1.1 La nozione artefatto

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Pubblicare un estratto del lavoro realizzato studenti del Corso di Teoria della comunicazione, (Corso di laurea specialistica in Comunicazioni visive e multimediali, Facoltà di Design e Arti, Università IUAV di Venezia) - stato loro chiesto di raccogliere cinque esempi - ci offre il pretesto di fare il punto sulla nozione discussa di artefatto comunicativo. Il termine artifact (artefatto) nei paesi anglosassoni è d’uso comune nella terminologia scientifica, (in Archeologia e in Teoria della cultura materiale, per esempio). Nella semiotica morrisiana si ha l’uso di sign vehicle (veicolo segnico). La nozione di artefatto comunicativo viene coniata in Monogrammi e figure, per designare ogni tipo di oggetto prodotto con finalità comunicative: Si costruisce così il parco degli oggetti che vengono progettati dal visual- /graphic designer. In analogia alle tassonomie e tipologie merceologiche vigenti nel disegno industriale, l’insieme degli artefatti comunicativi si suddivide in strumenti e merci comunicative. I primi progettati e realizzati per modificare il comportamento di un pubblico di destinatari, i secondi proposti per essere acquisiti e consumati dai destinatari. Un’altra distinzione sul versante delle tecniche e delle modalità, vede i semilavorati (testi e immagini). Sempre in Italia nel 1990 Ezio Manzini edita Artefatti , sugli oggetti interattivi. Il portato più interessante in questo contesto è rappresentato dall’impiego della nozione di oggetto quasi-soggetto. Il che ci porta da un lato nelle vicinanze degli armadi di Bachelard e dall’altro della macchina di Touring e in generale della robotica. Nel 1992, sulle pagine del volume Il progetto delle interfacce , che resterà per parecchio tempo l’unico standard book sul design dell’interfaccia in italiano, convergono tre tradizioni disciplinari, quella dell’informatica e dell’Human Computer Interaction (con Daniele Marini e Roberto Polillo) quella della teoria del design e della semiotica (con Giovanni Anceschi e Gui Bonsiepe) e quella della psicologia e dell’ergonomia ormai diventata ergonomia cognitiva (con Sebastiano Bagnara e Stefana Broadbent). Attualmente la nozione di artefatto comunicativo (diventato communication artifact negli USA), è ormai universalmente diffusa nel design discourse: ad. es. nei programmi universitari delle facoltà e dei corsi di laurea in disegno industriale in Italia e all’estero. Ma, è molto interessante che, sempre in Italia e all’estero, lo sia anche in corsi di psicologia evolutiva, e di communication research. Più di recente è apparsa la nozione di artefatto cognitivo, in psicologia e 1


ergonomia. L’Usability glossary definisce il cognitive artifact un oggetto fisico o un’applicazione software usata nel processo di pensare memorizzare e risolvere problemi. Si può osservare che il discorso della scienza pscicologica potrebbe sfruttare utilmente la tradizione che comincia con la teoria della rappresentazione schematica di Moles, la Semiologie Graphique di Jaques Bertin, la infoarchitecture di Richard Saul Wurmann, e l’infodesign di Edward Tufte. Nel 2003 lo studioso cognitivista Emanuele Arielli pubblica Pensiero e progettazione. Nel corso della sua trattazione Arielli esemplifica la nozione di “artefatto cognitivo” con un elenco “libri, film, qualsiasi testo o segno la cui funzione è quella di provocare un effetto cognitivo su un soggetto – informarlo, istruirlo, ordinargli un’azione, avvertirlo di un pericolo, divertirlo” “programma per computer, una qualsiasi banca dati informatica, o un sito internet. Il punto divista della teoria del design non può non domandarsi in che cosa si distingua da quella degli artefatti comunicativi o semiotici (g.a.).

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