Polar Dream

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Un libro avvincente che si legge d’un fiato e mi ha tenuta sveglia tutta la notte. Un racconto schietto e sincero che riesce ad offuscare l’immagine di quelle spedizioni polari ben sovvenzionate che, negli ultimi anni, sono state reclamizzate a gran voce dai libri e dalla televisione. Deborah Lawson | MIAMI HERALD Il racconto di Helen Thayer è un tributo alle capacità di navigazione vecchio stile, all’intrepidezza, all’amicizia con un cane e molto altro ancora. Spesso i libri che raccontano di spedizioni sono scritti da personalità così gonfie di superbia che poi diventa difficile digerirne le pagine. È la mancanza di questi fattori che rende Polar Dream un piacere da leggere. Sherry Stripling | SEATTLE TIMES Nel primo decennio del secolo, quando Cook e Peary discutevano su chi avesse detto meno bugie nel sostenere di aver scoperto il Polo Nord, le esplorazioni artiche erano lo sport glamour per eccellenza nel mondo occidentale. Purtroppo poi la loro popolarità è diminuita e l’impresa di Helen Thayer non ha ricevuto quasi nessuna attenzione da parte dei media. Ma Polar Dream cattura perfettamente la drammaticità di quella che è stata un’impresa straordinaria e merita la definizione — in genere fin troppo abusata, ma in questo caso azzeccatissima — di ‘‘libro che si legge tutto d’un fiato’’. Shawn Miller | WASHINGTON TIMES


Quando una donna decide di imbarcarsi in un viaggio in solitaria (e a piedi!) fino al Polo Nord, c’è da scommetterci che l’avventura sarà di quelle degne di attenzione. Il racconto splendido di un’ impresa straordinaria. Alice Joyce | BOOKLIST Una storia emozionante di resistenza umana e di uno straordinario animale. PUBLISHERS WEEKLY Un’avventura seria e senza fronzoli, per uomini e donne. KIRKUS REVIEWS Questo libro trasmette in modo eccezionale la paura e la sofferenza provate dall’autrice nel corso del suo viaggio. Polar Dream è un racconto sensazionale ed emozionante da leggere, e non si può non ammirare l’autrice per il coraggio, la destrezza e la determinazione, oltre che per la bravura con cui racconta la storia. Ad onor del vero, provo soggezione nei confronti di Helen Thayer. Martin Frentzel | ALBUQUERQUE JOURNAL Quando ha programmato il viaggio nell’Artico, Helen Thayer non aveva niente da dimostrare. Questo non è il racconto di un uomo che conquista la natura. Questa è un’ epopea del vivere con il creato. Anche se, senza dubbio, alcuni orsi polari si sarebbero cibati volentieri di Helen e di Charlie (il suo cane-compagno), l’autrice imparerà ad amare questi animali… Quando la tragedia si fa sentire, Helen Thayer si rivela, attraverso una prosa semplice, come uno dei grandi sopravvissuti. Frank Ramirez | SOUTH BEND TRIBUNE


Quella di Helen Thayer è una storia di coraggio — con tanto di prefazione del celebre esploratore Sir Edmund Hillary, suo eroe di infanzia, (nonché vicino di casa). Da scrittrice, la Thayer si dimostra brava e precisa. Comincia insegnando l’Artico al lettore come lei stessa lo ha imparato. Ed è un insegnamento che continua per tutto il libro. Mike Kent | INDIANAPOLIS STAR Helen Thayer è una donna fuori dal comune, le cui imprese la fanno sembrare un personaggio frutto della fertile immaginazione di uno scrittore di narrativa. Il diario del suo viaggio fino al Polo Nord magnetico, pubblicato nel suo libro Polar Dream, narra di un rapporto speciale venutosi a creare tra una donna e un cane. Jeff Curtis | AUTOGRAPH TIMES Più che essere stata la prima in una tale impresa, ciò che rende fiera la Thayer è il fatto che la sua spedizione sia costata poco, risultando efficiente, abbia avuto un impatto sull’ambiente pari quasi a zero e abbia significato qualcosa per qualcuno. USA TODAY



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ESPlorAzIoNI / VIAggI


PHoto: lj PEtErS PHotogrAfy

HeLen THAyeR è un’amante dell’avventura, un’alpinista e una scrittrice di successo. Ispirata da un amico di famiglia, Sir Edmund Hillary, ha scalato la prima montagna all’età di nove anni, nella sua Nuova zelanda. Durante gli anni trascorsi a gareggiare nell’atletica CHArlIE E HElEN leggera, è stata una sportiva di livello internazionale nel lancio del disco, rappresentando tre diversi Paesi. Nel 1975, dopo essersi trasferita negli USA, è diventata campionessa nazionale statunitense di slittino. Nel 1999, il lavoro da lei svolto a livello didattico nel corso delle sue esplorazioni le è valso un riconoscimento speciale da parte della Casa Bianca, durante un evento che ha visto premiate le migliori venticinque atlete-pioniere degli Stati Uniti. Come alpinista, Helen ha scalato alcune tra le montagne più alte del mondo. Nel 1990 è stata il capitano della prima spedizione artica al femminile organizzata dalla russia e dall’America. Mentre si trovava a scalare il Picco del Comunismo — una montagna di 7.495 metri nell’ex UrSS (attuale tagikistan) — decise che avrebbe viaggiato da sola fino al Polo Nord magnetico. Questa spedizione, nel 1988, rappresentò il primo progetto didattico di Adventure Classroom®, il programma da lei ideato, rivolto a un pubblico che va dai bambini della scuola materna fino agli studenti delle superiori. Attraverso conferenze, foto e grazie ai suoi testi, la Thayer è riuscita a portare i quattro angoli della terra nelle aule. Il suo messaggio è quello di prefiggersi degli obiettivi, fare programmi per riuscire a raggiungerli e perseverare nel risolvere i problemi. Helen viaggia in tutto il mondo allo scopo di motivare gli adulti attraverso i suoi discorsi, intervenendo ai congressi aziendali, alle riunioni di tipo privato e in presenza degli enti governativi. Per maggiori informazioni su Adventure Classroom® e sui programmi di Helen Thayer rivolti agli adulti, visitate il suo principale sito web: www.oneearthadventures.com. Su www.goals.com, invece, troverete informazioni relative a varie spedizioni. Infine, per contattare Helen Thayer scrivete a: helen@helenthayer.com. Visitate ancora il sito web: www.helenthayer.com. Helen vive attualmente Snohomish, nello Stato di Washington, insieme a suo marito Bill, al suo cane-partner Charlie, e a un serraglio di compagni animali. tra gli altri libri che ha scritto: Three Among the Wolves, NewSage Press, 2003.


H e L e n

T H Ay e R

PoLAR DrEAM Con 1 cartina e 22 fotografie del viaggio

GINGKO | |

Prefazione di SiR eDMunD HiLLARy

PLANCTON

L A PrimA sPeDizione in soLitAriA Di unA DonnA e iL suo CAne fino AL PoLo norD mAgnetiCo


titolo originale dell’opera: Polar Dream: The first solo expedition by a Woman and Her Dog to the magnetic north Pole © HElEN tHAyEr AND NEWSAgE PrESS, P.o. Box 607, troUtDAlE, orEgoN 97060 USA. www.newsagepress.com | www.helenthayer.com © 2002 HElEN tHAyEr Photo © HElEN tHAyEr © 2010 gINgko EDIzIoNI Molinella, Bologna. I EDIzIoNE Novembre 2010 Collana PLAnCton ISBN 978-88-95288-21-5 Progetto grafico di copertina: © 2010 AtAlANtE In copertina e retro copertina:© 2002 HElEN tHAyEr traduzione dall’inglese: ISABEllA PEllEgrINI titolo dell’opera: Polar Dream: La prima spedizione in solitaria di una donna e il suo cane fino al Polo nord magnetico gINgko EDIzIoNI via luigi Pirandello n° 29 40062 San Pietro Capofiume, Molinella, Bologna tel. 051.6908300 fax: 051.6908397 www.gingkoedizioni.it | www.fuggicalipso.net

tutti i diritti dell’opera sono riservati. nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, o usata in alcuna forma, senza previo consenso degli aventi diritto. Le foto e il materiale illustrativo riprodotto all’interno di questo volume sono di proprietà esclusiva dell’autrice. sono tutelati dalla legge vigente in materia di diritto d’autore in italia e negli usA. ne è vietata la riproduzione e la divulgazione a qualsiasi mezzo, senza previo consenso scritto accordato dall’editore italiano e dall’autrice.


PReFAzione di sir edmund Hillary

la prima volta che incontrai Helen Thayer fu quando frequentava una piccola scuola superiore nei pressi di Auckland, in Nuova zelanda. Il preside della scuola, Dan Bryant, famoso alpinista nonché mio caro amico, era solito incoraggiare fermamente i suoi studenti ad affrontare le sfide dell’alpinismo. Nessuno ha reagito con più entusiasmo di Helen. In lei si è venuto a creare un amore profondo per le montagne, che l’ha portata a scalare numerose cime importanti in tutto il mondo. tuttavia, niente di tutto quello che ha fatto è stato più difficile e impegnativo del viaggio in solitaria verso il Polo Nord magnetico, nel 1988. Helen ha viaggiato da sola, a piedi o sugli sci, trascinandosi dietro su una slitta le provviste e l’attrezzatura. la sua unica compagnia è stata quella di un grande husky nero che ha incontrato solo tre giorni prima di mettersi in viaggio e che ha chiamato Charlie. Insieme si sono imbarcati in una spedizione durata ventisette giorni, percorrendo 585 chilometri. Nel corso di questo duro viaggio tra i due si è venuto a creare, per poi rafforzarsi, un legame unico. Charlie, un cane da lavoro che mai prima di allora era stato trattato come animale da compagnia o come partner, ha imparato per la prima volta a legare con un essere umano. In più, ha insegnato a Helen come sopravvivere nell’Artico e le ha persino salvato la vita dagli orsi polari predatori. I due hanno intrapreso il viaggio da estranei e hanno fatto ritorno da amici inseparabili. Ma questo è solo uno dei tanti aspetti dell’affascinante storia di questa donna che, all’età di cinquant’anni, ha fatto un viaggio straordinario che l’ha portata ai limiti della sopravvi-


venza, emotiva e fisica: un’impresa epica che poche persone, indipendentemente dall’età o dal sesso, avrebbero potuto portare a termine. Helen ha affrontato temperature ben al di sotto dello zero, il ghiaccio ruvido o tendente ad incrinarsi, le violente tempeste artiche, i sintomi da congelamento, la fame e i minacciosi orsi polari. Ma la disciplina e una motivazione di ferro l’hanno fatta andare avanti, nonostante tutti gli ostacoli, fino a quando non ha raggiunto il suo obiettivo e, insieme a Charlie, ha fatto ritorno a casa sana e salva.

SIr EDMUND PErCIVAl HIllAry (Auckland, 1919 – 2008), alpinista ed esploratore neozelandese, è stato uno dei più noti scalatori e avventurieri. nel 1953 fu il primo a raggiungere la cima dell’everest, insieme allo sherpa tenzing norgay. fu un assiduo frequentatore delle Alpi e dell’Himalaya, dove scalò undici vette sopra i 6.000 metri. Durante la seconda guerra mondiale fu navigatore dell'aviazione neozelandese. nel 1948, insieme a Harry Ayres, fu il primo a raggiungere la vetta del monte Cook. esplorò anche l’Antartide e raggiunse il Polo sud il 4 gennaio 1958 con la Commonwealth trans-Antarctic expedition, una spedizione motorizzata condotta con Vivian fuchs. fu il terzo uomo nella storia a raggiungere tale punto via terra dopo Amundsen e scott nel 191112. fu insignito di numerose onoreficenze: fu nominato Cavaliere Comandante dell'ordine dell'impero Britannico; divenne membro dell'ordine della nuova zelanda; fu nominato Cavaliere dell'ordine della giarrettiera; nel 2003, in occasione del cinquantenario della conquista dell'everest, il governo del nepal gli conferì la cittadinanza onoraria durante uno speciale giubileo commemorativo svoltosi nella capitale Kathmandu. fu il primo straniero a ricevere un simile riconoscimento dai nepalesi. È stato l'unico neozelandese ancora in vita ad essere apparso su una banconota. Dedicò gran parte della sua vita ad aiutare il popolo nepalese degli sherpa tramite l'Himalayan trust da lui fondato, riuscendo a costruire scuole e ospedali. fu anche presidente onorario dell'American Himalayan foundation, un'associazione no-profit che cerca di migliorare l'equilibrio ecologico e le condizioni di vita dei popoli himalayani.


inDiCe

PrEfAzIoNE di sir edmund Hillary 19

1. l’ISPIrAzIoNE

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2. CHArlIE, Il CANE DEglI orSI PolArI

49

3. Il tErrorE DEglI orSI

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4. DAllA PAUrA Al CorAggIo

113

5. lA tEMPEStA ArtICA E Il gHIACCIo StrIDUlo

157

6. Il gHIACCIo SottIlE

179

7. INSEgUItI DA UN orSo

203

8. NEl BEl MEzzo DEl NUllA

223

9. MEro DESIDErIo DI SoPrAVVIVErE

253

10. MorIrE DI fAME

263

11. lA fINE DEl VIAggIo

281

12. UN’AMICIzIA INDISSolUBIlE EPIlogo - rIflESSIoNI rINgrAzIAMENtI lE fotogrAfIE APProfoNDIMENtI SUll’AUtrICE PrEMI E rICoNoSCIMENtI



PoLAR DrEAM traduzione di isabella Pellegrini



A mio marito Bill, ai miei genitori, margaret nicholson e il compianto ray nicholson - il cui amore e incoraggiamento mi hanno spinto ad andare avanti e, ovviamente, al mio adorato amico Charlie.



1.

L’ISPIRAZIONE

U

na volta in cima al Picco del Comunismo, che con i suoi 7.495 metri è la vetta più alta del Tagikistan, mi ritrovai circondata da una bianca distesa di cime frastagliate più basse. A nord si stendeva l’immensa catena montuosa del Pamir, a est la Cina e a sud e a ovest quella vasta e drammatica terra che è l’Afghanistan. Non sono in molti a conoscere il brivido che si prova nel trovarsi sulla cima di questa montagna a contemplare una terra così bella e poderosa. Vale davvero la pena dello sforzo necessario per raggiungere simili vette, uno sforzo di quelli che bruciano i polmoni. Girandomi, lentamente, di 360 gradi per fare mia l’immensità del panorama, sapevo che era arrivato il momento di trasformare le mie spedizioni future in programmi didattici, in modo da condividere questo mondo con gli studenti e gli insegnanti. Fu lì, su quella cima, che nel 1986 decisi che avrei portato i quattro angoli della terra in classe. E l’ispirazione per un viaggio al Polo mi venne proprio durante quella spedizione. Dopo un’ora trascorsa lassù, il vento si fece più forte e cominciarono a formarsi nubi di tempesta. Riluttante, cominciai a


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scendere. Raggiunti i 6.700 metri, la tempesta aveva già avvolto la montagna. Per essere certa di quale direzione prendere, mentre scendevo diedi un’occhiata alla bussola, nella luce grigia di quella stessa tempesta che stava sferzando la neve nell’aria rarefatta. Con la furia che aumentava, celando la via verso il basso in una cortina bianca, non potei fare altro che seguire l’ago della bussola. Giunsi all’altezza di una cresta appuntita che, nell’oscurità e in quel vento che sopraggiunse ululando da ogni lato, mi sembrò di non conoscere. Ma, salendo, avevo preso la precauzione di annotare i rilevamenti della bussola nel caso in cui il tempo si fosse chiuso. E proprio sulla bussola dovevo fare affidamento, continuando a seguire l’ago. Mano a mano che procedevo verso il basso, lungo creste appuntite e forti pendii, i miei ramponi facevano presa sul ghiaccio e la piccozza mi teneva ferma. Mentre la notte avvolgeva la montagna nel suo misterioso manto scuro e la tempesta continuava ad imperversare, riuscii a mettermi in salvo nelle tende del campo base. Era stata la bussola a portarmici. Ricevetti una tazza di cioccolata calda da mani amiche, mentre mi appoggiavo all’indietro, nel calore confortante del sacco a pelo. Con la tenda che sbatteva in segno di protesta contro la tempesta violenta, mandai giù quella bevanda calda, sgranocchiai una barretta di cioccolato e pensai con affetto alla bussola. Il Polo Nord magnetico, il luogo verso cui punta l’ago di ogni bussola, è sacro ai navigatori. Improvvisamente, mi venne un’idea: la spedizione successiva sarebbe stata in solitaria, a piedi, proprio fino al Polo Nord magnetico. Volevo scoprire cosa si provasse a trovarsi nel luogo verso cui puntava la bussola. Mano a mano che l’idea si faceva largo nella mia mente, mi ricordai di aver letto, da qualche parte, dei tanti orsi polari che vivono lungo la strada verso il Polo. Il fascino che da tempo nutrivo nei confronti di questi animali mi convinse che una simile spedizione sarebbe stata l’inizio perfetto per poter poi sviluppare dei programmi didattici. Le spedizioni polari non sono una novità. Negli ultimi anni,


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anzi, sono state intraprese con sempre maggior frequenza e sofisticatezza: motoslitte al posto delle slitte trainate dai cani e aerei che riforniscono e portano sostegno a squadre ben attrezzate ed esperte dei pericoli che questo tipo di esplorazioni può portare con sé. Ma la mia idea era nuova: una spedizione al Polo Nord magnetico in solitaria, a piedi e sugli sci; niente squadre di cani né motoslitte, solo l’attrezzatura che avrei potuto trascinarmi dietro su una slitta. Sarei stata la prima donna ad affrontare un viaggio del genere e avrei avuto cinquant’anni. Sarei anche stata la persona più anziana a portare a termine da sola una simile spedizione.

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Sono cresciuta in una grande fattoria della Nuova Zelanda, che ricordo per quei suoi prati verde smeraldo che si estendevano in modo disordinato attraverso colline dal profilo ondulato, dove pascolavano le pecore e il bestiame. I miei genitori, persone dalla forte disciplina e grandi lavoratori, andavano spesso a scalare le montagne. Un giorno, quando avevo nove anni, insieme ad alcuni amici decisero di scalare il monte Taranaki, una cima innevata di 2.517 metri. Con mia grande gioia, mi invitarono ad andare con loro. « Se ce la fai a portarti dietro lo zaino » mi dissero, « puoi venire ». Dopo quell’esperienza non potei fare a meno di diventare io stessa una vera scalatrice, proprio come le persone che ammiravo. Oltre ai miei genitori e ai loro amici, il mio eroe era Sir Edmund Hillary, neozelandese come me, il quale, nel 1953, divenne la prima persona a scalare il monte Everest. Quando poi, nel 1958, andò al Polo Sud, sognai che anch’io, un giorno, avrei viaggiato fino a uno dei poli. Nel corso degli anni che seguirono mi innamorai degli sport all’aperto, soprattutto quelli invernali. Presi parte a competizioni internazionali di atletica leggera, rappresentando la Nuova Zelanda, il Guatemala e gli Stati Uniti. Nel 1972, dopo aver


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visto alla televisione alcune gare di slittino ― invidiando il brivido di poter correre a gran velocità e senza freni lungo sottili lembi di ghiaccio, su una piccola slitta ― cominciai a dedicarmi a questo sport vincendo, tre anni più tardi, il campionato nazionale statunitense. Ma, dopo aver rappresentato gli stessi Stati Uniti nelle competizioni in Europa, capii qualcosa che mi riguardava in prima persona: non mi piaceva gareggiare contro gli altri, mi divertiva di più l’idea di competere contro me stessa, stabilire degli obiettivi e andare incontro alla sfida di raggiungerli. Ritornai quindi al mio primo amore, l’alpinismo, e da allora ho toccato la vetta delle montagne più alte della Nuova Zelanda, dell’America del Nord e del Sud, del Tagikistan e una delle più alte in Cina, diventando un’alpinista di livello internazionale.

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Durante il volo di ritorno dal Tagikistan verso casa, nello Stato di Washington, ero impaziente di discutere a fondo dei miei progetti polari con Bill, mio marito, il mio migliore amico nonché pilota di elicotteri commerciali. Grazie alla sua esperienza nel mondo dell’alpinismo e delle spedizioni, Bill — che mi ha sempre appoggiato in tutto quello che ho fatto — mi avrebbe dato una visione d’insieme del viaggio che stavo prendendo in considerazione di intraprendere. Le sfide piacevano anche a lui e aveva la curiosità di vedere cosa c’è dall’altro lato della collina. Pure i miei genitori mi avevano sostenuto in ogni tipo di sport e avventura. Più che i miei genitori, erano da sempre dei cari amici, e così ero impaziente di condividere i miei progetti anche con loro. Io e Bill ci incontrammo all’aeroporto di Seattle e, nel giro di pochi minuti, gli avevo già parlato della mia decisione di recarmi al Polo Nord magnetico. Ne fu subito entusiasta. « Nessuna donna è mai andata in solitaria fino a uno dei poli » disse emozionato. « È un’idea fantastica ». Ma come trasformare l’idea in realtà? Iniziammo a calcolare un budget per la spedizione. Non di-


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sponevo di nessuno sponsor. I dirigenti delle varie aziende mi dissero in modo schietto che, siccome ero una donna, viaggiavo in solitaria e avevo cinquant’anni, l’idea di ottenere un finanziamento era fuori discussione. Dopo tanti calcoli giungemmo alla somma di 10.000 dollari. Somma, questa, che includeva le spese relative al viaggio, al campo base e all’attrezzatura. Il volo da casa a Resolute Bay ammontava a quasi 1.000 dollari. Con i suoi 450 dollari, la slitta era il pezzo più costoso dell’attrezzatura. Avremmo potuto mettere insieme l’intera somma nel corso dei due anni seguenti; questo ci avrebbe dato tempo per leggere e fare ricerche sull’Artico, mentre ci procuravamo l’attrezzatura specialistica necessaria. Il giorno seguente telefonai ai miei genitori, a Whangarei, in Nuova Zelanda. « Be’, è da tanto che parli dei poli » mi disse mia madre. « Penso che il momento sia quello giusto e che, quindi, tu debba andare. Ma che mi dici degli orsi polari? ». Sentendo nominare gli orsi, papà corse al telefono. « Cos’è questa storia degli orsi polari? Che hai in mente di fare? ». Quando glielo dissi ebbe paura proprio per via di questi animali, ma lo rassicurai sul fatto che, se fosse stato troppo pericoloso, non sarei andata. Il viaggio comunque lo entusiasmò e affrontò con impazienza la questione logistica, mentre mia madre aveva già dei suggerimenti da darmi sul vestiario e sul cibo. Alcuni dei miei amici scossero il capo quando gli dissi dei miei piani. « È da pazzi, una donna non può sopravvivere là fuori da sola » mi disse un mio amico. Un altro mi mise in guardia: « Lascia stare, non tornerai mai a casa viva; vai da qualche altra parte più sicura ». E poi ci furono quelli che mi dissero: « Non puoi andare a piedi fino al Polo trascinando la slitta. Almeno portati una squadra di cani che trascini per te le provviste ». Per fortuna altri amici fecero dei commenti più positivi e mi


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scrissero persino delle lettere di incoraggiamento. Per quel che mi riguardava, pur sapendo che la bussola puntava verso il campo magnetico, in realtà non ne sapevo molto, sicché decisi di rivolgermi agli scienziati che ogni anno studiano e rilevano la traiettoria del Polo Nord magnetico. A Ottawa, alcuni scienziati al servizio del governo canadese mi dissero che, quando si parla della posizione del Polo, in realtà si parla solo di una posizione media. Il Polo Nord magnetico, infatti, non può essere definito come un punto su una cartina. Al contrario, si tratta di un obiettivo difficile da individuare, in continuo movimento, visto che si sposta giornalmente e in senso orario su un percorso ellittico e frastagliato che copre una vasta zona. E, a volte, si sposta per più di centosessanta chilometri in un solo giorno. L’irregolarità di questo movimento si deve al sole. Mano a mano che il Polo si sposta lentamente verso nord-ovest, infatti, il sole emette delle particelle cariche che, scontrandosi con il campo magnetico della terra, producono delle correnti elettriche nell’atmosfera superiore. Queste correnti disturbano il campo magnetico causando lo spostamento della posizione del Polo. La distanza e la velocità del movimento dipendono dalle perturbazioni all’interno del campo magnetico stesso, ma il Polo si muove comunque di continuo, a volte lentamente, altre velocemente. Gli scienziati che cercano di determinarne la posizione devono prendere in esame tutti gli spostamenti transitori e, nel migliore dei casi, possono arrivare soltanto a una posizione media. A volte, poi, persino nei loro calcoli si riscontrano differenze di vari chilometri. Perciò l’area intorno al Polo copre una superficie ampia. Dal momento che le bussole puntano in prossimità del Polo Nord magnetico, il Polo stesso viene utilizzato in tutto il mondo da marinai, aviatori e da chi viaggia via terra come strumento essenziale per la navigazione. Tuttavia, nelle sue vicinanze, una bussola magnetica è del tutto inutile dal momento che, venendo a mancare la forza di attrazione magnetica orizzontale, essa gira in modo lento e imprevedibile in tutte le direzioni.


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Nel 1988, l’anno in cui decisi di intraprendere questo viaggio, il Polo Nord magnetico si trovava nel Nunavut, nel Canada settentrionale, a sud dell’isola di King Christian — un’isola disabitata, brulla e ricoperta di ghiaccio, esposta ai forti venti artici, a quasi 1.290 chilometri a nord del Circolo Artico. Il mio piano era quello di volare da Seattle — vicino casa mia, nello Stato di Washington — fino a Resolute Bay, un minuscolo villaggio Inuit di circa 250 persone sull’isola di Cornwallis, nel Nunavut. Resolute Bay era stato il luogo di raduno per le precedenti spedizioni al Polo. Dopo due settimane di allenamento sul ghiaccio marino con i cacciatori Inuit, avrei impacchettato la slitta e sarei volata, per soli 90 chilometri, verso l’isola di Little Cornwallis, a nord-ovest di Resolute Bay. I membri del personale della miniera Polaris — una miniera di piombo e zinco che si trova sull’isola — sarebbero stati gli ultimi esseri umani che avrei incontrato una volta iniziato il mio viaggio. Da lì il percorso mi avrebbe condotta a circa 585 chilometri di distanza — a seconda delle deviazioni intorno alle collinette di ghiaccio ruvido e di ostacoli vari — attraverso un labirinto di isole brulle e un’ampia distesa di ghiaccio marino, l’habitat naturale degli orsi polari, dove nessun essere umano ha mai vissuto. Sapevo che questa spedizione avrebbe messo a dura prova ogni singola capacità di muovermi all’aperto che possedevo. Mentre cercavo di pensare a ogni pericolo che avrei potuto incontrare, dentro di me incombeva minacciosamente la possibilità di trovare temperature pari a -45 gradi, venti della forza di un uragano e del ghiaccio marino che avrebbe potuto spaccarsi al di sotto della mia tenda mentre dormivo. Ovviamente, però, il rischio maggiore era rappresentato dagli orsi polari. Gli Inuit, che li chiamano nanuk, raccontano di animali silenziosi che agiscono in modo furtivo e a volte si ritrovano a cacciare e a uccidere gli esseri umani per nutrirsi. Spostarmi a piedi e da sola mi avrebbe reso vulnerabile agli attacchi molto più che se avessi viaggiato su una motoslitta o con una squadra di cani. Avevo fi-


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ducia nella mia capacità di muovermi all’esterno, perfezionata nel corso di tanti anni, ma non avevo mai avuto a che fare con un orso polare. Decisi che avrei viaggiato fino al Polo a piedi e sugli sci, trascinando una slitta lunga un metro e ottanta per 72 chili di peso — tra attrezzatura e provviste — senza ricevere rifornimenti via aerea o da motoslitte. Ero attratta dalla sfida di percorrere l’intera distanza e vivere soltanto grazie al cibo e all’attrezzatura che avrei potuto trascinarmi dietro. Inoltre, l’impatto ambientale sul paesaggio circostante sarebbe stato minimo. Non ero mai stata così in forma come in quel momento: anche con un’altezza pari a un metro e sessanta per 61 chilogrammi di peso, trascinare la slitta sarebbe stato fattibilissimo. Questo, insieme all’idea di allenarmi direttamente all’Artico con gli Inuit, appena prima di mettermi in viaggio, mi avrebbe consentito di imparare a sopravvivere in quell’ambiente estremo, oltre che agli orsi polari. Gli Inuit, maestri nella sopravvivenza in queste zone, lo fanno da generazioni. Gli orsi polari, noti come i signori dell’Artico, sono i più grandi predatori sulla terraferma e si trovano in cima alla catena alimentare artica. Si sono adattati completamente a uno dei climi più rigidi del pianeta e rappresentano al meglio la forza allo stato puro e la maestosa bellezza dell’Artico. La stessa parola ‘‘Artico’’ rende omaggio a questo intelligente cacciatore: proviene, infatti, dalla parola greca Arktikos, che significa ‘‘Regione dell’Orsa Maggiore’’. E, sebbene gli Inuit diano loro la caccia per la carne e la pelliccia, nutrono un rispetto sacro nei confronti di questi incredibili animali, che citano di frequente nelle loro canzoni e leggende e considerano quasi come esseri umani. Consapevole delle qualità fisiche necessarie per viaggiare a piedi, trascinandomi dietro una slitta particolarmente carica, mi imbarcai in un duro programma di resistenza della durata di due anni. Oltre a scalare e sciare nella vicina Catena delle Cascate e a osservare una dieta sana e molto semplice, correvo sedici


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chilometri al giorno tra la foresta, quattro giorni alla settimana sollevavo pesi per un’ora nella palestra del seminterrato e andavo in kayak sul lago Storm, dove gli aironi blu mi guardavano meravigliati mentre me ne andavo in su e in giù per un’ora alla volta. Intanto che mettevo insieme l’attrezzatura, mi misi a leggere quanto più possibile sull’Artico e sugli orsi polari. Tuttavia sapevo bene che, prima di decidere definitivamente cosa avrei portato per la spedizione, sarebbe stato necessario testare l’attrezzatura sul luogo, a Resolute Bay. Chiamai Bezal Jesudason, un fornitore di attrezzature turistiche per l’Artico, nato in India e laureatosi in Ingegneria in Germania. In Canada per lavoro, Bezal aveva sposato una canadese, Terry, e insieme si erano trasferiti a Resolute Bay dove avevano intrapreso il commercio di attrezzature di questo genere. In preparazione al mio viaggio, Bezal mi invitò a volare fino a Resolute e ad alloggiare nella loro locanda. Cosa che feci nel novembre del 1987. L’inverno era iniziato, il sole splendeva già per non più di sei ore al giorno e nella baia il ghiaccio marino si stava trasformando in una bianca e solida lastra. Decisi di intraprendere un viaggio di cinque giorni come test per la spedizione. Per difendermi dagli orsi polari presi in prestito un fucile da caccia che dall’aspetto sembrava alquanto vecchio, anche se Bezal mi assicurò che fosse in buone condizioni. « Comunque sia » mi disse, « gli orsi avranno più paura di te di quanta tu non ne abbia di loro. Prima d’ora non hanno mai visto una donna da sola ». Sebbene non riuscissi proprio ad immaginarmi che un orso polare avesse paura di qualcosa, orsi polari o no per me era importante sperimentare la solitudine e il silenzio dell’Artico, facendo affidamento solo su me stessa. Una sfida che mi preoccupava tanto quanto gli orsi polari. Il ghiaccio di Resolute Bay era scivoloso e duro come una roccia e dovetti applicare gli skin — delle lunghe strisce di materiale sintetico — nella parte inferiore degli sci. Fu necessario


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farlo per evitare che questi ultimi scivolassero all’indietro mentre trascinavo la slitta — carica e pesante, rafforzata per resistere al ghiaccio ruvido e alle basse temperature. Provai diversi tipi di vestiti, di tende e di fornelli da cucina. Mi esercitai anche a fare foto da 35 millimetri di me stessa, abilità necessaria per un viaggio in solitaria. Dato che la punta del mio naso gelò a contatto con la macchina fotografica in metallo, decisi di aggiungere una buona maschera in neoprene alla lista dell’attrezzatura. Per quanto riguarda l’abbigliamento, restrinsi la scelta a un giacca a vento dotata di cappuccio, un sottogiacca e una giacca leggera in pile e, infine, due strati di mutandoni lunghi, sintetici e accollati, per non far passare il vento e la neve. Come guanti avevo delle grandi muffole isolate termicamente da indossare sopra delle manopole più leggere. A contatto con la pelle, invece, dei sottili guanti foderati. Una tenda di quelle robuste sarebbe stata fondamentale durante il viaggio e ne scelsi una per due persone, a parete doppia e a tre paletti. In assenza di vento avrei potuto erigerla in tre minuti. Tuttavia, dopo averci buttato dentro il mio grande sacco a pelo in piume d’oca e altri attrezzi, la tenda si ridusse subito a una struttura per una persona, senza spazio libero. La zona in cui avrei vissuto sarebbe stata sufficiente, ma non spaziosa. Come fornello scelsi un MSR: fa rumore, ma è molto affidabile; inoltre brucia gas bianco, che avrei potuto acquistare a Resolute Bay. Il kit medico includeva bende di diverse dimensioni, pomate antisettiche, tintura di iodio, garze, nastro adesivo, collirio in caso di cecità temporanea causata dalla neve, e una crema contro le ustioni nell’eventualità di congelamento o incidenti con il fornello. Inoltre, mi feci prescrivere dei farmaci per possibili disturbi di stomaco, per le infezioni alle cavità e da ferita e contro il dolore. Dopo cinque giorni trascorsi da sola sul ghiaccio marino ero fiduciosa di poter affrontare la solitudine e il silenzio di un viaggio nell’Artico. Di orsi polari nemmeno una traccia, il che fu un sollievo, e fui soddisfatta dell’attrezzatura che avevo scelto.


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Ma si era trattato di un semplice test, non del viaggio vero e proprio. Tornai sulla terraferma sciando, impaziente di poter parlare nuovamente alle persone e ascoltare dei suoni che non fossero quelli del banco di ghiaccio che si sgretolava e scricchiolava sotto i miei piedi. Una volta tornata alla locanda mi accordai con Bezal per affittare una radio ad alta frequenza per l’intera spedizione, in modo da poter chiamare lui e Terry ogni sera, mentre ero in viaggio. La locanda sarebbe diventata il mio campo base, come era già successo per le precedenti spedizioni artiche. Sul ghiaccio sarei stata sola, ma in caso di emergenza la mia posizione sarebbe sempre stata nota. All’aeroporto locale mi incontrai con Rudi Kellar, il manager alla base della Bradley Air Services, un’azienda di charter che utilizza i Twin Otters per volare in molte parti dell’Artico. Insieme discutemmo dei miei progetti e Rudi acconsentì a inviare un aeroplano per venirmi a prendere alla fine della spedizione. Prima di lasciare Resolute parlai della spedizione con alcuni abitanti Inuit. In un primo momento rimasero sbalorditi al pensiero che una donna prendesse in considerazione un viaggio simile, per non parlare del fatto che si muovesse a piedi e da sola. Alcuni mi esortarono a spostarmi con una motoslitta, mentre secondo altri l’unico modo in cui sarei potuta sopravvivere agli orsi polari era portando con me una squadra di cani. Ma quello di trascinarmi dietro la slitta era un metodo che usavo da anni quando mi trovavo a scalare montagne con lunghe vie d’accesso su ghiacciai, da attraversare prima di raggiungere l’inizio della scalata vera e propria. Tony, un cacciatore Inuit di orsi polari, era particolarmente preoccupato per la mia incolumità senza una squadra di cani. I cani Inuit e gli orsi polari sono nemici per natura e, contro questi predatori, una squadra di cani sarebbe stata la mia migliore protezione. Ascoltai attentamente i suoi avvertimenti e le sue preoccupazioni. Poi, sperando che capisse la mia logica, risposi:


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« Se devo intraprendere questo viaggio, allora voglio sfruttare la mia forza e fare affidamento sulle mie capacità, piuttosto che impiegare una squadra di cani ». Per quanto riguarda gli orsi polari, ritenevo di poter viaggiare a piedi, senza correre rischi, a patto di avere con me un’arma da fuoco e una pistola lanciarazzi per proteggermi. Pensai che quest’ultima sarebbe stato un mezzo di avvertimento valido e non letale, mentre avrei usato l’arma da fuoco come ultima risorsa. Gli Inuit, che cacciano gli orsi polari, a un fucile da caccia ne preferiscono uno molto potente. Io volevo un’arma da fuoco soltanto come strumento di difesa. Prima di prendere la decisione finale su quale tipo di arma portare, volevo consigliarmi con persone esperte in autodifesa contro animali di grossa taglia. Mentre parlavo e ascoltavo gli Inuit, la loro abilità nel sopravvivere e le loro conoscenze dell’Artico mi convinsero che avevo bisogno ancora di due settimane di allenamento con loro a Resolute Bay, prima di intraprendere il viaggio, nel marzo del 1988. Quelle due settimane mi avrebbero dato l’opportunità di imparare più cose sugli orsi polari e su come affrontarli. Tornata a casa, nello Stato di Washington, continuai i preparativi per il viaggio e fui sorpresa di scoprire quanto poco fosse stato scritto sulle spedizioni artiche prima del 1988. Mi resi conto più che mai del fatto che il mio viaggio avrebbe offerto un’opportunità unica per raccogliere informazioni di tipo geografico, storico e scientifico, perfette per sviluppare un programma didattico per le scuole. Dal momento che avrei viaggiato a piedi, avrei potuto tenere un diario dettagliato di qualunque cosa avessi visto: dal paesaggio ai luoghi chiamati con il nome degli esploratori artici; dal ghiaccio marino alle piante selvatiche, agli animali che vivono e cacciano sul ghiaccio stesso; dalle condizioni atmosferiche alla temperatura; e avrei raccontato cosa volesse dire, per me, vivere in un ambiente del genere. In seguito, le informazioni raccolte e documentate dalle foto che avrei scattato sarebbero state indirizzate alle


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scuole, per permettere di comprendere meglio l’Artico. Oltre a realizzare il mio sogno, speravo così anche di sensibilizzare maggiormente i giovani sulla fragilità di questo ambiente e sulla necessità di proteggerlo insieme agli animali che lo popolano. Il progetto didattico ispirò un cambiamento nel programma: invece di viaggiare verso l’area intorno al Polo facendo immediatamente ritorno al campo base con l’aereo, decisi che avrei circumnavigato l’intera zona per meglio comprendere e fotografare le isole vicine. Quando gli scienziati a Ottawa appresero della mia imminente spedizione e del mio intento di percorrere un lungo viaggio nell’area intorno al Polo, mi chiesero di raccogliere dei campioni di neve e i dati relativi alla temperatura, che poi avrebbero usato nei loro studi su quell’ambiente. Nel marzo del 1988 ero pronta a partire per Resolute Bay. Sul nostro piccolo pick-up Datsun giallo del 1976 caricai una scatola in legno piena della mia attrezzatura e per tre ore viaggiammo verso nord fino a Vancouver, in Canada, da dove avrei spedito la slitta e gli sci per via aerea fino a Resolute Bay. Due giorni dopo la partenza della merce giunse anche per me l’ora di mettermi in viaggio. Ero stata così occupata a prepararmi per l’avventura che mi attendeva che non avevo pensato a cosa avrei provato nel salutare Bill, i miei genitori e i miei amici. Non sono mai stata particolarmente brava nei saluti, e temevo soprattutto questi perché ero consapevole che gli altri sarebbero stati in ansia. Chiamai i miei in Nuova Zelanda e, quando mi augurarono buona fortuna, riuscii a malapena a trattenere le lacrime. Dopotutto, mi dissi, non sto partendo per sempre. Bill, che stava volando in Florida, riuscì a prendersi dei giorni liberi per portarmi all’aeroporto di Vancouver. Avevamo deciso che, siccome eravamo noi a finanziare la spedizione, lui avrebbe continuato a lavorare anziché accompagnarmi a Resolute Bay. Ero davvero impaziente di intraprendere il viaggio, ma prima di tutto dovevo riuscire a superare in qualche modo la


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fase dei saluti. Mentre Bill guidava verso l’aeroporto decisi che non avrei pianto, consapevole del fatto che molte altre volte nel passato mi ero ripromessa la stessa cosa senza poi riuscirci. Ogni volta che i miei genitori ci venivano a trovare, negli Stati Uniti, e quando poi noi li andavamo a trovare in Nuova Zelanda, mi trovavo ad affrontare la stessa dolorosa scena. Mentre oltrepassavamo il confine canadese fino all’aeroporto di Vancouver, Bill era stranamente silenzioso, così gli dissi: « Semplifichiamoci le cose e salutiamoci velocemente ». « Per me va bene » rispose. Arrivammo all’aeroporto e, dopo aver fatto il check-in allo sportello, ci abbracciammo. « Ciao » dissi, e mi girai per andarmene, quanto più calma possibile. Non mi voltai. Poi sentii urlare: « Ti amo ». « Ti amo anch’io » gridai, e mi affrettai a salire a bordo dell’aereo, cercando di trattenere le lacrime. Ovviamente stavo piangendo.

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’aereo atterrò nel tardo pomeriggio sulla pista gelata di Resolute Bay, tra un turbine di neve sottile sbattuta in aria dai motori del jet. Guardai fisso fuori dal finestrino, sorpresa dell’oscurità che abbracciava quel minuscolo insediamento. Era metà marzo e due settimane prima, al telefono, Bezal mi aveva detto che per la fine del mese avrei potuto aspettarmi dalle diciannove alle venti ore di luce al giorno. Avevo sperato di iniziare il viaggio verso il Polo nelle lunghe ore diurne, in modo da poter avvistare gli orsi polari con più facilità. Quando parlai con Bezal, ancora prima dei normali saluti, gli chiesi con ansia: « Cosa ne è stato della luce? ». « Sii paziente, arriverà » rispose. Lo spero, pensai tra me e me. Vivere con gli orsi polari in una simile oscurità avrebbe potuto rivelarsi un po’ pericoloso. Caricammo sul suo pick-up le mie due borse rosse di lana pesante, di circa 32 chilogrammi, infilammo l’attrezzatura per la macchina fotografica e altre due borse più piccole dentro la cabina di guida, a malapena riscaldata, e iniziammo il viaggio di 8-10 chilometri che dall’aeroporto porta al villaggio. Reso-


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lute, in realtà, si compone di due insediamenti. Quello nei pressi dell’aeroporto, noto come la base, consiste principalmente di edifici governativi, mentre il villaggio è un insediamento Inuit fatto di piccole case in legno, raggruppate lungo strade brevi e strette che si snodano senza una vera e propria direzione. Su una collina non troppo alta si innalza un edificio scolastico giallo — per circa quaranta studenti delle elementari — un grande edificio sanitario verde e un supermercato che vende principalmente abbigliamento e articoli di drogheria. Arrivammo alla locanda High Arctic di Bezal e Terry — situata all’estremità del villaggio — in tempo per l’abbondante cena che Terry stessa aveva preparato. Mangiammo insieme a una mezza dozzina di altri ospiti che rimasero senza parole quando appresero che stavo per recarmi a piedi verso il Polo Nord magnetico. Dopo cena iniziai a trasferire tutta la mia attrezzatura nel garage della locanda dove, in un angolo, già si trovavano la slitta e gli sci. Arrivarono alcuni degli ospiti, di sicuro per controllare se avevano capito bene quello che avevo detto. Due tedeschi, che erano lì per cacciare le foche, rimasero sbigottiti all’idea che una donna tentasse davvero di arrivare al Polo a piedi. Dopo aver dato un’occhiata al .338 Winchester Magnum e alla pistola lanciarazzi che avevo intenzione di usare come autodifesa, si misero a ridere. « Il contraccolpo di questo è di gran lunga troppo potente per una donna della sua statura. Per lei ci vuole qualcosa di più piccolo ». Mi tirai su per tutto il mio metro e sessanta e gli dissi, nel modo più persuasivo possibile, che quell’arma mi era stata raccomandata da qualcuno che cacciava la selvaggina grossa in Africa e che mi ero iscritta al club locale di armi in modo da potermi esercitare. « Non dovrei avere problemi a maneggiare il fucile ». A dire il vero, non ero poi così sicura che l’arma da fuoco che avevo con me fosse quella giusta. In tutta la mia vita non mi erano mai stati dati dei consigli così discordanti tra loro.


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Mentre impacchettavo alcune cose sul fondo della slitta, un dentista, che era lì in cerca di una vacanza tranquilla, lontano dalla civilizzazione, alzando un’estremità della slitta osservò: « Questa è decisamente troppo lunga e pesante perché lei riesca a trascinarla per tutta quella strada. Non durerà tre giorni ». Fu raggiunto da un turista austriaco che voleva vedere gli animali e le piante selvatiche dell’Artico e questi, con un’aria autorevole, mi disse: « Due cose la uccideranno. Numero uno, gli orsi; numero due, il freddo. Il primo orso la spaventerà a morte ». Iniziai a ribattere, ma poi decisi di lasciar perdere. Avevo già sentito tutte le opinioni negative che potevo sopportare per una giornata e poi, comunque, era ora di andare a letto. La mattina seguente, alle cinque, mentre tutti gli altri dormivano, consumai una colazione veloce fatta di cereali freddi e andai fuori, in garage, per impacchettare la slitta, stavolta senza persone attorno. Avevo scelto molto attentamente il cibo da portare in viaggio: scorte di riso disidratato, latte intero e cioccolato in polvere, farina d’avena, muesli, cracker di Graham, dolcetti al burro di arachidi, noci e noci di acagiù, il tutto impacchettato in sacchetti di plastica che andarono a finire dentro grossi sacchi. La polvere dolce ad alta concentrazione di carboidrati che avrei bevuto era già imballata e infilata sul fondo di ogni sacco, uno per settimana. A casa non ero vegetariana, ma in compagnia degli orsi polari era consigliabile escludere la carne, come precauzione per non attirarli con odori in grado di fargli venire l’acquolina in bocca. A completare la dieta c’erano pasticche di vitamina C e integratori di minerali e multivitaminici. Mi sarei portata dietro cibo a sufficienza per quaranta giorni, ma mi aspettavo che il viaggio ne durasse al massimo trenta. Da Bezal acquistai del gas bianco per il fornello e 7,5 litri extra per sicurezza. Tutto il cibo e l’acqua che avrei bevuto dovevano essere sciolti, quindi, piuttosto che rischiare di disidratarmi, decisi di portare con me più combustibile del necessario.


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Bezal e Terry avevano acconsentito, per il periodo della spedizione, a rimanere in ascolto ogni sera, in attesa che li chiamassi: dopo ogni giornata di viaggio, alle otto, avrei preso l’apparecchio radio ricevente e trasmittente ad alta frequenza — di 2,7 chilogrammi, che funzionava a pile — e avrei chiamato il campo base per fornire la mia posizione esatta. Ci accordammo che, qualora non mi avessero sentito per quattro giorni, Bezal avrebbe avviato le ricerche in base alla mia ultima posizione nota. Avevo promesso a Bill, ai miei genitori e agli amici a casa che avrei contattato il campo base ogni sera via radio. Sarebbe stata la mia unica ancora di salvezza durante la spedizione.

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Per metà mattina era tutto ordinato e impacchettato. Le persone cominciarono a venire, tra loro alcuni degli Inuit con cui avevo parlato nel novembre precedente. Ovviamente, avevano avuto modo di riflettere più a lungo sul mio viaggio e non erano ancora convinti che fosse il caso di partire.


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Un tipo alto, di cui non sono mai riuscita a pronunciare il nome, mi disse: « Sta commettendo un errore, non dovrebbe andare senza una squadra di cani o una motoslitta ». « Starò bene se potrò imparare quanto più possibile sugli orsi e su come reagire in loro presenza » replicai. « C’è ancora del tempo prima che io parta. Mi insegnerebbe? ». La sua risposta, rapida ed entusiasta, fu: « Incontriamoci qui al garage, alle due di questo pomeriggio. Andremo giù fino al ghiaccio. Porti il fucile, le munizioni e la pistola lanciarazzi ». Alle due era lì che aspettava con quattro amici, la sua motoslitta e un kamotik, una slitta Inuit in legno. Di certo non mi sarebbero mancati gli istruttori! Percorremmo rapidamente i quattrocento metri fino al ghiaccio marino, due di noi sulla motoslitta e il resto dietro, sul kamotik che avanzava sobbalzando. La lezione cominciò con storie raccapriccianti sui danni che un orso polare può provocare a un corpo umano. Sospettai che tutto ciò facesse parte di un piano per convincermi ad abbandonare i progetti di viaggio. Alla fine alzai la mano e dissi: « So già che un orso è in grado di uccidermi. Quello che vorrei imparare è come evitare che ciò accada ». Una volta detto questo i miei istruttori cambiarono rotta e, con grande entusiasmo, mi insegnarono come reagire di fronte a un orso, a quali indizi prestare attenzione per vedere se ce n’erano in giro e in che modo questi animali cacciano. Le capacità di sopravvivenza degli Inuit si tramandano da molte generazioni e si mantengono vive quasi per istinto, mentre io fui costretta ad imparare quello che loro danno per scontato. Il mio rispetto nei confronti degli Inuit e degli orsi polari si faceva sempre più grande. Sulla baia trovammo delle impronte di orso e imparai a distinguere tra quelle fresche e quelle più vecchie, e se si trattava di un esemplare maschio o femmina. Una femmina adulta pesa diversi chili in meno rispetto a un esemplare maschio, che è più massiccio. Inoltre, spesso le femmine pre-


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sentano una chiazza di urina sotto la coda. Fui messa in guardia dall’orso polare e dal modo silenzioso in cui caccia. « Non sentirà mai un orso che le si avvicina da dietro; saprà che è venuto per prenderla quando le salterà addosso. E allora sarà troppo tardi ». Mi esercitai a sparare da tutte le posizioni ad un pezzo di ghiaccio alto poco più di mezzo metro, a una temperatura di -36 gradi, usando dei guanti per evitare che il gelo incollasse le dita alle parti di metallo del fucile. Alla fine gli istruttori erano contenti del fatto che fossi diventata esperta con il fucile e delle mie conoscenze in fatto di orsi polari. Il giorno seguente ci fu una tempesta, quindi portai la tenda giù al ghiaccio marino per esercitarmi ad erigerla nel vento. Sciando arrivai fino alla baia per sentire il vento freddo in volto, cercando di vedere se c’erano orsi e abituandomi al blocco di ghiaccio sotto gli sci. Trascorsi diversi altri giorni allenandomi proprio sul blocco di ghiaccio, a volte da sola e a volte con gli Inuit, che controllavano sempre per vedere se stavo ancora imparando e se mi ricordavo di tutto quello che mi avevano detto. Mentre impacchettavo la slitta per un’altra corsa di allenamento arrivò Tony. Lo avevo conosciuto il novembre precedente e avevo sperato di potergli parlare prima di partire per il Polo, ma lui era stato via, sul ghiaccio marino, a caccia di orsi polari. Possedeva una delle migliori squadre di cani di Resolute e a novembre era stato molto chiaro sugli aspetti negativi dei miei progetti di viaggio. Appena ritornato dalla caccia e non appena seppe che mi stavo preparando per partire, venne a trovarmi e cercò di convincermi a non andare. « È ancora tanto buio » disse, con un’espressione preoccupata. « Non riuscirà a vedere gli orsi. Verranno alla tenda mentre dorme. Non importa che tipo di fucile lei abbia, non riuscirà a sentirli mentre dorme. Se proprio deve andare, allora porti con sé una squadra di cani. Si sposterà più velocemente. Tre o quattro cani le basteranno, le posso insegnare io ». Dissi a Tony che continuavo a non volere una squadra di


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cani, ma che mi stavo domandando se fosse possibile prenderne uno che camminasse con me, per avvertirmi se un orso si fosse avvicinato durante il giorno e per fare la guardia di notte. Fece un gran sorriso, lo sguardo particolarmente sollevato, e disse: « Ho io un cane che può prendere. È addestrato per avvisare il villaggio quando si avvicinano gli orsi polari e sa come badare a se stesso ». Quando acconsentii almeno a dargli un’occhiata, Tony se ne andò e tornò con un grande e docile husky nero. Me ne innamorai a prima vista, anche se non avevo idea di cosa pensasse lui di me. Credo non gli importasse un granché di chi fosse il suo padrone, purché qualcuno gli avesse dato da mangiare e se ne fosse preso cura. Non sembrava particolarmente coraggioso, né feroce, e mi chiesi che tipo di esperienza avesse potuto fare con gli orsi polari e in che modo avrebbe potuto resistere alle difficoltà del mio viaggio. Lui ne sapeva ancora meno di me su cosa aspettarsi lungo il percorso. Tuttavia c’era qualcosa in quel cane che mi fece pensare di potermi fidare, così decisi di portarlo con me. Lo acquistai da Tony per 100 dollari e, quando presi la catena, venne verso di me abbastanza volentieri. Forse anche lui pensava di potersi fidare. Come la maggior parte dei cani Inuit, anche questo era senza nome. In un primo momento pensai a Blacky o Prince, ma quando lo guardai in quegli occhi dolci e lo abbracciai forte sapevo che Charlie sarebbe stato perfetto. La prima cosa da fare era trovare un luogo riparato dove farlo dormire. Non potevo portarlo nella locanda con me. Non ero così sprovveduta da chiederlo. Ai cani Inuit non è mai permesso entrare nei luoghi chiusi. Ma ora che Charlie era mio, non volevo che rimanesse abbandonato fuori, sul ghiaccio. Dopo aver perlustrato in giro trovai una barca dall’aspetto piuttosto triste che veniva usata quando il ghiaccio si scioglie, nel corso di quella che è la breve stagione estiva. La barca era conficcata ben bene nel ghiaccio, inclinata ad un’angolazione precaria, le vele in tela strappate e congelate che, da come erano


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messe, sembrava fossero pronte a prendere il volo. Legai Charlie a poppa e lui non perse tempo per saltare dentro. Gli diedi da mangiare e lo osservai finire la cena, rannicchiarsi all’interno della barca e addormentarsi poco dopo. La mattina seguente ero in piedi alle prime luci dell’alba per tornare alla barca e salutare il mio nuovo amico. La vita dei cani Inuit è dura, non vengono visti come animali domestici. Gli viene lanciato un pezzo di carne di foca congelata due o tre volte alla settimana e masticano ghiaccio legati a una catena lunga poco più di un metro. Non gli viene dato alcun riparo, nemmeno in pieno inverno, durante le rigide tempeste artiche. I miei propositi su come trattare Charlie erano più umani, sebbene gli Inuit non fossero abituati a vedere un cane circondato di attenzioni e alcuni espressero l’opinione che gli avrebbe fatto male. Nonostante ciò continuai a darmi un gran daffare nella speranza che Charlie imparasse a volermi bene e a fidarsi di me. Dopotutto la mia vita avrebbe potuto dipendere dalla sua fedeltà.

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Con soli tre giorni rimasti prima di dare inizio al mio viaggio, dovevo affrettarmi a mettere insieme l’attrezzatura per Charlie. Un pilota di slitte per cani gliene diede una di quelle per bambini, in plastica di colore blu, oltre a un’imbracatura rosso brillante. Lo spesso mantello nero di Charlie aveva un aspetto magnifico con indosso la nuova imbracatura e quella piccola slitta era perfetta per trascinarci sopra il suo cibo. Un team austriaco di cani da slitta, che era dovuto tornare indietro da una spedizione al Polo Nord geografico a causa dei gravi sintomi da congelamento alle mani e ai piedi del leader, diede a Charlie tutto il cibo per cani di cui avrebbe avuto bisogno per il viaggio. Caricai sulla sua slitta 38 chilogrammi di cibo secco per cani distribuito in sacchi, l’equivalente di 900 grammi al giorno e qualcosa in più in caso di emergenza. Terry mi aveva dato un vecchio tegame in alluminio senza manico, con una capacità di poco più di due litri, che sarebbe stato perfetto come ciotola. Portai Charlie fuori, sul ghiaccio marino, per iniziare insieme l’allenamento. Il ghiaccio, duro e freddo, non gli piaceva, quindi decisi di risolvere il problema stando ad angolo retto su entrambi gli sci. Gli spiegai che fin quando mi avesse tenuta ancorata a quel luogo non saremmo riusciti ad andare da nessuna parte. Il fatto è che a lui non interessava andare da nessuna parte, però dopo qualche minuto lo convinsi che io mi sarei spostata sugli sci mentre lui avrebbe camminato sul ghiaccio, accanto a me. Prima di allora non aveva mai visto degli sci, quindi deve essersi meravigliato un po’ nel vedermi muovere su quei piedi così lunghi. Il piano prevedeva che Charlie trascinasse la sua slitta, carica con 38 chilogrammi del suo cibo, mentre io avrei tirato la mia, che era blu, in fiberglass, lunga più di due metri e carica con circa 72 chilogrammi tra cibo, combustibile, vestiti, la tenda e l’attrezzatura. Tony mi aveva detto di tenere Charlie legato accanto a me mentre camminavo, in modo che fosse sempre al mio fianco ed evitasse di correre di qua e di là alla ricerca degli


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orsi polari, con il rischio di perdersi. Avevo acquistato un nuovo collare blu in nylon e una robusta catena per cani facile da sbloccare. Fissai la catena di Charlie a un anello di metallo alla mia vita, sull’imbracatura della slitta, rendendogli impossibile andare da qualsiasi parte senza di me. Charlie si abituò presto a camminare alla mia destra, standomi al passo. Nel giro di tre giorni eravamo diventati una squadra e lui stava persino imparando il suo nome. Il 29 marzo Charlie e io terminammo l’allenamento a Resolute Bay e volammo per circa 90 chilometri a bordo di un DC3 in direzione nord-ovest, verso la miniera Polaris, una miniera di piombo e zinco. Di proprietà dei canadesi, Polaris è la miniera di metallo più a nord del mondo occidentale — si trova sull’isola di Little Cornwallis — e rappresentò il posto più logico da dove cominciare il viaggio. Tutta l’attrezzatura e le due slitte erano state portate a bordo del DC3, insieme al carico di cibo destinato al personale della miniera stessa. Charlie e io eravamo gli unici passeggeri. Mi strinsi in un minuscolo sedile appena dietro la cabina del pilota. Al momento di decollare dalla pista ricoperta di ghiaccio tenni stretto Charlie per il collare, non sapendo come avrebbe reagito al volo. La sua prima reazione fu di sorpresa e me lo ritrovai in grembo, con tutti i suoi 42 chili. Quando il copilota tornò per controllare la situazione e chiese « Come state quaggiù? », mentre dalla bocca sputavo dei peli neri, cercai di girarmi verso Charlie per vedere il pilota, ma senza riuscirci troppo. Così risposi con un soffocato: « Tutto bene ». Quando se ne fu andato feci uno sforzo per sistemare Charlie nella metà del mio sedile che dava sul finestrino e mi misi seduta, incastrata tra lui e un grosso sacco di patate. Non era proprio un modo grandioso di iniziare il viaggio, ma non si poteva fare altrimenti. Nel frattempo Charlie si era sistemato bene, riducendo di gran lunga la mia parte di sedile mentre si rilassava. Alla fine mi arresi e mi sedetti per metà nel sedile e per l’altra metà sulle patate. Per trenta minuti sorvolammo un paesaggio arido e gelato.


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Al di là della testa di Charlie, il suolo ricoperto di ghiaccio sembrava poco invitante, ma pensai che sarebbe andato tutto bene una volta a terra, fuori da quell’angusto aereo non riscaldato e pieno di patate. Atterrammo alla miniera Polaris su un’altra pista gelata ed esposta al vento, ma non potemmo uscire dall’aereo fino a quando tutte le patate non furono scaricate. I sacchi furono trascinati a bordo di un camion che era lì in attesa, per poi essere portati rapidamente in un deposito prima che le patate si fossero congelate, a -35 gradi. Feci del mio meglio per tenermi calda mentre dei minatori, che indossavano pesanti vestiti isolati termicamente, scaricavano le patate. Alla fine, dopo circa venti minuti, mi fu permesso di saltare giù sul ghiaccio dove ad attendermi c’era un forte vento e anche una calorosa stretta di mano da parte di un supervisore della miniera. A Charlie fu dato il benvenuto con una carezza sulla testa. Il supervisore ci condusse in un grande capannone dove Charlie avrebbe trascorso la notte insieme alla nostra attrezzatura. Parte del materiale era stata fatto cadere dalla slitta quando, durante l’operazione di scarico dell’aereo, una pesante scatola vi era caduta sopra di traverso. Dopo aver ritrovato ogni singolo pezzo decisi che li avrei rimpacchettati nel corso della mattinata, in modo da dare a Charlie l’opportunità di tranquillizzarsi prima. Il supervisore mi assicurò che qualcuno gli avrebbe dato da mangiare della carne dalla cucina e che Charlie sarebbe rimasto al sicuro nel capannone. Odiavo l’idea di lasciarlo. Era già parte di me. Il capannone distava circa centottanta metri dagli alloggi e, una volta dentro il campo, il regolamento mi impediva di avventurarmi fuori da sola a causa dei forti venti, del freddo e degli orsi polari. La cosa mi sorprese, considerando il viaggio che stavo per cominciare. Ciononostante, l’idea di prendere delle precauzioni aveva un senso, quindi non dissi nulla e mi lasciai portare via dando un’ultima, lunga occhiata a Charlie prima che la porta fosse chiusa.


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La mia sistemazione all’interno di un edificio spazioso — costruito in acciaio massiccio nervato, color arancione, per resistere al freddo polare e ai forti venti — era calda, moderna e confortevole. La mensa metteva a disposizione porzioni generose di un’ampia varietà di cibi. Dopo aver consumato un pasto sostanzioso a base di carne, verdure e, ovviamente, patate, finii con una bella fetta di torta alle ciliegie. Il pensiero andò a Charlie, tutto solo in quel capannone buio. Stava venendo fuori il mio istinto materno, ma fui rassicurata che qualcuno gli aveva dato da mangiare e una carezza affettuosa per augurargli la buonanotte. Dopo aver incontrato e parlato con alcune persone che lavoravano nella miniera andai in camera mia e feci una lunga doccia calda, che sapevo sarebbe stata l’ultima per un mese. Poi me ne andai a letto. Trascorsi una notte insonne al pensiero del lungo viaggio solitario che mi aspettava. Pensai anche alla mia famiglia e agli amici che mi ero lasciata alle spalle, nella speranza che la mia avventura non li facesse preoccupare troppo. Sapevo che Bill e i miei genitori mi sostenevano, ma nelle ore buie della notte mi chiesi quali fossero davvero i loro pensieri più intimi e se, per amor mio, non stessero nascondendo le loro preoccupazioni circa la mia incolumità. Ormai era troppo tardi per tornare indietro. Avevo trascorso i due anni precedenti lavorando e pianificando quel viaggio. Quando non potei più dormire, mi alzai e mi vestii. La mensa apriva alle sei perciò scesi per fare colazione, consapevole che quello sarebbe stato l’ultimo pasto in mezzo alla civiltà. Quindi riempii il piatto di salsicce e uova. E proprio quando stavo per prenderne un boccone, Don Souter — il cui compito alla miniera era quello di tenere gli orsi polari a debita distanza — annunciò, con voce allegra, che sul ghiaccio nei pressi del punto da cui sarei partita si trovavano una femmina di orso polare e i suoi due cuccioli. Mentre si infilava un’enorme giacca mi disse di non preoccuparmi. « Li cacceremo con le motoslitte ». Andandosene, il mio appetito se ne andò con lui e lo stomaco fu preso da una smania nervosa, ribellandosi all’idea del


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cibo. Sebbene il mio allenamento fosse stato molto accurato e dagli Inuit avessi imparato quanto più possibile sugli orsi polari, non ne avevo ancora affrontato uno nel suo habitat naturale. La rotta per il Polo mi avrebbe portato in un’area densamente popolata da questi animali. Come avrei reagito di fronte a uno di questi nomadi potenzialmente pericolosi? Lasciando perdere la colazione, andai verso una grande finestra dai doppi vetri che dava proprio sulla baia da cui, due ore e mezza più tardi, avrei dato inizio al viaggio. Quel paesaggio completamente bianco si estendeva di fronte ai miei occhi con una bellezza imponente, che ben si intonava agli orsi polari che considerano quell’Artico coperto di ghiaccio la loro casa. Dal momento che di orsi non ne vidi, tornai al tavolo e feci un discreto sforzo per mangiare, sebbene non ne avessi voglia. Celai la paura dietro un’espressione sorridente e scherzosa, in modo tale che chi aspettava di vedermi partire non avrebbe saputo che ero spaventata a morte. Alle sette di mattina chiamai Bill per l’ultima volta. Sapevo che si sarebbe tenuto in contatto per telefono con Bezal e Terry per tutta la durata del viaggio, mandando messaggi che mi sarebbero stati riferiti via radio. Ma quella sarebbe stata l’ultima occasione in cui avremmo potuto parlare direttamente l’uno all’altra. Sapeva che era giunto il momento della partenza e si trovava in Florida, all’hangar, in attesa della mia chiamata. Quando sentii la sua voce iniziai a piangere. Gli dissi della mia paura nei confronti degli orsi polari e lui cercò di rassicurarmi. « Dopotutto » disse, « non è detto che ne incontrerai per davvero uno ». Il che aveva senso, quindi smisi di piangere. Una parte di me voleva ancora voltarsi indietro e correre a casa, ma una parte ancora più grande voleva andare al Polo e affrontare qualunque sfida si fosse presentata, anche gli orsi polari. Se fossi andata a casa in quel momento, mi sarei arresa a me stessa e avrei dovuto vivere con quel pensiero per il resto della vita. Dopo aver parlato con Bill, chiamai Terry a Resolute Bay per dirle che presto sarei partita e che l’avrei contattata via radio


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alle otto di quella sera, per comunicarle la nuova posizione. Poi indossai gli abiti per la spedizione e mi recai al capannone per vedere come Charlie avesse trascorso la notte. Per niente preoccupato Charlie era già in piedi, felice di vedermi. Tim Sewell, una delle persone che lavoravano alla miniera, sbucò da dietro l’attrezzatura e mi disse di aver svolto il turno di notte. La sera precedente era entrato, aveva acceso la luce e si era subito trovato di fronte un grosso cane nero, che se ne stava lì, tranquillo, a guardarlo. Una volta ripresosi dallo spavento, Tim aveva contattato via interfono l’edificio centrale, per riferire della presenza di un grande cane nero. E qui gli fu detto che si trattava di Charlie e del perché si trovasse in quel posto. Tim, un amante dei cani, mi disse: « L’ho accarezzato e mi è sembrato così solo che ho deciso di dargli qualcosa di speciale da mangiare. Ho radunato alcuni colleghi e insieme siamo andati in cucina, abbiamo preso un secchio di carne e lo abbiamo portato a Charlie, che se l’è mangiato a tempo di record. Poi abbiamo messo insieme tutte le vecchie tute da lavoro che abbiamo trovato e gli abbiamo preparato un letto morbido. Non ci sono dubbi che il suo sia un cane meraviglioso. Ne abbia cura ». Il carico della mia slitta era in un disordine più grande di quanto mi sarei aspettata. A Resolute Bay avevo tirato fuori parte dell’attrezzatura legandola all’esterno del sacco della slitta, cosicché quest’ultima sarebbe potuta entrare nell’aeroplano, in mezzo all’altra merce. Ma, cadendo sulla slitta, la scatola aveva rotto la corda principale e buttato tutto all’aria. Ora mi ritrovavo ad osservare un cumulo di cose in disordine, dove da una busta contenente il cibo venivano fuori dei guanti, in cima ai fornelli c’era un cappello e provviste di ogni sorta sbucavano dai posti più strani, dove la sera prima erano state infilate in modo da non volare via quando eravamo scesi dall’aereo. La situazione era alquanto scioccante. Sono sempre stata pignola nei dettagli, in particolare per quanto riguarda l’idea di mettere le cose in determinati posti e attenermi a un piano or-


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ganizzato durante le spedizioni, in modo che, se anche qualcosa va storto ― cosa che di tanto in tanto capita ― affrontare il problema è molto più facile. Mentre iniziai a riordinare e a rimpacchettare le cose, diverse persone si affrettarono ad aiutarmi, infilando gli oggetti nei posti dove ritenevano dovessero andare. La confusione che crearono fu grande e il mio carico era ancora in disordine. Queste persone erano benintenzionate ed entusiaste, e non me la sentii di dire loro: « No, non fatelo ». Era molto più semplice dire « Grazie » e tirare su la chiusura lampo, pensando che avrei riassettato il carico la sera, al campo. In seguito mi sarei resa conto che la capacità di dire « no » è un grande dono. Questa fu la prima lezione del viaggio e non avevo ancora iniziato. Trascinai la slitta, carica, fuori dalla porta, fino al punto in cui la terraferma gelata incontrava il ghiaccio marino. Charlie era accanto a me, legato alla sua slitta e al guinzaglio che avevo fissato intorno alla mia cintura. Se ne stava pazientemente seduto chiedendosi, credo, cosa sarebbe successo. Era il 30 marzo 1988 ed eravamo pronti a partire per il viaggio più impegnativo della nostra vita.

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