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italia | melting Pot
Romanzo
Nima Sharmahd, 35 anni, ha origini iraniane. Vive e lavora a Firenze occupandosi di educazione familiare e servizi all’infanzia. ama viaggiare e tornare a casa.
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UN’italiaNa NON
italiaNa prefazione di anna Vanzan
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Le peripezie di una ‘ straniera ’ in itaLia
GINGKO | |
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© 2011 nima ShaRmahd © 2011 gingko edizioni molinella, Bologna. i edizione aprile 2011 Collana Baiguo iSBn 978-88-95288-25-3 Progetto grafico di copertina: © 2011 atalante Foto copertina: due passi in libertà verso una porta chiusa © 2011 FiliPPo aRganini Foto retro copertina © 2011 nima ShaRmahd
titolo dell’opera: un’italiana non italiana Sottotitolo: Le peripezie di una ‘straniera’ in italia
gingko edizioni via luigi Pirandello n° 29 40062 San Pietro Capofiume, molinella, Bologna tel. 051.6908300 Fax: 051.64598447 www.gingkoedizioni.it www.fuggicalipso.net tutti i diritti dell’opera sono riservati. nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, o usata in alcuna forma, senza previo consenso degli aventi diritto. ne è vietata la divulgazione a qualsiasi mezzo, senza previo consenso scritto accordato dall’editore e dall’autrice.
PrefazioNe di anna Vanzan
Quando nima Sharmahd mi ha inviato il suo manoscritto chiedendomi di scriverle la prefazione, sono stata presa dal dubbio: si sarebbe trattato dell’ennesima storia di “donnamusulmanamaltrattata” di cui, francamente, ero satura? in tal caso, ero pronta a declinare l'invito, come già fatto in passato. invece, mi sono ricreduta già alle prime righe, che raccontano le peripezie di questa “iraniana nata a Londra che vive in italia e parla fiorentino”, come la stessa nima si definisce. Con sollievo e crescente piacere mi sono immersa nella sua vicenda, quasi kafkiana, ma narrata con ironia e grande garbo. Possiamo ‘etichettare’ nima come Seconda generazione o nuova italiana, anche se nima è semplicemente una giovane donna che dovrebbe essere considerata italiana a tutti gli effetti, visto che ha iniziato a vivere nel Bel Paese all'età di tre mesi, e da allora vi ha sempre abitato, studiato, lavorato, contribuendo all'erario nostrano. eppure, la burocrazia e, soprattutto, l'insipienza e la mancanza di lungimiranza della politica immigratoria, hanno reso la vita di nima un po’ più complessa, facendole sospirare il permesso di soggiorno, e il suo pieno diritto a sentirsi italiana. in realtà, a più di un lettore “italiano doc” che si avvicini a questa breve opera autobiografica, verrà in mente di aver dovuto superare analoghe traversie per ottenere un documento al catasto, un
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certificato comunale, un cambio di utenza telefonica... solo che, per gli “stranieri” come nima, le cose possono essere più complicate e dolorose. nima non si è mai arresa di fronte a regole assurde, contraddittorie e becere, spesso ammannite da funzionari che sembrano gioire nel poter rifiutare le richieste del pubblico, di cui dovrebbero piuttosto essere al servizio. diventa così “un’esperta di ufficiologia” fino ad ottenere il tanto sospirato sogno: il diritto di esistere nei terminali della burocrazia italiana. nima era già italiana a tutti gli effetti ancor prima dell’agognato pezzo di carta, ma forse un pizzico di quella energia e del suo sapersi adattare a circostanze ostili senza abbattersi le viene dal paese d’origine dei genitori, l’iran, dove da millenni uomini e donne sono abituati a combattere contro situazioni imprevedibili e avverse, ma senza mai perdere la propria identità culturale, il proprio orgoglio, i propri sogni. dalla tradizione del paese dell’altipiano forse nima ha preso pure la capacità di affabulazione, ed è per questo che nelle sue pagine intreccia sapientemente burocratese e poesia, struggenti ricordi e giovani speranze. la narrazione si dipana aprendo continue finestre su mondi diversi: l’inghilterra dove nima è nata, l’america dove si è trasferito suo padre, l’iran dove compie una sorta di pellegrinaggio alla ricerca delle radici, e, ovviamente, l’italia, che lei ama. la sensibile nima riesce a vedere sentimento ovunque, anche nella propria bicicletta incastrata con un’altra in un parcheggio, che sembra non volersi disincagliare come fosse catturata dall’altra bici in un abbraccio. e dimostra come sia possibile rifiutare l’ossessione identitaria sbandierata con tracotanza da faziosi sia d’oriente quanto d’occidente, riuscendo a convivere con spontanea naturalezza con di-
verse identità: nima è italiana, iraniana, donna, studentessa, figlia, fidanzata, contemporaneamente e senza sentirsi obbligata a scegliere. nell’epilogo del suo racconto, mentre passeggia in una piazza fiorentina, si trova circondata da odori, suoni, colori che conosce e che la fanno sentire a casa, in italia. al contempo, suggella il suo testo citando una poesia in cui l’autrice celebra l’avvenuto rilascio della propria carta di identità: si tratta di un’altra donna iraniana, ma non una qualunque, bensì di Forough Farrokhzad, la poetessa oramai divenuta un potente simbolo della cultura persiana e un significativo riferimento per milioni di iraniani in patria e all’estero. Così nima concilia due mondi, due identità, due anime, invitandoci a fare altrettanto.
anna Vanzan, iranologa e islamologa, si è laureata in lingue
orientali a Venezia e ha conseguito il Phd alla new York university. Si occupa prevalentemente di questioni di genere e di storia e di produzione culturale delle donne nel mondo islamico. il suo saggio più recente, Le donne di allah. Viaggio nei femminismi islamici (B. mondadori, 2010), è una inchiestaricerca fra le musulmane che credono nella compatibilità tra messaggio coranico e diritti delle donne.
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UN’italiaNa NON
i taliaNa
a tutte le mie mamme e a tutti i miei babbi
iNdice
PReFazione 15
PoSSo eSiSteRe, PeR FaVoRe?
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PeR eSiSteRe oCCoRRono un RiCoRdo e uno SguaRdo
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PeR eSiSteRe oCCoRRe una Sana doSe di logiCa FantaSia
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PoSSo PaRteCiPaRe, PeR FaVoRe?
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PoSSo eSSeRe, PeR FaVoRe?
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PoSt SCRiPtum del 2011
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PoSSo eSiStere, Per faVore?
tetti rossi e le antiche chiese di Firenze mi ospitano dal lontano settembre 1976. Avevo tre mesi e, da allora, le strade di questa città sono sempre state la mia casa. I miei genitori, entrambi iraniani, vi si trasferirono una decina di anni prima, per frequentare la facoltà di Architettura. Così, anno dopo anno, permesso di soggiorno dopo permesso di soggiorno, giunse il momento in cui mia madre rimase incinta e si trovò a dover prendere determinate ‘‘decisioni burocratiche’’ riguardo la mia nascita. A quell’epoca, come adesso, in Italia non esisteva il cosiddetto ‘‘diritto di suolo’’, cioè quella legge secondo la quale si ha diritto ad acquisire la nazionalità del paese in cui si nasce, per il solo fatto di esserci nati, indipendentemente dalla nazionalità dei genitori. Italiana, quindi, non potevo essere. Secondo il “diritto di sangue” sarei dovuta essere iraniana, come il sangue che scorreva nelle vene dei miei avi. E invece no. Perché i miei, pur di restare fedeli agli ideali sessantottini dell’epoca, erano disposti a fare di tutto (anche farsi imprigionare al carcere delle Murate per aver tirato pomodori a Nixon), e sposarsi non rientrava certo nel decalogo del “buon rivoluzionario”. Dato però che, secondo la legge iraniana, avere un figlio senza essere sposati costituiva un reato (allora, sotto lo Shah, e adesso sotto l’Islam), alla fine dei conti, se
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fossi nata in Italia, non avrei avuto documenti, sarei stata una specie di sans papiers. Niente foto di riconoscimento, niente ‘‘capelli castano scuro’’, ‘‘occhi marroni”, niente ‘‘C.I. AR6488549’’. Niente di niente. Senza esistenza. Poteva essere un’idea allettante per un futuro serial killer in procinto di scomparire nel nulla dopo il suo ultimo omicidio, ma darmi alla macchia non era nei miei piani. Perlomeno non ancora. Perciò, la mia astutissima mamma decise di farmi nascere nientemeno che in Inghilterra, dove esisteva il diritto di suolo (e anche uno zio che la poteva ospitare per un po’), nella speranza che darmi una nazionalità europea avrebbe potuto risparmiarmi problemi burocratici presenti e futuri. Così fu Londra a vedermi nascere, a darmi la mia bella nazionalità inglese e a salutarmi quando, dopo tre mesi, i miei mi riportarono a Firenze, facendomi diventare un’iraniana nata a Londra che vive in Italia e parla fiorentino. Gli anni della mia infanzia e adolescenza li trascorsi in una casa in centro vicino a Piazza Santa Croce, tra il forno di Marzia e il bar di Aldo, il quale, quando andavo a comprare la pasta con la panna, mi accoglieva sempre con una poesiola inventata all’istante del tipo: ‘‘Ecco la ricciolina che si sveglia ogni mattina, si mangia una pasta, una sola e poi basta ’’. Una volta, mentre leccavo il fondo del piattino, caddi dallo sgabello e mi ritrovai con la panna spiaccicata dappertutto. Mi misi a piangere, non so se per la caduta o per l’immediata consapevolezza di aver sprecato quella bianca delizia. Aldo mi aiutò ad alzarmi cantando: ‘‘Per ogni ricciolo diventato bianco, ti regalo un bigné da dietro questo banco’’. Da Marzia, invece, compravo la schiacciata prima di
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andare a scuola. Non sempre, però. A volte, non senza sacrificio, cercavo di risparmiare quelle duecento lire che nella mia testa bambina potevano contribuire a risollevare le sorti economiche poco rosee della famiglia. La cartoleria di mia madre, con i suoi pochi clienti, si trovava a due passi dal forno. Quando entrava qualcuno, il campanellino appeso alla porta suonava e mia mamma spuntava dal retro dove trascorreva la maggior parte del tempo a leggere, fumare e chiacchierare con gli amici che passavano a prendere un tè. Tutto avveniva attorno al tavolo di legno verde che occupava buona parte dello spazio, ospitando portaceneri, tazzine, qualche cassetta (ancora non esistevano i cd), libri e giornali ammucchiati. A quel tavolo mia madre dava lezioni di farsi ad amici interessati, o traduceva poesie dal persiano, mentre io costruivo casette incidendo con il trincetto porte e finestre nelle confezioni finite dei succhi di frutta. Non era semplice aprire piccoli varchi dritti in quel cartoncino plastificato, e spesso mi costringevo a bere quattro o cinque succhi pur di ottenere la casetta che avevo in mente. Quel ‘‘retro’’ mi ha vista crescere. Era lì che trascorrevo i pomeriggi dopo la scuola, a fare i compiti, a disegnare o a provare a stare in equilibrio sulla mia bicicletta rossa appoggiata al muro. Mi piaceva star seduta in silenzio ad ascoltare le chiacchiere dei grandi, a volte con interesse, altre volte solo cullandomi al suono di quelle voci familiari che facevano da sottofondo ai miei giochi. Quando Sonja passava a trovarci ero particolarmente contenta perché si presentava sempre con qualche pasticcino. Allora mia madre metteva su il chaì o il caffè, e mangiavamo insieme. Rimanevo sbalordita dalla quantità di zollette che Sonja era capace di infilare in quelle tazzine. Un giorno mi raccontò che da piccola mangiava
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tocchi di burro a volontà fino a sentirsi male e che non usciva mai senza qualche zuccherino in tasca. Diceva che era per la pressione bassa, ma io avevo i miei dubbi. Capitava che anche Antonella si unisse a noi. Arrivava accompagnata da un nuovo quadro che aveva dipinto. Occhi grandi e neri, aperti come fanali terrorizzati dal mondo, capelli sciupati e spettinati, gonne lunghe stinte indossate storte. Era seguita dai servizi sociali perché pareva non esserci tutta con la testa. Offriva il suo cuore aperto a chiunque, facendoselo amare e calpestare a piacimento. Ogni volta voleva comprare mezzo negozio, e mia madre doveva cercare di dirottare la conversazione su qualcos’altro per impedirle di svaligiare la cartoleria. Proprio accanto al nostro negozio c’era quello di Elizabeth, venuta dalla Germania per imparare l’arte della ceramica, della creta, della scultura. Vendeva marionette, maschere e burattini fatti a mano. Anche lì c’era un “retro” che fungeva sia da casa che da laboratorio. Qualche mio pomeriggio lo passavo lì, con lei, provando a creare e dipingere maschere di creta. Un letto, un frigo, dei fornelli, un lavandino, un piccolo bagno in fondo. Vasi di ceramica, marionette e sculture dappertutto, avvolte da un forte odore di colori, terra e prodotti vari. Non mi piaceva molto quella stanza, non mi faceva respirare, mi metteva tristezza. Preferivo il “mio retro” e la familiarità dei suoni che conoscevo. Che Susan era incinta lo seppi lì. Aveva le analisi mediche in mano e mia madre le diceva: « Ma non siete stati attenti? ». « È che ci vediamo così poco... E quando ci vediamo… ». Non capivo tutto quello che si dicevano queste due donne adulte, sentivo solo che c’era qualcosa di stonato
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e che non era il caso di fare tante domande. Alcune settimane dopo, incontrando Susan, la salutai con un « Ciao piccolino », rivolto al suo ombelico. « Ancora lo saluti? Non c’è mica più... » mi rispose toccandosi la pancia come per accarezzare un ricordo. E così imparai il significato del termine “abortire”. Qualche anno dopo, in quello stesso ‘‘retro’’ scoprii che Dario aveva avuto un incidente ed era morto. Io avevo sedici anni, lui diciotto. Non eravamo proprio amici, ma ci conoscevamo da quando eravamo piccoli, e le nostre mamme condividevano un’amicizia fatta di mani, di voci, di vino, di stoffe. Non piansi. Trattenuta, come al solito. Quando il giorno dopo, a scuola, la cugina di Dario mi abbracciò singhiozzando sulla mia spalla, io la strinsi, e nel momento in cui il nostro abbraccio si sciolse facendo incontrare i nostri sguardi, non potei non leggere nei suoi occhi bagnati la sorpresa nel vedere che i miei erano invece rimasti asciutti. Credo di essere più brava a far piangere che a piangere. Avevo circa sei anni quel giorno in cui mia madre aveva deciso che avrei dovuto indossare la gonna bianca a fiori. Io non volevo, mi ero incaponita e battevo i piedi facendo risuonare nella stanza tutto il potere dei miei capricci. Mia mamma cercava di farmi ragionare ma io ero irremovibile. A un certo punto, la vidi sparire in bagno e quando tornò aveva gli occhi umidi. Mi si gelò il sangue nel petto. Non credevo che anche i grandi potessero piangere, e soprattutto non pensavo che io avrei potuto far piangere mia mamma. La stessa mamma che era sempre lì pronta a consolarmi, guidarmi e accogliermi quando ne avevo bisogno. Possibile che anche lei fosse una persona? Che potesse stancarsi della fatica della vita? Che potesse stancarsi di me?
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« Non lo faccio più. Non lo faccio più. Scusami! » fu la prima cosa che mi uscì dalla bocca quando vidi le sue lacrime. Ed era come dire: ‘‘Farò come vorrai, basta che tu sia felice’’. Non potevo sopportare di essere causa del suo dolore, soprattutto dopo che mio padre era sparito per emigrare in Canada con la sua nuova moglie. « La gonna la metto. Ecco, vedi? vedi? » e imparavo a caricarmi sulle spalle il fardello della serenità di mia madre, mettendomi da parte pur di non deludere. Del resto, anche questa può essere una capacità, quando smette di essere solo un freno. I miei primi diciotto anni trascorsero così, tra il retro di una cartoleria, la nostra casa spesso invasa da amici venuti da ogni dove, la scuola e l’inconsapevolezza delle beghe che una cittadina straniera che vive in Italia deve affrontare al compimento della maggiore età. Sì, sapevo che mia madre ogni anno era alle prese con uffici, permessi di soggiorno da rinnovare, libretti sanitari scaduti, però la cosa non mi toccava più di tanto, era lontana, e io avevo altro a cui pensare. Ma il mio diciannovesimo compleanno mi destò dal torpore. Con la maggiore età, infatti, il mio permesso di soggiorno non poteva più essere incluso in quello di mia madre e io dovevo averne uno tutto mio e solo mio. Fu così che iniziò la mia odissea, un’avventura comune a tutti gli stranieri in Italia, a meno che non siano raccomandati o non abbiano vinto qualche medaglia olimpica. Era il 1995 e avevo finalmente deciso, dopo varie tribolazioni, di iscrivermi alla Facoltà di Scienze della Formazione, corso di laurea in Scienze dell’Educazione. Settembre era appena iniziato e io, bollettino pagato e moduli di iscrizione alla mano, stavo facendo la prima di
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una lunga serie di file davanti alla segreteria di quella che sarebbe diventata la mia facoltà. Dopo tanto, tanto tempo arrivò finalmente il mio turno. Dietro a un emblematico vetro protettivo sedeva un signore un po’ incupito, all’apparenza poco entusiasta di trovarsi lì. Occhiali tondi e spessi, capelli corti brizzolati e secchi, viso butterato dai ricordi di un’acne giovanile. « Buongiorno » gli dissi, ma non vi fu risposta. La mia ingenuità mi suggerì che poteva essere colpa del vetro. L’impiegato guardò i miei moduli, poi me, poi i moduli. Finalmente, trovò qualcosa che non andava ed esclamò: « Manca il permesso di soggiorno! Lei è cittadina straniera! ». Permesso di soggiorno! Già, non ci avevo pensato. Quelle strade, quei palazzi, quelle piazze che avevano sempre circondato la mia esistenza, adesso mi chiedevano un permesso per poter vivere quella che era sempre stata la mia vita. Avere una nazionalità europea aiutava, quindi, ma non risolveva. Ripercorsi all’indietro la lunga fila che dalla segreteria della facoltà portava alla strada e mi fermai qualche secondo sul portone. ‘‘La Questura è in via San Gallo’’ pensai slegando la bici. ‘‘Non è lontano. Tanto vale farci un salto per chiedere informazioni’’. Mi incamminai. Quella che si vedeva una volta arrivati sotto i portici antistanti la Questura, non era proprio una fila, quanto piuttosto una massa di gente suddivisa in ‘mazzi’ più o meno distinguibili che aspettava un momento che sembrava molto lontano dal venire. Davanti alla porta un po-
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liziotto smistava la mandria e ogni tanto faceva entrare qualcuno (spesso secondo un criterio che a noi non era dato comprendere). Mi avvicinai timidamente al ‘‘pastore’’ e gli dissi: « Buongiorno, vorrei sapere di quali documenti ho bisogno per avere un permesso di soggiorno ». « Di... che... na-zio-na-li-tà... sei? » mi chiese con la lentezza che gli imponeva l’abitudine di aver spesso a che fare con persone che non parlano perfettamente l’italiano. « Sono inglese ». « Al... lo... ra... vai... là » disse, del tutto impassibile di fronte al mio accento fiorentino, indicandomi una delle pseudo-file. Coda. Spazio d’attesa in cui altro non puoi fare se non guardarti intorno, scrutare chi ti sta accanto e inventargli una storia. Iniziai a osservare. Accanto a me c’erano i visi più diversi. Molti erano cupi, stanchi, vissuti, ed era difficile riuscire a immaginare un respiro di leggerezza nelle loro esistenze. I miei occhi vennero rapiti da una donna seduta in terra, che indossava una gonna a fiori lunga, un po’ scucita in fondo, ciabatte larghe e maglietta viola stinta. Dimostrava più dell’età che aveva, anche per via di un buco lasciato da un incisivo caduto. Gli occhi erano di un colore indefinito tra il verde, il marrone e il giallo, e brillavano di una luce spenta che raccontava una storia fatta di strade strozzate. Di fronte a lei una ragazza di circa vent’anni dalla pelle bianca e le guance rosee punteggiate di lentiggini. Due morbide trecce le scendevano fino ai fianchi e un fazzoletto verde le proteggeva la testa dal sole. Aveva uno zaino in spalla dal quale uscivano tubi che dovevano contenere disegni o progetti di architettura. Lei faceva parte di quella che poi capii essere l’ altra fila, ovvero quella fatta di giovani studenti provenienti dalle
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più diverse realtà, pronti ad affrontare la bellezza del viaggio, del nuovo, della vita, resi forti e sicuri dal loro passato che sarebbe sempre stato lì, dietro di loro, a proteggerli e riaccoglierli non appena ne avessero avuto bisogno. Anche io facevo parte di quella fila, ma ancora non lo sapevo e mi ero messa ad aspettare il mio turno in una posizione indefinita in mezzo alla folla, nella porzione indicatami dal ‘‘pastore’’. Giunto il mio momento, eccolo lì. Il solito emblematico vetro protettivo mi separava da un giovane in divisa con i capelli gelatinosi ordinatamente ritti in testa. « Buongiorno. Vorrei sapere cosa devo presentare per avere il permesso di soggiorno ». Il signor gelatina estrasse prontamente un modulo verdognolo dicendo: « Deve compilare questo e portare: fotocopia del passaporto, fotocopia del libretto sanitario, tre foto, denuncia dei redditi sua o della persona che le fornisce il sostentamento e... » si interruppe, « per quale motivo lei chiede il soggiorno? ». « Motivo? » balbettai io sorpresa da quella domanda, « Be’, io… vivo qui da sempre ». « Sì, ma perché si trova in Italia? Per studio? Per lavoro? ». « Ma io ho sempre vissuto qui. Sono qui perché... vivo qui ». « Sì, va bene » disse lui un po’ spazientito. « Ma cosa fa qui? Studia? ». « Sì, mi devo iscrivere all’Università ». « Ooh! Allora è qui per studio ». Il signor gelatina aveva liquidato il problema in quattro e quattr’otto, e io potevo essere soddisfatta di aver trovato una collocazione nella lista delle sue possibili condizioni di vita. « Sul modulo » aggiunse, « scriveremo: “Per studio”,
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e lei comunque ha sbagliato fila. Doveva fare la fila degli studenti ». La parola “fila” cominciava a essermi poco gradita. « Ma è tutta la mattina che sono in coda! Vorrei solo avere delle informazioni ». Il signor gelatina mi guardò per qualche istante, poi, forse mosso a compassione, mi rispose: « Va bene, via. Compili questo modulo e lo riporti qui con tutto ciò che le ho detto, più l’iscrizione all’Università ». « Ma come l’iscrizione all’Università? Io vengo ora dalla segreteria della facoltà e mi hanno detto che per iscrivermi ho bisogno del soggiorno ». « No! » ribatté secco, « noi abbiamo bisogno di quell’iscrizione per attestare che lei è qui per studio. Ritorni in segreteria e si faccia dare un’iscrizione ». Insomma, dovevo assolutamente dimostrare di essere venuta in Italia per motivi di studio. Il signor gelatina pareva esserne tanto convinto. « Be’ » mi dissi una volta fuori dalla Questura, « per oggi può bastare. Ci ripenserò domani ». Mi trascinai per strada fino alla mia bicicletta che nel frattempo era stata sommersa da cento motorini, ruote e cavalletti di ogni sorta. Per pietà mamma natura mi ha fatta magra, così riuscii a raggiungere la catena facendo invidiabili acrobazie e infilzandomi milza e fegato con freni e campanellini. Una volta aperto il lucchetto, cercai di tirare a me la bici, non senza fatica, perché uno dei miei freni si era incastrato con il filo di un’Atala verde che le stava accanto. Un filo morbidamente attorcigliato attorno a un freno. Per un attimo provai quasi dispiacere nel dover sciogliere quell’abbraccio. Feci un passo indietro mollando la presa. Le due bici, forse incoraggiate dal mio gesto, curvarono le ruote anteriori l’una verso
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Il giorno dopo tornai alla segreteria della facoltà. Ennesima fila. Avanzata lenta. Il solito impiegato un po’ incupito mi aspettava dietro al fatidico vetro.
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l’altra, all’inizio dondolando un po’ avanti e indietro come imbarazzate, poi sfiorandosi fino a baciarsi. « Dai, dobbiamo andare » mi sorpresi a sussurrare alla mia bicicletta, « domani torniamo e vi rivedrete ». ‘‘Domani vi rivedrete’’, farda dobareh bazi mikonin, mi diceva mia mamma quando da piccola non volevo lasciare la mia amica Marjane dopo un pomeriggio passato a giocare insieme a casa sua. ‘‘Giocate di nuovo domani’’. E domani per noi non esisteva, era lontano, tanto da farci piangere. « Ancora un’ora. Un’ora sola mamma, ti giuro, torokhoda. E se un’ora è troppo allora solo un’oretta ». Mia mamma alzava gli occhi al cielo, sospirava, Ah Khodaia, poi si sganciava il primo bottone del cappotto, ed era il segnale che ce l’avevamo fatta. Si sarebbe fermata a prendere un tè. Io e Marjane incrociavamo gli sguardi e, quasi all’unisono, ci voltavamo di scatto per correre in camera sua e scomparire di nuovo tra i nostri giochi, felici di aver anticipato il domani almeno per un po’. Tornai a guardare le due bici ingarbugliate posando piano le mani sui manubri di entrambe. Poi scostai il freno della mia, sollevandola con dolcezza per accompagnarla sulla strada, come si fa con i bambini quando li trasportiamo dal divano al letto cercando di non svegliarli. Salita in sella, piede sinistro sul pedale, mi girai verso l’Atala verde per un ultimo saluto prima di sfrecciare verso casa.
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« Buongiorno » dissi, senza attendere una risposta, che infatti non arrivò. « Sono venuta qui ieri per iscrivermi. Mancava il soggiorno, ma in Questura mi hanno detto che per avere il soggiorno ho bisogno dell’iscrizione all’Università ». « No, signorina, noi non possiamo iscriverla se lei non ha il soggiorno. È la regola ». « Senta, forse non ci siamo capiti. Io non posso avere né l’iscrizione né il soggiorno se qualcuno non cede. Mi dica lei cosa devo fare ». Stavo imparando che il mio visino da bambina, unito alla pacata illustrazione dell’assurdità dei fatti, poteva fare comodo in certi casi. E, infatti, l’impiegato, dopo un lungo emblematico silenzio, dimostrò di comprendere la mia situazione e avanzò una proposta. « Ascolti, possiamo fare così. Io la iscrivo provvisoriamente alla facoltà. Lei presenta questa iscrizione in Questura. Le daranno la cedola del soggiorno, ovvero un foglietto che attesta che lei ha presentato domanda per avere il soggiorno. Me la porti così la allego alla sua documentazione. Dopo due o tre mesi, quando sarà pronto il soggiorno, lo vada a ritirare e me lo consegni. A quel punto noi le confermiamo l’iscrizione ». Seguirono circa dieci secondi di silenzio, durante i quali cercai di memorizzare quel diabolico piano d’azione che era balenato nella mente allenata dell’impiegato. Poteva funzionare. Sì, ce la potevo fare. Con un po’ di pazienza avrei superato la provvisorietà del mio soggiorno e della mia iscrizione, e sarei esistita definitivamente. L’impiegato mi stampò un’iscrizione provvisoria. « Arrivederci » dissi. Stavolta ricevetti una risposta biascicata che tradiva il fatto che ormai eravamo complici. Bene. Avevo uno dei documenti della lista. Ora do-
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vevo pensare agli altri. Li avevo appuntati tutti su un foglio per non dimenticarli. Primo rigo: “Libretto sanitario”. Decisi di andare subito a chiedere quali documenti avrei dovuto presentare. Gli uffici dell’USL 10A (diventata poi ASL) erano sopra un loggiato non lontano da casa dei miei. Da piccola, quando andavamo ai giardini, mi piaceva fermarmi lì sotto e correre da una parte all’altra. L’eco amplificava il suono delle mie risate fino a farmi quasi paura. Fuggivo dalla mia stessa voce con quel misto di eccitazione e timore che spesso accompagna le scoperte dei bambini. Quando ritrovavo mia mamma mi calmavo piano piano, e subito dopo mi scappava la pipì. A volte, se mi trattenevo troppo nel correre qua e là, mia madre mi chiamava dicendomi: « Forza, basta adesso, andiamo » e se io facevo orecchie da mercante, lei cominciava a cantare ‘‘Ciao ciao bambina, un bacio ancora, e poi per sempre ti perderò’’. Ed era come un laccio al cuore, un richiamo che toccava corde che non sapevo di avere. Non potevo resistere e la raggiungevo in un baleno con la gola piena di lacrime. Adesso, l’eco che sentivo era quello dei miei passi sotto lo stesso loggiato. Porta a vetri. Scale. Altra porta a vetri. Dietro al banco informazioni un’impiegata bionda piena di collane di bigiotteria scartabellava con moduli vari. Niente fila. Primo ostacolo eliminato. « Buongiorno » dissi, « dovrei rinnovare il mio libretto sanitario. Sono straniera. Mi può dire quali documenti devo presentare? ». « Di che nazionalità è? » chiese la bionda. « Inglese ». « E i suoi genitori? ». « Iraniani ».
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« Deve portare: il libretto scaduto, il certificato dello stato di famiglia e… lei come si mantiene? ». « Sono a carico di mia madre che vive e lavora qui ». « Bene, allora ci serve la denuncia dei redditi di sua madre, il permesso di soggiorno di sua madre, il libretto sanitario di sua madre... ». « Scusi » la interruppi, « ma se una persona ha una denuncia dei redditi, è chiaro che avrà anche un permesso di soggiorno. Non è sufficiente che vi porti la denuncia dei redditi? ». L’‘‘impiegata-bigiotteria’’ mi rimbrodolò una sorta di giustificazione sul fatto che loro avevano bisogno di prove, eccetera eccetera. Non volli insistere. Cominciavo ad abituarmi all’insensatezza di certe procedure burocratiche. « Dicevamo » continuò miss collana, « che deve presentare questi documenti, più l’iscrizione all’Università e il permesso di soggiorno ». « Eh no! Ora basta! Questo è un cane che si morde la coda! Io sto cercando di ottenere questi maledetti documenti proprio per chiedere il permesso di soggiorno. Per averlo ho bisogno del libretto sanitario ». « No no signorina » disse lei con convizione. « Non può avere il libretto sanitario se non ha il permesso di soggiorno ». « Ma la Questura ha detto... ». « La Questura ha sbagliato! Torni da loro, si faccia dare la cedola che attesta che ha richiesto il soggiorno, la porti da noi e noi le diamo un libretto valido per tre mesi. Poi lei porta questo libretto in Questura e loro rendono definitivo il suo soggiorno. Dopo tre, quattro mesi, quando il soggiorno è pronto, lei ce lo porta e noi le rinnoviamo il libretto sanitario fino alla data di scadenza del permesso di soggiorno ».
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PoSSo eSiSteRe, PeR FaVoRe?
Rieccoci. Anche qui seguirono dieci secondi di silenzio indispensabili per memorizzare questo secondo diabolico piano d’azione. L’inventiva e la capacità di procedere per assurdo degli impiegati degli uffici pubblici aveva un quid artistico che quasi mi affascinava. Cominciavo a sentirmi molto precaria, in procinto di cadere o, meglio, di scadere da un momento all’altro. Intanto miss collana borbottava qualcosa tra sé e sé. « Possibile » riuscii a cogliere, « che ancora la Questura non abbia capito come funzionano queste cose! ». Perfetto. Ero anche vittima dell’incomunicabilità tra gli uffici pubblici. Mi sentivo un piccione viaggiatore spelacchiato, un messaggero sfruttato, o qualcosa del genere. Uscii. Porta. Scale. Strada.
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Quante volte avevo percorso quella via, quante volte avevo visto quel bar e quell’edicola. Il negozio di ottica all’angolo era quello dal quale avevo comprato i miei primi occhiali da vista. Avevo dodici anni, due ciuffi sugli occhi a nascondere un viso che non sentivo mio, una coda di cavallo, la cartella pesante, pantaloni larghi e golf bucherellati accuratamente scelti perché non svelassero nessuna parvenza di femminilità. Era da un po’ che a scuola leggevo con difficoltà quello che veniva scritto alla lavagna. Ma non lo volevo dire. Cercavo di nascondere anche questa, come molte altre parti di me, nel terrore di essere sbagliata, di essere storta, di diventare più brutta di come già mi sentissi. Cercavo di non dare fastidio, di muovermi in silenzio mantenendo tutto intatto, quasi asettico. Sor-
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ridevo per non causare dolore a chi mi stava accanto. Non mi svelavo, non mi facevo vedere. E con il tempo imparai a non vedermi. La mia miopia esplose in seconda media e i miei primi occhiali li comprai proprio lì, in quel negozio all’angolo illuminato dalla scritta “Kodak”. L’oculista si meravigliò del fatto che fossi stata tanto tempo senza occhiali, visto che mi mancavano già quasi due decimi. « Signora, cosa aspettava a portarla? » sono le parole che ricordo, rivolte a mia madre. Anche lei non vedeva. Non mi vedeva. Perché io non mi facevo vedere. Per lei stavo bene, sempre. Dovevo stare bene, essere sana e felice. O, perlomeno, questo era quello che io pensavo che lei pensasse, e che quindi mi imponevo di essere. Non c’era spazio per le incrinature, non c’era posto per le sfumature del sentire. Mi ci è voluto un po’ di tempo per scostare il velo e mostrarmi. Mi sono operata agli occhi non molti anni fa. E ho iniziato a vedere. In tutti i sensi. A cominciare da me. Distolsi lo sguardo dal negozio di ottica e mi guardai attorno. Il viavai della gente era quello di tutti i giorni ma mi sembrava di scoprirlo per la prima volta. Chi andava a lavorare, chi si prendeva una pausa, chi passeggiava col proprio bambino. Riconobbi alcuni volti, mi soffermai a guardarli e mi resi conto di desiderare di essere come loro, italiana sulla carta. Non mi era mai capitato. Le persone che fino ad allora avevano colorato la mia vita non mi avevano mai fatta sentire diversa da loro, o meglio, mi avevano fatto apprezzare la mia diversità, l’Oriente che mi abita. Adesso invece mi premeva avere una precisa identità scritta nero su bianco. Di colpo mi sembrava che niente di quello che stavo facendo avesse senso. Iscrizioni, permessi di esistenza, carte su carte per dimostrare una falsa
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realtà che mi si voleva attribuire a tutti i costi, per rendermi leggibile, classificabile, definita. Definirmi era però l’unica opportunità che mi avrebbe permesso di continuare a vivere nel paese in cui vivevo, nella casa che sentivo mia. E allora estrassi la solita lista e decisi di preparare prima gli altri documenti che mi si richiedeva e di pensare in seguito al mio dilemma burocratico (libretto prima del soggiorno o soggiorno prima del libretto?). Ma le altre cose di cui avevo bisogno erano tutto sommato semplici da ottenere. Foto, fotocopie varie, denuncia dei redditi. Così, in poco tempo, mi ritrovai di nuovo davanti al dilemma, e stavolta non mi potevo defilare. Davanti alla Questura legai la bicicletta a un palo che se ne stava solo soletto ritto davanti a un bar tabacchi. Mi scoprii a sbirciare in qua e là alla ricerca dell’Atala verde che però non c’era. « Mi dispiace, oggi non c’è » sussurrai alla mia bici, sperando non si sentisse tradita dalla mia promessa non mantenuta, come accade ai bambini quando affidano i loro cuori aperti ad adulti distratti che bonariamente glieli calpestano. Papà giochiamo insieme? Ora non posso. Ma stasera quando torno ti prometto che giochiamo. Promesso? Promesso. E la sera, Ecco papà! Ora si gioca! Ora si gioca! Amore, papà è stanco. Facciamo domani. Promesso. Portici. Davanti a me la solita pseudo-fila chilometrica. Il mio fisico e la mia psiche non avevano la forza di affrontarla. All’improvviso un’idea folgorante mi illuminò e ricordai un mezzo di comunicazione che fino a quel momento avevo sottovalutato: il telefono! Già, avrei potuto chiedere informazioni per telefono ed evitarmi qualche pseudo-fila.
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Pedalai verso casa in preda all’euforia per la mia nuova scoperta. Trovato il numero di telefono della Questura, cornetta in mano, cominciai a comporre. Primo tentativo. Occupato. Secondo tentativo. Occupato. Questa scena si ripetè per una decina di volte, finché finalmente il telefono suonò libero. Era l’ora. Uno squillo, due squilli, cinque squilli, dieci squilli. Macché! Quelli che fino a due secondi prima stavano parlando al telefono con chissà chi, si erano improvvisamente volatilizzati. Dopo intensa riflessione decisi di passare al piano B, ovvero preparare tutti i documenti tranne il libretto sanitario, ripresentarmi in Questura, litigare e imporre a qualcuno di darmi un benedetto permesso di soggiorno. Mi guardai intorno e l’occhio mi cadde su un coltello da macellaio vicino al lavello della cucina. Diedi libero sfogo ai miei pensieri e mi balenarono nella mente strane immagini. Ero in un ufficio della Questura. Avevo preso in ostaggio il signor gelatina e lo minacciavo col coltello, urlando che volevo subito avere un permesso di soggiorno. Lui mi implorava di lasciarlo andare ma io ero irremovibile e lo fulminavo con sguardo satanico. Panico tra la folla. Che la mia mente stesse andando in ebollizione? Radunate tutte le mie carte, uscii. Un bel sole traditore si beffava di me, brillando imperterrito nel cielo. Non avrebbe dovuto piovere in una giornata come quella? Arrivata sotto gli ormai familiari portici della Questura, mi misi in fila con gli studenti. Fino a qualche anno prima neanche sapevo che quei portici ospitavano la Questura. Conoscevo però da sempre le loro pietre grandi e morbide e la libreria di libri usati poco avanti, dove cercavo i testi per la scuola sperando di risparmiare un po’di quei soldi che mia madre non aveva. Mio padre se n’era andato in tutti i sensi, era sparito non sapevo più bene
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dove, lasciandoci in difficoltà economiche. Dopo la Rivoluzione iraniana del 1979, lo Stato aveva per di più bloccato i fondi che venivano regolarmente concessi alle figlie nubili dei lavoratori statali, e mia madre, che fino ad allora aveva potuto condurre una vita in sostanza agiata, in quanto figlia di un generale dell’esercito morto giovane, si era vista da un giorno all’altro tagliare i viveri ed era stata costretta a cominciare a lavorare in un laboratorio artigianale che costruiva orribili soprammobili di ottone a forma di animale. « Chiedo perdono a Dio e agli uomini per dover riempire il mondo di queste brutture » diceva sempre. Ogni tanto, dopo la scuola, anch’io la raggiungevo e giocavo con pesantissime lumache e papere incollandoci sopra piccoli pezzetti di bambù che avrebbero dovuto fungere da decorazione. La nostra situazione economica mi pesava più di quanto mostrassi. Me ne vergognavo. Mi vergognavo della mia casa in disordine che non volevo mostrare ai miei compagni. Quando capitava che a scuola qualche mia amica decidesse di venire a pranzo da me per poi studiare insieme, mi sentivo morire e correvo a telefonare a mia mamma per pregarla di dare una pulita. Se invece l’arrivo dei miei amici era preannunciato, mi affrettavo a dare l’aspirapolvere, a lavare i fornelli, a pulire il bagno che avrei voluto avesse un bidè, solo per sentirmi un po’ più simile agli altri. A loro invece, agli altri, la nostra casa piaceva tanto proprio perché un po’ diversa, la trovavano accogliente, aperta. Io l’avrei voluta più chiusa, strutturata in maniera più normale e non per lungo con le stanze senza porte comunicanti l’una con l’altra. Per andare in cucina bisognava passare dal salotto. Alla camera di mia mamma si arrivava dalla cucina e da lì si entrava in bagno.
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L’unica stanza che concedeva un po’ di intimità era la mia. Per fortuna. L’intera casa era intrisa dell’odore dei cibi iraniani misto a quello del fumo delle sigarette di mia mamma, e mi penetrava i vestiti e l’anima. Ninnoli, quadri, libri, colori, tappeti, stoffe. Dappertutto. Chiunque entrasse, trovava quella casa accogliente, calorosa, viva. A me invece pesava la sua diversità, la sua invadenza, la sua confusione. Solo oggi riesco ad amarla e a renderla parte di me. Allora me ne vergognavo. Mi vergognavo della distanza che sentivo esserci tra quello che potevo fare io e quello che potevano fare i miei amici. Sentivo la differenza e non la sopportavo, nonostante gli sforzi di mia madre di darmi tutto quello di cui avessi bisogno, e nonostante quegli stessi amici mi considerassero parte delle loro vite. Diego mi portava sempre al mare o in campagna con i suoi due figli, Aria e Matteo. Mia mamma non sempre aveva la possibilità di portarmi in vacanza, ma non voleva che vi rinunciassi, così finivo, per così dire, per far parte delle vacanze degli altri. Matteo aveva la mia stessa età e io ne ero follemente innamorata. L’agosto dei nostri undici anni ci vide rotolarci sull’erba di una campagna poco lontana da Firenze, giocando a sputo-non sputo: Matteo mi sdraiava e si metteva a cavalcioni sopra di me, mi bloccava le braccia e cominciava a far scendere lentamente un filo di bava sul mio viso, attento a ritirarlo su prima che mi toccasse la pelle, a volte riuscendoci, altre volte no. Il tutto tra i miei euforici gridolini apparentemente schifati, in realtà eccitati. Erano i nostri primi giochi erotici. Primi e ultimi, perché la mia vita sentimentale risultò buia negli anni dell’adolescenza. Sempre per timore di mostrarmi, per timore di sentire, per timore di essere. Sentire significava correre il rischio di soffrire, di essere
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abbandonata di nuovo. Significava diventare un peso per chi mi stava accanto e turbare l’equilibrio precario che sembrava circondarmi. Così avevo chiuso i pori, avevo trattenuto il fiato e continuato a sorridere, anche quando di sorridere non avevo per niente voglia. Mi ricordo che in quel periodo giocavo sempre con grandi calamite cattura-tutto. Mi posizionavo alla scrivania armata di calamita e di piccoli pezzi di ferro, graffette, chiodi e cianfrusaglie varie, e poi cercavo di attaccarle tutte alla stessa calamita. Se ci riuscivo, un’euforia quasi eccitante si impossessava di me. Se fallivo, una piccola fitta mi pungeva il cuore. Tentavo disperatamente di legare ciò che era diviso, di unire le parti di me che vedevo sparpagliate, per permettermi di essere e di respirare. Adesso, questo viaggio burocratico che ero obbligata a compiere nella mia italiana stranieritudine mostrava alla luce del sole tutte le mie contraddizioni, tutte le ricchezze, le divisioni e i pezzetti di me che avrei voluto cucire insieme per abitarmi pienamente.