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Alessandro Franci
IL MESE DELLA
LUNA romanzo
GINGKO
EDIZIONI
il mese della luna © Copyright 2013 alessandro Franci © Copyright 2013 gingko edizioni san Pietro Capofiume (Bo) www.gingkoedizioni.it i edizione ottobre 2013 Collana Baiguo isBn 978-88-95288-44-4 Progetto grafico di copertina: © 2013 atalante
alessandro FranCi è nato nel 1954 a Firenze dove si è laureato in architettura e dove vive. Ha pubblicato la raccolta di poesie “senza luogo”, Edizioni Gazebo, Firenze, 1985. I racconti “delitti marginali”, Edizioni Gazebo, Firenze, 1994. Gli aforismi “la pena uguale”, Edizioni Gazebo, Firenze, 2009. Nel giugno 2011 è uscita in ebook la sua raccolta di racconti “il fermaglio”, presso la rivista online larecherche.it. Per la stessa rivista, nel 2012, l’ebook “la luna è nuova”. Nel 1984 è stato tra i fondatori di “ottovolante circuito di produzione di poesia”. Dal 1983 al 1993 è stato redattore di “salvo imprevisti”, e dal 1993 lo è de “l’area di Broca”. Suoi lavori compaiono nelle antologie “Poeti oggi”, a cura di Piero Santi; “Forte Poesia”, biblioteca di Forte dei Marmi, 1984; “il circuito di poesia”, a cura di Massimo Mori, Manni Editore, Lecce, 1997. “scrittori e scritture di fine ’900’’ , edizione multimediale a cura di Mariella Bettarini e Gabriella Maleti, Edizioni Mediateca, Campi Bisenzio, 2000. Si sono interessati ai suoi lavori, tra gli altri: Giorgio Barberi Squarotti, Gesualdo Bufalino, Giorgio Cusatelli, Inisero Cremaschi, Franco Fortini, Luigi Malerba, Paolo Ruffilli.
IL MESE DELLA LUNA Here men from the Planet Earth first set foot upon the moon. July 1969, A.D. We came in peace for all mankind. TARGA POSTA SULLA LUNA DALL’EQUIPAGGIO DELL’APOLLO
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mia madre non andava a genio che frequentassi Daniele, perché suo padre non era il vero padre. Era questo il motivo per cui non dovevo frequentarlo, però i miei genitori non lo avrebbe ammesso; per mia madre Daniele era sporco, uno che parlava male e che faceva troppe assenze a scuola. Mentre lo aspettavo nell’aria rovente della piazza, su un giornale gettato tra la polvere, lessi: Cape Canaveral, poi altre parole distorte dalle pieghe della carta, e infine uno spezzone: ...onauti. Ricordai che presto l’uomo avrebbe conquistato la Luna, come ripeteva da giorni mio padre. Con il piede tentai di spalancare le pagine attaccaticce, ma l’operazione mi sembrò inutile e complicata e così l’abbandonai subito. Daniele arrivò poco dopo, trafelato e sorridente, con le canne in mano. Io non pescavo perché in casa nostra non usavamo tante distrazioni, visto che mia madre il superfluo lo identificava con il diavolo. La canna di Daniele era nuova, verde e gialla, telescopica, mentre quella che affidò a me era da mettere insieme pezzo dopo pezzo, grigia e pesante, d’altronde, l’importante non era tanto pescare, quanto passare il pomeriggio insieme a lui. Daniele sapeva suonare la chitarra e cantare anche in inglese, aveva una buona mira sia con la fionda che con il fucile di suo padre, era un bravo pescatore, ci sapeva fare con le ragazze e non aveva paura di nulla.
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Mi mostrò, sorridente, le sigarette che aveva portato: un pacchetto da dieci gualcito e scolorito. Le avremmo dovute fumare tutte in poche ore poiché non potevamo nasconderle in casa. Per quel che mi riguardava, non avevo mai fumato, anche perché era superfluo, ed essendo superfluo era demoniaco, secondo mia madre. Fumare tutte quelle sigarette senza averne mai messa in bocca neppure una, in ogni caso, non mi preoccupava. Mentre camminavamo, Daniele non smetteva di parlare, anche se io non lo ascoltavo; guardavo i suoi capelli arricciati davanti e pensavo che i miei non riuscivo neppure a pettinarli. Sottili e radi, dovevo tagliarli corti e ravvivarli con una riga dritta da sinistra a destra, e non da destra a sinistra come avrei desiderato tanto per essere diverso dagli altri. Mia madre però diceva che chi porta la riga da destra a sinistra è mancino, e la mano sinistra è quella del diavolo. « Con Milena ci si diverte… si fa toccare le cosce » disse d’improvviso Daniele. Rividi Milena con quel suo viso bianco e lo sguardo lontano, immaginando che Daniele stesse scherzando benché io con lei non ci avessi mai neppure parlato. Feci per dire che Milena non era affatto come sua madre, ma non dissi nulla, anzi finsi una complicità inesistente nella speranza che non ne parlasse più. E invece Daniele aggiunse: « Veniamo al fiume e lei si mette la sottana per farsi toccare le cosce, ma poi non vuole fare altro. È una troia! ». Vampe di calore umido e un odore improvvisamente denso d’erba mi chiusero la gola. Pensai che non fosse vero, anche se era risaputo che lui, come gli altri ragazzi più grandi, si vedeva con certe ragazze, come diceva mia madre. “Certe”, per lei, equivaleva a distinguere un preciso comportamento morale che alcune ragazze tenevano in confronto ad altre; “certe” non aveva valore indefinito, ma spregiativo. A causa di ciò che avevo appena appreso e dell’aria calda e umida, si fece vivo un profondo dolore allo stomaco. Ci sedemmo in una radura erbosa e subito Daniele rincarò
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la dose su Milena. « Qui non ci vede nessuno, fumiamo una sigaretta e dopo ci divertiamo ». Rise, volgendo lo sguardo tra gli alberi e le foglie, come a trovare lì conferma alle sue confessioni. Quel “ci divertiamo” accrebbe il dolore che nel frattempo si era spostato in alto. Divertirsi sembrava leggero e pericoloso, sospeso nell’aria e pronto ad abbattersi al suolo da un momento all’altro. Dopo aver estratto le sigarette dalla tasca, Daniele me ne porse una e ne prese un’altra per sé. Le accendemmo e l’odore di fumo si mescolò a quello oleoso dell’erba. La gola cominciò a bruciarmi, il caldo era diventato nel frattempo basso e denso e l’odore che saliva da terra bloccava il respiro. Le parole rimbalzavano fra noi svaporando nell’aria pesante. Daniele se ne accese un’altra, mentre rideva mostrando i denti bianchissimi e gli occhi illuminati da lampi chiari. Accesi anch’io la seconda sigaretta e l’irritazione alla gola che si era da poco placata riprese viva. D’un tratto, Daniele divenne cupo, guardò per un istante in alto sopra di me; doveva seguire evidentemente un pensiero volteggiante fra di noi. « Andiamo! » sentenziò. Sentivo gli zigomi in fiamme, lo stomaco che premeva la gola, e mentre lui camminava davanti pensai che avrei vomitato. I suoi diciassette anni lo autorizzavano a non curarsi di niente, io lo seguivo senza sapere cosa sarebbe accaduto, in un silenzio incomprensibile piombato di colpo tra noi. Giunti al fiume, sotto un cielo plumbeo che come un coperchio gravava sulle nostre teste, Daniele iniziò i preparativi per la pesca. Armeggiò con la canna e la lenza con impazienza, ma sicuro; osservò il filo, annodò, tranciò con i denti quello in eccesso. Io cercai di imitarlo e, ad ogni dubbio, lo interrogai con precisione. Lui diceva: « Così », mimando ciò che avrei dovuto fare per risolvere il problema. Quando finalmente fummo pronti, silenziosi e tristi davanti 11
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al fiume, l’uno di fianco all’altro, caddero le prime gocce. Mi girai a guardarlo, ma Daniele sembrava intento nella stessa posizione a fissare il rosso del galleggiante. La pioggia man mano si fece sottile, il vento aumentò e presto il rumore divenne assordante sulle piante e in terra. Mi guardò allora con uno scatto, e subito prese a ripiegare la canna; feci lo stesso anch’io, mentre le gocce già ci avevano inzuppati.
Quando arrivai a casa, c’era soltanto mia nonna. Corsi in bagno e mi asciugai i capelli, mi cambiai, e con il phon asciugai anche la maglia e i pantaloni. Allo specchio osservai con rabbia la mia grossa testa, i capelli sottili, il corpo ossuto. Non c’era più nulla da fare: ero magro all’inverosimile, “secco”, come diceva mia madre. Avrei voluto cancellare quell’immagine e plasmarla in un’altra definita e simile a quella del mio amico. Per il resto del pomeriggio passai da una stanza ad un’altra, osservando mia nonna addormentarsi e svegliarsi centinaia di volte sulla poltrona. Bevvi un bicchiere d’acqua dal rubinetto, più volte tornai in bagno per controllare che tutto fosse in ordine. Non appena rientrò, mia madre mi mollò uno schiaffo senza dire niente. Si avviò lungo il corridoio lasciando dietro di sé i suoi passi picchiettanti e balbettando qualcosa che non capii. Dietro di lei giunse mio padre. Non mi guardò neppure, né fiatò. Entrambi si chiusero in camera e discussero ad alta voce non so per quale motivo. Poco più tardi, prima che ci sedessimo in tavola per la cena, mia madre iniziò a ripetere: « A pescare con Daniele… eh? ». Poi silenzio. « Vuol dire che diventerà un delinquente come lui e… bravo, bravo… ». Dalla cucina queste frasi fuoriuscivano a cadenza quasi regolare. Sapeva tutto.
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uella sera mio padre annunciò che non saremmo andati in vacanza. Alcuni giorni prima aveva venduto la Lambretta per comprare la macchina; non sospettavo che l’acquisto dell’auto costituisse un fatto talmente devastante per la nostra economia al punto da costringerci a non fare altre spese. Immaginai che quella decisione fosse una punizione per essere uscito con Daniele. Ogni anno trascorrevamo tutto agosto nel solito posto: in campagna, mai al mare. Prendevamo in affitto due stanze e una cucina buia. Era un luogo profumato di legna e terra, in un paese affogato tra alberi, monti e vallate scoscese, con un torrente d’acqua fredda e bassa quasi secco in quel periodo. Trascorrevo ore da solo nei campi, sugli alberi, tra le rocce o al fiume. Quella sera dell’annuncio la cena fu silenziosa. Ciascuno contemplava il proprio piatto e gli sguardi non s’incrociarono mai. Non avrei rivisto nulla di tutto ciò che aveva scandito l’estate per tanti anni, e nel piatto osservai giorni interminabili e disabitati, in solitaria attesa dell’autunno. Prima di addormentarmi guardai la Luna dalla finestra socchiusa, e immaginai che potesse esserci un legame tra i primi passi degli astronauti e la mia lunga estate. Forse, ciascuno di noi doveva rinunciare a qualcosa di proprio per consentire un’impresa tanto grande. Dal prato saliva un odore caldo di erba umida. Il buio si confondeva nell’orizzonte inavvertibile con la sagoma scura
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di scheletrici cantieri. Da un po’ di tempo avevano iniziato a costruire proprio davanti casa nostra, in un campo rimasto fino ad allora sgombro e incolto, grandi palazzi grigi che di giorno rilucevano al sole e di notte mutavano in sagome nere e ferme, come grandi relitti. Casa nostra si trovava subito fuori città, in una periferia di sole due strade che s’incontravano formando una T. Abitavamo circa a metà gambo, mentre tutti gli altri miei amici, Milena compresa, si trovavano tra la fine del gambo e la parte destra. Daniele, all’estremità sinistra. La nebbia d’autunno e per gran parte dell’inverno chiudeva la T all’interno di un cerchio, isolandola. Per andare a scuola o in città occorreva forare lo strato gelido che si diradava subito. Dipendeva forse dal fiume, oppure dalle vecchie paludi bonificate ai primi del Novecento, fatto sta che ognuno aveva una propria teoria sul fenomeno, e per questo non era mai stato chiarito perché si dovesse varcare una specie di confine per entrare o uscire dalla T. D’estate la nebbia non c’era, ma il confine sì. Era lì, al posto della nebbia. Al di là iniziava la città, la vita; di qua soltanto la periferia. Persino le notizie faticavano a trovare la giusta via nella nebbia, e molto di ciò che avrebbe potuto raggiungerci svaniva nel biancore. La gente stessa, traversando il cerchio per andare al lavoro e per tornare nella T, con il tempo mutava quasi aspetto assumendo altre abitudini, o spariva del tutto oltre il confine.
A sancire l’inizio della lunga estate fu, come sempre accadeva prima che i Malinverno partissero per la vacanza, l’ultima partita. Giocavamo in un prato inclinato da un lato, sul quale si poteva tener ferma la palla solo in alcuni punti, mentre in altri rotolava verso un fossato stretto, irto di rovi e percorso da un basso liquido che scendeva lento, di colore giallo e di odore opprimente. Francesco Malinverno quasi ogni sabato ci invitava per la 14
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nostra partita. Ci incontravamo al cancello davanti al viale, andavamo fino alla porta della villa e poi c’incamminavamo con Francesco lungo il sentiero di fianco alle viti. Francesco era il più grande di noi e, poiché la sua famiglia era la più ricca di tutta la T, godeva del diritto di formare le squadre a suo piacimento e di decidere quando iniziare e quando smettere. Era indispensabile sia perché senza di lui non potevamo arrivare al campo, sia perché portava il pallone di cuoio marrone, duro, con la superficie bitorzoluta. Non invitava tutti, però. Daniele, per esempio, non lo chiamava mai. Per quanto riguardava me, di partite non ne perdevo una. Giocavo in porta. Ero più alto dei miei amici, freddo e sicuro nelle parate, mi divertiva gettarmi in terra per bloccare la palla, oppure per deviarla di pugno. Il ruolo del portiere è determinante: un suo errore ed è goal. Non c’è rimedio agli errori del portiere, e io mi sentivo un eroe! L’ultima partita d’estate la organizzavamo perché fino ad ottobre non ci saremmo rivisti. L’unica differenza tra l’ultima partita e le altre che la precedevano era la consapevolezza che quella sarebbe stata appunto l’ultima, nient’altro. Francesco Malinverno ci stava aspettando anche quel sabato. C’eravamo quasi tutti: Paolo, Andrea, Massimo, Giulio, Federico e suo cugino, Roberto. A differenza delle altre volte, Francesco volle festeggiare l’ultima partita d’estate con una novità: ci invitò in casa sua a prendere il tè prima del calcio d’inizio. Fino a quel pomeriggio non avevo mai messo piede nella villa Malinverno, perché di solito aspettavamo il nostro amico davanti ai gradini d’ingresso nel cortile di ghiaia. Oltrepassata la porta a vetri e legno riquadrata in piombo, ci trovammo in un salone zeppo di mobili e suppellettili, quadri e tappeti, un ambiente semibuio ma attraversato da sfumature e riverberi, fresco in contrasto con l’esterno. Seguimmo Francesco in silenziosa processione, disorientati e tristi. Passammo davanti al camino odoroso di fuoco vecchio e brace e ci districammo tra poltrone e divani affondando 15
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i passi su tappeti spessi. Sopra un mobile basso, disposte con falso disordine, vi era una grande quantità di cornici d’argento che imprigionavano fotografie pallide di persone morte chissà da quanto tempo. Al nostro passaggio le cornici tintinnarono l’una contro l’altra. Andrea, che mi camminava davanti, si voltò e disse che era stato previsto un collegamento televisivo per tutto il periodo del viaggio sulla Luna, e che il rientro degli astronauti sarebbe avvenuto il venti luglio. Ma non riuscì a concludere il discorso perché d’improvviso urtò con il piede la gamba di quel piccolo tavolo e fece risuonare le cornici in un rumore acuto che s’innalzò nella sala, tanto che tutti si girarono verso di noi. Intanto Francesco aprì una robusta porta di legno scuro intarsiato, e ci precedette per un corridoio scuro, dalle pareti tempestate di quadri di paesaggi e ritratti. « Andiamo a prendere il tè in cucina » disse. « La signora l’ha servito lì ». Al termine del lungo corridoio ci trovammo in una cucina luminosa con marmi grigi e legni chiari. Su un lato, al di là di una portafinestra, si scorgeva un giardino che non avevo mai visto. Sul fondo, all’ombra di alberi e siepi verdi, c’era una cappella con tanto di croce sul tetto a coppi rossi, e due finte colonne sulla facciata. Comparve una donna con un grembiule bianco trinato sopra un abito scuro. Dopo averci sorriso, prese dalla madia un vassoio di metallo lucido e vi dispose tazzine e piattini bianchissimi. « Sedetevi » sussurrò. Obbedienti come una scolaresca diligente, ci mettemmo al tavolo. La donna scomparve e riapparve subito con due teiere bianche. Eravamo stati spettatori attoniti e silenziosi fino a quel momento, mentre Francesco ci guardava come studiasse il nostro comportamento. Non ho idea di quanti di noi avessero l’abitudine di prendere il tè; io lo bevevo solo quando ero ammalato. Mia madre, se avevo la febbre ed ero inchiodato a letto, me lo 16
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serviva con limone strizzato e una ruota galleggiante nel mezzo. Forse anche per i miei amici era lo stesso, e a tutti doveva sembrare strano starsene seduti in quella casa smisurata in attesa di bere tè essendo sani, servito da una persona che non era la madre di nessuno. Oltre la portafinestra vidi passeggiare sull’erba del giardino, leggera come un fantasma, la signora Malinverno. Mi parve una scena di sogno, o come se quello che stava accadendo là fuori non mi appartenesse davvero, quasi fosse un fenomeno che presto si sarebbe nuovamente ricomposto e giustificato. Ma la donna attraversò lo schermo di vetro lentamente. Comparve e sparì nella parte di spazio coperta dal resto della casa. Non si curò di noi, e neppure di suo figlio; sembrava che nonostante la vicinanza, noi e lei svolgessimo azioni distanti, in dimensioni addirittura opposte. Poteva darsi che nessuno oltre a me se ne fosse accorto, neppure Francesco. Quel che era certo era che mia madre non avrebbe mai lasciato che qualcuno sfuggisse al suo controllo. Quel fatto distinto ma lontano fu interrotto dal frastuono della tazzina di Paolo in frantumi sul pavimento. Fu seguito da un repentino silenzio e Francesco, senza battere ciglio, decretò il momento di andare al campo per giocare la nostra partita. C’incamminammo in fila indiana, Francesco in testa e dietro tutti noi. Già dopo i primi momenti mi sentii insofferente e avrei preferito essere altrove. Guardavo i miei amici che correvano, gridavano, si rimproveravano per i passaggi sbagliati, e mi pareva di non appartenere più a quel gruppo. Dapprima mi stupii di questa strana inquietudine, poi, lentamente, fu come se la accettassi e la facessi mia al punto da ritenerla giustificabile per qualche motivo, benché non sapessi quale. Dietro di me udii rumori e parole incomprensibili; mi voltai e, sopra il muro, vidi affiorare due teste ravvicinate. Erano un uomo e una donna, forse giovani, a pochi passi da noi. Senza perdere di vista il pallone, mi misi a sbirciare le
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mosse dei due sconosciuti, figurandomeli a baciarsi, pensando a Daniele e Milena. Poi, ancor prima che la partita finisse, mi ritrovai sopraffatto da una stanchezza vasta e sconosciuta. Desiderai andarmene, ma non a casa: non sapevo dove. Fui assalito da un’ignota nostalgia che contrapponevo a quel momento: la palla che rimbalzava sul campo, le corse dei miei amici, i tuffi che dovevo fare per parare. L’effetto di questo scontro mi teneva sospeso e animato da un desiderio freddo. Non sapevo cosa desiderare. Al pomeriggio con Daniele e alla partita di calcio, non avevo attribuito grande valore. Vagamente ne percepivo soltanto una memoria neutra che incasellava i due giorni tra la categoria delle giornate storte; anche se la consapevolezza di un’estate da trascorrere a casa dava ad entrambi i fatti un significato inconsueto. Tuttavia anche dopo, ripensandoci, non credetti di vedere presagi o segni evidenti del destino; e non mi preoccupò così tanto il senso di inadeguatezza. Anzi a questo proprio non ci pensai... la Luna, i primi passi dell’uomo, l’estate a casa da solo, quando invece tutti i miei amici se ne sarebbero andati erano fatti che potevano giustificare malesseri e insoddisfazioni di ogni genere.
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