LEGGERE LEGGERO -Calendario 2016/Agosto

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In questo numero: Emma Cannavale Giovanna Esse La ricetta Ultralight e… a Window on: ANNA MARINO La Pin Up Agosto di Naughty Pencil


ANNA MARINO BARBARA COMELES BARBARA PEDROLLO DESIRÈE CHARMAN EMMA CANNAVALE FEDERICA GASPARI FEDRA CAMPI GIOVANNA LINDA LERCARI LORIANA LUCCIARINI MARTINA SEMILIA MELA Space NUNZIA ASSUNTA D'AQUALE PAOLA ROELA YLENIA BAGATO FRANCESCO GIAMMONA GIOVANNI BERIA IL CAPITANO LUPO ALBERTO MAURO A. – Naughty Pencil MIMMO LA STELLA PAKAL PIETRO SANZERI STEVE MERLIN TONY THE SUB ULISSE VINCENZO CINANNI VLADIMIRO MERISI

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con la partecipazione di:


La caratteristica di questo nostro Calendario è il tema: l’Eros, in quanto componente fondamentale dell’Amore, raccontato nella sua connotazione al femminile. Celebreremo soprattutto la Donna ma non con i classici slogan o i consunti luoghi comuni: bensì quella vera, piena di passioni e incertezze, attenta e frivola; oggi di fuoco, domani glaciale. Quella Donna che a volte viene fraintesa, in questa società “mordi e fuggi”, dove tanti sono disposti a credere che tutto si può comprare e in certi casi, purtroppo, ottenere… anche ricorrendo alla violenza. Le donne, gli Amori e... i Cavalieri che troverete nel Calendario sono un ritratto, un piccolo contributo, alla comprensione del complicato e affascinante universo femminile, raccontato da chi ha fatto della comunicazione artistica più che un hobby, una Passione...

Quarta Edizione - Agosto 2016 a cura di Giovanna Esse


Capolinea di Emma Cannavale


Si svegliò di soprassalto; l’eco lontana di un sogno era in realtà una voce di uomo concreta e rude. “Signorina, guardi che siamo al capolinea”. Odiava quella parola e il senso di ineluttabilità, di non ritorno, che portava con sé. Caput mundi. Ultima fermata. Nient’altro dopo, il confine estremo: un salto nel buio. Buio, ecco, s’era già fatto buio, pure. Ma quanto aveva dormito? Era salita sul numero 4 della linea urbana in stazione centrale e ora si trovava nella periferia più remota della città. Non aveva mai saputo dove l’autobus completasse la tratta, eppure lo prendeva tutti i giorni. Da dieci anni. Ogni mattina scendeva di casa, uno spoglio bivani in via Capuana: la fermata si trovava a venti metri dal suo portone, accanto all’edicola gestita da un individuo scontroso e antipatico. La squadrava male da sempre, disapprovava sicuramente il suo piercing al naso, o forse i capelli, che cambiavano colore ogni due mesi. Non aveva mai capito perché si sentisse sempre in dovere di giustificare la voglia di sperimentare, di piacersi, di inventarsi: spendeva pochissimo in tinture casalinghe da quattro soldi, mica poteva permettersi il parrucchiere, per cui non era nemmeno da considerare una spendacciona. Perfino suo marito su questo vezzo non le aveva mai rotto le scatole: su molto altro sì, oh sì, eccome, ma il diritto di colorarsi di fucsia, verde e arancio l’aveva conservato. Che piovesse, facesse freddo o si schiattasse di caldo, tutti i santi giorni alle 6.45 lei era alla fermata, tranne la domeni-


ca. A rabbrividire d’inverno, a intirizzirsi sotto i diluvi autunnali, a sudare già dalle prime ore delle giornate d’estate. A condividere con gli studenti e qualche impiegato quell’attesa silenziosa fatta di colpi di tosse, sbadigli e sguardi impazienti all’orologio. Lavorava in pieno centro, a ore presso una famiglia altolocata. Teneva pulita la casa, cucinava, riassettava, scansava le odiosissime mani lunghe del Signore. Facendo finta di niente, accampando scuse in giro per altre stanze, rifugiandosi nelle sale della Signora quando proprio non ne voleva sapere di smettere di fare l’idiota, allontanandosi con la scusa dell’acquisto improvviso di un detersivo. Doveva sopportare e zitta, non poteva mica permettersi di perdere il lavoro: suo marito l’avrebbe ammazzata. Né poteva sognarsi di raccontargli tutto: sicuramente si sarebbe imbestialito, sicuramente la colpa sarebbe stata la sua. Chissà come l’aveva provocato, eh, chissà come aveva sculettato con la scopa in mano, o come gli si era piegata davanti per raccogliere qualcosa da terra. Si sa, è sempre colpa delle femmine. Alla Signora poi mica fregava nulla: a lei bastava che tutto fosse in ordine, che il pranzo e la cena fossero pronti, che potesse andarsene in santa pace a fare shopping quando poi finalmente il marito apriva lo studio e cominciava a ricevere i clienti nell’altra ala dell’immenso appartamento che condividevano. Che non si finiva mai di pulirlo, che spezzava le reni e le unghie, che lasciava la schiena rotta quando finalmente arrivavano le cinque. Perché tutto doveva essere perfetto, ovviamente: la pagavano bene, ma quelle rare volte che aveva rotto inavvertitamente qualcosa o lasciato un alone su uno


specchio del bagno, le avevano detratto la somma dallo stipendio o costretta a rifare tutto, anche se per quel giorno le sue ore le aveva concluse. Insomma, c’era da stare attente, chinare il capo e lavorare, sopportare, andare avanti. Come sempre, come con tutto. Quando saliva sull’autobus il posto a sedere lo trovava sempre: la gente cominciava a riempirlo due fermate più giù, a piazza Alfieri, dove convergevano le due vie popolari più grandi del rione. Lì, intorno alle 7.15, si riversava sul mezzo un campione di umanità varia che lei non si stancava mai di osservare: non solo le stesse facce di tutti i giorni che aveva imparato a riconoscere (ma con le quali mai si sarebbe sognata di scambiare una parola), ma anche immigrati, universitari, in primavera qualche turista che alloggiava nei due bed and breakfast della zona. E immaginava le loro vite, fantasticava sui loro lavori, sulle lezioni che andavano a seguire, sui paesi di provenienza: per lei che non si era mai mossa dalla cittadina in cui era nata, quel contatto rappresentava una finestra su un mondo che sapeva molto grande ma che non avrebbe visto nemmeno in minima parte. Per questo osservava curiosa i loro gesti, ascoltava quello che si dicevano, guardava i vestiti, le borse, ogni angolo del volto, i capelli. Qualche anno prima per un paio di mesi era salito a quella fermata un ragazzo: un volto gentile e bello, sempre in giacca e cravatta, profumato e sbarbato di fresco. Quante volte aveva seguito con discrezione i suoi passi alla ricerca di un posto, che spesso trovava in fondo al pullman: osservava di sfuggita le linee del


volto perfetto, le mani eleganti dalle dita sottili. Era sicura fosse un impiegato, forse in qualche banca in centro, si sa, questi girano di filiale in filiale. Poi, un venerdì, non se lo sarebbe più dimenticato, lui la guardò fisso in viso. E le sorrise. Era avvampata, abbozzando un timidissimo ricambio con un angolo della bocca per poi abbassare lo sguardo in maniera impacciata. Il cuore le batteva forte, non aveva più guardato nella sua direzione fino a che non erano arrivati in stazione, dove scendevano entrambi, prendendo due corsi opposti (né si era mai sognata di seguirlo, aveva sempre i minuti contati). E quel giorno lui aspettò che scendesse per rivolgerle un cortese “Ciao”. Ovviamente lei rispose, sempre educatissima era stata, ma poi si voltò e prese quasi a correre in direzione di via Fiermonte, al numero civico 12 dove abitavano i suoi datori di lavoro. Quel giorno aveva perfino lasciato che quell’odioso medico le palpasse un seno, concentrandosi sul volto di quell’angelo, pensando che esiste una bellezza, nascosta in fondo ad un destino squallido, e che forse avrebbe avuto il privilegio di ammirarla nuovamente il mattino dopo. Anche se il pensiero del marito, delle sue mani nodose, delle braccia solcate dalle vene in rilievo, la faceva tremare fin nel profondo, come se già l’avesse tradito. Si scambiarono timidi sorrisi e fugaci sguardi ancora per qualche giorno, ma quando un venerdì lui provò a seguirla, chiedendole se le andasse un caffè, fu presa da tale sgomento che pronunciò un rauco “No, non posso proprio, mi spiace, sono in ritardo” e corse via senza nemmeno girarsi, nonostante lui urlasse “Aspetta solo un attimo …”. Il lunedì seguente lei nemmeno guardò le porte


che si aprivano alla fermata, ignorando il calpestio dei piedi che salivano: non volse la testa, anche se sapeva che era lì, e si concentrò su un giochino stupido del cellulare. Fino a che non lo vide più: chissà, magari aveva deciso di cambiare mezzo per andare al lavoro, o aveva trovato casa altrove o chissà. Chissà. Le rimase in gola insieme ad un nodo di pianto, quel chissà. Continuò a pensarlo per molte notti a venire, mentre dall’altro capo del letto l’immenso marito russava sonoramente, soddisfatto del solito amplesso bestiale al quale la sottoponeva quasi tutte le sere. E che per fortuna durava pochi minuti, anche se poi continuava ad avere male per ore. (continua nelle ultime pagine)


Window on: Anna Marino Pensieri impregnati di salsedine‌


S

e abbiamo opinioni diverse, non vuol dire che non siamo compatibili. Se non sempre i punti di vista combaciano, non vuol dire che la mia idea sia sbagliata o viceversa. Se abbiamo modi diversi di agire, di comportarci, di pensare non vuol dire che i tuoi modi siano giusti e i miei errati. Le coppie più belle in amore come in amicizia, sono quelle diverse ma che insieme si completano. Sono due piatti sulla bilancia che creano un equilibrio. Se siamo uguali non ci sarà mai confronto né possibilità di crescita interiore perché i tuoi errori saranno gli stessi dei miei. Allora penso che...l'intelligente ascolta, riflette, apprende e fa tesoro di ogni errore. L'amico ti cammina al fianco l'innamorato diventa la tua seconda metà. L'ignoranza invece...punta il dito e condanna, perché è più facile colpevolizzare e scappare che affrontare.


M

i piace chi ha carattere, chi ti guarda negli occhi e riesce a trasmettere emozioni. Mi piace la forza negli abbracci, la passione nei baci e quelle labbra che sanno farti sospirare.

Amore e amicizie non si elemosinano mai, perchĂŠ se questo avviene, significa che stai porgendo la mano alla persona sbagliata.

Scrivere è come sognare a occhi aperti. Hai l’immenso potere di esplorare nuovi confini e plasmare la tua realtĂ .



C

ompeto solo con me stessa. Sfido la mia mente, sfido la mia anima e abbatto i miei confini.

Il medico prescrive: una pillola quotidiana di forza d'animo, una dose cospicua di pace interiore e la volontà di assimilare quotidianamente queste due medicine.

Anna Marino Poliedrica, Artistica, Scrittrice, Poetessa, Pittrice… insomma, Anna Marino ha l’arte dentro sè. La sua bellezza semplice, enigmatica, sconvolgente; la sua freschezza intrisa di millenaria saggezza, ne fanno più una Musa che una donna. Quando la leggi, quando ti passa vicino, ti pare talmente impalpabile, come zefiro leggero, ma quando ti guardi nell’anima ti rendi conto di aver appena incontrato un uragano… e che ti ha segnato, dentro. Cerca le suo opere su meetale. angelanna


Passione dietro le rughe di Giovanna Esse


Premessa Chi pensa male del fatto che io mi sia autoproclamata “una scrittrice”, probabilmente ha ragione da vendere ma di una cosa vado fiera, di una cosa sono sicura, una sola cosa so perfettamente… come diceva il filosofo: io so di non sapere. Infatti, io so di non sapere dove andrò a parare quando inizio alcuni racconti; so da dove comincio ma non so quanto si spingerà lontano la narrazione, che cosa scoprirò riguardo ai personaggi, cosa verrà fuori dai loro armadi e dai loro vecchi bauli polverosi. Potrei dire, “mi sento un’archeologa dell’animo umano?” Forse il paragone è troppo azzardato? Ok, allora: sdrammatizziamo. Io sono come Pippo, e quando me ne vado nella vasta soffitta dell’umanità, m’imbatto in vecchi scatoloni, impolverati ma non per questo meno vivi e affascinanti. E’ questo il caso di: Passione dietro le rughe. Una vecchia signora riscopre in tarda età l’amore… o qualcosa di simile, non meglio identificato. Tutto cominciò con un gioco, una “tiratina” tra la poetessa Linda Lercari Bartalucci e me… condividemmo un incipit e partimmo per la nostra rispettiva avventura. La mia, ha preso l’aere dopo oltre un anno e solo adesso è diventata un romanzo a puntate, che è ancora assai lontano dal raggiungere l’agognata sponda. Di seguito, le prime puntate…


Elvira aveva appena passato i sessant’anni. Tentava di evitare il ridicolo ma, se sapeva resistere alla tentazione di spingersi oltre la semplice cortesia, le era impossibile trascurare la visita, quasi quotidiana, al negozio di cianfrusaglie dove lavorava "l'oggetto" del desiderio per eccellenza. La tenda di perline tintinnò ammiccante e lei entrò, cercando di fare il meno rumore possibile. Desiderava essere invisibile. Voleva solo guardare il giovane, di nascosto, e bearsi della sua virile perfezione. Lo trovò intento a sistemare uno scaffale di ninnoli assortiti. Paccottiglia inguardabile.


Non come quel suo fondoschiena perfetto, alto e sodo troppo fasciato in pantaloni almeno di una taglia più piccoli. Deglutì. Il giovane uomo non si accorse si essere osservato e si passò distrattamente una mano fra i capelli chiari, leggermente lunghi. Un gesto affascinante, quasi erotico. La voce di un'altra commessa la fece trasalire. - Buonasera, desidera? - Ecco... Io... - la vecchia fu presa alla sprovvista, si scrollò per uscire dallo stato ipnotico suscitato dall'attrazione indomabile. Stava quasi per arrossire... Ma lui la salvò con galanteria, le fu subito accanto; sorrise come faceva tutte le volte che la vedeva. - Alla signora penso io, non ti preoccupare. *** Elvira aveva sessant’anni. Da 7 era vedova... e, da 3 mesi si comportava come una scolaretta alle prime armi: entrava e usciva da un negozio, che vendeva merce del tutto avulsa dalle sue necessità, per comprare, informarsi e valutare, con accuratezza certosina, le più astruse sciocchezze e i ninnoli più inutili. Non poteva continuare così! Non tanto perché ne soffriva la sua pensione, quanto per il fatto che, ormai, il suo comportamento bislacco si cominciava a notare. Pure, quando il ragazzo era da solo, si trovava a suo agio e lui (magari la trovava ridicola) non faceva trasparire i suoi pensieri, anzi. Era talmente gentile, immediato, innocente,


con quel suo sguardo azzurro, che la faceva sentire importante. La sua dolcezza era come un cicchetto di grappa: a Elvira girava la testa e, per un attimo, dimenticava la differenza abissale che li divideva, peggio di un precipizio... una maledetta crepa che s'allargava, inesorabile, ogni giorno che passava. A darle un colpetto odioso, invece, fu il sorrisetto ironico della commessa: la giovane aveva capito tutto. La troia, quando c'era, la osservava con condiscendenza malcelata. Tutto ciò non la feriva, lo riteneva normale, ma non sopportava l'idea che, quei due ridessero di lei, magari nel retrobottega, mentre, nell'ora di pausa, si scambiavano effusioni e carezze, intime e furtive. Insomma: la sciacquetta trionfava sui suoi 60 anni, e di sicuro si godeva il suo collega; nessuna donna sana se lo sarebbe lasciato scappare... che rabbia le facevano quelle considerazioni, mentre sul faccino delicato, cercava di portare un sorrisetto placido, da nonnina appagata che si avvia tranquilla sul viale del tramonto. - Veramente, Fabio, avrei una richiesta un po' particolare... solo se si può, è naturale... - Elvira partì all'attacco, giusto per lo sfizio di far rodere il fegato all'altra donna. Usò il "tu" che si erano concessi qualche giorno prima, per trattare con intimità Fabio... il suo giovanotto preferito. - Vedi - continuò - ho una veranda a casa e mi sono innamorata del vostro mobiletto di rattan, ecco, quello appena dietro la vetrina... prima non c'era vero? E' in vendita? Fabio rise e le spiegò dove l'avevano acquistato, ma per l'esposizione non per la vendita.


Ma Elvira questo l'aveva già intuito... Il giovanotto fu gentile (e la "povera" Elvira non guidava) così, superando ogni aspettativa della signora, egli si dimostrò un gran signore; infine, e questo Elvira lo seppe solo dopo, la donna del negozio non era una commessa ma la proprietaria. Così ciò che avvenne raggiunse una notevole serie di scopi inaspettati... probabilmente la sua sessualità, più che matura, non sarebbe cambiata di una virgola ma, di sicuro, il suo orgoglio di donna ne usciva trionfante. In poche parole: Fabio si offrì di procurarle lo stesso mobiletto e di portarlo fino a casa sua. Elvira sfoggiò, con un bel sorriso, tutto il "dolore" per aver arrecato tanto disturbo e, intanto, la donna del negozio schiumava, mentre Fabio accompagnava la vecchia alla porta benigno e rassicurante. Elvira andò via raggiante; al costo dell'inutile stipetto avrebbe aggiunto volentieri qualsiasi mancia... ne valeva la pena. Si erano accordati per la domenica, nel primo pomeriggio, tra pochi giorni Fabio sarebbe stato a casa sua, non si faceva illusioni, non era il tipo, ma di certo si sarebbe goduta quella visita così speciale. Maledetti imprevisti! Alle 15 di domenica, puntuale, Fabio, in Jeans e maglietta attillati, arrivò, ma non recava con se un mobiletto, bensì un paio di scatole di cartone e persino la cassetta per i ferri. - Sono stata una sciocca... mi perdoni; io non immaginavo... non posso rubarle altro tempo... e poi, di domenica... -


disse Elvira, veramente imbarazzata. Effettivamente non si era resa conto che oggi, i mobili, li vendono così, in scatole di montaggio. - Ma non ci davamo del tu? – Rise, mostrando la splendida dentatura. - A quest'ora io prendo sempre il caffè... e tu? - Oh, sì... ma certo, figurati, farò il più buon caffè della mia vita! – promise lei allegra, contagiata dal giovane solare. Era raggiante, e mentre, correva in cucina, Elvira si sentì addosso vent’anni di meno, e magari li dimostrava, chissà? Per fortuna aveva conservato un fisico asciutto. Da giovane era stata magra: una donna alta, elegante, apprezzata. Inoltre, per scaramanzia, il sabato si era recata in un centro estetico fuori mano, per chiedere operazioni dolorose, costose e segrete, che, all'estetista del suo coiffeur, non avrebbe mai osato chiedere. Indossava una vestaglia semplice, coi bottoni, e sotto delle collant velate nere, tutto qui. Di sotto portava solo una canotta aderente, nera: il seno piccolo, una volta era il suo cruccio, adesso ringraziava il cielo, perchè, anche con il solo sostegno del top, ancora non cascava giù. Aveva trovato il coraggio di abbondare col suo profumo, anche se adesso, con Fabio a pochi metri da lei, trepidava per la paura di mettersi in ridicolo. Da un lato era euforica, dall'altro temeva di sbagliare a ogni gesto che compiva. Di una cosa sola era certa: con quel giovane non sarebbe mai successo niente di più... ma... in un angolo remoto e dolente della sua coscienza, una maledetta, stupida speranza, non voleva saperne di scomparire per lasciare il posto al necessario buonsenso.


Il pomeriggio volò in fretta. Fabio sembrava del tutto a suo agio, smanettando tra pinze, cacciaviti e chiavini; lavorava comodo, prendendosi delle lunghe pause, per chiacchierare con la padrona di casa. Elvira si fingeva tranquilla, mostrando una disinvoltura che era ben lontana dal sentire. Ogni frase “spontanea” che le usciva di bocca era frutto di una costante e trepida autoanalisi. “È giusto dire questo?”; “Posso nominare quel film… quella canzone? o mi farà sembrare più decrepita e ridicola di quanto già sono?” E poi: “Si sta così bene con Fabio. Vorrei che questo pomeriggio non passasse mai!” E ancora: “Cosa diavolo mi sono messa in testa?” Insomma Elvira, dopo anni di isolata e triste routine, si sentiva felice e, allo stesso tempo, frustrata, perchè tutto quel che desiderava non se lo poteva permettere. Non avrebbe mai creduto che essere vecchi avrebbe potuto comportare tanta passione, tanta indecisione e tanta, incontenibile, immaturità. Ma il tempo passava e il ragazzo rimaneva padrone della situazione. Lui, almeno, sembrava godersela, senza porsi troppi freni e (Elvira ci fece ben caso) senza misurarsi assolutamente; Fabio la trattava come fossero stati coetanei, non ricercava le parole; non centellinava i pensieri: sciorinava le sue idee senza ritegno, l’unica cosa che non faceva assolutamente era provarci. Alla fine le cose continuarono a scorrere, leggiadre e senza peso. Fabio, sudato e imbrattato, chiese a Elvira se sarebbe stato troppo sperare di usufruire della sua doccia; Elvira chiese a


Fabio se non gli sarebbe dispiaciuto trattenersi per cena. Tutto facile, tutto amichevole, come in un sogno, felice e inatteso. Il giovane insistette per la pizza, Elvira le ordinò. Alle otto erano a tavola, nell’accogliente, immacolata cucina. Dal salotto, le note soffuse di una raccolta di musica soft. E, finalmente, dopo il primo calice di vino frizzate, Elvira (che era quasi astemia) si lasciò andare. Sprofondò in un piccolo paradiso rosa, dove il tempo non dominava più sullo spazio e l’amicizia, genuina e piacevole, non aveva età. Aveva combattuto tutto il pomeriggio con la sua capacità di “fingersi” spontanea… adesso lo era veramente, e un possibile giudizio negativo, da parte di Fabio, non avrebbe avuto nessuna importanza, per quella sera, almeno. Si sentì la sua amica del cuore: avrebbe persino potuto offenderla, non le sarebbe importato un fico secco. Stava bene, stop! Tutto il resto non le importava più… e pensare che in tutta la sua lunga e scontata esistenza, sensazioni così erano capitate talmente di rado che iniziava a dubitare di non essersi mai sentita tanto bene. L’euforia si protrasse fino alle undici, quando Fabio dovette andare via: il giorno dopo lo attendeva il lavoro e quell’arpia, “purtroppo assai giovane”, della proprietaria del negozio. Un guizzo di curiosità femminile attraversò il cuore dell’anziana signora, ma seppe tenerlo a bada e non chiese a Fabio se, magari, tra loro due ci fosse qualcosa di più di un rapporto di lavoro, ma si trattenne. Niente di speciale accadde tra i due, però Fabio, prima di


uscire, quando la porta di casa era ancora chiusa e i due erano nella penombra, salutò Elvira con un abbraccio affettuoso e virile, poi, mentre continuava a stringerla a sé, le baciò il collo e le guance, premendo con le labbra tumide e facendo impazzire il cuore della donna. Fabio uscì senza aggiungere nulla e socchiuse la porta sul suo sorriso… Elvira arrossì quando il giovane era già andato via, con la testa che le girava non volle fare niente, quella sera. Corse a buttarsi sul suo lettone e si masturbò con ferocia, come non le capitava da tanto; se ne venne tra le dita, smaniando sul letto; approfittando ancora delle sensazioni che le aveva impresso sul corpo, il giovane Fabio: la forza delle sue braccia, il calore dei suoi baci innocenti e le tracce del suo profumo di uomo, che lentamente svaniva, da quella sua casa asettica e solitaria.


“Maledetto lui! Maledetta lei!” pensava Elvira nella sua mente offuscata dalla fantasia e dall’eccitazione, sopita per anni nella sua mente, avvezza a sentirsi una donna anziana. Adesso, un po’ per “calore” di femmina, un po’ pure per gioco, la vecchia si tirava tutta una serie di competizioni, gelosie, emozioni… con chi, magari, non si era nemmeno accorto di lei. Resistette una settimana senza notizie di Fabio, poi suo malgrado, non riuscì a fare a meno di cercarlo… aveva il suo numero di cellulare, ma non aveva idea di cosa chiedergli, così preferì recarsi al negozio, però ci trovò solo la strega. Dopo aver cincischiato in giro alcuni minuti, si fece sfrontata e chiese notizie del giovane, servendosi di una scusa. La donna la squadrò dalla testa ai piedi. Gelosa? Possibile? Certo sarebbe stata una bella soddisfazione… anche se solo morale. - Fabio? Non gliel’ha detto? È in viaggio di nozze… o qualcosa del genere, non saprei nemmeno se ritornerà a lavorare qui. Cosa le serve? Elvira avrebbe voluto sparire. Lasciò il negozio biascicando una scusa e si allontanò il più velocemente possibile. Il peso degli anni le ricadde tutto addosso. Dopo lo smarrimento, in pochi minuti era ritornata vecchia; giusto il tempo di vergognarsi con se stessa: poi l’oblio della sua vita piatta e incolore la pervase nuovamente. Fabio, la cena, i sogni: tutto si era spezzato come uno specchio che si schianta; il ricordo di quella serata folle si ridusse prima in pezzetti minuti e poi, finalmente, in polvere, allontanandosi nel tempo come se tutto fosse accaduto mille anni prima. (Continua…)


Capolinea

SECONDA PARTE di Emma Cannavale La fermata successiva era Corso Piave, il Policlinico. Accanto alla rampa del Pronto Soccorso, dove era stata innumerevoli volte: di giorno, di notte. Sempre di nascosto, inventando pretesti e bugie per l’occhio nero, i lividi e le microfratture. Sulla costola incrinata aveva dovuto ascoltare terrorizzata le domande di una donna in camice che non doveva essere un medico: aveva balbettato qualcosa, poi le aveva chiesto una fotocopia della carta d’identità, e con la scusa di recuperare la borsa dal corridoio era scappata via. Le faceva ancora male, se tirava un sospiro profondo, come se una lama si conficcasse sotto il seno destro. Quante volte aveva pensato di confidarsi con un’amica (ne aveva solo una, ma se la passava peggio di lei, con tre bambini piccoli e i genitori in casa), di andare al commissariato o fare una valigia e scappare lontano. Ma non si nasce eroine, come in quei pochi libri che aveva letto da ragazza: dove avrebbe trovato i soldi per ricominciare altrove, come avrebbe potuto convivere con la paura di essere ritrovata dal marito, sopportare l’ignominia di chiedere aiuto ad un estraneo, come e di chi fidarsi? I suoi l’avevano fatta fidanzare presto, era l’ultima di quattro figlie quindi prima se ne andava di casa meglio era. Le botte aveva cominciato già a prenderle da bambina, ci si abitua, il padre però le portava al


cinema, comprava loro il gelato la domenica, non faceva mancare nulla, sottolineava sua madre mentre metteva il ghiaccio sul tatuaggio viola a cinque dita sulla guancia. Lei aveva sempre insegnato alle figlie che un matrimonio è una croce, va portata con dignità, che i panni sporchi si lavano in famiglia, che non ci si rivolta mai, mai contro i propri genitori. Dal canto suo, invece, aspettava ogni mese con terrore le mestruazioni: non avrebbe mai sopportato di restare incinta. Prendeva la pillola di nascosto perché non sarebbe mai riuscita a raccontare tante cazzate. Eppure, non aveva la forza per combattere: la paura, quando è radicata, quando la covi per anni e cresce con te, non è facile da superare. Te la porti dentro sempre, ti immobilizza. Penultima fermata prima della stazione centrale: i giardini di Largo Tito Livio. Lo spiazzo davanti al Liceo, quello che lei avrebbe voluto frequentare ma invece il padre aveva optato per il professionale femminile così l’università era un problema eliminato in partenza. Non c’era mica stata male, in quella scuola, anzi i suoi ricordi più belli erano legati proprio a quel periodo: ma quanto avrebbe voluto studiare il greco e il latino, impugnare quei voluminosi vocabolari che vedeva in casa delle cugine, scrivere storie belle come quelle che aveva letto a casa loro, che nella propria i soldi per i libri erano considerati uno spreso. Avrebbe potuto insegnare, guadagnare qualcosa di più, conoscere altre persone. Forse anche un ragazzo più bello di suo marito, che era bello, certo che lo era a vent’ anni quando l’aveva conosciuto, altissimo, maschio geloso che la proteggeva da


tutto e tutti, era stato bello, allora…; ma avrebbe preferito un uomo diverso, che amasse anche leggere, con il quale avrebbe studiato, che si sarebbe potuto permettere di sfidare suo padre. Sull’ennesimo chissà doveva essersi addormentata profondamente. Tanto da saltare tutte le fermate fino a casa e ritrovarsi lì ora. Doveva essere il rione Libertà, la periferia a nord, all’esatto capo opposto della città. Che casino. Si alzò malvolentieri, vacillando sotto la luce fredda dei neon dell’autobus: fuori dai finestrini nemmeno riusciva a vedere i caseggiati. Con un vago mal di testa e la bocca amara biascicò un “Mi scusi” alla volta del conducente che la fissava stranito e che stava alzandosi anche lui dal sedile guida. Scese con passo malfermo i gradini del portello posteriore. “Fra quanto riparte?” “Guardi che questa è l’ultima corsa. Io aspetto un collega e vado via, se vuole ... ”. Non lo lasciò finire, ci mancherebbe, chiedere aiuto ad uno sconosciuto o tornare in auto con lui, chissà suo marito. Perduta nei bassifondi, si guardò intorno alla ricerca di un elemento di speranza, una chiesa, un bar: si era tragicamente accorta che il cellulare era scarico. Cavolo, ma doveva essere notte fonda. Non ebbe il coraggio di chiedere nulla, si inoltrò per qualche decina di metri su un viale deserto, sotto lampioni alti e mossi da un vento caldo, fino a che il latrato lontano di una muta di cani randagi non la dissuase.


Si voltò verso la piazzola della fermata, scorgendo la brace di una sigaretta accesa accanto all’autobus: il conducente era ancora lì. Meglio il capolinea, dunque. Essere arrivati, senza più fermate. Non dover più tornare indietro. Lo raggiunse, lui le andò incontro sorridendo. La riporto indietro signorina. Ma sì, ricomincio da capo. Grazie. Che sorriso gentile. La prese a braccetto e tornarono verso il pullman. A est la luce pallida di quella che sembrava un’ultima aurora.


Torta senza niente by Giovanna Esse

Incredibile, eppure‌ Oggi vi presento una torta fatta solo con pochissimi ingredienti, eppure: sana, buona e genuina. Leggera e soffice, ideale per la colazione o la merenda. Niente uova, niente burro, pronta in pochi minuti; utilissima per chi, anziano o convalescente, non vuole rinunziare a un peccatuccio di gola.


Ingredienti per il classico ruoto da 24 cm. di diametro. - 330 g. acqua a temperatura ambiente - 300 g. Farina 00 - 200 g. Zucchero -1 Bustina di Lievito in polvere vanigliato - ½ Bicchiere di olio di semi di arachide (90 g) - 1 Baccello di vaniglia Preparazione: Setacciare la farina, aggiungere il lievito in una terrina. A parte versate lo zucchero nell'acqua a temperatura ambiente, mescolando bene con la frusta. Aggiungere i semini di vaniglia e aggiungere l’olio di semi. Continuare a mescolare bene, poi, un cucchiaio alla volta aggiungete la farina preparata prima, per formare un composto liscio e senza grumi. Infine aggiungete un pizzico di sale. Imburrate e infarinate un ruoto, versare il composto e inserire nel forno preriscaldato a 170°C. Controllate la cottura dopo circa 30 minuti, applicare sulla torta un pezzo di carta forno, per evitare che secchi troppo in superficie. Ricontrollare dopo alcuni minuti, infilare lo stuzzicadenti per controllare se è pronta. Buon appetito. PS: Esiste anche una gustosa variante al caffè.


La Pin Up di agosto

Š Mauro A. Naughty Pencil - 2016


Naughty Pencil by Mauro A.

Mauro A. è un illustratore specializzato nella realizzazione di affascinanti ed eleganti progetti grafici. Incantato, come tanti artisti, dalla versatile, incomparabile, bellezza del corpo femminile, nei suoi nudi, banalmente e volutamente definiti col termine “Pin Up”, Mauro riesce a coglie quel mix scabroso, tipicamente femminile, quella soave contraddizione, che si estrinseca dalle sue tavole: innocenza, sensualità… mistero. Ogni opera di Mauro, nella raffinata e sapiente semplicità del tratto è un incanto per i sensi: impossibile descrivere la ridda di emozioni che solo l’originale può trasmettere. Laddove la carta, lievemente ruvida, trattiene e trasmette tutta l’emozione dell’artista e dell’anima erotica della sua modella. Le Opere di Mauro A. sono pezzi unici e rari, vengono realizzate in grande formato e inviate complete di cornice a giorno. Per richieste, curiosità o informazioni: CONTATTI: meetown@outlook.it


Appuntamento a settembre

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