Monogamitic(issuu)

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FICTION

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l’ au to r e

ALVARO PÉZ è uno pseudonimo. A causa delle vicende narrate nel libro, preferisce non svelare la sua identità. È italiano, e risiede da qualche parte nella Penisola.



alvarO PÉZ monogamitic

GINGKO

EDIZIONI


MONOGAMITIC © 2016 Alvaro Péz © 2016 Gingko edizioni ISBN 978-88-95288-68-0

GINGKO EDIZIONI Molinella (BO) www.gingkoedizioni.it

Progetto grafico di copertina: © 2016 ATALANTE Fotografia © Oscar Keys


monogamitic



Voglio dire che tutto ha inizio, sempre da uno stimolo emotivo: reazione a una ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia ed altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi.

D alla nota intr oduttiva a I capolavor i di Eduardo D e Filippo, Einaudi.



Questa storia, benché non potrà esserne felice, è dedicata alla donna che più mi ha amato, più ha creduto in me, più ho sentito vicina. La donna a cui più ho dato dolore, e verso la quale non sono stato leale ― nonostante avrebbe scusato e capito ogni mia lealtà, anche la più cruda. Le chiedo scusa dal profondo del cuore.



Astenersi sopra 43 anni, pesanti, bugiardi, frequentatori di night, impegnati, relazioni aperti, rasati e codine! No copia e incolla!! Non rispondo senza foto!! Mail delle persone senza foto non leggo nemmeno, elimino!!! E se non rispondo si vede che non sei mio tipo quindi non fare pesante!!! e quei vecchi 50-60enni che mi scrivono non sanno leggere??!!!! No perditempo!!!!! SONIA 32 anni - 165 cm Bologna Emilia Romagna Italia

Sono atea!!!!!!!!!!! Non sopporto chi cerca di convincermi sull’esistenza di Dio! Sappiatelo, grazie! Cerco un uomo con personalità e carattere; non una pecora che segue la massa, ma un uomo vero e proprio, diverso dal gregge :) CARTAELEN 33 anni - 170 cm Bologna Emilia Romagna Italia



Prol o g o

e

Qualcosa congiura contro di noi!! Io ci sono su Whats! Ciao Ti assicuro che su Meetic non è apparso nessun numero... (Pollice alzato). Be’, ora siamo tecnologicamente connessi!!! (Tre faccine sorridenti). Ti ho scritto 4 volte il mio numero!!! Aspetta ti mando la foto. Probabilmente non ti arrivano i miei messaggi. (Faccina triste con lacrima). (Allegata foto della schermata email di Meetic). Questa è l’ultima, Licia. Meetic è il colpevole!!! Non so cosa dire. Be’, non fa niente. (Faccine sorridenti e imbarazzate). Tuo figlio immagino nella foto. :-) Sì. L’altro sono io! Ahahah. Mi sa che ti ho trovata anche su Fb, scusa la curiosità. Ma non rivelerò la tua identità a nessuno!!! Giuro!!! (Faccine sorridenti). Non ho foto. Se intendi curiosità in quel senso. Se sei Licia Trazzi, ne hai una... Esattamente. Solo una.


Alvaro Péz

No, curiosità così, non per le foto. Be’, comunque la foto in spiaggia non è male!!! Davvero. (Faccine arrossate per l’imbarazzo). Sììììì. Sì, dai, sei una bella ragazza/donna!!! Be’, dicono che sono carina. (Due pollici alzati). Eh eh. Sì sì certo. Ragazza/donna. Ragazza! Molto meglio. Ok, da oggi solo ragazza. Ti chiedevo prima [su Meetic] se hai conosciuto qlc di interessante... su Meetic. Veramente uno solo. Ah sì? E come è andata? Nn ero x nnt convinta. Non ti ispirava fiducia? Esattamente. E vi siete visti di persona? Sì sì ci siamo visti. Io non ho conosciuto nessuno di interessante. Solo una che si chiamava Brenda ed era cubana. E una di cui non ricordo il nome, brasiliana. Sono escort! Fede, stai attento. Figurati, Licia, l’ho capito subito. Ero lì lì per chiudere il profilo. Anch’io. Ho già disdetto. Chiudo il 13 agosto. Io, Licia, mi sono iscritto perché... il fatto è che lavoro molto... E frequento solo maschi. Con la chat, Fede, boh. 16


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Insomma, pure tu delusa! Assolutamente sì. Credevo vi fosse più serietà e rispetto. Sì, infatti. C’è qualcosa di... volgare. Esattamente. Appunto, un conto sono i complimenti, un conto la volgarità. Le donne su Meetic sono fuori dal mondo, e immagino che tipo di uomini e cosa dicono e come si propongono!!! Tipo che taglia di reggiseno porto perché dalla foto non si capisce. Ehhhhhh ehhh questa mi mancava!!! Non rispondo e mi scrivono che me la posso tirare di meno. Ioooo. Tirare!!! Nn sono proprio il tipo. Dai Fede, indovina. Non mi sembri affatto il tipo che se la tira!!! Dico davvero. Batteria scarica. (Faccine che si disperano). Ti assicuro che non me la tiro per niente. Lo so lo so, cioè si capisce. Se devi staccare non preoccuparti. Quando potrai magari ci risentiremo. Scusami davvero. Ma figurati. Certo che ci risentiremo. Se ti va. Quando vuoi, Licia, io sono qui. Una mezz’ora... mi lampeggia il rosso. Licia, quando vuoi. Mi fa piacere, certo. Dolce notte, Fede.

[Dopo due ore...]

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Alvaro Péz

Ti stavo proprio pensando... pensavo a due cose. La prima è che sembri una brava ragazza, come hai scritto su Meetic... La seconda, in realtà... se dovevo romperti a scriverti (anche se ti avrei comunque dato la buonanotte) xché non vorrei essere troppo invadente. Comunque, dolce notte anche a te! Anzi ti do la vera buonotte quando vado a letto. [Alle 23.51]

Gli incontri più importanti sono già combinati dalle anime prim’ancora che i corpi si vedano. Generalmente, essi avvengono quando arriviamo a un limite, quando abbiamo bisogno di morire e rinascere emotivamente. Gli incontri ci aspettano, ma la maggior parte delle volte evitiamo che si verifichino. Se siamo disperati, invece, se non abbiamo più nulla da perdere, oppure siamo entusiasti della vita, allora l’ignoto si manifesta e il nostro universo cambia rotta. (Paulo Coelho). Buonanotte Licia. [L’indomani, alle 08.07]

Buongiorno, Licia.

[Alle 12.45]

Buongiorno, Federico. Grazie delle parole bellissime.

[Alle 13.02]

Ehi, ciao, sei scomparsa!

[Alle 18.13]

Forse non sono scomparsa, ma ero al lavoro!!!! 18


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Ih ih avevo capito. Ma ti tiene parecchio occupata, a quanto vedo! Come è andata? Stanca? Credo che non ti risponderò neanche. Ehi, stai bene? Ma sei arrabbiata? Che è successo? Ti tiene parecchio occupata. Ma come ti permetti? In che senso, Licia? Non so neppure che lavoro fai! Appunto. Non scrivermi più. Ok? Impara l’educazione. Non capisco, Licia!!! Capisco io. Stai bene ciao. Licia, se non ti interessa continuare puoi dirmelo sinceramente. Nn c’è bisogno di comportarti così. ‘‘Occupata’’ per me significa semplicemente che non avevi scritto. Non capisco, sul serio. Ti avevo appena scritto che mi sembravi una brava ragazza e oggi fai così. Mi dispiace. Non esiste che una persona che non conosco mi scrive ‘‘Ti tiene parecchio occupata’’! Ma chi sei. Impara a scrivere. Ma come lo interpreti tu? Io intendo impegnata, tanto da non poter scrivere. Non c’è bisogno che me lo dici tu che sono una brava ragazza. Non scrivermi più. Grazie. Va be’ Licia, ti assicuro che stai sbagliando; comunque se è questo che desideri rispetterò la tua volontà. Permettimi solo di dire che non me lo merito xché mi pare di essere stato piuttosto educato con te. 19


Alvaro Péz

Poche ore fa hai scritto grazie delle belle parole e ora sei cambiata completamente. Ripeto: non c’è bisogno di scuse... se non ti interessa continuare la nostra conoscenza. Per me è stato comunque un piacere. Per me no. Sei un maleducato. Non scrivermi più.

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C

Uno

e

on Martina ci eravamo conosciuti al liceo. Io frequentavo l’ultimo anno, lei finiva il ginnasio. Un giorno l’avevo incrociata sulle scale del secondo piano dopo che, insieme a degli altri capelloni barbuti, bardati fino al naso da grezze sciarpe lappolose, ero uscito dall’ufficio del preside e mi stavo precipitando giù in cortile, con la testa piena di nefandezze, saltando due a due i gradini. Eravamo in procinto di occupare la scuola. Il preside, Ludovico Ludovici, un grassone ottuso che però a volte, in modo del tutto sorprendente, riusciva a mostrare un buon cuore, si era opposto in quell’occasione alle nostre cortesi pretese di autogestione e noi, in tutta risposta, gli avevamo urlato un bel po’ contro — io più di tutti perché ero il rappresentante d’istituto. Ludovici aveva appena finito di minacciarci di ricorrere alle forze dell’ordine, se lo avessimo costretto a farlo, e mi aveva sputato addosso improperi, invitandomi gentilmente, tra l’altro, a sbarazzarmi di quella stupida pipa da intellettuale da strapazzo, in sua presenza e comunque all’interno della scuola. « La metteremo a ferro e fuoco, questa dannata scuola » avevo detto. « La vandalizzeremo trasformandola in un grande falò, ha capito? Altro che pipa, caro signor preside ». Be’, senz’altro avevo esagerato. Per lo meno, in quanto a prosopopea. Martina saliva le scale, a ritmo con lo stuolo di sue amiche e altre compagne di classe.


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« Sei Bruni, tu? » le avevo domandato con voce roca ed evidente disprezzo per le reclute. Ero un idolo, io, potevo permettermelo. Frequentavo l’ultimo anno, ero rappresentante d’istituto, mi avevano votato all’unanimità — tutta la scuola. Avevo letto poche ore prima il suo cognome su un programma scarabocchiato a matita su un cartoncino, che qualcuno del ginnasio aveva sottoposto al nostro collettivo per l’approvazione. Avevo imposto che ciascuna classe, in vista dell’imminente autogestione, si organizzasse come un gruppo di lavoro compatto e mi sottoponesse rigorosamente innanzitutto gli obiettivi, i responsabili e gli eventuali relatori. Concedere o meno l’approvazione sarebbe stata una decisione solo mia. Martina, vedendomi tanto accalorato e serio, con la pipa di sghimbescio tra le labbra, aveva prima sorriso, timidamente, poi, con una certa aria velata di provocazione, da piccola ribelle qual era, si era portata la mano piena di anelli davanti alla bocca, scuotendo il capo in segno di rispettoso assenso. Mi prendeva con ogni evidenza in giro, quella ragazzina! Sì, quello era proprio il suo cognome, aveva detto. Ma si era presentata con una dolcezza e un candore ammaliante che hanno solo rare persone, qualcosa che negli anni a venire non avrebbe perduto. « Martina » mi aveva stretto la mano. Avevo ricambiato con una recitata indifferenza, fintamente trafelato, subito ricacciando in tasca la mano, sollevando le sopracciglia come temessi il contagio di una rara malattia esotica ― la febbre tifoide delle reclute. Lei parve non farci caso, continuando a sversare dai suoi tersi occhi asiatici l’onda del suo sorriso. Come tutti a scuola, sapeva che ero molto serioso, distaccato e terribilmente altero. Le sorti del mondo dovevano poggiare sulle mie sole spalle. Prima che i barbuti balordi mi spingessero di sotto, in mezzo a strattoni e incomprensibili urla, le avevo detto: « Bruni, ti avverto, la tua classe non ha ancora completato il programma. Ti consiglio, in qualità di relatrice, di sottoporlo finito in ogni sua 22


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parte al collettivo. Al più presto! » avevo urlato. « Altrimenti, sarò costretto a prendere provvedimenti ». Quali fossero questi fantomatici ‘provvedimenti’ rimase un mistero aleggiante su di noi. Esplose un petardo nei bagni, al primo piano. Dopo il boato tremendo, il fumo cominciò immediatamente a spandersi su per le scale, scortato da una barbarica composizione di urla, fischi, e piedi che pestavano. « In campana, Bruni, adesso occupiamo ». E l’avevo lasciata lì, in sospeso, sulle scale, mentre con le sue amiche accompagnava la mia schiena digradante con sguardi ammiccanti e tiepidi risolini. Ed era stato questo il tenore del nostro primo incontro, e il principio di ogni cosa. L’occupazione era durata tre giorni, durante i quali di tanto in tanto passavo nella sua classe — una delle meno briose, per la verità, in cui si disquisiva di filosofia classica, Talete, Anassimene, Anassimandro, i cinque elementi della vita: terra, acqua, fuoco, eccetera — e benché vi si riunissero gli elementi più barbosi della scuola, cercavo di restarvi almeno per qualche minuto evitando di sbadigliare. Dapprima, mi sporgevo sull’uscio, poi, lentamente e con sussiego, mi mettevo a sedere davanti i primi banchi, con le ginocchia larghe e i gomiti sulla spalliera della sedia, seguito dagli occhi di tutti, quasi fossi un guru, infine levando le tende senza salutare. Però, cominciava a piacermi quella quindicenne sbarazzina e intelligente. Mi abbindolava il suo modo di vestire. Aveva un’aria tutta sua, uno stile impalpabile che nessun altra sfoggiava. Mi piaceva la sua giacca di velluto marrone a costine, abbinata alle sfumature nocciola dei suoi capelli lisci e sottili. Mi piacevano i bracciali e gli anelli, uno, due, tre per ogni dita, la sua voce un po’ roca come la mia, l’accento e la cadenza delle sue spiazzanti espressioni. Era unica. Mi piacevano soprattutto i suoi occhi, tirati a mandorla, truccati a colori vivaci, ogni giorno uno diverso, blu elettrico, viola, rosa, verde bottiglia. Quegli occhi, quando ti puntavano, ti dicevano un mucchio di cose. 23


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Il primo vero appuntamento lo fissammo sul Corso e, dopo un po’ di andirivieni, sedemmo su una panchina — io serio, lei ridente e brillante — una panchina scomoda di ferro posizionata davanti alla Cgil della cittadina che distava una decina di chilometri dal mio paese, una sera, mentre era in atto lo struscio intergenerazionale. Era la vigilia della Befana. Vi erano luci e festoni. La chiesa riluceva carica di orpelli intermittenti e un tantino pacchiani. La gente era vestita bene. Molti cappotti scuri, diverse pellicce in giro. L’aria era satura di elettrica attesa, vibrava di euforia, e i ragazzi tendevano il collo e ruotavano gli occhi in ogni direzione. O forse ero io a costruire ogni cosa. In ogni caso, molti ci salutavano e sembravano insolitamente allegri. Conoscevo tutti, o tutti mi conoscevano. Avevo parcheggiato il mio cinquantino lì vicino. Dalla rosticceria si diffondeva l’odore di pizza e peperone, di sugo pepato ribollente al basilico, di origano e mozzarella fusa. Qualche mese dopo, conquistata la patente, cominciai ad andare a prendere Martina ogni sera a casa sua, con la 126 di mamma, non quella rossa di altri tempi, con cui i miei avevano fatto il viaggio di nozze fino a Venezia, ma una blu scuro, nella quale papà e zio Augusto avevano montato un bel mangianastri — una 126 con un posacenere sempre pieno di cicche e puzzolente e stantia, che prima di rientrare cercavo di ripulire e areare come meglio potevo. Il più delle volte, portavo Martina alla Madonna del Torrione, la chiesa di Don Celestino, il nostro insegnante di religione al liceo, un buon diavolo con cui mi scornavo su ateismo e amenità del genere, il quale mi ripeteva a più non posso che un giorno o l’altro mi avrebbe convertito come un crociato in Terra Santa. Trascorrevamo lì diverse ore, parlando d’ogni cosa, guardando le luci della cittadina che, come un volante a tre razze, s’insinuava fin dentro le falde irregolari delle basse colline oltre le quali c’era il mare, e ci baciavamo, ci scambiavamo carezze trasognate, ascoltando i Nirvana e divorando pop corn o patatine, frappé e pizzette. Sua madre, la madre di Martina, la signora Piera, non faceva 24


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problemi sul fatto che andassi a prenderla lì sotto casa, e la cosa mi piaceva. Erano originari del nord, e la signora Piera dava l’impressione di una donna abbastanza aperta ed emancipata per quegli anni e per il luogo in cui vivevamo. Insomma, ad un certo punto entrambi ci presentammo ai nostri romantici appuntamenti in tuta. Era un modo per strusciarsi stando più ‘‘a contatto’’, come dicevamo, quando forse ancora esisteva nelle giovani coppie un certo sano pudore nello spogliarsi del tutto. Poi, quel pudore, naturalmente, scomparve anche tra di noi e venne il seguito, ma venne un po’ dopo. Il sottoscritto, comunque, non mancava mai di prenderla in giro per quelle sue buffe scarpette da tennis nere che chiamava ‘‘scarpette correttive’’. Erano delle Nike, un tantino deformate dall’usura. Con il tempo, io e Martina diventammo inseparabili, e non c’era sera che non scendessi alla cittadina a trovarla, abbandonando di punto in bianco i miei amici. Cominciava così, senza che lo notassi affatto e vi dessi peso, quella svolta cruciale della mia vita, il distacco dalla compagnia embrionale del paese. Il mio punto base divenne spontaneamente la cittadina e al paese finii col ritornare solo a tarda sera, di solito alle undici, magari con la pancia brontolante perché non avevo cenato, con il gas puzzolente del frappé alla nocciola che fuoriusciva dallo stomaco e si sperdeva dalle narici. Alla fine, in breve, esistette solo Martina. Era l’amore, non avevo dubbi, l’amore vero. Per la verità, la compagnia, l’enorme compagnia che frequentavo al paese, quegli amici con cui non era mai stato necessario darsi appuntamento o telefonarsi, ma semplicemente uscire in piazza o in villa per ritrovarli, si era già prima di quel periodo un po’ slargata. Al calcio, alle partite di tennis o di carte, alle scampagnate e alle genuine sbornie via via si stava sostituendo l’uso statico e sfaticato della marjuana e dell’hascish. La creatività, il dinamismo erano andati. Stavamo diventando tutti un po’ zombie, tutti un po’ laceri e derelitti, tutti simili ad oziosi rettili dagli occchi sbarrati e sempre accesi come luminarie nei giorni di festa, degli imbecilli che riuscivano solo a ridere beo25


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tamente. E, con l’apparizione di queste sostanze, nella rete delle nostre amicizie molte cose cominciavano a cambiare. Si spezzavano catene che si credevano indissolubili e altre si ricomponevano attraverso l’aggiunta di nuove maglie o l’eliminazione di quelle antiche che si reputavano ormai arruginite. Si tradivano legami e se ne costituivano altri, basati spesso esclusivamente sulla convenienza della dose o delle dosi giornaliere. A pensarci ora, poiché per quanto mi riguardava non avevo mai abbastanza soldi da investire in quel genere di commerci, l’allontanamento non poteva che rappresentare l’epilogo naturale. E, d’altro canto, siccome avevo quella ragazza che mi piaceva e intrigava, dacché sentivo di amare quella ragazza straordinaria e così particolare e mi piaceva trascorrere con lei tutto il tempo, il distacco dai miei vecchi amici non mi apparve traumatico, come invece si svelò solo molti anni dopo. Inoltre, quello era l’ultimo anno di liceo e alcuni mesi più tardi avrei dovuto partire per Roma, per la nuova vita universitaria che mi attendeva come novello e ancora acerbo virgulto provinciale, levando le tende dal borgo uterino e piantando i paletti nella tanto sospirata esistenza matura: ero assolutamente pronto per saltare al di là dell’impetuoso torrente e conficcare a fondo quei paletti nell’inesplorato terreno ancora non dissodato.

e Quando avevo ventisette anni e Martina ventitré, ci venne regalato Mattia, il nostro primogenito. Io non avevo che finito da un paio di mesi l’università e, come si suol dire, non stringevo nulla in mano, se non brumosi sogni, oniriche aspettative, e un ottimismo cimentoso. Nessun lavoro, nessuna solidità economica, nessuna chiara prospettiva del futuro... entrambi non avevamo neppure una casa. Martina andò a discutere la tesi con il pancione. La condizone della donna nell’antichità classica. Si laureò e io, in capo 26


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a qualche mese, dopo aver fatto il facchino al reparto ortofrutta di un supermercato, il facchino addetto agli scaffali di un altro supermercato, la maschera alla multisala, riuscii finalmente a ottenere il mio primo serio incarico. Lei, grazie a una conoscenza della signora Piera, entrò all’università. Un buono stipendio. Ottimo, direi, e lo ha ancora!, mentre il sottoscritto, all’ente di formazione che l’aveva assunto part-time guadagnava milleduecento euro. Comunque, niente male. Il lavoro, certo, non mi piaceva punto, ma me lo facevo piacere. Non ci pensavo. Pensavo che la mia vita, per quell’entusiasmo che mai mi abbandonava, sarebbe mutata presto in virtù del talento con cui avrei scritto il Grande Romanzo Italiano. In realtà, la vita ‘coniugale’ (convivevamo) e il primo figlio, il ritrovarmi un padre novellino, mi assorbiva completamente e non riuscivo a mettere sul foglio più di tre parole a sera, spesso neanche quelle, e dunque rimandavo, rimandavo. Ebbene, in fondo, era ciò che desideravo, il mio periodo di pionierismo, e io e Martina parlavamo spesso di pionierismo, ci riempivamo la bocca con quella parola che ci appariva tanto appassionata e romantica. Il pionierismo era vivere in un appartamentino in affitto di quaranta metri quadri, con le cimici che salivano dal lavabo. Significava stendere i panni mentre il fratello del proprietario usuraio giù in giardino ci guardava in tralice e teneva sconci festini semi-erotici con la sua compagna albanese, un puttanone, mentre al piano di sopra un tizio sardo e la sua donna cozza e pustolosa fumavano spinelli a ripetizione, stordendosi e diventando scemi. Il pionierismo significava prendere cibo da asporto dal ristorante cinese e mangiarlo insieme sul tavolinetto laccato dell’Ikea, traballante e sbrecciato; mettere alle finestre delle tendine multicolore e bruciare stecchetti d’incenso mentre guardavamo il piccolo, sfuocato televisore Mivar dei tempi universitari. Ci bastavamo, io e Martina, ci sentivamo poetici, perché eravamo giovani, in salute, forti, e niente al mondo avrebbe intaccato la nostra unione e il nostro magico futuro. La vita era ancora lì che 27


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andava vissuta. Al diavolo la carriera, il lavoro, la falsità di questo mondo, l’opportunismo, il denaro, al diavolo ogni cosa. Il lavoro che svolgo ora era lontano, nemmeno immaginato. A quel tempo, figuriamoci!, chiunque mi avesse detto che avrei assunto delle responsabilità lo avrei giudicato un evaso dal manicomio. Il commercialista era un essere alieno, in una banca non ci ero mai entrato, non sapevo neppure come fosse fatto uno sportello bancario, o cosa fosse un giroconto, o un bonifico. Anche il primo e il secondo mutuo erano lontani anni luce. Io volevo scrivere, diventare un romanziere, amavo Hemingway, sognavo di dormire in un prato di Pamplona e godermi la feria. Chiamavo Martina mujer. Lei rideva e ripeteva tutta allegra mujer, mujer. Volevo viaggiare in tutto il mondo ed essere felice, con la mia famigliola romantica al seguito, e desideravo solo, esclusivamente, fare tutte queste cose con lei, perché lei era tutto, lei era più di tutto, lei era il mio solo e unico amore. Beata gioventù! Si riesce ad essere romantici e a sognare solo quando si è giovani. E l’amore è vero in quegli anni, e sorprendente ed eccitante. In seguito, si vivranno surrogati dell’amore, surrogati di felicità, surrogati di beatitudine. E ci illuderemo di amare, di essere amati, di essere felici e beati. Dieci anni dopo, dopo che molte cose che in fondo avevamo desiderato erano arrivate, con intorno molte cose che non avevamo desiderato ma che la fortuna e un po’ l’audacia ci avevano regalato, be’, la vita appariva un bel po’ diversa e insapore. Avevamo un secondo figlio, una bambina meravigliosa, un giardino di trecento metri quadri, un barbecue e un forno a legna in muratura, delle siepi di photinia con un impianto d’irrigazione, il porfido in terra e un vero tavolo da giardino. Mattia aveva dieci anni e il peggio dei pannolini, delle gastroenteriti era passato, eppure non eravamo felici, o forse io non lo ero e, di conseguenza, neanche Martina. La guardavo e mi chiedevo dove fosse finita quella ragazzina con gli anelli. Già con la prima gravidanza aveva preso chili e con la seconda si era lasciata completamente andare. Ma non era solo l’aspetto fisico che mi 28


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angustiava. Facevamo l’amore e con godimento reciproco, non tanto spesso come nella casa con le tendine colorate, ma molto più spesso di tante coppie scoppiate che vedevamo allo stesso tavolo di ristorante mute e prive di calore. Parlavamo anche, e un po’ di tutto, di cinema, di musica, di libri, del suo lavoro, di viaggi che volevamo fare. Creta, Atene e la Grecia classica che adoravamo. Ma non più di pionierismo. Quella parola l’avevamo dimenticata, l’avevamo ormai perduta. Forse, non era mai neppure esistita. Non so. E di viaggi ne avevamo fatti e avevamo fatto un mucchio di altre cose. Tuttavia, qualcosa dentro, non dentro di lei, si era incrinato. Dentro suonava per me una campana stonata, intimidita e resa insicura dall’usura del tempo, resa fragile forse anche da un uso inesperto, in ogni caso munita di un battaglio marcio e annerito che spingeva non rintocchi possenti ed echeggianti per chilometri, ma riverberi di vetro. A casa rimanevo distante da lei. E lei mi amava. Sprofondavo sul divano senza girare gli occhi e lei si avvicinava. Uscivo e restavo in ufficio fino a tarda sera e lei mi lasciava da mangiare e io trovavo la buona cena ancora calda in forno. Mi faceva male la mia ingratitudine, nonostante questo le facevo male e mi facevo male. Un demone follemente ostinato si era impossessato di tutto quel che ero e l’aveva rivoltato in un essere ributtante e meschino, privo di cuore, un automa irriconoscente con un solo elemento umano: la vena cava che risucchiava da lei grandi dosi di calore per alimentarsi e che le rigettava indietro una gelida scoria metallica con cui la gelava. L’automa disprezzava quel che cucinava la domenica, quando si sforzava di dare una parvenza di famiglia serena per i nostri bambini. Spesso, le rivolgeva apprezzamenti brutali sul suo corpo quando, in accappatoio, saliva al piano di sopra. La scacciava e la derideva, la spingeva lontana nel letto quando lei faceva il tentativo di sfiorare la sua gelida corazza. La offendeva davanti ai figli pur riconoscendo la gratuità delle offese. Ero stato io a volere dei figli, sempre io a volerli da giovane, a dirle, in continuazione, instancabile, persino ossessivo, che

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doveva fidarsi perché avremmo diviso la vita intera e non ci saremmo mai lasciati. E lei ci credeva, lei mi aveva sempre creduto. Lei era stata al mio fianco come vittima autoeletta o confessore, talora autolesionista, in qualità di fido scudiero o di eroe pronto ad immolarsi per la benché minima e insignificante causa, non mancando mai di guardarmi indefessamente negli occhi anche quando essi bruciavano e facevano razzia attorno, tirandomi su quando ero caduto, quando razzolavo alla ricerca delle briciole perdute della mia vita in frantumi, lenendo i miei malori emotivi e guarendo il mio squallido corpo malato. Era stata lei quell’unica persona con cui avevo condiviso una vera, autentica, profondissima comunione di anime, e in molti, anzi tutti, se avessero conosciuto il tesoro che custodiva e che ogni giorno era capace di accrescere e di rendere più prezioso, non avrebbero esitato a portarmela via. Mentre io volevo gettare tutto al diavolo! E anche per questo, lo sapevo bene, un giorno mi avrebbe odiato, senza condizioni, disperatamente, proporzionalmente a quanto mi aveva amato, e non mi avrebbe, per nessun motivo al mondo, perdonato, mai. Un giorno, non posso dimenticarlo, ci trovavamo in casa. Cominciammo a litigare. Martina era già esasperata da giorni di liti ininterrotte. Io le dicevo che volevo andarmene, lasciarla. « E allora va’, razza di vigliacco » sbottò, dopo l’ennesima mia provocazione. « Disprezzi tanto quella gente là fuori e sei diventato inumano quanto loro, anche peggio, perché almeno loro hanno una dignità, se ne vanno, mentre tu continui a startene qui e a mangiare a sbafo la mia roba... ». « Questa è anche casa mia, fino a prova contraria » le urlai. « Se non ti sta bene, vattene tu ». Il salone era diventato un opaco mantello di materiale teso impermeabile, con la qualità di trattenere ogni suono, oppure una morbida membrana insonorizzata contro la quale si attenuavano urla e sciabolate di odio. « Me ne sarei già andata se avessi la possibilità ». « E allora resta e lasciami in pace ». « Da domani questa storia finisce. Fatti le lavatrici e stira i tuoi 30


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stracci schifosi. Non continuerò a cucinare per te. Fa’ la spesa e non toccare niente di mio » si dileguò in cucina, e di ritorno sollevò sopra la testa una bottiglia di birra e ringhiò: « Stupida fino alla fine », tendendo il braccio. « Guarda che fine fa la tua dannata birra ». Scaraventò quella bottiglia sulle piastrelle con un violento frastuono e i frammenti e la schiuma schizzarono dappertutto. Poi scomparve oltre la porta e subito dopo il tintinnio di centinaia di grani di mais si attenuò sul pavimento viscoso. « Ecco i tuoi amati pop corn! ». Restò a fissarmi con degli occhi di brace e tutta rossa in viso. A quel punto mi alzai, strisciando verso di lei con i muscoli tesi e intimandole minacciosamente di smetterla perché non avrei tollerato oltre i suoi sfoghi da matta isterica. Indietreggiando, Martina si avventò su un grosso coltello da cucina. « Prova solo ad avvicinarti e ti faccio un buco nello stomaco ». Appariva come un grosso, tondo, disarticolato animale che si sente braccato e ormai goffamente in trappola. « Se fai un solo passo... ». Faceva sul serio. Temevo si tagliasse, o ferisse me in un folle tentativo di respingermi mentre lentamente cercavo di colmare la distanza tra noi. Con voce calma cercai di rabbonirla: « Avanti, dammi quel coso ». Tesi ben in vista le mani. « Calmati, ora. Ti chiedo scusa. Non facciamo sciocchezze, su ». Quando si distrasse per un istante, mi gettai su di lei e le afferrai e strinsi forte il polso. Il coltello cadde ai nostri piedi. Martina tirò in avanti e io tirai il suo braccio all’indietro. Con una forza che mi stupiva, continuò a spingersi avanti, e io, senza scarpe, con i soli calzini, fui trascinato. Istintivamente mi venne voglia di stringerle il collo e soffocarla, per mettere fine a quella prova di forza, di cui riconoscevo improvvisamente tutta l’assurda pateticità. « Brutta idiota » mormorai, d’un tratto, « fa’ pure quello che ti pare » e la lasciai. Nell’abbrivio della sua stessa spinta, come 31


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una torre che si sradica dalle fondamenta, il suo corpo pesante si proiettò senza freni contro la porta e crollò sul riquadro di vetro decorato. Un diluvio di schegge le si abbatté addosso. Emise un lungo gemito e si accasciò come un flaccido pupazzo di pezza. Fissai con gli occhi sbarrati la pozza di sangue scurissimo che già si allargava sotto i suoi fianchi. Incredula, Martina si soffermò sulle decine di arzigogoli color mosto che colavano dalle piastrelle bianche alla sua sinistra e sulle due macchie più grandi sulla parete del lato opposto. Si portò una mano ai capelli e li tirò con forza, continuando quel gemito ora più acuto come non si fosse mai interrotto, serrando i denti e modulandolo in preda alla disperazione, mentre io fui completamente invaso dal panico. « Che succede, papà? ». La voce di Mattia mi raggiunse ovattata dal piano di sopra, quasi un sibilo soffocato. Il bambino si sporse dal vestibolo e quando i suoi occhi incontrarono i miei si riempirono di terrore. Fece per muoversi. « Sta’ fermo » gli ordinai. Riusciva a vedere solo me da quella posizione, ma evidentemente capiva la gravità della situazione. Si mise a singhiozzare. « Mamma, vieni » iniziò a supplicare. « Mamma ». E scoppiò in lacrime. « Sta’ zitto » gli intimai. « Fila in camera » urlai orribilmente, fingendo di precipitarmi su per le scale per dargli una lezione. « La mamma viene tra un po’, va’ a letto » riuscì a dire lentamente Martina. Se ne stava lì, con le gambe allungate, tra i frammenti di vetri e gli schizzi di sangue, fissando il braccio ferito, ricoperto di sangue fino al gomito, come fosse un oggetto inanimato che non gli appartenesse, non facesse più parte di lei. Quel braccio appariva anche a me un qualcosa di terribilmente estraneo alla sua figura, un ospite mai ricevuto in quell’ambiente domestico che fino a pochi attimi prima, benché teso e percorso da una nervosa tensione, era stato apparentemente in tutto simile a migliaia di altri ambienti familiari odorosi di detersivo per piatti e acqua scrosciante, di bambini russanti e leggeri programmi d’intrattenimento alla televisione. 32


Monogamitic

« Fila nella tua stanza » ringhiai, con una maggiore durezza che non ammetteva repliche. Mattia non se lo fece ripetere. Si ritirò e scomparve nell’ombra, voltandosi un’ultima volta come un animaluccio battuto. Temevo che uno dei vicini venisse a bussare. Confinava con noi una coppia di poliziotti. Mi vennero i brividi. Cercai di recuperare in fretta la lucidità perduta. « Scusami » dissi con voce tremante. « Perdonami, ti prego. Sistemeremo tutto ». Le orecchie mi ronzavano e il cuore sobbalzava nel petto come una turbina. Prima di chinarmi su di lei scalciai il coltello lontano. La sollevai rudemente e la portai al lavandino del bagno. Feci scorrere acqua fredda sul suo braccio squarciato, rabbrividendo alla pallida vista della profonda ferita, lunga almeno una trentina di centimetri, che correva dal polso lungo il suo avambraccio. Il flusso d’acqua, mentre mi mordevo le labbra e cercavo di tenere a bada le mie dita disobbedienti che vibravano su quel pallore giallognolo simile a cera, si colorava di rosso prima di raggiungere lo scarico. La ceramica, lungo i bordi, era punteggiata e striata di rosso. Martina si divincolò con forza, mi scalciò vomitandomi addosso una lunga serie di improperi e offese, poi cedette, s’arrese, sorretta solo dalla puntuta spinta del suo stesso terrore. Udimmo Chiara urlare dal piano di sopra. La udimmo solo in quell’istante, ma dall’intensità del pianto era probabile che la piccola avesse iniziato a sgolarsi da diversi minuti. Lo sguardo che mi rivolse Martina, uno sguardo di frustrazione, agonia, umiliazione, delusione, mi fece sentire l’uomo più meschino del mondo, un assassino, un uomo che aveva compiuto il crimine più infame, insanabile e inumano. L’abbiamo fatta, l’hai fatta veramente grossa stavolta. I lembi della ferita apparivano irregolari, zigzagati, e la carne biancastra ne tracimava fuori in un punto, come uno sbuffo di panna densa da una brioche appena sfornata. Estrassi i frammenti di vetro che erano visibili, e un punteruolo più grosso penetrato per almeno tre centimetri. I gemiti acuti che rimandava Martina al tocco delle mie dita mi trafiggevano d’un dolore più 33


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pungente di quello che doveva provare lei. Rovistando affannosamente nell’armadietto, scaraventai dappertutto gli inutili barattoli alla ricerca del disinfettante. Afferrai un asciugamani e lo strinsi attorno al braccio di Martina. Il tessuto si tinse interamente di rosso dopo solo pochi istanti. Mentre attendevamo l’ambulanza, salii di sopra e urlai a Mattia di vestirsi alla svelta, con le prime cose che trovava. Non avevo tempo per sentirmi in colpa davanti al suo incolpevole sguardo atterito. « Dov’è mamma? » trovò il coraggio di domandare. « Mamma s’è tagliata con un vetro, vestiti! La portiamo in ospedale. È tutto a posto ». Irruppi nella stanza della piccola, come un pazzo. La sollevai di peso e la portai con poca grazia sul fasciatoio. La piccola scoppiò in un pianto congestionato sentendosi catapultata dalla culla a quel modo. La vestii con i primi stracci che mi capitarono a tiro. I pantaloni glieli infilai al rovescio. Ma non vi badai. L’ambulanza giunse rumorosa, lamentosa e insistente, assordando e illuminando l’intera corte dei villini a schiera. Non ci fu un solo vicino che non sbirciò ciò che stava accadendo. Videro me e Martina e due paramedici. Videro il sottoscritto infilare i bambini dentro l’auto e filare a tutto a gas dietro l’ambulanza. Quella notte fu lunga all’ospedale. Nella sala d’attesa tutti gli occhi mi fissavano. Due donne mi allontanarono dalla sala di medicazione e non mi permisero di stare accanto a Martina, e solo in seguito seppi da lei che le avevano chiesto di confessare la violenza domestica dicendole che a uomini della mia risma non bisognava farla passare liscia. Cercarono di persuaderla in ogni modo a denunciarmi. Se non lo avesse fatto lei, avrebbero provveduto loro. Ma Martina raccontò in modo convincente di essere caduta su un vecchio vetro, e che si trattava solo di uno stupido incidente. Quello stupido incidente le costò trenta punti di sutura. Più altri punti isolati lungo il resto del braccio. Disse a quelle donne che la medicavano che noi due ci amavamo e che non ero quel genere di uomo che le apparenze lasciavano ipotizzare.

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