il richiamo della foresta
FICTION
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l’ au to r e
Jack London, nome completo John Griffith chaney, (San Francisco, 12 gennaio 1876 – Glen Ellen, 22 novembre 1916), è una delle figure più eclettiche e fascinose della letteratura americana, uno degli scrittori più letti al mondo, uno dei più prolifici, (oltre cinquanta libri nel corso degli ultimi sedici anni della sua vita), nonché uno degli autori meglio retribuiti che si ricordino. (Guadagnò oltre un milione di dollari che tuttavia dissipò in fallimentari iniziative imprenditoriali, e in uno stile di vita lussuoso). Romanziere, corrispondente di guerra, attivista politico, cacciatore di foche, avventuriero, cercatore d’oro in klondike, marinaio, operaio salariato in una fabbrica di conserve, pescatore clandestino di ostriche, spalatore di carbone, strillone di giornali, cacciatore di foche, lavandaio, coltivatore, venditore porta a porta, trovò fama e fortuna all’età di ventisette anni con il suo romanzo d’avventura Il richiamo della foresta (1903), ancora oggi una delle storie più lette e amate di tutti i tempi (insieme a Zanna Bianca, 1906). oltre a racconti, contributi di sociologia ed economia, articoli di vario genere, scrisse opere marcatamente autobiografiche come Martin Eden (1909, in cui tra l’altro è contenuta l’idea del suicidio che sette anni dopo egli attuerà nel suo ranch) e John Barleycorn (1913), in cui racconta la sua battaglia di una vita contro l’alcol. Ma anche romanzi politici come Il tallone di ferro (1907), Il popolo degli abissi, inchiesta condotta sulla povertà nell’East End di Londra, Rivoluzione (1910), Lotta di classe (1905). colpito da uremia, provocata dall’alcol, si tolse la vita dopo aver ingerito una forte quantità di medicine, all’età di 42 anni.
il richiamo della foresta Jack
london Traduzione dall’inglese di Alessandro Pugliese
GINGKO
EDIZIONI
Titolo originale dell’opera
ThE caLL oF ThE WiLd iL RichiaMo dELLa FoRESTa © 2015 Gingko edizioni iSBn 978-88-95288-57-4 Traduzione e cura di Alessandro Pugliese
GinGko Edizioni Molinella (Bo) www.gingkoedizioni.it
Progetto grafico di copertina: © 2015 aTaLanTE
i n di c e AUTORE 11 23 33 49 59 75 91
1. ai PRiMoRdi 2. La LEGGE dEL BaSTonE E dELLa zanna 3. La doMinanTE BESTia PRiMoRdiaLE 4. coLui chE ha conquiSTaTo iL doMinio 5. La FaTica dEL TiRo E dELLa PiSTa 6. PER L’aMoRE di un uoMo 7. iL Suono dELLa chiaMaTa
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Uno e
A i p ri m ordi
N
Spiccano gli antichi istinti nomadi sfregando alla catena della tradizione; di nuovo dal suo sonno brumale si risveglia l’istinto ferino.
on leggendo i giornali, Buck non poteva sapere quali guai si stessero preparando non solo per lui, ma per ogni cane allevato a resistere alle condizioni di quei ghiacciai, di muscolatura robusta e di caldo pelo lungo, dallo Stretto di Puget a San Diego. Questo perché gli uomini, brancolando nell’oscurità artica, avevano scovato un metallo giallo, e le compagnie del piroscafo e di trasporto avevano diffuso la notizia e migliaia di uomini stavano correndo nelle Terre del Nord. Questi uomini volevano cani, e i cani che volevano erano cani possenti, con muscoli forti e avvezzi alla fatica, e mantelli di pelliccia per proteggersi dal gelo. Buck viveva in una grande casa nella valle di Santa Clara, baciata dal sole. Era chiamata ‘‘Casa del giudice Miller’’. Si trovava lontano dalla strada, per metà nascosta tra gli alberi, attraverso i quali si potevano intravedere scorci dell’ampia e fresca veranda che correva intorno ai suoi quattro lati. Alla casa si
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giungeva da vialetti di ghiaia che si snodavano lungo vasti prati e sotto i rami intrecciati di alti pioppi. Sul retro, le cose erano in scala ancora più grande rispetto che sul davanti. C’erano larghe stalle, di cui si occupavano una dozzina di stallieri e ragazzi, file di rimesse per la servitù, ricoperte di viti, una serie infinita e ordinata di rustici, lunghe pergole di vite, pascoli verdi, frutteti e cespugli di bacche. Poi, l’impianto di pompaggio per il pozzo artesiano, e il grande serbatoio di cemento dove i ragazzi del giudice Miller facevano il loro tuffo mattutino e si tenevano al fresco nel caldo pomeriggio. E su questo grande demanio Buck governava. Qui era nato, e qui aveva vissuto i quattro anni della sua vita. Certo, c’erano altri cani, non potevano non esserci altri cani su una così estesa tenuta, ma essi non contavano. Essi andavano e venivano, alloggiavano nei popolosi canili o vivevano oscuramente nei recessi della casa, alla maniera di Toots, il cagnetto giapponese, oppure di Ysabel, la glabra messicana — strane creature che raramente mettevano il naso fuori dalla casa o le zampe a terra. O, all’estremo, c’erano fox-terrier, perlomeno una ventina, che strillavano spaventose minacce alla volta di Toots e di Ysabel guardandoli dalle finestre, mentre una legione di domestiche armate di scope e canovacci li proteggevano. Ma Buck non era né un cane casalingo, né un cane da canile. L’intero regno era suo. Si tuffava nella vasca o andava a caccia con i figli del giudice; scortava Mollie e Alice, figlie del giudice, nelle lunghe passeggiate mattutine o al crepuscolo; nelle notti d’inverno giaceva ai piedi del giudice davanti al camino scoppiettante della biblioteca; portava i nipoti del giudice sulla schiena, o li faceva rotolare nell’erba e sorvegliava i loro passi durante le scatenate avventure fino alla fontana nel cortile delle scuderie, e anche oltre, dove c’erano i recinti e i cespugli di bacche. Tra i terriers, lui avanzava imperiosamente, e ignorava del tutto Toots e Ysabel, perché lui era il re — re su tutte le cose che strisciavano, camminavano e volavano nella proprietà del giudice Miller, inclusi gli uomini. 12
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Suo padre, Elmo, un enorme San Bernardo, era stato compagno inseparabile del giudice, e Buck prometteva bene di seguire le orme di suo padre. Non era così grosso — pesava solo sessantré chili — perché sua madre, Shep, era stata una pastore scozzese. Tuttavia, sessantré chili, cui si aggiungeva la dignità che deriva dal buon vivere e dal rispetto universale, gli permettevano di sfoggiare un portamento davvero regale. Nel corso dei suoi primi quattro anni aveva vissuto la vita di un sazio aristocratico; nutriva un bell’orgoglio in se stesso, ed era anche un tantino egoista, come i gentiluomini di campagna talvolta lo diventano, a causa della loro vita ritirata. Ma si era salvato dal divenire un mero cane domestico ipercoccolato. La caccia e quegli altri piaceri affini che si svolgono all’aperto avevano trattenuto il grasso e indurito i suoi muscoli; e per lui, come per le altre razze nate per i climi freddi, l’amore per l’acqua era stato un tonico salutare e un corroborante che l’aveva mantenuto vigoroso. E questo era il tipo di cane che Buck era nell’autunno del 1897, quando la scoperta del Klondike trascinò uomini da ogni parte del mondo nel gelido Nord. Ma Buck non leggeva i giornali, e non sapeva che Manuel, uno degli aiutanti del giardiniere, era una conoscenza da cui tenersi alla larga. Manuel aveva un vizio inveterato. Amava giocare alla lotteria cinese. In più, nel giocare, aveva una debolezza persistente — la fede in un sistema; e questo rendeva certa la sua dannazione. Perché per giocare, un sistema richiede denaro, mentre un salario da aiutante giardiniere non gli permetteva di andare al di là delle esigenze di una moglie e di una prole numerosa. La sera memorabile del tradimento di Manuel il giudice si trovava a una riunione dell’Associazione dei Viticoltori e i ragazzi erano impegnati nell’organizzazione di un club di atletica. Nessuno vide lui e Buck attraverso il frutteto in quella che Buck immaginava essere solo una passeggiata. E, ad eccezione di un uomo solitario, nessuno li vide arrivare alla piccola stazione conosciuta come College Park. 13
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Quest’uomo parlò con Manuel, e del denaro tintinnò tra di loro. « Potreste avvolgere la merce prima di consegnarmela » disse in modo burbero lo sconosciuto, e Manuel raddoppiò un pezzo di corda robusta intorno al collo di Buck, sotto il collare. « Torcetela, e lo soffocherete in caso di problemi » disse Manuel, e lo straniero grugnì prontamente in modo affermativo. Buck aveva accettato la corda con tranquilla dignità. A dire il vero, era una scena insolita, ma aveva imparato a confidare nell’uomo, che conosceva, e a dargli credito per una saggezza che superava la sua. Ma quando le estremità della corda furono poste nelle mani dello sconosciuto, ringhiò minacciosamente. Aveva solo lasciato intendere il suo disappunto, credendo, nel suo orgoglio, che questo comunicasse un comando. Tuttavia, con sua grande sorpresa, la corda si strinse intorno al suo collo, soffocandogli il respiro. In collera, si avventò veloce sull’uomo, che lo fermò a metà strada, lo strinse a sé per la gola e con un tocco abile lo caricò sulla schiena. Poi, la corda si strinse senza pietà, mentre Buck lottava come una furia, la lingua penzoloni dalla bocca e l’ampio petto che ansimava inutilmente. Mai, in tutta la sua vita, era stato trattato così vilmente, e mai in tutta la sua vita era stato così arrabbiato. Le forze, però, lo abbandonarono, la vista si fece vitrea e lui non capiva più nulla quando il treno venne fermato e i due uomini lo gettarono nella carrozza bagagli. In seguito, la prima cosa di cui ebbe una vaga consapevolezza fu che la lingua gli faceva male e che veniva scosso di qua e di là in una sorta di mezzo di trasporto. Il grido rauco di una locomotiva che fischiava a un incrocio gli comunicò dove si trovava. Aveva viaggiato troppo spesso insieme al giudice per non conoscere la sensazione di viaggiare in una carrozza bagagli. Aprì gli occhi, e giunse in essi la rabbia sfrenata di un re rapito. L’uomo gli balzò alla gola, ma Buck era troppo veloce per lui. Le sue fauci si serrarono sulla sua mano, e non cedettero finché i sensi, di nuovo, lo abbandonarono. 14
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« Già, ha degli attacchi » disse l’uomo, nascondendo la mano maciullata alla vista del fattorino del bagagliaio, che era stato attirato dai rumori della lotta. « Lo sto portando a Frisco, per conto del capo. Un medico per cani scoppiati, lì, pensa di poterlo curare ». Riguardo al viaggio di quella notte, l’uomo parlò piuttosto diffusamente in una piccola rimessa sul retro di una taverna del lungomare di San Francisco. « In tutto ci ho fatto cinquanta, con questo » borbottò; « e non lo farei più nemmeno per un migliaio, belli e sonanti ». La sua mano era avvolta in un fazzoletto insanguinato, e la gamba destra dei pantaloni era strappata dal ginocchio alla caviglia. « Quanto ci ha fatto quell’altro gonzo? » chiese il gestore della taverna. « Cento » fu la risposta. « Non avrebbe preso un soldo di meno, giuro su Dio ». « Fanno centocinquanta » calcolò l’oste; « e li vale, o sono una testa quadra ». Il ladro sciolse le bende insanguinate e guardò la mano ferita. « Vai a vedere che mi becco la rabbia... ». « Sarà perché sei nato per pendere dalla forca » rise il taverniere. « Su, dammi una mano prima che tiri le cuoia » aggiunse. Stordito, soffrendo un dolore intollerabile alla gola e alla lingua, mezzo morto, Buck cercò di fronteggiare i suoi aguzzini. Ma venne gettato giù e soffocato ripetutamente, fino a quando i due riuscirono a limare il pesante collare di ottone e a strapparglielo dal collo. Dopo, la corda fu rimossa, e lui venne scaraventato in una cassa a forma di gabbia. Lì giacque per il resto di quella notte estenuante, nutrendo la sua ira e l’orgoglio ferito. Non riusciva a capire cosa significasse tutto quello. Cosa volevano da lui, questi strani uomini? Perché lo stavano tenendo prigioniero in quella stretta cassa? Non sapeva perché, ma si sentiva oppresso dal vago senso di una sventura imminente. Più volte, durante la notte, scattò in 15
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piedi quando la porta della rimessa si spalancò, in attesa di veder comparire il giudice, o i ragazzi almeno. Ma ogni volta era la faccia gonfia dell’oste che sbirciava all’interno, verso di lui, attraverso la luce pallida di una candela di sego. E ogni volta il latrato gioioso che tremava nella gola di Buck era contorto in un ringhio selvaggio. Ma il taverniere lo lasciò solo, e al mattino quattro uomini entrarono e presero la cassa. Altri tormentatori, decise Buck, in quanto erano creature dall’aspetto malvagio, lacere e trasandate; e lui si precipitò e s’infuriò contro di loro attraverso le sbarre. Essi, semplicemente, si misero a ridere e lo pungolarono con dei bastoni, che Buck prontamente assalì con i denti, fino a quando non si rese conto che era proprio ciò che volevano. Alché si sdraiò imbronciato e permise che la cassa venisse sollevata in un vagone. A quel punto, lui, e la cassa dentro cui era imprigionato, iniziarono un viaggio di mano in mano. Gli impiegati dell’ufficio spedizioni si occuparono di lui; venne trasferito su un altro vagone; poi fu la volta di un camion che, insieme a un assortimento di scatole e pacchi, lo portò su un traghetto; venne trasportato fuori dal traghetto dentro un grande deposito ferroviario, e, infine, depositato in una vettura espresso. Per due giorni e due notti la carrozza espresso fu trascinata in coda a fischianti locomotive; e per due giorni e due notti Buck non vide cibo né acqua. Avvinto dalla rabbia, aveva accolto con ringhi i primi tentativi di contatto da parte dei corrieri espresso, e questi si erano vendicati stuzzicandolo. Quando si gettò contro le sbarre, fremente e schiumante, essi lo derisero e insultarono. Ringhiavano ed abbaiavano come odiosi cani, miagolavano e agitavano le braccia e cantavano con voce stridula. Era tutto molto stupido, lui lo sapeva; eppure, proprio per questo, più oltraggioso per la sua dignità, e la sua rabbia cresceva e cresceva. Non gli importava granché della fame, ma la mancanza d’acqua gli causava gravi sofferenze e fece montare la sua ira al parossismo. Del resto, eccitabile e profondamente sensibile, il maltrattamento gli aveva provocato la febbre, ali-
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mentata dall’infiammazione della gola e della lingua riarsa e gonfia. Era contento per una cosa: la corda non era più stretta attorno al suo collo. Il che aveva dato loro un vantaggio sleale; ma ora che gli era stata tolta, gliela avrebbe fatta vedere lui. Mai più avrebbe consentito a qualcuno di legargliene un’altra. Era certo. Per due giorni e due notti non mangiò, né bevve, e in questi due giorni e due notti di tormento accumulò un fondo d’ira che prometteva male per chiunque gli fosse capitato a tiro per primo. I suoi occhi s’erano iniettati di sangue, e si era trasformato in un demonio furioso. Era così mutato che il giudice stesso non lo avrebbe riconosciuto; e i corrieri trassero un respiro di sollievo quando, a Seattle, lo spinsero a forza fuori dal treno. Quattro uomini, con cautela, trasportarono la cassa dal vagone in un piccolo cortile dalle alte mura. Un tipo robusto, con un maglione rosso che si afflosciava generosamente attorno al collo, venne fuori e firmò il documento per il conducente. Era, indovinò Buck, il prossimo carnefice, e si gettò selvaggiamente contro le sbarre. L’uomo sorrise cupamente, e portò un’ascia e un bastone. « Non vorrete portarlo fuori adesso? » chiese il conducente. « Sicuro » rispose l’uomo, manovrando con l’ascia sulla cassa, a mo’ di leva. Ci fu un immediato allontamento da parte dei quattro che l’avevano portata fin lì, e dalla postazione sicura in cima al muro essi si prepararono ad assistere allo spettacolo. Buck si avventò sulle schegge di legno affondandovi i denti, travolgendole e dilaniandole. Ovunque l’ascia si abbatteva dall’esterno, lui vi si precipitava all’interno, ringhiando e latrando, tanto furiosamente ansioso quanto l’uomo in maglione rosso si mostrava tranquillamente intento a tirarlo fuori. « Adesso, diavolo dagli occhi rossi » disse, quando ebbe praticato un’apertura abbastanza grande perché il corpo di Buck vi passasse. Al contempo, lasciò cadere l’ascia e spostò il bastone nella mano destra. E Buck era veramente un diavolo dagli occhi rossi, mentre
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comprimeva tutto se stesso per scattare, il pelo irto, la bocca schiumante, e un pazzo scintillio negli occhi iniettati di sangue. Scagliò dritti sull’uomo i suoi sessantré chili di furia, rafforzati dalla passione repressa di due giorni e due notti. A mezz’aria, proprio quando le sue mascelle stavano per chiudersi sull’uomo, ricevette una scossa che arrestò il suo corpo e gli fece battere i denti con una fitta di dolore tremenda. Roteò su se stesso, precipitando sul terreno di schiena e di fianco. Non era mai stato colpito da un bastone in vita sua, e non se ne capacitava. Con un ringhio che era in parte un latrato e più un urlo, si rimise sulle zampe e si lanciò in aria. E di nuovo arrivò la scossa del colpo e fu di nuovo schiacciato a terra. Ma in questa occasione capì cosa fosse il bastone, benché la sua folle furia non conoscesse cautela. Per una dozzina di volte caricò, e in tutti i tentativi il bastone interruppe l’attacco e lo fracassò giù. Dopo un colpo particolarmente feroce, si trascinò verso i piedi dell’uomo, troppo stordito per correre. Barcollò mollemente, il sangue che scorreva dal naso, dalla bocca e dalle orecchie, il suo bel mantello spruzzato e punteggiato di sanguinosa bava. A quel punto, l’uomo avanzò, e deliberatamente gli inferse un terribile colpo sul naso. Tutto il dolore che aveva sopportato era niente in confronto con la pura agonia di questo. Con un ruggito che era quasi simile a quello del leone per la sua ferocia, di nuovo si lanciò verso l’uomo. Ma l’uomo, spostando il bastone dalla destra alla sinistra, freddamente lo afferrò dalla mascella inferiore, strattonando verso il basso e all’indietro. Buck descrisse un cerchio completo in aria, e metà di un altro, quindi si schiantò al suolo sulla testa e sul torace. Per l’ultima volta si precipitò. L’uomo gli sferrò il colpo di grazia, che aveva intenzionalmente serbato per tanto tempo, e Buck s’accartocciò e s’infranse sul terreno, accasciandosi del tutto privo di sensi. « Dico, non se la cava affatto male come spaccaossa di cani » gridò con entusiasmo uno degli uomini sul muro. « Druther rompe cayuses ogni giorno, e due volte alla do18
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menica » fu la risposta del conducente, mentre saliva sul carro e avviava i cavalli. Buck riprese i sensi, ma non le forze. Giaceva laddove era caduto, e da lì guardò l’uomo col maglione rosso. « ‘‘Risponde al nome di Buck’’ » disse tra sé l’uomo, leggendo la lettera del taverniere, che gli annunciava la consegna della cassa e del contenuto. « Be’, Buck, ragazzo mio » continuò con voce bonaria, « abbiamo avuto la nostra piccola zuffa, e la cosa migliore che possiamo fare è mettercela alle spalle adesso. Hai imparato qual è il tuo posto, e io so qual è il mio. Puoi essere un buon cane, e tutto andrà per il meglio e non ci saranno problemi. Sii un cane cattivo, e te ne darò di santa ragione. Capito? ». Mentre parlava, gli carezzava senza timore il capo che aveva così spietatamente pestato, e anche se i peli di Buck si drizzavano involontariamente sotto il tocco della mano, egli sopportò senza protestare. Quando l’uomo gli portò l’acqua, bevve avidamente, poi ingurgitò un pasto abbondante di carne cruda, pezzo per pezzo, dalla mano dell’uomo. Era stato battuto (lo sapeva), ma non spezzato. Comprese, una volta per tutte, che non aveva alcuna possibilità contro un uomo con un bastone. Aveva imparato la lezione, e in tutta la sua vita non la dimenticò mai. Quel bastone fu una rivelazione. Rappresentò la sua introduzione al regno della legge primitiva, e incontrò questa introduzione a metà della sua vita. I fatti della vita assunsero ora un aspetto più feroce; e mentre si confrontava con questo aspetto senza alcun timore, lo affrontava con tutta l’astuzia latente nella sua natura risvegliata. Intanto che i giorni passavano, giunsero altri cani, in casse e tenuti alle corde, alcuni docilmente, alcuni furenti e ringhianti come era venuto lui; e tutti, uno a uno, lui li guardò passare sotto il dominio dell’uomo con il maglione rosso. Ancora e ancora, mentre guardava ciascuna di quelle scene brutali, la lezione gli s’infisse in mente: un uomo con un bastone faceva la legge, era un padrone a cui obbedire, benché non necessariamente da rispettare. Su quest’ultimo aspetto, Buck non mancò mai di es19
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sere intransigente, benché vedesse i cani bastonati adulare l’uomo, dimenare la coda e leccargli la mano. Vide anche un cane che, non volendo né conciliarsi né obbedire, infine venne ucciso nella lotta per la supremazia. Di tanto in tanto giungevano degli uomini, degli stranieri, che parlavano animatamente, con tante moine gentili e in tutti i modi possibili all’uomo con il maglione rosso. E nelle occasioni in cui il denaro passava fra di loro, gli stranieri prendevano uno o più cani e li portavano con sé. Buck si chiedeva dove se ne andassero, perché non ritornavano mai; la paura del futuro era forte in lui, ed era felice ogni volta che non veniva scelto. Ciò nonostante, arrivò anche il suo turno, alla fine, sotto forma di un ometto raggrinzito che sputacchiava un inglese stentato e molte strane e rozze esclamazioni che Buck non riusciva a capire. « Sacredame! » gridò, quando i suoi occhi si accesero su Buck. « Questo un cane duro come diga! Eh? Quanto? ». « Trecento, ed è regalato » fu la pronta risposta dell’uomo con il maglione rosso. « E ha tutta l’aria di denaro del governo, quindi non venirmela a raccontare, eh, Perrault? ». Perrault sorrise. Considerando che il prezzo dei cani era salito alle stelle a causa dell’eccezionale domanda, non si trattava di una somma ingiusta per un così bell’animale. Il governo canadese non ci avrebbe perso, né i suoi dispacci avrebbero viaggiato più lenti. Perrault conosceva i cani, e guardando Buck si rendeva conto che ce n’era uno su mille come lui. ‘‘Uno in dieci mille’’ commentò mentalmente. Buck vide il denaro passare fra loro e non fu sorpreso quando lui e Curly, un bonario Terranova, vennero portati via dal piccolo uomo raggrinzito. Quella fu l’ultima volta che vide l’uomo con il maglione rosso, e, mentre lui e Curly guardavano allontanarsi Seattle dal ponte del Narwhal, fu anche l’ultima volta che vide le calde terre del Sud. Lui e Curly vennero portati di sotto da Perrault e consegnati a un gigante dalla faccia nera chiamato Francois. Perrault era un franco-canadese, e dalla carna20
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gione scura; ma Francois era un meticcio franco-canadese, e due volte più scuro. Per Buck, rappresentavano un nuovo tipo di uomini (era destinato a vederne molti di più), e se non sviluppò alcun affetto per loro, tuttavia imparò a rispettarli con onestà. Imparò in breve tempo che Perrault e Francois erano uomini leali, calmi e imparziali nell’amministrare la giustizia, e troppo esperti di cose di cani per essere ingannati dai cani. Nell’interponte del Narwhal, Buck e Curly si unirono ad altri due cani. Uno di loro era un grande compagno, bianco come la neve, proveniente dall’isola di Spitzbergen, il quale era stato portato via da un capitano di baleniera e che, in seguito, aveva accompagnato una spedizione geologica nelle Barrens. Era amichevole, in una sorta di modo infido, sorridente in volto mentre meditava qualche trucco subdolo, come, ad esempio, quando rubò del cibo nel primo pasto di Buck. Quando Buck fu sul punto di balzargli addosso per punirlo, la sferza della frusta di Francois fischiò nell’aria, raggiungendo per primo il colpevole; e a Buck non rimase altro da fare che recuperare il suo osso. Era stato un gesto giusto da parte di Francois, decise, e il meticcio cominciò a salire nella stima di Buck. L’altro cane non fece nessun passo verso di lui, né ne ricevette; non cercò neppure di derubare i nuovi arrivati. Era un compagno cupo, tetro, e mostrò a Curly chiaramente che tutto quello che desiderava era di essere lasciato solo, e inoltre che ci sarebbero stati guai se non fosse stato lasciato solo. Era chiamato ‘‘Dave’’, e mangiava e dormiva, o sbadigliava nel frattempo, e non s’interessava a nulla, nemmeno quando il Narwhal attraversò lo stretto della Regina Carlotta e si mise a rollare e a beccheggiare dimenandosi come una cosa posseduta. Quando Buck e Curly, si eccitarono al massimo, quasi pazzi di paura, lui sollevò la testa come infastidito, privilegiandoli d’uno sguardo privo di curiosità, sbadigliando e ritornando a dormire. Giorno e notte la nave palpitò all’impulso instancabile dell’elica, e anche se un giorno era molto simile a un altro, divenne evidente a Buck che il tempo diventava costantemente sempre 21
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più freddo. Alla fine, una mattina, l’elica si placò, e il Narwhal fu pervaso da un’atmosfera di eccitazione. Lui l’avvertì, come gli altri cani, e capì che stava per avvenire un cambiamento. Francois li legò al guinzaglio e li portò sul ponte. Al primo passo sulla superficie fredda, i piedi di Buck affondarono in qualcosa di bianco e molle, molto simile al fango. Balzò indietro con uno sbuffo. Molta di quella roba bianca stava cadendo attraverso l’aria. Si scosse, ma ancor più gliene cadeva addosso. L’annusò con curiosità, poi ne leccò un po’. Era come fuoco, e l’attimo seguente era scomparsa. Ciò lo rendeva perplesso. Fece un nuovo tentativo, con lo stesso risultato. Gli spettatori ridevano a crepapelle, e lui si vergognò, non sapendone il motivo, perché era la sua prima neve.
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