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Meno feste, più diritti

VALENTINA PICCA BIANCHI, PRESIDENTE DELLE DONNE FIPE CONFCOMMERCIO, ATTUALIZZA IL SIGNIFICATO DELL’8 MARZO DELLA SOCIETÀ ITALIANA ATTUALE E SOTTOLINEA IL RUOLO CHE ESSE SVOLGONO, ANCHE A TUTELA DEL DIVIETO DI GIOCO MINORILE, NEGLI ESERCIZI PUBBLICI DOVE LAVORANO

di Anna Maria Rengo

Una mimosa non fa primavera. Intendendo, per primavera, una stagione di effettivo riconoscimento del ruolo che le donne già svolgono, e di pieno dispiegamento delle loro potenzialità, a cominciare dal mondo del lavoro, sia esso di tipo imprenditoriale che subordinato.

La nostra intervista a Valentina Picca Bianchi, presidente nazionale Donne imprenditrici Fipe Confommercio, parte dunque da una domanda ricorrente, ma che conserva ogni anno la sua attualità: a suo modo di vedere la festa dell’8 marzo ha motivo di esistere ancora e, nel caso, con quale significato?

“La festa dell’8 marzo no; la Giornata internazionale dei diritti della donna, al contrario, sì, e ne abbiamo anche molto bisogno. Mi spiego meglio: quella che serve non è una celebrazione della figura femminile in termini commerciali, che permetta facili speculazioni sulla base del motivetto fuori tempo per cui nel giorno della loro festa le donne debbano godere di agevolazioni o essere bersaglio di vuote parole di rispetto smentite dai fatti già l’indomani, ma un’occasione per spostare l’attenzione su di esse, quasi piuttosto che una ricorrenza sia una quota rosa; la Giornata internazionale dei diritti della donna deve ritrovare il proprio senso reale e farsi sprone a riflettere, a prendere coscienza e dunque ad agire per il progresso della condizione femminile in ogni ambito, da quello privato, con le sempre troppe notizie di violenza di genere, a quello pubblico, dove il grande ostacolo del soffitto di cristallo attende. E a lavorare per farlo finché davvero l’8 marzo non abbia davvero più motivo di esistere.

Le condizioni affinché questo avvenga ci sono: l’uguaglianza di genere è il goal 5 dell’Agenda 2030 e finalmente si riesce a intravedere qualche movimento nei termini di attenzione, analisi e soprattutto inquadramento degli obiettivi per e sulle donne a livello imprenditoriale, ma anche culturale e sociale. Come mi capita spesso di dire, ‘il tempo è un tempo buono’”.

La parità tra uomo e donna, le pari opportunità, sono obiettivi ormai di consolidato raggiungimento in Italia? Se no, che cosa manca e come si deve agire per raggiungerli?

“Affatto: secondo il Gender Equality Index, siamo al 63esimo posto nel mondo e al 14esimo in Europea per parità di genere; sono numeri che non ci portano tra i primi dieci, figurarsi sul podio. Questo è spia di una mancanza, di un divario che non si può colmare se non mettendo in discussione ciò che è parte del progresso in divenire, ossia il ventaglio di opportunità che ha la donna ma soprattutto che non ha; sul lavoro la parità va ricercata come potenziale opportunità, poi è giusto che si tenga conto della diversità tra uomo e donna e che, impiegata per un unico scopo, essa diventi forza.

Naturalmente si sta agendo in questo senso: l’istituzionalizzazione del Piano strategico nazionale per la parità di genere ha permesso lo stanziamento di risorse per oltre 5 milioni di euro in favore dell’empowerment femminile e il Pnrr dedica, su 34 che hanno come priorità la parità di genere, 20 punti alla partecipazione delle donne al lavoro. Ciò che di certo manca, mi permetto di denunciare parlando da imprenditrice, è un modello da parte delle grandi aziende che sia poi applicabile a livello imprenditoriale alle piccole realtà: la Certificazione di parità di genere è sì un ottimo primo passo, ma è solo quando la si scarica a terra che una consapevolezza diventa diffusa”.

Che cosa ne pensa delle quote rosa?

“Nonostante ago della bilancia nella scelta dei miei collaboratori restino per me competenza e qualità rispetto al solo genere, le reputo un valido strumento nella breve durata; al contempo però mi auguro che siano transitorie, che diventino presto inutili, soluzioni di un problema che non si porrà più grazie a un mercato aperto alle donne, che permetta loro di avvicinarsi senza dover scegliere tra carriera e lavoro o ancora di giocare al ribasso per paura ci sia un prezzo da pagare se si prova a volare troppo in alto. Andrò contro i miei stessi interessi nel dirlo, ma spero la medesima cosa per l’imprenditoria al femminile, poiché essa non ha genere: volendo fare impresa, non è giusto che una donna venga considerata diversa da un uomo, sia a livello di possibilità, nella concretezza dell’accesso al credito, che di credibilità, come professionista competente. Se non con il buon senso, ci si arrivi con l’economia: se tutti partecipano alla pari nel mercato, e specificamente a uno in cui le leggi sono le stesse per tutti, allora c’è uguale opportunità. Le donne sono pari agli uomini costituzionalmente, non serve che lo dimostrino né che glielo si conceda ma è necessario che la società lo riconosca; in questo senso le quote rosa non sono la migliore soluzione, ma l’unica di cui sembra disponiamo al momento”.

Durante il periodo del Covid, le più pesanti conseguenze occupazionali hanno riguardato le donne. Questa stortura del sistema lavorativo è stata recuperata?

“Assolutamente no: le categorie più vulnerabili, tra le quali proprio le donne, sono quelle che ancora fanno i conti con le conseguenze negative della pandemia. All’inizio dello scorso anno, ad esempio, l’occupazione femminile era del 49 percento, registrando un dato sconfortante che non si vedeva dal 2013; ad aver perso di più sono le donne giovani, inserite meno profondamente nel mondo del lavoro, e quelle che abitano nel sud Italia, dove la divisione di genere è più dura a morire. Di certo il tradizionale binomio con la donna ha avuto il suo peso nella scelta, da parte di una famiglia media, di chi dovesse sobbarcarsi in misura maggiore dei carichi di cura e quindi scendere di qualche gradino nella scalata alla propria carriera. Laddove vi sia stato un qualche miglioramento, la pratica ha comunque comportato una crescita dei part time, anche involontari, che permettessero di gestire lavoro e famiglia da casa.

Definito ciò, è facile intendere perché le donne si trovino ancora, a distanza di tre anni dal 2020, a doversi destreggiare tra un lavoro e un altro, di cui il primo ha orari da ufficio e il secondo impiega il resto del tempo. Se ad oggi l’Italia è ultima tra i Paesi europei per occupazione femminile, vuol dire che le condizioni perché possano trovare un bilanciamento sono ben lontane e che le storture del sistema lavorativo sono più profonde di quanto possa sembrare dall’esterno”.

Nei pubblici esercizi, molti dei quali ospitano anche un’offerta di gioco, com’è la rappresentanza femminile, sia a livello di occupazione che di proprietà?

“I dati della Federazione ci offrono un quadro di oltre 300.000 lavoratrici nei pubblici esercizi, delle quali circa 120.000 sono nei bar. Sono più le donne degli uomini a lavorare nei pubblici esercizi, anche se questa proporzione si inverte tra dipendenti e imprenditrici. È comunque una componente primaria e di guida dell’occupazione e dell’imprenditorialità di settore; questa componente si fa sentire anche nella sensibilità al rapporto con le criticità dell’offerta di giochi che consentono vincite in denaro. Le donne infatti sono più sensibili e responsabili nel far rispettare il divieto assoluto del gioco minorile o nello sfruttare la possibilità di contatto umano che è possibile nei pubblici esercizi che propongono giochi come servizi aggiuntivi di intrattenimento”.

Come accennato prima, molti pubblici esercizi ospitano anche apparecchi di gioco: in qualità di presidente delle donne Fipe Confcommercio, questa aggiunta rappresenta un valore in più o crea dei pro-

Fonte: Gender Policies Report 2022, pubblicazione dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) blemi, a volte legati anche alle normative regionali in materia?

“Gli apparecchi sono, da molti anni, un servizio di intrattenimento accessorio, con piccole vincite, che favorisce la frequentazione dei bar e dei locali di ristorazione di prossimità e, con i ricavi aggiuntivi, permette soprattutto ai piccoli esercizi di far quadrare i conti. Le normative regionali in materia sono spesso inutilmente restrittive proprio con questa forma di gioco, che evidentemente non può essere da sola causa di dipendenze patologiche. Assieme alle altre componenti della Federazione abbiamo avviato da tempo azioni per favorire questa consapevolezza e per mettere in campo, accanto alle istituzioni preposte, soluzioni realmente efficaci che vedano gli esercenti come attori della prevenzione da tutte le dipendenze”.

A suo modo di vedere, le donne sono ancora “discriminate” o comunque caratterizzate principalmente nel loro ruolo di mogli e/o madri nella loro rappresentazione pubblica o nei mass media?

“È una domanda ambivalente come lo è anche la caratterizzazione che i media restituiscono della donna: l’immagine della ‘famiglia del Mulino Bianco’, con la mamma che prepara la colazione per tutti e il papà in giacca e cravatta che spizzica in fretta qualcosa prima di correre in ufficio, ancora infesta la televisione.

Inoltre, a ogni stereotipo che si continua a veicolare senza che venga prima messo in discussione, corrisponde la creazione, al passo con i tempi, di figure che, magari standardizzate non sono, ma che finiscono per diventarlo quando vi si crea intorno tutto un corollario ripetuto di atteggiamenti.

È una contrapposizione più labile e sfumata rispetto a quella dei social che ospitano diverse community a supporto delle donne e di letture che stravolgano la loro tradizionale rappresentazione; ma è un meccanismo che nasce dal rifiuto di ciò che lo origina: la ricerca della perfezione a tutti i costi e il lato oscuro della condivisione, ossia la tendenza a giudicare una persona sulla base dei pochi elementi che sceglie di mostrare alle altre e non sull’interezza.

Un grosso merito va riconosciuto alle influencer che si assumono la responsabilità morale della propria posizione nei confronti di chi le segue, giovanissimi e non: è anche grazie ai social, dunque, se le nuove generazioni stanno interiorizzando una cultura e una consapevolezza totalmente diversa nei confronti della donna, inserita in uno schema sempre più aperto e inclusivo. Del resto, si sa: gli schemi nuovi li fanno le società nuove”.

Da ottobre dello scorso anno l’Italia per la prima volta ha un premier donna. Pensa che questo fatto abbia segnato una svolta nel nostro Paese?

“Più che una svolta, penso abbia sdoganato una nuova possibilità per le future generazioni: quella che una donna possa essere a capo non solo del nostro Stato, ma di uno degli Stati più forti sulla scena mondiale. Come per il caso di Samantha Cristoforetti che diventa comandante della Stazione spaziale internazionale o della Mattel che infoltisce la lista dei mestieri di Barbie, spingendola oltre ogni segregazione orizzontale, con la presidente Giorgia Meloni si è aggiunto un ulteriore obiettivo tra i sogni delle ragazze. Finché qualcuno non li percorre, su certi sentieri l’erba cresce alta e li rende impossibili da attraversare; quando la consapevolezza diviene coscienza comune, poi, tutti gli eventuali ostacoli vengono abbattuti. Se è vero, come dicevo, che sono le generazioni nuove a fare gli schemi nuovi, lo è anche che, senza l’esempio, non ci sarebbero schemi da creare”.

Se pensa al concetto di parità tra uomo-donna, lei pensa che essi siano uguali oppure che siano diversi, ma con caratteristiche di uguale quantità/valore?

“Come ho già detto, uomo e donna sono diversi; non per un presunto rapporto gerarchico che li porta a godere di privilegi differenti, ma per una intrinsecità che passa per secoli nel corso dei quali abbiamo abitato e stiamo abitando in un mondo creato dagli uomini per gli uomini e caratterizzati da un’assenza e un silenzio femminile che si è imparato a usare come strumenti per rimarcare la propria condizione d’esistenza. Diversi con storie e valori diversi, dunque, ma costituiti da una diversità che unire nel rispetto reciproco è quanto di più alto una società possa fare”.

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