Storie al volo a cura di Giuliana Giromella Corso Serale Ipsia Giorgi Treviso 1st Edition
. • Presentazione 5 . • Ringraziamenti 6 • Perché raccontarsi ? 7 Ash - India 8 Senza tempo 8 . Denis Tafxhafa - Albania 10 Il cuore in Albania 10 Rudi- Albania 13 Viaggio dall’Albania 13 Sorin Mihalache - Romania 16 Lotte tra i Carpazi .16 Maissa Waly – Senegal 20 . Da sarto a lottatore 20 . Kiri - Costa D'Avorio 22 . Un nome due madri .22
Stanislas Yoh – Costa D’Avorio 24 . Pense à d’ou tu viens 24 . Frank – Costa D’Avorio 26 . Distacco 26 . Fofana Abdoulaye – Costa D’Avorio 30 . Costa D’avorio addio 30 . Hernane Samanago - Guinea Bissau 32 . Il cuore in Guinea 32 . Arouna Dabonè - Burkina Faso 34 . Partire 34 . Giornata mondiale dell’acqua 35 Non sprecare l’acqua 35 Lottare per avere un po’ d’acqua 36 . Alberto Pesce - Italia 37 In sella alla libertà 37 .
Giuliano Guidotto – Italia 40 . Primo viaggio all’estero 40 . Stefano De Benetti - Italia 44 . Tra cielo e terra 44 Emanuele Miele - Italia 49 Il mio futuro 49 . Haxhiu Siked - Albania 52 . Tu vivi nei miei ricordi 52 . Stefano De Benetti - Italia 54 . Ciao Leo 54 .
Presentazione Il laboratorio di quest’anno del Corso Serale può essere definito “laboratorio zapping”, gli studenti e le storie autobiografiche sono state “prese al volo”. Gli studenti del Serale hanno pochissimo tempo, vengono a scuola dopo una giornata di lavoro, alcuni arrivano in bicicletta, percorrendo diversi chilometri con tutti i tempi, anche d’inverno. Arrivare prima a scuola o rimanere un po’ di più per molti è un problema. La sfida è stata quella di realizzare una produzione scritta con il poco tempo a disposizione. Abbiamo vinto la tirannia dell’orologio cogliendo al volo le disponibilità degli studenti, che hanno messo in parole i loro vissuti con la velocità dei writers che in un attimo riempiono la parete dando visibilità e corpo alle proprie storie. Come lo schermo di una televisione, animato da una girandola di immagini, così i ragazzi sono entrati e usciti vorticosamente dall’aula computer lasciando sui fogli un condensato delle loro vite, dei propri ricordi, dei propri sogni. Al progetto hanno partecipato 20 studenti, di età compresa tra i 17 e i 40 anni, di classi e di nazionalità diverse, tra cui molti italiani.
Ringraziamenti Grazie a tutti gli studenti del Corso Serale che hanno partecipato, che si sono �messi in gioco� e hanno avuto il coraggio di raccontare e condividere. Grazie alla dott.ssa Cinzia Zanardo consulente esterna, che con la sua competenza e il suo sostegno ha permesso la realizzazione del laboratorio, supportando gli studenti non solo nella stesura dei testi, ma anche nella lettura.
Grazie al prof. Ermanno Domenicale che ha curato la realizzazione grafica del lavoro.
Perché raccontarsi ? Per imparare a ricordare, per avere il coraggio di guardare dentro di sé, per trovare le proprie radici, per scoprire le proprie ricchezze, il proprio patrimonio culturale . E’ un modo per condividere e creare legami umani e sociali, per apprendere la nuova lingua. Il laboratorio sulla biografia è un prezioso strumento per prendere coscienza di sé ed elaborare i propri vissuti. E’ anche il luogo dell’apprendimento e il contenitore dell’accoglienza. Gli elaborati scritti degli studenti hanno il senso della restituzione e della valorizzazione delle loro conquiste linguistiche e dei contenuti espressi. Per gli studenti la pubblicazione dei propri lavori, significa anche partecipazione, riconoscimento, e per alcuni integrazione e motivazione al vivere in terra straniera.
Prof .ssa Giuliana Giromella Coordinatrice - Funzione Strumentale Corso Serale ∼∼∼
Ash - India Senza tempo Più gli anni passano e più mi rendo conto che, invece di risolversi, i problemi aumentano. Il mio problema più grande è la mancanza di tempo. Non ho tempo da dedicare a me stesso, ai miei interessi, ai miei amici, alla mia famiglia. Non ho tempo per riposarmi. Mi alzo alle 6 di mattina e lavoro fino alle 5 di sera, son a casa alle 5.30, prendo la merenda e mangio per strada mentre vado a scuola perché non ho tempo di sedermi. Sono stanco di non avere il tempo per me stesso, sono stufo di non avere tempo per rilassarmi e fare le cose che mi piacciono. Ora ho un po’ di soldi ma non ho più il tempo per vivere.Ad esempio: fare la patente, mi piacerebbe, ma quando? La sfida più grande ora per me è concludere la Scuola Serale per ottenere un diploma. Per raggiungere l’obiettivo faccio grandi sacrifici.
Vengo a scuola in bici con qualsiasi tempo, faccio 13 km di strada ogni giorno dopo otto ore di lavoro. Spesso quando arrivo a scuola, mi sento troppo stanco per seguire con attenzione le lezioni, la testa a volte mi cade sul banco. Ho lasciato i miei sogni in un cassetto, ho smesso di sognare quando sono stato costretto a lasciare la mia terra, l’India. Là io volevo diventare contadino, ora invece sto diventando meccanico. Venire in Italia è stato un grande cambiamento di vita, molto difficile. ∼∼∼
Denis Tafxhafa - Albania
Il cuore in Albania Sono nato il 03-07-1995 in un piccolo paese dell’Albania, molto affollato grazie alla sua p o s i z i o n e g e o g r a fi c a , vicinissimo al mare e di collegamento tra le strade principali del paese. Nel mio bel paese tanto piccolo, ma per me stupendo, quella piazza per i miei occhi era oro, la musica per strada, il vento, il sole era magnifico, non avevo altri pensieri per la testa, solo vivere la vita. Ogni mattina uscendo da casa con mio fratello salutavamo i nonni, io portavo lui all’ asilo nido, poi mi dirigevo verso le elementari. Nel paese eravamo tutti una grande famiglia, uscivamo soli e rientravamo quando volevamo, non c’era nessun problema. Mia madre aveva un bar pizzeria a scuola dove noi studenti in ricreazione potevamo mangiare qualcosa. Nel mio paese avevo tutta la famiglia, non mi mancava niente, uscivo, giocavo, mi divertivo come tutti gli altri, avevo tutto. Le vacanze le passavamo insieme alla famiglia e anche nelle feste era tutto bello, nell’aria girava una bella energia di felicità, credevo che le cose belle non finissero mai.
Ma da un po’ di giorni sentivo in casa che qualcosa stava per cambiare per sempre, e da come vedevo i nonni non era affatto bello. Per quanto mi sforzassi di capire cosa stava succedendo, aumentava la mia confusione e ogni volta che andavo a chiedere ai miei nonni qualche informazione, si rattristavano ancora di più. Allora smisi di fare domande perchè qualsiasi cosa fosse stata, si stava avvicinando e avrei capito da solo. Mio padre era da tempo in Italia e dopo qualche anno di lavoro lo stato gli diede il permesso di portare noi a vivere li. E quel giorno tanto atteso con sofferenza e paura arrivò. Mi sentivo perso, non riuscivo a capire niente, intorno a me c’era tanta confusione e tanta sofferenza, sapevo che dovevamo partire quel giorno ma qualcosa dentro di me mi bloccava. Non potevo lasciare il mio paese, la mia gente i mie amici, no non volevo. Se ci penso oggi mi viene ancora la pelle d’oca e mi scende qualche lacrima. Dopo qualche ora di confusione mi ritrovai dentro il taxi che ci doveva condurre al porto. Sceso, realizzai cosa stava accadendo vedendo mia madre piangere; mi girai dal finestrino posteriore, vidi le sagome dei mie nonni con le lacrime agli occhi e una tristezza nel volto che non potete immaginare. Quel momento per me resterà per sempre il più brutto della mia vita. Era sera ormai, sul ponte della nave che stava per partire per l’Italia; vidi con occhi diversi il mio paese, i palazzi illuminati e mi immaginavo di essere li dentro con la mia famiglia e di divertirci, mentre in sottofondo si sentiva la musica suonata dagli artisti per strada, che energia quelle melodie. Mi chiedevo se in Italia avrei trovato lo stesso. Arrivati a Bari di mattina, mi meravigliai che non c’era quasi niente di diverso dal mio paese, la magia del sole, la gente. Pensavo “mi ci potrei abituare benissimo a sto posto, ed io che credevo chi sa cosa avrei trovato, era uguale al mio paese tranne la lingua che anche mi piaceva”. Passati i tre mesi stupendi a Bari, mi stavo facendo anche qualche amico,
ormai mi stavo dimenticando di quanto avessi sofferto per il mio paese, ai nonni telefonavamo con regolarità. Ma come ogni cosa bella anche questa doveva finire, preparammo le valigie e salimmo sul treno per Treviso, un lungo viaggio di undici ore che per la maggior parte passai a dormire per la tristezza che provavo. Usciti dalla stazione vidi tutto diverso, per me un altro shock: dal sole del sud, vidi solo nebbia e le luci delle macchine nel traffico che sembravano un fiume che scorreva ad alta velocità. E qui noi dovevamo trasferirci definitivamente. Questa idea non mi piaceva, avevo già capito che lì sarebbe stato difficile essere a mio agio, non avrei potuto sentirmi a casa. ∼∼∼
Rudi- Albania Viaggio dall’Albania La prima volta che ho fatto qualcosa d’importante per me è stata 12 anni fa, quando sono partito per l’Italia. Avevo 14 anni, da pochi mesi avevo finito la scuola media, mi sarebbe piaciuto continuare anche con le superiori, ma non avevo le possibilità economiche. I mie genitori non avevano un lavoro e quindi a casa mancavano i soldi. Era l’8 ottobre del duemila. Non dissi niente. Partii per l’Italia; quella sera pioveva, uscii di casa come solito: ciao. Esco con gli amici, invece ho mentito perché sapevo che non mi avrebbero mai lasciato andare via di casa a quell’età. Ero l’ultimo dei figli e quindi ero il più coccolato dai miei genitori, non mi facevano mancare niente. E oggi li ringrazio sempre per quello che hanno fatto per me anche c on quel poco che avevano. Quel giorno ho trovato un parente al bar; ho sentito, parlando con un amico che sarebbero partiti pochi giorni dopo per l’Italia. Ero euforico- gli dico: “Vengo anch’io con te, mi puoi portare da mio fratello che vive a Treviso?” Lui mi guarda e dice: “Ma stai scherzando? Dove vuoi andare, sei ancora un bambino per venire in Italia e per lavorare. I tuoi genitori non ti lasceranno mai”. Io gli rispondo: “Ma che te
ne frega se sono giovane, portami fin da mio fratello!”. Ci pensa un po’ e poi mi dice: “Prima devi chiedere ai tuoi, se ti lasciano, ti porto poiché insisti”. Verso le 3 di pomeriggio vado ad aiutare mio padre che lavorava nei campi, dopo un’ora vedo una persona che si avvicinava, era il figlio del mio parente. Capisco subito che mi doveva dire qualcosa e lo anticipo, per evitare che si esprimesse davanti a lui. Mi conferma che suo padre voleva vedermi alle 5 di sera davanti al bar se volevo ancora partire. Invento una scusa, dico a mio padre che soffro di mal di pancia e devo andare a casa. Lui mi ripete: “Vai e di tua madre di prepararti qualcosa di caldo da bere”. Mi allontano camminando piano, per fargli credere che sto male; arrivo a casa e do un bacio a mia madre che mi guarda e mi chiede come mai questo bacio inaspettato. Io replico che stasera parto per l’Italia e vado da mio fratello così trovo un lavoro. Mi guarda con due occhi dolci e lucidi e mi dice: “A 14 anni cosa pensi di fare in Italia?” Ed io rispondo: “Mi dispiace ma io ho deciso, stasera parto”. Vado al bar, dove il parente mi stava aspettando e mi conferma che è tutto pronto per la partenza. Salgo sul furgone che ci porta all’imbarco. Era mezzanotte, salgo sul gommone siamo circa in trenta, anche donne e bambini piccoli. Saliamo tutti, sento una voce: “Si parte”. Mi faccio il segno della croce e medito: Dio ci benedica e ci porti in salvo. La notte è buia e fredda, viaggiamo per circa 2 ore, inizia a piovere, fa sempre più freddo, i bambini piccoli cominciano a piangere, si lamentano per il freddo anche se erano vestiti bene. Una madre disperata chiede di tornare indietro, gli scafisti non ne vogliono sapere, ormai era troppo tardi perché le regole erano una volta partiti non si torna più indietro. Il tempo sembra non passare mai, tutti si domandano quanto manca per toccare terra. Ci dissero manca poco, state tranquilli. Alla fine vedo una luce, invece di avvicinarsi sembrava
allontanarsi. Dopo mezz’ora, che era un’eternità, vediamo le coste di Taranto. Sbarchiamo, anzi veniamo buttati in acqua. Erano le 4 di mattina del nove ottobre del 2000. Freddo? Non sentivamo più niente, il nostro corpo era tutto ghiacciato. Il nostro guidatore ci dice di non fare rumore e di seguirlo. Ci porta in un posto dove cambiamo i vestiti bagnati. Dopo un’ora ci vengono a prendere e ci portano in stazione del treno, dove ci ferma la polizia. Io ero minorenne e quindi potevano anche tenermi gli assistenti sociali; avevo tanta paura. Poi mi chiesero se avevo un parente in Italia che poteva presentarsi da loro con tutte le carte in regola; riferisco che avevo mio fratello e aveva tutte le possibilità di prendersi cura di me; inteneriti dalla mia età mi chiedono il numero per contattarlo. Dopo circa una settimana vedo mio fratello davanti a quella casa, dove stavo a Taranto con le assistenze sociali. Quando l’ho visto, mi sembrava di essere nato ancora una volta. La sera io e mio fratello prendiamo il treno per Venezia, finalmente mi sentivo al sicuro perché ero con lui. Per tanti anni mi ha fatto da genitore. Grazie a lui ho avuto una casa e l’affetto di una famiglia. ∼∼∼
Sorin Mihalache - Romania Lotte tra i Carpazi In quel tempo vivevo in una città tra i freddi Carpazi della Romania dove le risse tra i gli adolescenti erano all'ordine del giorno. Bastava anche essere soltanto di passaggio tra i quartieri per assistere a tremende scene di conflitti tra i gruppi chiamati gang. Queste gang erano formate da ragazzi e ragazze di età compresa tra i 10 e 18 anni e per entrare a farne parte bisognava superare dei test per esempio quello di stare fermo al muro e guardare come il capo della banda lanciava un coltello. Coltello che poteva anche colpirlo con gravi conseguenze. Per superare la prova non bisognava fare nessun movimento, ma stare fermi per mostrare un grande coraggio. Un’altra prova, più comune, richiedeva al “candidato” si lasciarsi picchiare da tutti i membri della banda. Doveva resistere il più lungo possibile e di solito capitava che sveniva e quando si svegliava si trovava in una pozza di sangue. Una sera, dopo un giorno passato in montagna sulle piste innevate, scivolando con il sacco di plastica, sulla strada di ritorno verso casa, ci siamo messi a lanciare palle di neve contro le ragazze che passavano. Senza accorgercene abbiamo colpito una ragazza che apparteneva ad un altro gruppo. Subito il suo amico, pieno di rabbia si avvicina per colpirmi, ma viene fermato da il mio migliore amico, Razvan con un pugno in
faccia. Lui si allontana, ma poche ore dopo, insieme ai suoi amici, torna da noi armato di pezzi di legno presi da una casa in costruzione e sassi pronti per cominciare la “guerra”. La rissa continua fino a quando interviene la polizia. Arrestano Razvan, che era ferito e arrestano me perché volevo aiutarlo a fuggire. Questo fatto ha scioccato mia madre che mi ha minacciato di portarmi in Italia dove si trovava mio padre. Dopo 3 mesi, sono andato ad un concerto di sera insieme al mio amico e per strada ho incontrato quattro ragazzi che avevano una grande voglia di prendere in giro la gente. Razvan ha preso un pezzo di legno e si è volto loro con un gesto, ma i ragazzi non si sono tirati indietro, anzi lo hanno colpito. Io sono corso in suo aiuto e ne ho colpito uno, ma un alto da dietro mi ha lanciato un sasso sulla pancia; a quel punto ho tirato fuori un piccolo coltello che avevo in tasca quasi sempre e mi sono volto verso di loro. Dopo un attimo di tensione si sono ritirati e hanno cominciato a correre. Ma non è finita lì. Dopo tre giorni sono andato con i miei sette amici in un campo da calcio a giocare a calcetto e mentre giocavo quei quattro ragazzi insieme ad altri sette sono entrati nel campo recintato e uno è rimasto vicino alla porta tenendola chiusa. Erano equipaggiati e noi no e io per proteggermi la testa ho preso il cestino che era dietro di me e l'ho usato come casco e mi sono girato verso uno di loro che aveva in mano una mazza di legno. Nonostante un pugno in faccia, sono riuscito a prendere una mazza da baseball e ho cominciato a ruotarla colpendo il più possibile. I miei amici si sono fatti coraggio, siamo riusciti a batterli e abbiamo vinto ma con qualche segno visibile sul viso. Mia madre non ha più sopportato il mio comportamento e mi ha spedito in Italia dove si trovava mio padre che era più autoritario. Così l'Italia ha messo fine alla mia vita di picchiatore. ∼∼∼
Vladimir – Moldavia Nascondiglio tra le viti Mi chiamo Vladimir. Ho 33 anni. Sono una persona molto tranquilla. Sono nato in un paese di campagna dell’est Europeo. La mia famiglia era molto numerosa. Io sono l’ultimo di cinque figli. Ho vissuto li fino all'età di 24 anni, ho lavorato la terra con mio padre: mais, patate, mele, uva, nocciole ed ogni tipo di ortaggi, fino quando sono partito per l’Italia. Ho avuto un’ infanzia molto serena e divertente in campagna; la casa nostra è stata costruita alla fine degli anni 50, un modello come tanti in quel periodo. Da bambino mi piaceva tanto correre per il giardino e per i campi e spesso mi nascondevo tra le viti. Il vigneto era basso, mi copriva tutto, sembrava una tenda segreta e pensavo di conoscerla solo io; era il mio nascondiglio preferito. In primavera e in estate salivo sui ciliegi del nostro giardino alti fino a otto metri e da su dicevo "Nessuno è alto come me". Desideravo molto crescere e aiutare i miei genitori nel lavoro. Spesso mi infilavo tra di loro e rompevo qualcosa e poi spaventato scappavo via e mi nascondevo. Dove? nella tenda segreta che "nessuno conosceva" e poi i miei genitori facendo finta di cercarmi non mi trovavano mai e come spaventati si domandavano “Dove sarà finito il nostro figlio, quando
tornerà a casa?" poi io uscivo e gridavo “ Eccomi!“. Ho compiuto gli studi obbligatori nella scuola del villaggio poi per motivi economici ho iniziato ad aiutare i miei genitori. Sono venuto qui in Italia quattro anni fa a lavorare, ho iniziato dopo cinque mesi e da allora non ho più smesso. Venendo in Italia sognavo di guadagnare soldi e di tornare a casa e aprire un’attività mia, ma non è così facile come pensavo; quando ero a casa si parlava dell’Italia come di una terra dove si guadagnavano soldi molto facilmente ma invece non è così. L’Italia è un paese molto bello, con gente simpatica e molto disponibile ad aiutarti. Anche se non è quello che mi aspettavo , mi trovo molto bene qui. Della mia terra mi manca molto la mia casa, il mio giardino, i rumori della mattina, il silenzio della notte d’ inverno, mi manca molto il profumo del bosco che circonda una parte del mio villaggio, mi mancano moltissimo i raggi del sole che passavano tra rami dei ciliegi e il sapori delle fragole fresche appena raccolte. Mi mancano molto le persone del vicinato che quando qualcosa non gli piaceva iniziavano a brontolare, l’abbaiare del mio cane quando mi sentiva da lontano e si avvicinava e abbaiava molto contento e aspettava di essere accarezzato. Per il mio futuro non ho nessun progetto, per il momento mi godo la vita di tutti giorni, cerco di non perdere tempo e di fare tutto quello che una volta non riuscivo a fare, leggere libri, andare al mare e in montagna perché è un grande peccato trovarsi in un paese come l’Italia e non approfittare di andare in spiaggia o in montagna o visitare le città Italiane che sono meravigliose. ∼∼∼
Maissa Waly – Senegal Da sarto a lottatore
Sono nato in aprile nel 1979 a Diofior in Senegal, un villaggio povero, dove le persone non riuscivano a curarsi per vivere, non avevano molto cibo, acqua, luce. Si coltivava nei campi miglio, riso, mais, arachidi, fagioli e verdure. Mi ricordo che quando avevo 8 anni, andavo con mia mamma a prendere l’acqua, io portavo il secchio, lei prendeva una grande anfora che metteva sulla testa e camminavamo per tanto tempo e per tanti chilometri. I pozzi erano molto lontani, quando si arrivava, il più delle volte bisognava aspettare molto tempo perché c’era molta gente. Per avere l’acqua, bisognava prendere la corda con il secchio, legarla all’asino, così l’asino tirava la corda e il secchio. Io da piccolo vedevo la durissima vita delle persone della mia famiglia e del mio villaggio e volevo fare qualcosa per aiutarli. Già a 10 – 12 anni mi sentivo responsabile della mia famiglia; anche se ero il più piccolo, così ho
cominciato a fare alcuni lavoretti, tipo muratore e pescatore, per prendere un po’ di soldini da portare a casa e per questo motivo ho dovuto mollare scuola. Dopo qualche anno sono andato nella capitale ad imparare a fare il sarto come apprendista, mi piaceva, il capo era simpatico e molto disponibile. In sei anni sono diventato un bravissimo sarto, almeno così dicevano le persone. A 15-17anni ho deciso di praticare la lotta. La lotta é uno sport nato in Senegal, tra ottocento e novecento, proprio con la mia etnia ed è più o meno come la lotta greco-romana. Questa è stata una cosa molto importante per la mia famiglia, ogni week-end gli mandavo soldi, perché andavo a lottare nelle città. Dopo due anni sono diventato un campione regionale. L’anno seguente mi hanno selezionato nella squadra nazionale di lotta. Si organizza infatti un campionato per tutti i paesi africani, con le categorie di peso. Il primo viaggio che ho fatto è stato in Niger, là sono diventato campione di lotta come rappresentante del Senegal. Per cinque anni sono stato campione nella mia categoria. Nel 2007-2008 ho trovato un lavoro nel settore turistico, facevo la guida in un albergo nella città Mbour, nel sud del Senegal, in più ogni week-end, mi davano il permesso di andare a lottare. In quell’albergo ho conosciuto una donna italiana. Dopo due anni questa signora mi ha dato l’ opportunità di venire in Italia. Sono stato accolto in questa famiglia come un figlio, un fratello, un amico. Sono stato sorpreso da come sono stato accolto. Ancora una volta ho visto la differenza dei mondi, e delle persone, non mi sono mai pentito di essere venuto in questa famiglia italiana. ∼∼∼
Kiri - Costa D'Avorio Un nome due madri Sono nato a Treichville in Costa D’Avorio. Quando avevo tre anni mio padre si sposò con un’ altra donna, perché noi mussulmani possiamo sposarci con più donne. Quando ero piccolo, ero stato allevato anche dalla mia seconda madre, che aveva lo stesso nome della mia vera madre. Lei mi trattava male, mi faceva pesare che non ero suo figlio, mi faceva andare a cercare sempre l’acqua quando mancava e dovevo camminare per kilometri sotto il sole. Se rifiutavo, la sera non mi lavavo e non mi dava da mangiare e mi faceva pulire tutta la casa. Un giorno mi ordinò di andare a cercare dell’acqua, le risposi no, anzi non le risposi e quel giorno mi disse: “Non mangi e non entri in casa”. Rimasi fuori fino alle 20.00. Mi rifiutavo non perché non volevo lavorare ma perché sentivo che lei non mi volevo bene e mi sentivo sfruttato. Mio padre non sapeva niente di quello che mi faceva e che succedeva e del resto, io non gli dissi mai nulla. Un giorno come al solito mi comandò di fare le pulizie di casa, io mi rifiutai. Anche allora rimasi fuori fino alle
21.00. Mio padre, tornato dal lavoro, mi chiese spiegazioni, perché ero fuori e non in casa. Lo informai che era stata sua moglie a mandarmi fuori perché non avevo fatto i lavori perché ero stanco. Da quel giorno cominciarono a litigare. Io soffrivo molto quando rimanevo solo a casa con lei, mi sentivo orfano. Un giorno, mio padre decise di trasferirla in Ghana in un paese vicino e far venire mia madre dal Burkina Faso in Costa D’Avorio. Da quel momento la mia vita è cambiata; ero molto felice di stare con la mia vera mamma. Qualche anno dopo, la mia seconda madre si ammalò; sapevo che stava male ma non avevo il coraggio di chiedere come andava. Non guariva più, rimase in ospedale per cinque mesi; un giorno mi dissero che era morta, all’inizio non ci credevo. Sono rimasto senza parole, come se fosse crollato il mondo addosso; anche se a volte mi aveva trattato male, ormai non mi importava niente, le volevo bene lo stesso. Nonostante tutto quello che ho sofferto con lei, mi è dispiaciuto molto che fosse morta; ho pensato che quando era in vita, forse non mi odiava ma era il suo modo di educarmi. A volte si soffre per imparare o capire qualcosa. Qualche volta non sono stato gentile con te, riposa in pace mamma. ∼∼∼
Stanislas Yoh – Costa D’Avorio Pense à d’ou tu viens Mi ricordo il 3 dicembre, una serata fredda, ero arrivato a Treviso da tre mesi, abitavo da poco con i miei zii e cugini. Stavo guardando la TV, sento suonare il telefono, risponde mia zia, non avrei mai immaginato che quella telefonata avrebbe cambiato la mia vita in maniera così tragica. Ho capito subito anche se nessuno mi diceva niente che era successo qualcosa di terribile. Mia zia aveva cambiato faccia, poi ho sentito che piangeva. Nessuno aveva il coraggio di dirmi cosa era successo. Sono rimasto in ansia fino al giorno dopo quando mio zio Raymond mi chiama e mi dice : “ La vita è dura, hai perso tuo padre”. Il mondo mi è crollato in un attimo, ho pianto tutte le mie lacrime, non volevo credere. Ho provato rabbia per un destino crudele, la figura di mio padre è sempre stata molto importante per me anche se era stato molto severo con noi figli, voleva farci studiare e pretendeva da noi il massimo impegno a scuola. Mio papà faceva il veterinario, era molto bravo nel suo lavoro. Una sua frase famosa era “ Si vous travaillez pas à l’ecole ne
computer pas sur moi pour nourir votre famille”. Da mio padre ho imparato la curiosità per le cose e per la vita, un grande coraggio, lui non aveva paura di niente. Mio padre amava la vita, ringraziava Dio per questo. Prima di partire mi ha detto “ Pense à d’ou tu viens!” Mi ha detto di andare in Italia ma di ritornare un giorno in Costa D’Avorio perché lui non aveva intenzione di venirmi a trovare a Treviso. Mia zia, la sorella più giovane di mio papà che viveva in Italia da diversi anni, mi aveva fatto una sorpresa, mi ha procurato tutti i documenti per farmi arrivare vivere in Italia; quando l’ho saputo ero molto felice di cambiare la mia vita. Non avrei mai immaginato che una volta in Italia non avrei mai più rivisto mio padre. ∼∼∼
Frank – Costa D’Avorio Distacco Mi chiamo Frank, nato il 4 n o v e m b r e 19 91 i n C o s t a D’avorio precisamente a Divo. Sono il primo figlio della mia famiglia; non avendo avuto la fortuna di crescere con mia madre e conoscere mio padre come tutti i bambini, ho vissuto con la sorella maggiore di mia m a m m a , ch e o g g i ch i a m o mamma perchè è una persona fantastica e speciale. A cinque anni ho iniziato ad andare a scuola come fanno tutti perché è un ” dovere della vita” diciamo cosi. Ma vivendo in una famiglia molto povera, dove si mangiava una volta al giorno, ho lasciato la scuola a dieci anni per poter trovare qualcosa da fare. Quindi ho iniziato a girare per la spazzatura cercando delle bottiglie da vendere, così almeno mi guadagnavo da mangiare ogni mattina. Un giorno, girando, un signore che aveva una sala giochi dove la gente del quartiere si incontrava per passare la giornata, mi chiese se mi andava di gestire il posto per lui ed io ovviamente accettai. Alla fine della giornata gli davo i soldi che avevo guadagnato e mi ricordo benissimo di avere dato 3000 CF cioè cinque euro. In Costa D’avorio bastano per sopravvivere una settimana.
Da quel giorno quel signore mi propose di lavorare per lui e io acconsentii senza pensarci due volte, ma era un lavoro che mi occupava tutta la giornata. Lavoravo dodici ore al giorno per essere pagato 15 000 CF al mese che fanno esattamente 22.87 euro. Un anno dopo aver trovato questo “lavoro “ il marito della sorella di mia madre ha perso il suo, quindi sono diventato l’uomo della famiglia a dodici anni. Mi raccontarono poi che mia madre, che viveva in Ghana, aveva partorito una bellissima bambina di nome Gladisse, a circa 200 km di distanza. Ero molto felice perché avevo una sorellina. Decisi quindi di andare a fare una visita in Ghana per vedere mia mamma e mia sorella. Ho lavorato per un anno e ho messo i soldi da parte, avevo 13 anni. Ho chiesto alla sorella di mia madre di accompagnarmi, mi ricordo molto bene, era un martedì il 13 aprile quando siamo partiti per il Ghana e arrivati lì alle 4 del pomeriggio. Penso alla sensazione che ho avuto quando ho messo piede fuori dalla macchina. La prima persona che ho visto era lei, mia madre; mi sono messo a piangere e lei è corsa verso di me piangendo per darmi un abbraccio. Non ci vedevamo da quando avevo cinque anni. La notte di quel giorno io e mia madre, non abbiamo dormito, ma parlato e pianto. E’ stata una bellissima serata, purtroppo non ho passato molto tempo con lei. Dopo qualche settimana, si è aggravata la sua malattia e fu ricoverata all’ospedale. Alle 5 di mattina del 5 agosto bussano alla mia porta, apro e piangendo mi dicono che si è spenta la luce di mia mamma. Ho pianto come un bambino; il giorno dopo doveva essere seppellita. La nostra tradizione dice che dovevo fare tre giri intorno al corpo e questi tre giri per me erano proprio molto difficili; mentre li facevo piangevo perché sapevo che non avrei più visto mia madre. Quindi rimasto da solo con mia sorella, sono diventato l’unico riferimento della famiglia. Qualche mese dopo infatti si è spenta anche la luce di suo papà. Da quel giorno ho deciso di portare mia sorella con me in Costa D’avorio ma, arrivato lì, ogni mattina mi voleva seguire quando uscivo perché ero l’unica persona che
gli rimaneva. Quindi mi toccava portarla con me al lavoro, fino a quando ha iniziato ad andare all’asilo, ma anche là non ci voleva rimanere perché voleva stare solo con me. Per me era una bellissima cosa. Anche se era piccola, forse aveva capito che ero l’unica persona che gli rimaneva, quindi mi sono messo proprio a sua disposizione. C’ero sempre quando aveva bisogno, dormivo con lei, facevo proprio tutto con lei, mi ricordo ancora quel giorno in cui le ho portato un gatto e lei mi ha detto che lo avrebbe chiamato David cosi se un giorno non ci fossi stato, lei mi avrebbe pensato. Mi ha fatto molto piacere sentire mia sorella dirmi questi dolci pensieri. Ho passato dei bellissimi momenti con lei dall’asilo fino a quando ha iniziato le medie. Fino a quando il 10 ottobre del 2007 appena finito di lavorare, torno a casa per vedere il viso della mia sorellina prima che si addormenti, come ho sempre fatto. Trovo una nuova faccia, che non avevo mai visto in vita mia e mi dicono : “E’ la moglie di tuo zio, è venuta per portarti in Italia”. Ero felice ma allo stesso momento molto triste perché me ne sarei andato lasciando mia sorella da sola e questo mi faceva stare male. Per tre giorni ho pensato cosa fare, alla fine con la tristezza nel cuore, ho deciso di partire perché la situazione economica del mio paese e della mia famiglia era drammatica, perciò speravo di fare qualcosa di buono per aiutare anche la mia adorata sorellina. E il giorno 14 ottobre, di pomeriggio, mi dicono che dobbiamo andare. Ho guardato il viso della sorella di mia madre ed ho visto le lacrime che stavano scendendo dai suoi occhi e lì ho pianto ancora, chiedendole di accompagnarmi all’aeroporto. Mi ha detto di si, anche mia nonna si è messa a piangere ma non ci potevo fare niente perché tutti vedevamo una opportunità per me e mia sorella. La cosa che mi ha fatto più male è che me ne sono andato senza salutare mia sorella perché era a scuola. Arrivato all’aeroporto pensavo di andare a registrare i miei bagagli per poi ritornare a salutare mia “zia-madre” ma non era più possibile tornare indietro, quindi sono salito in aereo con altri, poi ancora lacrime senza
salutare chi amavo tanto…le persone più care della mia vita. Ogni giorno che chiamo mia sorella mi chiede di tornare ed io per farla stare tranquilla rispondo sempre “si amore mio stai tranquilla, arrivo”. Spero solo di trovarmi un lavoro e farla venire qui da me. Per fortuna ho incontrato una splendida persona che mi fa passare ogni giorno dei momenti bellissimi, da quando l’ho incontrata. Questa persona per me è speciale e non la voglio perdere per niente al mondo. Lei è la mia ragazza che ho incontrato il 4 ottobre del 2009. Questa è la storia di un ragazzo che si chiama Frank, non auguro a nessuno di patire quello che ho passato io. ∼∼∼
Fofana Abdoulaye – Costa D’Avorio Costa D’avorio addio Nel 1999 avevo 5 anni ed era il giorno in cui io e mia madre dovevamo salutare Abidjan, il nostro paese, per venire in Italia. Dovevamo venire in Italia perché mio padre vi lavorava già da un po’ di tempo e voleva tutta la famiglia riunita. La mattina del giorno della partenza faceva molto caldo, la casa era piena di amici parenti e zii che ci volevano salutare, regalare qualcosa per il viaggio. Mi sentivo emozionato, sentivo che stavo salutando il mio vecchio mondo, la mia terra, i miei amici per iniziare una nuova vita in Europa. La cosa che più mi addolorava era quella di dover salutare la mia amica del cuore, con cui avevo passato tanti bei momenti, sapevo che era un addio. Non volevamo separarci, eravamo molto legati e questo distacco è nei miei ricordi il momento più buio della mia vita. Nonostante questo dolore, ero molto emozionato e contento di andare in Europa perché nel mio paese tutti dicevano che in Europa potevi sistemarti molto bene e non avere problemi economici.
Sono le 20.00 è il momento di partire e di salutare con un sorriso la mia casa dove ho passato gran parte della mia infanzia. Mio zio Doufou accompagna me e mia madre all’aeroporto, arriviamo lì alle 20.30, passiamo i controlli e ci imbarchiamo. Era la prima volta che salivo in aereo. Ero molto emozionato mentre mia madre aveva tanto paura di cadere. Decolliamo alle 21.10 e un po’ prima un signore ci dice di allacciare la cintura di sicurezza e di restare seduti al proprio posto. Era il pilota. Arrivati all’aeroporto di Venezia ecco mio padre e lo zio Asse che ci aspettano. Appena usciti due signori vestiti di blu, due poliziotti, si avvicinano con un grosso cane, mia madre impaurita si mette a tremare perché non capisce che cosa succede e pure io non capisco. Sentiamo delle parole in una lingua che noi non capiamo, finalmente arriva mio padre che ci abbraccia e ci porta a prendere le valige. Sono meravigliato di tutto, andiamo in macchina. Partiamo e a un certo punto mi viene sete, lo dico a papà e lui mi risponde - dietro c’è una borsa- ; la apro guardo e vedo tante bottiglie colorate, prendo quella bianca, l’assaggio e con sorpresa la sento salata, poi scopro che è acqua minerale! Arriviamo a casa in Via Pennacchi, la zona già subito comincia a piacermi, vedo un bel giardino e una casa accogliente. Inizio la scuola molto presto a Santa Maria del Rovere per merito di mio padre e dei suoi contatti. Purtroppo a scuola mi trovavo malissimo non capivo mai niente di quello che mi dicevano. In ricreazione stavo sempre incollato alla maestra, avevo paura, gli altri bambini si lamentavano perché li picchiavo. All’ inizio ho rimpianto la decisione di venire qui perché mi mancava molto il mio paese, la mia amica del cuore, i miei amici, i miei parenti e soffrivo molto di nostalgia e del fatto di non capire la lingua italiana. Dopo un po’ di tempo ho imparato la lingua, ho fatto nuove amicizie, mi sono adeguato alla nuova vita, ho cercato di fare il bravo ragazzo. ∼∼∼
Hernane Samanago - Guinea Bissau Il cuore in Guinea Mia mamma mi racconta che appena arrivata in Italia nel 1997 ha trovato subito lavoro. Non è riuscita neanche a riposare dal viaggio che già ha i n i z i a t o a l av o r a r e c o m e badante. Per tutto quel tempo io e mia sorella siamo rimasti soli con la nonna in Guinea mentre il nonno è morto proprio in quel periodo a causa di una malattia. Quando sono arrivato in Italia avevo diciassette anni, ero felice di poter vivere insieme ai miei genitori. Per me tutto era nuovo, non avevo mai viaggiato cosi lontano. E’ stato un viaggio doloroso perché ho lasciato gli amici, la nonna, la fidanzata, la famiglia; ho lasciato la campagna che amavo tanto con suoi alberi di arance, banane, papaia, goiaba, mandarini, canna di zucchero e limone. Sono partito con uno dei miei zii dalla Guinea-Bissau alle sei di mattina per Dakar. Ci volle una giornata per arrivare perché c’erano tanti controlli. Ogni cinque o dieci km dovevamo scendere dalla macchina per controllare i documenti e bagagli. Le strade tra Guinea-Konakri e Kaulak sono
veramente rovinate, c’era tanta polvere e quando siamo arrivati a Kaulak la ruota si è bucata proprio quando eravamo nel mezzo del deserto. Ripartimmo di nuovo verso Dakar dove arrivammo all’una meno un minuto; eravamo pieni di polvere, non avevo neanche la forza per farmi la doccia; la mattina dopo dovevamo portare i documenti all’ambasciata. Quando sembrava tutto a posto, mio zio scopre di averli dimenticati in Guinea-Bissau, così lo stesso giorno è ritornato in Guinea a prendere i documenti. Prima di ottenere il visto abbiamo trascorso nove mesi a Dakar, da dove siamo partiti per l’ Italia. I primi tempi è stato molto difficile per me, non capivo la lingua, non avevo amici né lavoro. Ma la cosa che mi ha impressionato di più è stato il comportamento delle persone che si muovevano tutte in fretta di qua di là; ci sono dei giorni che rimango a casa da solo e ci sono delle volte che non ce la faccio e mi metto a piangere perché non sono abituato alla solitudine. Poi la mancanza dei soldi non era come in Africa; anche lì la situazione era dura però i soldi non erano così importanti come in Italia. Qui invece è tutta un’altra cosa, senza i soldi non fai nulla. Mi mancano tanto le persone che amavo e mi manca la natura, il canto degli uccelli, l’aria pura, insomma mi manca tutto. Il mio sogno è di trovare un lavoro, l’amore, ballare, aiutare gli altri e riuscire a comprare un trattore così potrei coltivare e tornare un giorno nel mio paese e continuare a coltivare la terra. La mia sfida è il diploma, finire la scuola serale. Però è un momento molto difficile, ora non c’è lavoro, c’è la crisi soprattutto i giovani. Devo misurarmi con le difficoltà combattere per il mio futuro, non scoraggiarmi e assumere le mie responsabilità. ∼∼∼
Arouna Dabonè - Burkina Faso Partire E’ stato molto doloroso per tutta la mia famiglia. Perché la mia mamma si sentiva molto triste nel veder partire suo figlio e andare lontano da lei. Era un cuore che si divideva in due parti. Anche per me è stato un momento di tristezza, soprattutto per i miei fratelli che sono rimasti li. Arrivato in Italia mi sentivo solo perché non conoscevo nessuno tranne padre Antonio. Mi sentivo solo anche perché non capivo l' italiano e la mia vita era cambiata. Ho dovuto ricominciare tutto da capo. Ho incontrato delle persone cattive che mi trattavano male per la mia pelle nera, ma a dire il vero ho incontrato anche delle persone buone che mi aiutavano a capire l'italiano. Ma dopo un po’ di tempo trascorso in questo paese, ho iniziato ad andare a scuola per apprendere la lingua e avere amici. Quando ho iniziato a parlare l'italiano ho capito che non era così difficile come pensavo e mi sono adattato a questa vita come se fossi nato qua. Adesso mi sento felice di essere venuto in Italia e di abitare qui; ogni tanto vado nel mio paese a visitare il resto della mia famiglia, rimasta nel mio cuore. ∼∼∼
Giornata mondiale dell’acqua
Kiri – Costa D’Avorio Non sprecare l’acqua Quando vivevo in Africa, la moglie di mio padre mi mandava a prendere tutti i giorni l’acqua. Il pozzo era lontano quasi due chilometri dalla nostra casa, io cercavo sempre di trovare una scusa per non andare, ma se mi rifiutavo mi castigava. Prendevo la mia bicicletta, caricavo una tanica di acqua e pedalavo nella polvere. All’ andata era abbastanza facile perché la tanica era vuota, ma al ritorno sembrava che la strada non finisse mai. Era molto difficile per me tenere in equilibrio sulla bici le tanica pesante di acqua e nonostante la legassi con gli spaghi o con gli elastici qualche volta mi cadeva. L’acqua era preziosa, veniva sempre utilizzata con grande cura e attenzione, non veniva mai sprecata come ho visto fare qua in Europa.
Maissa Waly - Senegal Lottare per avere un po’ d’acqua Sono nato a Diofior, un villaggio povero, dove le persone non riuscivano a curarsi per vivere, non avevano molto cibo, acqua, luce. Bisognava coltivare nei campi miglio, riso, mais, arachidi, fagioli e verdure e lottare per avere un po’ d’acqua. Mi ricordo che quando avevo otto anni, andavo con mia mamma a prendere l’acqua, io portavo il secchio, lei prendeva una grande anfora che metteva sulla testa e camminavamo nella polvere per tanto tempo, per tanti chilometri. I pozzi erano molto lontani, quando si arrivava, il più delle volte bisognava fare una lunga fila perché c’era molta gente. Per avere l’acqua, bisognava prendere la corda con il secchio, legarla all’asino, che lo tirava su pieno di un’acqua piuttosto torbida. Poi con il peso sulle spalle rifacevamo tutta la strada fino a casa. Quando sono arrivato in Italia sono rimasto stupito di vedere con quanta facilità l’acqua uscisse dai rubinetti nelle case e di quanta fosse sprecata.
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Alberto Pesce - Italia In sella alla libertà Come una madre ricorda i primi passi del proprio figlio, io ricordo la prima volta che salii in sella al mio bolide blu. Il freddo inver nale stava lasciando posto ad un timido t e p o r e r e ga l a t o d a i r a g g i primaverili. Era un giorno d ’ a p r i l e q u a n d o fi n i i d i sistemare la mia nuova moto e mio padre mi portò la targa per poterla finalmente mettere in strada. La sistemai e finalmente montai in sella. Partii, con una meta ben precisa: la libertà. I raggi del sole penetravano nella fitta boscaglia e la dolce brezza frizzante mi solleticava il viso. La gioia mi illuminava il volto. L’irripetibile profumo della natura riempiva i miei polmoni di un’aria che raramente avrei avuto l’occasione di respirare nuovamente, pur abitando in una zona in cui la natura non si limita al praticello dietro casa. Volavo sulle ali dell’immenso, solo, con l’unica compagnia del mi iPod che all’epoca era una radiolina da pochi soldi trovata tra i vecchi oggetti di mio padre e un paio di cuffiette alle orecchie, comprate con i miei primi risparmi. L’idea di solitudine non mi sfiorava, nessuno può avere una compagnia migliore del proprio spirito libero e sereno.
Corsi, corsi, corsi… nemmeno ricordo per quanti chilometri, fino a quando mi ritrovai in un ampio bosco. Credevo si trattasse della famosa “selva oscura”, protagonista dei racconti di Dante, da quanto era fitta e sinistra, ma nemmeno quel particolare poteva intimorirmi. Camminai a “braccetto” della mia nuova amica, fin quando trovai uno spiazzo a cielo aperto e mi lanciai nella soffice erba appena spuntata. Il mio spirito si liberò dalle catene del corpo e iniziò a fluttuare libero nell’aria. Mille pensieri affiorarono nella mia mente, alimentati dal fuoco dell’entusiasmo, ma una sensazione nuova e preziosa mi restò impressa. Quel tiepido giorno di Aprile dell’anno 2009, dopo lotte continue per trovare un senso alla mia giovinezza inesperta, che aveva dovuto far fronte troppo presto ai problemi che la vita presenta ogni giorno, sentii non mancare nulla come se avessi avuto dell’acqua fresca in mezzo ad un deserto. Era come se tutte le cose brutte che mi tenevano sveglio la notte, fossero sparite, sotterrate da una cascata di felicità, pura e semplice. Cosa potevo desiderare di più di tutto quello? Nulla, perché era quello il mio desiderio più grande, che vedevo finalmente realizzato. Ogni paura e preoccupazione erano state trascinate via dal vento. Molte persone sottovalutano i problemi dei ragazzini, sminuendo la loro situazione, inconsapevoli del fatto che non solo gli adulti hanno dei problemi. La vita sarebbe molto più facile se bambini e ragazzi vivessero nella loro purezza infantile privi di preoccupazioni, ma purtroppo non sempre è così. Solo quella giornata in moto, mi fece capire che la chiave della felicità sta all’interno dei gesti dolci e sinceri e le sensazioni di benessere. E una parte di me, quel giorno maturò. L’euforia della moto, non era tanto dovuta al fatto di possedere un mezzo per il quale potersi vantare di fronte a conoscenti e amici, ma era lei, la
mia moto, le mie fatiche, il mio sudore speso a guadagnarmi i soldi necessari per averla. Era la fatica dei miei genitori, l’impegno di donarmi un momento solo per me, di gioia pura. La promessa di fedeltà, come tutte le cose più belle della vita, è gratuita. Restai a gustarmi a lungo quelle sensazioni che nessuno meglio di me avrebbe potuto apprezzare, con lo sguardo perso a fissare l’azzurro limpido del cielo, volendo tornare per qualche minuto bambino, immaginando di scovare animali e oggetti tra i lineamenti delle nuvole. E solo quando il tramonto dava i primi segni, dopo un ultimo gran respiro, ripresi tra le mani il mio sogno blu. Mi guardai attorno, ripromettendomi che sarei tornato in quel posto molto presto, in compagnia magari di una persona speciale con la quale condividere gioie e paure, e rimontai in sella, ma questa volta non più in viaggio verso la libertà, bensì verso la mia dolce dimora, che sicuramente da quel momento in poi avrei osservato con occhi diversi, apprezzando tutto ciò che la vita aveva da offrirmi. E corsi, legando la sella della mia moto alle emozioni sperimentate quel giorno, con le quali strinsi un patto di fraternità e dalle quali non mi separai mai più. ∼∼∼
Giuliano Guidotto – Italia Primo viaggio all’estero Primo viaggio con un autoarticolato all'estero. L'azienda in quel periodo stava cambiando politica in merito alle assunzioni, non più autisti con esperienza, ma giovani autisti desiderosi di imparare un mestiere, da inserire in nuove tratte Europee. Erano due settimane che lavoravo in questa ditta di trasporti internazionali, mi avevano assunto in prova. Aiutavo il capo piazzale ed il meccanico nei lavori di ordinaria manutenzione dei mezzi. Era consuetudine far lavorare in azienda i nuovi e soprattutto giovani autisti prima di farli partire per un viaggio all'estero. Questo permetteva al capo di capire, attraverso lo svolgimento del lavoro quotidiano, carico e scarico mezzi, manovre di parcheggio, aggancio e sgancio rimorchi… se il nuovo autista era in grado di fare un certo tipo di attività. Il sabato della seconda settimana mi venne comunicato che la domenica sera sarei partito per la Francia con un mio mezzo, assieme ad un altro collega con un altro camion. Non vi dico l'emozione in quel momento, per me figlio di un autista. Mio padre era morto quando avevo 13 anni, e in quel momento, era come se lui fosse lì con me a dirmi bravo, ci sei riuscito, sono fiero di te. Per me era motivo di
orgoglio essere riuscito ad arrivare a lavorare in un 'azienda di viaggi Internazionali; era il massimo della realizzazione. Appena finii di preparare il camion, corsi subito a casa per comunicare alla mia famiglia che ero stato assunto e che la domenica sera sarei partito. Si la mia famiglia, due figli che allora avevano 5 e 3 anni e mia moglie Michela, una donna splendida, con la quale abbiamo saputo con tenacia e caparbietà rimanere uniti in tutti questi anni di sacrifici. Si perché il camionista non è un lavoro facile, ma molto gravoso, sia per l'impegno quotidiano di guida, sia perché il tipo di lavoro ti portava ad essere assente da casa normalmente cinque giorni la settimana; praticamente non dormivi nel tuo letto cinque notti su sette e a volte, se il viaggio era lungo anche dodici su quindici. All'epoca, siamo alla fine degli anni 80, non c'erano i telefonini, ogni sera da una qualsiasi cabina telefonica chiamavo la mia famiglia. Ricordo che appena sentivo la voce della Miki, mia moglie, capivo se andava tutto bene, se vi erano problemi con i figli, se erano stati disobbedienti, se c'erano problemi con la scuola o se qualcosa era andato storto nel suo lavoro. Passavamo tutte le sere per quattro o cinque minuti a dirci le cose della giornata, fortunatamente quasi sempre positive. Pochi minuti al telefono perché era molto costoso chiamare in Italia soprattutto dal Belgio, dall' Inghilterra e dall'Olanda. Per poter avere un costo accessibile, quotidiano, si doveva usare una scheda telefonica e rimanere all'interno di una fascia oraria. Così ho accumulato un numero imprecisato di schede soprattutto francesi ormai pezzi da collezione, alcune molto rare, che raffiguravano fatti o avvenimenti importanti avvenuti nei vari stati. Era per me il famoso sabato 16 Maggio, data che assieme al 17 Maggio, giorno della partenza, non potrò mai dimenticare. Appena giunsi a casa e comunicai la notizia, ci fu un momento di silenzio, quasi come fosse una notizia grave, tipo partenza per la guerra, poi mia moglie, con le lacrime
agli occhi mi abbracciò e mi disse ti amo. Le risposi - vedrai che ce la faremo- e come se fossi mancato da casa da una vita, anche i miei figli mi saltarono addosso e mi abbracciarono fortissimo. Forse in quel momento ho capito veramente l'importanza dell'amarsi, del volersi bene, di quanto questo può rafforzare l'unione di una famiglia. Io e mia moglie ci siamo sposati a 22 anni io 20 lei. Ricordo a riguardo una frase che disse una mia cara zia ora defunta: ”Cari sposini Giuliano e Michela il giorno del vostro matrimonio sembravate due bambini che andavano alla prima comunione”. 17 maggio domenica di grande festa, picnic con la scuola materna, nella “piana degli alpini”, nei pressi di Vittorio Veneto, un meraviglioso posto immerso nelle nostre colline venete. Era una giornata per certi versi meravigliosa, ero con la mia famiglia, era una bellissima giornata di sole, avevo per mano Federico, in spalla Veronica, a fianco mia moglie, giocavamo, ci divertivamo un sacco, ma dentro di me avevo l'ansia, il pensiero che la sera sarei dovuto partire per la Francia. Mi turbava l'idea che non avrei dormito a casa, mi turbava l’idea di lasciare la mia famiglia da sola. Federico ogni tanto mi diceva: “Papi allora questa sera parti? La Veronica che aveva 3 anni, mi diceva” papi pati era”? Miki ogni tanto mi guardava con lo sguardo di chi si sente abbandonato; in quei momenti avrei rinunciato volentieri a tutte le mie ambizioni di “pilota”di camion pur di stare con la mia famiglia. Ma nella vita bisogna guardare avanti, ed allora via i cattivi pensieri, ho detto, pensiamo a divertirci, che oggi è una giornata meravigliosa, dedicata alla famiglia, godiamocela. Alle 5 del pomeriggio, dopo una giornata spesa anima e corpo a giocare e divertirci, era arrivato il momento del rientro. Noi avevamo la nostra auto, piccola ma confortevole, carica di ogni cosa, di tutto il necessario per il mio primo viaggio, sacco a pelo, cuscino, coperta, pentoline varie, vivande e tutto l’occorrente per vivere 4-5
giorni via da casa. Sembravamo una famiglia in partenza per le vacanze. La distanza dal luogo di festa e l'azienda dove lavoravo, era modesta, 15 minuti di viaggio, ma decidemmo di andarci subito, così avrei avuto il tempo necessario per allestirmi il camion. Passammo più di due ore a sistemare la cabina, questo puoi metterlo qui, questo puoi metterlo li, come dormirai, come farai a farti il caffè il mattino, sentirai la sveglia?. Federico e Veronica, - papi come ti laverai i denti?- e così via. Più di due ore passarono in un baleno, era giunta l'ora che nessuno voleva, quella della partenza. Ciao amore ciao bimbi vi voglio bene, dissi e mia moglie mi raccomandò vai piano e torna presto, mia figlia Veronica mi diede un bacio con uno schiocco che me lo ricordo ancora dopo 20 anni, Federico mi disse posso venire con te? Ancora baci e abbracci, salii sul camion e con il cuore in gola trattenendo le lacrime salutai dal finestrino. Fu la partenza del mio primo di una serie interminabile di viaggi con il camion all'estero, durati 22 anni. ∼∼∼
Stefano De Benetti - Italia Tra cielo e terra L'elmetto schiacciato sulla testa e premuto con i cinturini di sicurezza perché non si staccasse; t u t t i i n fi l a , ventiquattro persone si sistemano l'imbragatura del paracadute serrando le bretelle sul corpo, quasi da inarcare la schiena e fermare la circolazione del sangue alle gambe. Occhi enormi fissi nel vuoto, sguardi pieni di rabbia, ma con l’euforia di provare quello che li aveva spinti lì. Avevi sofferto le pene dell'inferno, le prove, i salti dalla torre da venticinque metri di altezza, sostenuti da una carrucola; ma in quel momento interminabile, un altro me guardava me e gli altri seduti sull'asfalto della pista dell'aeroporto; tutti in fila che aspettavano, e non sapevano ancora cosa. L'altro me ci guardava e pensava: ”Ma che cazzo fai ! forza svegliati da questo sogno! reagisci! vai via, via di qua!”. Ma non potevo! Sentivo di fare pena all'altro me, lo sentivo dentro la testa, nelle budella, nei nervi a fior di pelle, era li in piedi che mi guardava; ma non potevo fare altro. Ad un tratto l'aereo cominciò a rullare, si mosse come un drago al quale ci dovevamo immolare per la nostra gloria personale. Si aprì il portellone
posteriore, mentre il calore dei motori ci scottava la pelle del volto; il vento forte generato dalle eliche ci faceva girare sul sedere appoggiato sull'asfalto tutti da una parte. Ad un segno del direttore di lancio, il DL, ci alzammo ma con difficoltà nonostante il grande peso dell'imbragatura e dell'attrezzatura che portavamo; dovevo contrastare il forte vento ustionante inclinandomi in avanti con il baricentro del corpo; solo sotto la coda, in corrispondenza del portellone di imbarco, il vento più debole ci consentì di salire a bordo dell'aereo facendo attenzione al gradino. Entrato nel velivolo, dopo aver passato il tratto di turbolenza provocato dalle eliche, l'avanzamento è molto più libero. Ma lo sbattimento ritmato delle eliche che fendono l'aria come delle sciabolate, mi percuote il petto e i vestiti mi sbattono addosso come sventola una bandiera nel vento furioso; le orecchie mi dolgono dal rimbombo del motore e mi punzecchiano alle estremità, la faccia mi brucia dal calore dei motori. Cerco di prendere subito posto orientandomi un poco, i sedili non ci sono bisogna sedersi su di una rete di strisce di plastica color arancione ubicata lungo la carlinga. Il mio momento, quello più temuto sta per avvicinarsi. Il portellone sollevato da pistoni idraulici luccicanti si chiude. Il mio sguardo si misura con chi mi sta di fronte, la tensione è a mille, sono teso come la fune di un arco, sento l'aereo che rullando si gira e si posiziona. Ad un tratto sento un boato, il rullio si amplifica. E' ora, l'aereo sta per partire, ora tutti gli oggetti appesi con funi e catenelle si spostano tutti da una parte. L'aereo sta per decollare e si inclina, il rumore è a mille da inebriarmi un poco; raggiunti i 350 metri si posiziona in piano perché ha raggiunto l'altezza e la zona di lancio: i direttori aprono i portelloni, uno a destra e uno a sinistra del velivolo. Per la prima volta in
vita mia vedo il vuoto sotto di Vedo le ali gigantesche, che nonostante tutta la loro possanza riflettono nel vento e sciabolano un poco. Alle parole: “Cinque secondi al lancio, alla porta” ci alziamo tutti in fila, ognuno aggancia con un moschettone la sua fune di vincolo ad una corda di acciaio che percorre tutta la lunghezza dell'aereo. Poi all'ordine:” Via” e una pacca sulla spalla saltiamo fuori, mentre entra la nebbia nell'abitacolo. In sequenza ordinata i due direttori di lancio impartiscono i via, via, via ..... uno alla volta davanti a me saltano tutti. Ora tocca a me, assumo la posizione di lancio, il vento mi modella il volto e la pelle vibra, vedo tutti i moschettoni dei ragazzi appena saltati che stanno lì impacchettati l'uno sull' altro sulla fune d' acciaio, vi appoggio anche il mio; di scatto mi giro verso il portellone e noto una distesa di nuvole sotto di me. Non vedo più la pista. Sopra le nuvole non c'è niente in assoluto, e per un attimo penso di saltare nell' ovatta, ma il cervello mi dice che non è così, mi sento svenire, mi gira la testa, una vampata di calore mi sale agli occhi e in un attimo il cuore in gola; in quel istante il tempo si ferma e vedo passare davanti a me il mio passato, l’infanzia, la famiglia, la nonna che non c'è più, il lavoro, gli amici, la scuola. Il mio Via è arrivato, tengo gli occhi aperti, se questa è l' ultima che vedrò la luce, li voglio tenere aperti. Salto nel vuoto, tutto si muove velocemente ma mi sembra in rallenti; vedo le nuvole, i miei stivaletti da lancio, il vento è terribile e mi sbatte come un fuscello, mi gira, mi capovolge, mi fa perdere l'orientamento e sono in trance. L'altro me è lì accanto, ma io sono diventato un oggetto senza vita, una cosa staccata dalla coscienza, vedo i motori dell'ala dell'aereo che mi passano sopra, e ora incomincia il mio vero incubo. Il paracadute si aprirà e come ? bene o male ? mi farà
impazzire prima di vedere il buio? eseguo le manovre di controllo per vedere se tutto è ok: l'aereo se ne va e lo vedo allontanarsi come un palloncino che fugge di mano a un bambino; vola via e mi rassegno, controllo il paracadute è aperto ! eseguo il giro d' orizzonte per non andare in collisione con qualcuno e mi calmo, il silenzio che c'è lassù è agghiacciante, indescrivibile, non è neppure paragonabile al silenzio notturno che c'è al suolo. Non lo riconosco e devo provocare un rumore, sbatto i piedi tra loro e faccio degli schiocchi con la lingua, perché voglio sentire la differenza con il rumore che provocherò al suolo. Intanto la caduta mi solletica lo stomaco ma non finisce ed emetto un urlo di felicità; ad un tratto oltrepasso le nuvole e vedo gli altri paracadutisti, vedo la terra per la prima volta, guardo le mie gambe, i piedi, li muovo: ”Si sono i miei e penso, come fanno ad essere quassù, staccati da un appoggio!” il sole è lì sempre più bello sento una lacrima sul viso:” E’ il vento o sono felice ?” Sono libero leggero, per me non esiste la gravità terrestre e ritorno al silenzio che fa paura, il vento sibila e sbatte i lembi del paracadute rigonfio ed in tensione; da lontano sento le auto giù in fondo e vedo un puntino all'orizzonte, è un uccello non avrei mai pensato di sentirlo così bene a quella distanza e mi chiedo: “ Che premio ha dato Dio a loro, e non a noi, pur essendo i suoi prediletti?”. Guardo in giù e vedo gli altri che arrivano a terra, ma per me il suolo è ancora molto distante. Assumo la posizione di caduta e ripeto cosa fare per attutire l' impatto al suolo. Ad un tratto tutto è più vicino, tutto si avvicina e si ingrandisce, sempre di più. Penso: “ Oh mamma che botta, non farò in tempo a prepararmi per l'atterraggio” e un' istante più tardi l'impatto; cado in piedi fletto le ginocchia e sento i lacci degli stivaletti da lancio, che
mi avvolgono il piede, che scoppiano dall'eccessiva pressione esercitata al loro interno, li sento aprire e spaccarsi , ma è solo l'impressione dettata dalla paura. Cado e sbatto con violenza al suolo appoggiando piedi, coscia e spalla in sequenza come descritto, come lasciassi cadere una banana per terra dalla parte arcuata. Mi alzo e mi tasto le cosce con le mani come se cercassi qualcosa nelle tasche, guardo gambe e mani mi tasto il sedere vedo che ci sono e urlo: “ Sii ce l'ho fatta!” Ma lui non c'è, se n'è già andato, l'altro me al quale mi rivolgo è già rientrato nella testa; con velocità avvolgo il paracadute e via di corsa verso il punto di ritrovo, dove un camion mi sta aspettando ∼∼∼
Emanuele Miele - Italia Il mio futuro Sin da quando siamo piccoli iniziamo a frequentare la scuola: materna, elementari, medie e poi la scelta drammatica: le superiori. Dopo aver concluso i tre anni di scuola media, a soli quattordici anni bisogna prendere la decisione che costruirà il nostro futuro. Veniamo aiutati e indirizzati da professori e parenti su quale, secondo loro, sia la scelta più adatta per noi. Ma alla fine i veri artefici del nostro futuro siamo noi e non i nostri parenti, loro possono aiutarci ma non costringerci. E' una scelta personale e bisogna essere consapevoli di quello che si sceglie e purtroppo a quattordici anni questa scelta è prematura. Per prendere la decisione corretta dobbiamo conoscerci a fondo, capire per cosa siamo veramente portati, le nostre aspirazioni, i nostri sogni, i nostri punti forti e quelli deboli. Ecco, è questo il problema. Io non ho fatto la scelta giusta. Non avevo gli strumenti adatti. Ero troppo giovane, immaturo e non conoscevo le mie potenzialità. In fondo a quattordici anni si da' molta importanza alle amicizie e alla vita sociale, non si pensa al futuro e alle decisioni da prendere.
Finite le medie ho deciso di iscrivermi ad un istituto tecnico industriale perché mi sono lasciato abbagliare dall’open day della scuola che rispetto agli altri mi ha colpito particolarmente per la simpatia dei professori e per la bellezza e l’organizzazione dei laboratori di analisi. Troppo ingenuo! Non avevo tenuto conto del fatto che agli open day vengono mandati sempre i professori più solari e comunicativi, vengono mostrati agli ignari studenti solo gli aspetti più interessanti e seduttivi, si presentano degli esperimenti che probabilmente non si fanno neanche durante l'anno scolastico. Mi immaginavo professori sempre sorridenti, accoglienti e una scuola piena di attività sperimentali di laboratorio. Mi sono lasciato manipolare dalla “pubblicità della scuola” e sono finito nella loro “trappola”. Dopo un semplice biennio comune, abbastanza noioso, ho scelto l'indirizzo chimico, finalmente pensavo di poter lavorare in laboratorio immerso tra provette, camici bianchi e mille colori. Mi sentivo portato e mi piaceva molto, tutti quei miscugli strani, ognuno con una propria postazione di lavoro e le provette che ti facevano sentire un vero e proprio scienziato. Proprio qui ci sono cascato. Non avevo tenuto conto dell'aspetto teorico: formule, nomi impronunciabili di elementi e composti, bilanciamenti, problemi e migliaia di esercizi. Con la testa che mi ritrovo, per superare tutto questo non mi serviva solo studio ma coraggio. Non sono mai stato un ragazzo studioso, ma me la sono sempre cavata senza stare troppe ore sui libri, accontentandomi del minimo, non ho mai aspirato al massimo dei volti. Sono attivo e sportivo, mi piace stare fuori all'aria aperta e restare chiuso in casa per ore davanti ai libri per me è una grande sofferenza. Così ho perso il primo anno, ma nonostante l’insuccesso ho deciso di non abbandonare e seppure scoraggiato e depresso ho riprovato. Con uno studio superficiale e un po' di ricordi dell'anno precedente sono stato rimandato.
Ho frequentato i corsi estivi e mi sono accorto che per me era tutta una strada in salita, tutto complicato, difficile, e pensandoci bene, ero ancora in terza! Mi deprimeva l’idea di sentirmi sempre incapace e tormentato, sentivo di avere difficoltà abissali, avevo perso i miei amici del primo anno, ero solo, e non volevo nemmeno pensare a come sarebbero state la quarta e la quinta. Così ho preso la decisione, lasciare la scuola che mi aveva tanto deluso. Aver perso due anni a scuola non è stato solo una grande fallimento per me, ma una grande delusione per i miei genitori che continuavano in tutti i modi a motivarmi per cercare di aiutarmi. Purtroppo non ho trovato sostegno in me stesso e neanche nei miei professori che mi hanno fatto sentire sempre un fallito, un incapace. Volevo recuperare, o almeno riconquistare la fiducia, allora mi sono iscritto alla scuola serale tentando di recuperare gli anni di scuola perduti. ”La mia ultima spiaggia“. Non posso cancellare i miei fallimenti scolastici del passato, ma questa scelta mi fa sentire meglio. Sta sicuramente sistemando un po' le cose. Avrei dovuto scegliere con più attenzione sin dall'inizio e scegliere subito questo istituto perché vedo che i risultati che sto ottenendo sono molto buoni. Vorrei dare un consiglio a tutti i ragazzi che finiscono le scuole medie: per qualche giorno mettete da parte i videogiochi, gli amici e le partite a calcio e prendetevi del tempo per pensare bene a cosa volete fare da grandi e prendete la scelta giusta, non fatevi ingannare dalle apparenze della pubblicità delle scuole! ∼∼∼
Haxhiu Siked - Albania Tu vivi nei miei ricordi Per me questi sono giorni tristi che condivido con tutti quelli che ti hanno incontrato e conosciuto, ma ho bisogno di ricordarti. Leo, ti ricordo quando sei venuto per la prima volta nella mia classe, due anni fa, con tanta voglia di fare, eri sempre il migliore, anche in educazione fisica, la materia che molti prendono poco seriamente, invece tu ce la mettevi tutta. Sei andato via all’improvviso, non ci voglio ancora credere …Sono andato a leggere l’articolo in internet più volte, mi sembrava impossibile, mi sembrava un maledetto sogno dal quale volevo svegliarmi al più presto. L’incredulità e poi un grande dolore, di aver perso un compagno, un amico.Durante la ricreazione ti vedevo camminare per i corridoi con le tue felpe con il cappuccio o le camicie con i quadratini, stile montanaro, perché delle montagne tu eri innamorato. Mi ricordo le tue battute in veneto, da morir dal ridere! Le mie parole mi sembrano vuote, non servono a farti tornare in vita, non servono a cancellare o lenire il vuoto che hai lasciato.
Il tuo banco vuoto, lì manca il nostro Leo con i suoi quaderni, le sue penne, il suo zaino. Abbiamo parlato giovedì … di come andava la scuola, del periodo intenso, pieno di verifiche, ti ho toccato i capelli tagliati a spazzola e abbiamo scherzato insieme. Ti lascio il mio scritto sotto un cielo coperto, mentre guardo lassù, sta passando novembre e tu Leo hai 22 anni per sempre e per sempre vivrai nei miei ricordi. ∼∼∼
Stefano De Benetti - Italia Ciao Leo Ti scrivo dal mio banco di scuola, proprio dietro al tuo posto in classe. T i ve d o m e n t r e m i s o r r i d i girandoti di fianco, ora appoggi i gomiti sul mio banco con i pugni sotto al mento, preoccupandoti per me, vuoi sapere se ho capito ciò che spiega il prof. Se non ho capito, tu me lo spieghi con parole tue, comprensibili alle mie orecchie, nel mio linguaggio.Mi racconti della tua vita, della tua famiglia, la ragazza, il lavoro, la scuola, so che nella pausa pranzo fai i compiti, ripassi in bella copia meccanica, elettronica, matematica, italiano. Hai la risata coinvolgente, vai indietro con la schiena e sposti il peso del tuo corpo da una gamba all’altra. Ricordo proprio giovedì sera, quando imitavi scherzosamente alcuni prof. Eri identico, e tutti ci sbudellavamo dal ridere, mentre io ti pregavo di continuare, di farlo ancora. La maturità è solo un pezzo di carta che alla fine ci accomuna tutti quanti, ma la vera maturità è un modo di essere, è una qualità umana che tu avevi già e che forse qualcuno non avrà mai. Bello il tuo sorriso smagliante, mentre annuisci lentamente con la testa.
Nessuno è perfetto, anche tu sbagli, ma si vede nel tuo volto la consapevolezza del tuo errore riconosciuto. Un libro aperto. Leale e determinato, generoso. Hai sempre dato del tuo, gratuitamente a me e agli altri. Il nostro traguardo scolastico è lì a pochi metri, a pochi mesi, ma Dio ti ha voluto per sé, forse per dirti che ti vuole bene così come sei. Ciao Leo ∼∼∼
www.ipsiagiorgi.it questo lavoro è disponibile on-line su: issuu.com
IPSIA Giorgi Treviso maggio 2013
disponibili in formato ebook epub (ipad) e mobi (kindle)