, verrà ribaltata in appello a Bologna. Nel 2001 la situazione di Marco si aggravò. Cominciò a rendersi conto di aver bisogno di un aiuto concreto per liberarsi della droga, lui che al padre rispondeva di voler risolvere i suoi problemi da solo e a modo suo. In novembre, dopo una stagione agonistica da dimenticare, si rivolse a Fabrizio Borra, amico e fisioterapista di Forlì, il quale lo aveva rimesso in piedi dopo il grave incidente del ’95. Tutta la squadra della Mercatone Uno fece quadrato attorno a lui per cercare di farlo uscire da quella brutta faccenda. I medici della società interpellarono un esperto di tossicodipendenze, il dottor Mario Pissacroia, con studio professionale a Firenze. Il responso dello specialista fu chiaro: importante non allontanarlo dalla bici. Mantenere Marco nel pieno dell’attività agonistica l’avrebbe certamente aiutato a superare il disagio psicologico senza provocare alcun contraccolpo dal punto di vista fisico. _______________________________________
* Francesca Fanelli, 1999, Giro d’Italia: è la fine di Pantani, corrieredellosport.it, 5 giugno 2011.
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Così Marco iniziò la preparazione al Giro 2002. Mentre era in corso il Giro, fu raggiunto dalla notizia del rinvio a giudizio davanti al giudice di Trento (nell’ottobre dell’anno dopo sarà di nuovo assolto perché il fatto non era contemplato come reato), dopodiché subì un colpo ancora più duro: una squalifica di otto mesi per la vicenda di una siringa contenente residui d’insulina, trovata l’anno precedente a Montecatini, nella camera 401 del Grand Hotel Francia, una delle stanze occupate dalla squadra del Pirata durante il Giro del 2001, prima della tappa Montecatini-Reggio Emilia. Da parte di tutti gli osservatori, gli indizi in mano alla Federciclismo per attribuirgli l’uso della sostanza illecita vennero giudicati labili e insufficienti per arrivare alla condanna. La Commissione Federale d’Appello, massimo organo della giustizia sportiva, revocò la squalifica per “non aver commesso il fatto” (alla CAF bastarono quarantacinque minuti di camera di consiglio per smontare la sentenza che aveva condannato Marco a otto mesi di sospensione. ‘‘Non ci sono prove’’ dissero i giudici), tuttavia quella siringa e il blitz di Sanremo ad essa collegato gettarono un’ombra pesantissima sul Pirata. Un’ombra, a detta della CAF, fondata sul nulla. Uno degli avvocati di quella commissione, Celestino Salami, dichiarò: “La tesi della procura antidoping non stava in piedi, si basava esclusivamente su supposizioni. Non solo non esistevano prove sul fatto che quella siringa trovata dai NAS nella stanza 401 fosse stata utilizzata da Pantani, ma non esisteva neanche la certezza che Pantani ci fosse mai stato in quella stanza. C’erano ben due testimonianze, quella del portiere e quella della proprietaria dell’albergo, molto chiare a questo proposito: nessuno dei due poteva dire se Pantani fosse mai entrato in quella stanza”.* Eppure, bastò il sospetto affinché gli si affibbiasse, ancora una volta, il marchio del dopato. In realtà, per qualsiasi persona serena nel giudizio i risultati di fatto di quella ‘clamorosa’ scoperta, nonché le parole del diretto interessato sarebbero stati sufficienti per cestinare l’intero fascicolo, ma si trattava di Marco Pantani e non andò così. _______________________________________ * Tonina Pantani, Francesco Ceniti, In nome di Marco. La voce di una madre, il cuore di un tifoso, Rizzoli, Milano 2013.
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‘‘Quella siringa non è mia’’ dichiarò Pantani, ‘‘e non capisco come possano dire che la stanza dove è stata ritrovata fosse la mia. Da anni, per motivi di privacy, la mia squadra non comunica mai il nome dei corridori e le stanze dove sono alloggiati’’. Certo, fa effetto rileggere ora le parole dell’avvocato Cesare Micheli, il quale rappresentava la procura antidoping. Scandalizzato dalla sentenza che annullava la squalifica, l’avvocato annunciava il ricorso al TAS (tribunale arbitrale sportivo internazionale): ‘‘Non era il momento di usare benevolenza’’,* proprio perché si trattava di un campione, e per questo bisognava usare un’estrema durezza. L’Unione Ciclistica Internazionale (UCI) intervenne per far valere comunque il periodo di stop, sebbene con una riduzione di due mesi. Per Pantani questa decisione rappresentò il crollo. Si tuffò nella polvere bianca. In casa, i genitori ormai sapevano quale spiegazione darsi di fronte a bottiglie bucate, pezzi di carta stagnola, candele consumate, vuoti di bicarbonato nascosti alla meglio nei posti più strani. Marco aveva preso a fumarla, la sostanza. Ce ne voleva sempre di più perché gli effetti diminuivano.
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Un giorno, vedendo il figlio sprofondare in una condizione sempre più preoccupante, il padre di Marco chiamò il dottor Greco per discutere sull’opportunità di ricorrere a un ricovero finalizzato a disintossicarlo. Il medico individuò la struttura più idonea nella casa di cura privata “Parco dei Tigli”, località Treponti, frazione di Villa di Teolo, Padova. Fu solo grazie a uno stratagemma che papà Paolo riuscì a trascinarsi dietro Marco, il quale si ritrovò ricoverato senza quasi accorgersene. Greco, dal canto suo, non sapeva neppure che Pantani, almeno fino al fatto compiuto, non fosse consenziente. Il ricovero si svolse nella massima riservatezza, garantita dalla clinica che nascose la presenza del campione quando cominciarono a trapelare le prime indiscrezioni. _______________________________________
* T. Pantani, F. Ceniti, op. cit.
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Anche l’intervento della manager si rivelò necessario in quel frangente. Manuela Ronchi andò a trovare Marco per convincerlo a rimanere nella clinica almeno per il periodo necessario al trattamento, e sembrò riuscirci. Tuttavia, Pantani un giorno la chiamò al telefono e la informò di essere stato sorpreso a consumare droga assieme al suo compagno di stanza, un giovane paziente padovano. Secondo quanto ricostruì poi l’inchiesta sulla vicenda, svolta dal PM Linda Arata, della procura di Bassano del Grappa, il campione si era rivolto al ragazzo lontano dagli sguardi degli infermieri. E così Marco ritornò a casa. A quel punto, i genitori non avevano alcun mezzo, a parte le prescrizioni mediche, per frenare le sue ricadute. Marco era vittima di una profonda depressione. Sembrava posseduto da quegli ascessi aperti che avvelenano a poco a poco senza febbre. La sostanza gli scivolava dentro come un’abitudine. Quell’estate, spinto dal padre, il Pirata si avvicinò a un amico, suo coetaneo, Michael Mengozzi, di Predappio, conosciuto nel ’92 quando il futuro campione aveva festeggiato la sua vittoria al Giro d’Italia dilettanti a Forlì, nella discoteca Controsenso, locale gestito all’epoca da Mengozzi. Ciò nella speranza che l’amico lo tenesse lontano dagli spacciatori.* A fine agosto 2003 dovettero di nuovo andare a recuperarlo, a Saturnia. Marco si era barricato in una stanza e non apriva né alla madre né al dottor Greco. Manuela Ronchi, che stava per diventare mamma, non poteva più stare alle costole del suo campione. Mengozzi, il pomeriggio successivo al suo arrivo, riuscì a vincere le resistenze riconducendolo a Predappio. Qui, nella grande casa in campagna, Marco sembrò ritrovare un po’ di serenità. All’inizio, la convivenza tra i due si rivelò difficile. Il Pirata cercava di sfuggire in ogni modo al controllo di Mengozzi: in bici, in macchina. Manuel era sempre pronto a riacciuffarlo prima che trovasse il modo di rifornirsi di droga. _______________________________________
* Sarà Mengozzi che nel dicembre 2003 presenterà a Marco l’escort russa Elena Korovina, destinata a diventare l’ultima sua ‘compagna’ in un amore mercenario. Sempre Mengozzi accorrerà al residence ‘‘Le Rose’’ intorno alle 22.15 del 14 febbraio 2004 (sembra prima che le notizie della morte di Marco fossero divulgate
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In seguito, Marco ricominciò ad esprimersi senza ansie sul futuro. Il dilemma tornò a riemergere: smettere con la bici o ripartire? Il padre avrebbe voluto che continuasse a correre, e così la Ronchi, la quale intanto manteneva i contatti giusti. Il Pirata, un po’ sovrappeso, accarezzò l’idea di rimettersi in pista, ma prese anche in considerazione la possibilità di comprarsi un casale a Bertinoro e iniziare a produrre vino. A metà novembre del 2003 Marco chiese di poter uscire qualche volta da solo, anche per dimostrare i suoi progressi. “Non posso girare per tutta la vita con una guardia del corpo”. Una sera, avvertì che sarebbe rimasto a dormire da Nevio, un amico di Igea Marina che gli aveva fatto anche da autista. Mengozzi s’infuriò. Chiamò la madre di Pantani, ma neppure lei riuscì a convincerlo a tornare a Predappio. Il giorno dopo, Marco prese il minimo indispensabile dalla casa di Michael, infilò tutto in una ventiquattrore e si trasferì a Milano, dalla Ronchi. La neomamma aveva organizzato un incontro con il ciclista Giovanni Lombardi: era stata ventilata l’ipotesi di costruire una nuova squadra per riprendere l’attività sportiva. Marco si sentiva ancora in forma ed era smanioso di tornare a vincere in quello sport che amava tanto. Il 20 novembre 2014 Libero-Quotidiano.it riportò l’intervista esclusiva rilasciata dal Pirata ad Angelo Rizzo, di Kr Entertainment (risalente con ogni probabilità agli ultimi giorni del 2003), e pubblicata da AffariItaliani.it. Era un Pantani in perfetta forma fisica e voglioso di tornare a vincere.
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dalla stampa), e verrà fatto entrare prima ancora dei parenti del ciclista, pare per una certa confidenza con l’ispettore Laghi. In merito alla sua amicizia con il Pirata, Mengozzi dichiarerà: “Con Marco ci si vedeva da me alle feste, si facevano giri assieme. Uscivamo a pescare col mio sedici metri. Eravamo romagnoli di riviera col portafoglio gonfio: macchine potenti, belle donne, locali alla moda. Ci faceva piacere quella vita da spacconi, ma in realtà ci univa il carattere: due timidi cronici fuori posto quasi dappertutto”.
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Non voglio smettere. [...] In questo periodo sono stato lontano dalla bicicletta e hanno fatto in modo che fosse così. Per me è stata un’estate intensa, anche se non ho corso: ci sono state difficoltà sotto il profilo psicologico. Non ho voglia di smettere di correre: posso ancora decidere il mio futuro senza che lo faccia qualcuno per me. Ci sono diverse possibilità per il mio futuro, e andando a vedere le mie aspirazioni mi piacerebbe andare in un gruppo che mi dia la garanzia di poter fare le grandi corse a tappe e i mondiali. C’è qualcosa che sta maturando, e io non voglio smettere. Entusiasmo e voglia ci sono ancora: se ci saranno le opportunità, si va avanti. È sei mesi che non mi faccio vivo, per le vicende che mi hanno allontanato dalla bicicletta: sono rimasto a fare altre cose, e a pensare al futuro. È stato un periodo difficile ma importante, mi ha fatto pensare a lungo. [...] I nemici vogliono che smetta. [...] Ero provato da tutte queste vicende che si susseguono da anni e non mi lasciano pensare allo sport in maniera dovuta e libera. Mi sono preso sei mesi di vacanza dove non ho pensato troppo alla bici, ho pensato più a cosa fare, per non arrendermi e uscire come voglio io da questa vita che è mia. Le soddisfazioni sono mie, e le condivido con i miei tifosi, così come le delusioni: l’importante è riuscire a reagire e darsi stimoli nuovi. Qualche mio nemico vuole che io smetta, ma sta maturando la possibilità di ricreare un gruppo, ci sono diverse soluzioni. [...] Ci rivedremo presto e sentirete parlare di me. [...]*
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L’idea della Ronchi entusiasmò il Pirata che volò subito a Madrid con Lombardi per discutere i dettagli. Dalla Spagna, però, Marco partì due giorni dopo alla volta di Cuba. Portò con sé la bici e disse al compagno che si sarebbero rivisti in Argentina per continuare assieme la preparazione. _______________________________________
* Le ultime parole di Pantani: ‘‘Tornerò in bicicletta, non mi arrendo ai miei nemici’’, liberoquotidiano.it, 20 novembre 2014.
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Mengozzi seppe dalla Ronchi del viaggio e temette subito il peggio. Dopo una settimana, infatti, ricevette una telefonata dal padre di Marco che lo supplicava di andare a L’Avana a riprendere il figlio, perché si trovava nei guai. Soccorso da Michael, il Pantani che ritornò in Italia era di nuovo un uomo precipitato nel tunnel. Nonostante l’impegno dei genitori, aveva ricominciato a fare uso di sostanze stupefacenti. Frequentava la ragazza russa conosciuta ad ottobre durante una festicciola a casa di Michael. I sospetti caddero su di lei. Mamma Tonina la affrontò durante una visita alla villa di Sala di Cesenatico. Pantani in quell’occasione ne prese le difese. Ne nacque un’accesa discussione che richiese l’intervento dei carabinieri. Sempre più chiuso in se stesso, il Pirata venne accolto di nuovo da Michael. Trascorse il Natale in compagnia della famiglia di questi. Per la notte del 25 dicembre chiese di poter ospitare la ragazza russa e l’amico acconsentì. La sera successiva partì con lei verso Rimini. Michael venne chiamato due giorni dopo e accorse prontamente, assieme al dottor Greco, nell’albergo di Miramare dove Pantani aveva preso alloggio. La russa, che aveva trascorso la notte con lui, lo aveva abbandonato ai suoi fantasmi. “È fuori di testa” disse. Cos’era successo? Pantani si era barricato all’interno della stanza, pronunciando frasi sconclusionate quando l’impiegata della segreteria dell’albergo aveva bussato. Nella stanza sembrava fosse passato un operaio alle prime armi, il quale, provando i suoi attrezzi uno dopo l’altro, non era riuscito a trovare l’arnese giusto e aveva sparso tutto sul pavimento. Greco e Mengozzi cercarono di rimettere in sesto Marco, ripulirono la stanza dalla droga (c’era polvere bianca ovunque), e pagarono i danni per le scritte sui muri e sulle lenzuola. Dopo quell’episodio, il medico parlò chiaro ai genitori, convocati nel suo studio di Ravenna. Ripercorrendo le tappe dell’iter terapeutico dei mesi precedenti, li mise a conoscenza del fatto che bisognasse ormai agire in modo drastico. Marco era sempre più alla disperata ricerca della sostanza, gli effetti erano via via minori e spesso neppure piacevoli, provocandogli effetti collaterali quali senso d’insicurezza, agitazione, irritabilità, stanchezza, depressione. Il suo consiglio era di affidarsi a misure d’emergenza, attraverso interventi di natura coatta. 20
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“Va presa in seria considerazione l’ipotesi di un trattamento sanitario obbligatorio, un ricovero forzato, così come la possibilità di ricorrere giudizialmente per l’inabilitazione di vostro figlio”. Il problema fu dibattuto a casa di Mengozzi, il 3 gennaio 2004, alla presenza della Ronchi, di Greco e dei genitori. Lo scopo era convincere Marco a ricoverarsi di sua spontanea volontà in una struttura specializzata, con un programma di recupero serio. Tuttavia, le varie soluzioni proposte incontrarono la ferma opposizione dell’interessato. “Non potete costringermi. Voglio solo essere lasciato in pace”. Marco era convinto di potercela fare da solo, deluso dall’esperienza fatta in giugno nella struttura del padovano, nonché ossessionato da ciò che era capitato mesi prima all’amico e corridore spagnolo, Jiménez, morto in clinica. La mattina del 14 gennaio 2004, sul cellulare del dottor Greco piovvero le richieste d’aiuto di Mengozzi e dei genitori di Marco, provenienti da Predappio. Pantani era in preda al delirio. Il medico ribadì la necessità di un TSO, intenzionato a rivolgersi al Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’ospedale di Forlì. La scelta di far indossare la camicia di forza a Marco, disse, spettava a loro. A quest’ultima, i genitori risposero di no. Marco non gliel’avrebbe perdonata. Anziché a Forlì, Marco si trasferì a Milano. Michael non lo rivide più. Spuntò un bigliettino indirizzato a lui, scritto da Marco durante la convivenza. Si trattava di un addio. Ti devo ringraziare per la nostra costanza per il mio problema. Forse sarò un po’ stupido, ma non sei stato contro di me, ma il mio problema. La depressione è tremenda e si fa anche sbagli con sostanze, medicine e sentimento. Ma a Saturnia quando hai “aperto” la porta di camera mia, hai dimostrato carattere so che non è facile neanche per te, ma sei più forte di molti e ti stimo conoscendoti davvero. Tu non so se sai chi ero in grinta e intelligenza. Si sbaglia tutti nella vita ma il mio sentimento di sincero e furbo amico sa che devi solo essere con i tuoi sinceri riconoscimenti che ti ho creduto anche nel più difficile e tuo affetto
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per me. Ma non ti devi sentire in colpa per non essere stato capace di convivere con il più fiero e furbo, ma debole alle mie verità. Se puoi fare un giorno con le nostre sincere volontà. C’è sempre una strada fra uomini ma è dura. Ti stimo per la tua forza, ma non ti devi preoccupare, ci passerà, ma la mia verità la trovo.
Ovunque gli capitasse, in qualsiasi condizione — anche quando era sotto l’effetto della cocaina — il riempire biglietti o interi fogli che poi spuntavano dappertutto, in casa come nelle camere d’albergo quando era in ritiro, rappresentava una sua abitudine. Oltre che cantare (il suo pezzo forte era Gente di mare), Marco amava scrivere — lui che aveva lasciato gli studi dopo la terza media. Tra le righe, sia pure a volte deformate o sgrammaticate, emergeva l’intimo animo del personaggio. Penso non corro più in bici... La mia vita è sacra e solo chi si ribella si ama... Christina hai visto che cosa sono un piccolo che come cade si vergogna... la verità sta nella vergogna... come si fa a non vergognarsi di essere libero di star a casa con la vita senza perdere la paura... si può cantare per la voglia di star male... Questa è veramente la cosa più grande che la mia vita mi ha sottoposto. Non voglio fare la vittima ma tutt’altro. La bicicletta è la cosa più magica che si possa provare dopo l’orgasmo insomma. Sono stati anni belli e ricchi di colpi di scena che hanno fatto di me un uomo. Ma nella vita non c’è nulla di nostro volere è per il destino il mio carattere di chi perdere la vittoria sempre con paura di niente. Ma il mio orgoglio si è inchinato a ciò che purtroppo gli uomini comandano, non sono stato trattato onestamente, e ho sofferto la mia debolezza i sentimenti che ti fanno spiccare il volo, il mio volo era ormai negli ultimi anni sofferente e si è inchinato in uno dei tanti sfoghi distruttivi per farsi allontanare da cose che non mi hanno fatto amare la bici ma i tanti mostri che mi hanno assalito mi hanno fregato. Non voglio entrare in dettagli banali ma se non ti vuoi più bene è pieno di mezzi per distruggersi e io ho fatto miracoli con i forti problemi sentimentali e legali ma soprattutto morali. Ma la cosa più bella che ho vo-
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luto era diventare un campione già a quattordici anni mi promettevano un onore nazionale in senso positivo. Ho fatto una bella carriera e non posso che ringraziare tutti i sensibili che sanno come è difficile dopo dieci anni di lotte e vittorie arrembanti ma devo farlo per ritrovare il coraggio di trovare gli stimoli per piccole soddisfazioni in vita da borghese: Dolore e soddisfazioni che solo la bici mi lasciano. Ma date molto attenzione a questo sport che insegna a vivere.
Lontano dalle corse e dagli allenamenti, ormai considerato un peso ingombrante anche da chi non se lo sarebbe mai aspettato, nel gennaio del 2004 Pantani trovò dunque ospitalità a Milano, dalla propria manager. Manuela Ronchi raccontò in seguito che il 15 gennaio il marito, Paolo Tomola, andò a prenderlo, reduce da un periodo piuttosto complicato a causa della cocaina, e lo portò a casa loro. La settimana filò via tranquilla e Paolo gli propose di andare a sciare. Il 26, usando l’auto di Tomola, Marco si recò a Cesenatico per prendere i suoi indumenti da sci (quei famosi tre giacconi descritti da mamma Tonina, che verranno misteriosamente trovati nella stanza del residence ‘‘Le Rose’’ il giorno della morte, in perfetto ordine, vicino al cadavere). Marco prese i giacconi e poco altro, tra cui una valigia leggera che Tonina ricorda bene perché mosse delle obiezioni a quel riguardo, e Marco le rispose serenamente: ‘‘Le altre cose le noleggio in montagna’’. Secondo il racconto della Ronchi, al rientro a Milano Marco portò con sé anche della cocaina, che lei e suo marito scoprirono e pretesero che fosse gettata nel water. Il Pirata iniziò a diventare da quel momento sempre più agitato, tant’è che in un’occasione la manager lo sorprese addirittura a parlare da solo con il televisore,* e in un’altra fece una scenata davanti a una soubrette sua ospite. Per la Ronchi, si trattava di evidenti conseguenze dell’uso di cocaina. Affrontò con Marco l’argomento. Gli diede un ultimatum. “Non c’è altra soluzione, devi ricoverarti”. _______________________________________ * Quando i rapporti tra persone non si basano su particolari legami affettivi o di parentela, ma sono permeati da relazioni d’affari o semplice conoscenza, certi
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Manuela Ronchi riuscì a strappargli la promessa di incontrare almeno il dottor Furio Ravera, primario e condirettore della casa di cura privata ‘‘Le Betulle’’, di Appiano Gentile, Como, struttura specializzata nel trattamento delle dipendenze, con il quale il dottor Greco aveva preso contatti. La manager, inoltre, decise di avvertire i genitori. Mamma Tonina e papà Paolo si recarono di corsa a Milano. Il padre, che come procuratore aveva accesso ai movimenti bancari del figlio, dichiarò che Marco negli ultimi venti giorni aveva ritirato dai suoi due conti personali ventiduemila euro. Di fronte alla prospettiva del ricovero, Pantani s’infuriò. Disse di non avere alcuna intenzione di andare in clinica e che l’unica cosa che aveva voglia di fare era restare a casa della Ronchi, senza condizioni, né imposizioni. “Non faccio del male e non do fastidio a nessuno, lasciatemi in pace. Ho bisogno di sentirmi adulto, libero di fare quello che voglio, anche di sbagliare, ma senza essere sempre pressato dagli altri”. Intervenne il marito della manager. Tomola gli ricordò che quella era anche casa sua e che nessuno aveva il diritto, là dentro, di fare i propri comodi. Forse sentendosi umiliato, forse in atteggiamento di sfida, Marco replicò che se ne sarebbe andato e fece la valigia.
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comportamenti possono essere interpretati in modo fuorviante e distorsivo. Vedere Marco parlare con il televisore spento non fu colto, forse, nel suo vero significato. Poteva trattarsi di una semplice pulsione emotiva. Forse, erano semplici brontolii (tipici di Marco: vedasi i mugugni del 5 giugno 1999, prima del controllo antidoping a Madonna di Campiglio, per essere stato svegliato troppo presto), piuttosto che parole vere e proprie, un pensare ad alta voce, come nella vita quotidiana capita spesso a tutti. In cuor suo, Marco forse pensava a quante volte quel quadro ora spento avesse fatto battere il cuore a tantissime persone che pensavano alle vittorie e non alla sua fatica. Insomma, può darsi che la Ronchi non abbia afferrato le esatte parole pronunciate da Pantani e il loro significato ironico.
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Sul pianerottolo ebbe un violento scontro con il padre, che avrebbe voluto riportarlo a casa e alla ragione, e che gli urlò contro: ‘‘Devi disintossicarti’’, con l’istinto dell’autorità paterna. Quelle parole colpirono Marco come un fulmine: la sua reazione fu sorprendente per chi conosceva i rapporti del ciclista con i genitori. I presenti pensarono che la sua collera potesse divampare come una fiamma nella quale si versa dell’olio. La valigia rotolò sui gradini, si aprì. Le preghiere della madre a nulla valsero. Mamma Tonina si sentì male. Svenne. Per rianimarla intervenne l’ambulanza. I testimoni ebbero l’impressione che per un istante le labbra di Marco si muovessero, quasi volessero dire qualcosa, forse una parola di scusa, ma subito si strinsero in un’immobilità testarda e nessuna parola uscì. Marco se ne andò senza valigia e senza cellulare, rimasto nelle mani del padre. Era il 31 gennaio 2004. Il mattino dopo lasciò un messaggio vocale sulla segreteria telefonica della manager. “I cagnolini ritornano” disse.
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