3.1 Comunicare la conoscenza

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Comunicare la conoscenza Giovanni Anceschi La questione dell’illustrazione, e - in particolare - la specifica competenza dell’illustratore, è qualcosa di molto universale e trasversale. E’ evidente come la raffigurazione e quella particolare forma della raffigurazione che viene definita illustrazione, sia veramente dappertutto. Essa, che potrebbe forse essere caratterizzata definendola - per distinguerla dal disegno grafico - come la raffigurazione finalizzata ( ad es. restitutiva o operativa, ecc.) e raffigurazione diffusa (a stampa, su monitor, ecc.), attraversa infatti le discipline umanistiche come le realtà tecniche, l’ambito della progettazione come - ovviamente - la dimensione della fiction, la saggistica come la narrazione per immagini, la rappresentazione di dati astratti come la raffigurazione veristica. All’interno di questo vasto e intricato panorama ho scelto di occuparmi di un ambito particolare e per certi vrsi emblematico, che è quello della scienza. Parole e immagini Nel contesto che stiamo vivendo attualmente, la tecnologia e la scienza hanno assunto un ruolo di grandissimo rilievo. Il nostro non solo è un mondo sempre più informatizzato ma anche eidomatizzato. Non ho inventato io il termine, anche se mi piacerebbe perché amo i neologismi. Si tratta di una definizione originata all’interno di una delle scuole italiane dell’informatica, legata a quella figura di pioniere che, presso la Statale di Milano, è Gianni Degli Antoni. Eidomatica è infatti il nome della disciplina insegnata da un suo allievo Daniele Marini. Il termine, che sostituisce in infor-matica,, infor[informazione] con eido- [in greco immagine, ma anche idea] , designa lo studio dell’automazione dell’immagine, o meglio della produzione di immagini. A Genova con Bagnasco e altri, c’è invece una scuola che caratterizza il proprio

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fare scientifico con l’espressione eidologia e cioè studio o meglio discorso sopra l’immagine. E’ noto come la nostra sia stata definita la civiltà dell’immagine. Ma malgrado questo protagonismo assunto dal figurale diciamo così nella vita, curiosamente nell’ambito della conoscenza è la parola che ha conservato un ruolo di massimo rilievo. Per fare un esempio, uno studioso come Roland Barthes quando si occupa di retorica dell’immagine, non studia le figure della pubblicità per le Pâtes Panzani ma analizza esclusivamente i testi (i bodycopy).1 All’interno di una cultura che incentra dunque tutto il suo sapere sui codici linguistici e che quindi possiamo definire verbocentrica, ci sono però anche prese di posizione di personaggi del prestigio di un Rudolph Arnheim, il cui saggio Il pensiero visivo2 ha un titolo assolutamente controcorrente, non rispetto alla nostra esperienza attuale ma rispetto al prevalere del verbocentrismo. Secondo questo autore non solo la comunicazione è legata all’immagine, ma il pensiero stesso funziona secondo modalità che emergono dall’interno della percezione soprattutto visiva. E’ la percezione che individua i tratti principali di un contesto: prima di costruire una formulazione verbale, il pensiero identifica, articola e struttura immagini e schemi. Noi però non ci stiamo occupando qui di un sapere che si sta formando, come nel caso di Arnheim, ma di immagini costruite per una conoscenza che in qualche modo è già formata. Ciò che ci interessa è dunque la comunicazione della conoscenza. Quando parliamo di illustrazione - e vedremo poi come l’aspetto illustrativo si articoli secondo varie modalità - pensiamo immediatamente alla nozione di divulgazione, la quale è effettivamente il nucleo nodale della questione per lo meno in quanto competenza professionale.

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Scienza e comunicazione A tale proposito ci possiamo porre la seguente domanda: esiste un’influenza prodotta dalla tematica scientifica, in quanto motivo figurativo, in quanto oggetto della raffigurazione, sui processi comunicativi? E, parallelamente, esiste un’influenza della comunicazione in quanto medium, in quanto linguaggio, sui contenuti scientifici quando noi facciamo l’operazione di raffigurazione? Paolo Fabbri, studioso di semiotica, si è occupato di questi temi ed ha organizzato un convegno in cui si discuteva degli effetti negativi della divulgazione massmediale della scienza3. In tale contesto si parlava addirittura di porno-ecologia, riferendosi a quei filmati per la televisione sulla vita degli animali, che ci danno il permesso, con il tramite della patente di scientificità, di sbirciarne voyeuristicamente le intimità. Fabbri inoltre metteva in luce come mano a mano che gli enunciati scientifici si spostano dalla ricerca scientifica verso i margini della periferia massmediale (ad es. appunto nelle trasmissioni televisive), diventano sempre più assertivi. Questo è un aspetto importante da sottolineare: gli scienziati, quelli veri, quando dicono una cosa dentro al discorso della scienza, contornano l’enunciato scientifico di un alone di relativizzazione: “questo vale a queste e queste condizioni”, “questo è stato osservato in queste e queste circostanze”, ecc. ecc. Tutti noi possiamo notare se partecipiamo a convegni di argomento scientifico come l’atteggiamento di uno scienziato serio, rigoroso, sia quello di una grande accortezza e prudenza. Al contrario, quando guardiamo un programma televisivo, ad esempio una trasmissione di Quark sulla fisica atomica, siamo catapultati nel mondo delle certezze, o meglio delle evidenze assolute. Io penso soprattutto a certe immagini che ci vengono propinate: elaborate al computer, stupendi aggregati spaziali di palline color ciano oppure pink, che compiono fascinose evoluzioni. Ma quelle palline non è vero che ci sono! Esse sono in prima istanza un modello concettuale e secondariamente un artificio rappresentativo. Ad esempio la proporzione fra vuoti e pieni che esiste nel fattuale, è per ogni atomo paragonabile a quella smisurata che c’è fra spazio siderale e corpi celesti, e

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quindi una raffigurazione fedele uscirebbe - per così dire - da ogni foglio di carta e da ogni campo visivo. Noi però, siccome le vediamo coi nostri occhi cadiamo nella trappola del sillogismo autoptico. É come se la nostra mente dicesse in proposito “Se li vedo i pallini pink o ciano allora essi esistono così”. Insomma gli atomi e gli elettroni, sono pallini tondi, ciano o pink. Questo inganno ontologico dipende in modo particolare dal canale ricettivo attivato, che è quello della visione. In altre parole, all’interno della comunicazione visiva è difficile, se non impossibile, rappresentare, né tantomeno presentare la negazione, la nonesistenza. Un esempio noto a tutti è il dipinto Cecì n’est pas une pipe di Magritte. Come spesso succede con l’arte d’avanguardia essa si configura come arte di ricerca e le sue opere, oltre a proporsi come un prodotto di qualità sul piano estetico, funzionano anche come risultati di laboratorio. Cecì n’est pas une pipe afferma - come è assolutamente veritiero - che ‘questo non è una pipa” perchè, è manifestamente un dipinto, ma allo stesso tempo mostra la presenza imponente, l’astanza assolutamente innegabile dell’oggetto pipa. Si potrebbe obbiettare che quando in aeroporto vediamo il simbolo che ci intima “vietato fumare”, lì sia presentata visivamente una negazione. Ma si tratta di un caso diverso nella sostanza in quanto qui abbiamo abbandonato la modalità sinottica della raffigurazione e siamo entrati in quella nettamente distinta della scrittura. L’ideogramma “vietato fumare” presenta la sigaretta (o appunto la pipa) barrata da due tratti incrociati. Ma questa croce non è praticamente più figura, è ormai decisamente scrittura. Non appartiene più all’aspetto restitutivo (e costitutivo) della rappresentazione raffigurativa ma ad un codice ormai arbitrario (e sommativo) di tipo verbale. In certi casi si assiste insomma alla convivenza e alla complementarità di componenti iconiche e di componenti assolutamente aniconici… (Anche se poi curiosamente la la parola stessa ‘cancellare’ è una catacresi che deriva da ‘cancillum’, termine che a sua volta deriva dall’abitudine degli amanuensi di obliterare una parola errata

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tracciandole sopra una serie di segni incrociati che assumevano la forma di un piccolo cancello. E questo potrebbe parlare a favore di una probabile iconicità originaria del segno scrittorio e del fatto che il suo attuale carattere diagrammatico (astratto, non figurativo) è il risultato di un progressivo allontanarsi dal riferimento, di un progressivo divenire immotivato. Nel caso del ‘divieto di fumare’ siamo insomma di fronte a una situazione paragonabile a quella dei geroglifici egizi, o degli ideogrammi cinesi e giapponesi, dove c’è l’associazione di elementi scrittorî di origine pittografica e di diagrammi di natura fonografica. Anche se la competenza professionale dell’illustratore si sviluppa attorno a una conoscenza che esiste già, il problema di comunicare il sapere è comunque intrecciato con il problema del farsi complessivo della scienza. Ci si potrebbe addirittura domandare se sia possibile attribuire la modalità dell’esistenza ad una conoscenza che non sia comunicata. E in effetti dicendo questo ci siamo imbattuti in un problema filosofico molto serio, forse superiore alle nostre forze. Con pretese un poco meno vertiginosamente teoriche, proviamo a indagare invece empiricamente sul come funziona la questione o meglio la procedura del comunicare la scienza. Se infatti indaghiamo i processi attraverso i quali viene prodotta e diffusa la conoscenza scientifica, vi possiamo identificare due fasi: la prima e la più importante è quella euristica, in cui la conoscenza si manifesta e/o si costruisce; la seconda è quella della trasmissione dei contenuti, allo scopo di ottenere quell’effetto, irrinunciabile per la conoscenza scientifica, e cioè quello della costruzione di un consenso. E’ ormai molto chiaro come la conoscenza scientifica per stabilizzarsi debba raggiungere questo momento di consenso all’interno della cosiddetta comunità dei sapienti, magari un consenso dialogico, di discussione, però lo scienziato - e anzi ormai più che il singolo diciamo piuttosto il gruppo di operatori - deve assolutamente raggiungere questo stadio. E questo vale tanto più quanto più della scienza stessa abbiamo una concezione olistica .

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La fase dell’invenzione Nella fase euristica della ricerca [dal greco euréin = trovare] lo scienziato è coinvolto in prima persona in una serie di processi complessi, intellettuali, formali ma anche osservativi. E quest’attività - schematizzando molto persegue due obiettivi che riguardano lo sforzo di padroneggiare l’oggetto della ricerca. Il primo è ciò che io definisco cattura notazionale4 e il secondo è il principio dell’oggettivazione. É chiaro che dicendo questo non ci si riferisce immediatamente alla scienza attuale, dato che la complessità strutturale che ha raggiunto è talmente alta che questi momenti e procedimenti vi sono completamente occultati e nascosti. Si potrebbe dire che ci riferiamo a una più o meno congetturale “situazione degli inizi”, se non proprio alla fase iniziale storica della scienza occidentale. Il mondo che circonda lo scienziato è molto fluido, un mondo che si trasforma continuamente. E in questo mondo in continua trasformazione c’è il problema di isolare e di fermare alcuni aspetti, di coglierli, di catturarli. Quando Galileo osserva nel cannocchiale i satelliti di Giove, assiste a misteriose evoluzioni, a un processo metamorfico, e ha bisogno di fermare, di annotare sul suo brogliaccio questo processo, e vedremo poi quale strategia sceglierà di adottare per realizzare la cattura notazionale. Complementare e conseguente alla cattura si sviluppa l’altro aspetto altrettanto importante e altrettanto tipico dei saperi della rappresentazione - e cioè quello della presa di distanza dalla cosa prodotta. Chiunque di noi si occupi di progettazione sa bene cosa significhi ‘schizzare’: fare uno schizzo si riferisce originariamente alla liquida spontaneità della tecnica pittorica, ma vuole però soprattutto dire schizzar via e cié separare, staccare da se.. Significa insomma, una volta che lo si è colto, prendere qualcosa e metterlo lì davanti agli occhi, prima di tutto propri e poi degli altri. E la cosa più importante è proprio questo “prima di tutto propri “ nel senso che questo momento dell’oggettivazione, che non è solo tipico del progettista ma anche di chi produce altri tipi di sapere, è la condizione che permette di sviluppare ciò che chiamiamo senso (auto-)critico.

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Conosciamo tutti bene quegli stati notturni in cui facciamo progetti, “farò questo, andrò da lui, gli dirò questo e quando mi obbietterà così, allora io risponderò ... ” e tutto ciò avviene al nostro interno, dove il mondo è tutto rappresentato da e dentro la nostra mente, il che vuol dire che ha la plasticità pilotabile delle connessioni neurali, possiede cioè tutto il carattere potenziale del virtuale e non l’ineluttabilità indipendente del fattuale. É insomma un luogo dove tutto si aggiusta. E invece, la mattina dopo, ci alziamo e andiamo dal capoufficio di turno e tutta quella scenetta che ci eravamo costruiti non c’è più, gli argomenti non raggiungono il bersaglio e le obiezioni sono del tutto impreviste. Forse se avessimo potuto fare un protocollo o un disegno di questi nostri sogni e avessimo “a mente fresca” potuto osservarlo questo protocollo oggettivante, se avessimo avuto modo di prenderne le distanze, di osservarlo, di valutarne i pro e i contro, non avremmo poi ora questo senso di disorientamento estremo, di dissonanza conoscitiva, in fondo di delusione. Rappresentare, rappresentazione. La parola stessa è molto interessante perché vuol dire ri-presentare, presentare una seconda volta; essa contiene dunque oltre l’aspetto di cattura quello poi di presentazione: catturo qualcosa, la materializzo, la oggettivo e con questo la ri-presento. Ma nella nozione di rappresentazione, nell’ingrediente ‘presentazione‘, che la parola contiene, c’è un altro aspetto fondamentale: vi è implicato un destinatario: si presenta non a nessuno ma a qualcuno. In tedesco rappresentare si dice darstellen, Da[r]stellen, [stellen = mettere, da= là], mettere l’oggetto della rappresentazione lì davanti ai nostri occhi e in particolare davanti agli occhi dello spettatore. Per Heidegger - un filosofo che io non amo in modo particolare ma che è un filosofo molto tedesco - la lingua tedesca è l’unica, insieme al greco, in cui si può fare filosofia, e in effetti è davvero un idioma che dispone di facoltà costruttive e evocative straordinarie. Penso ad esempio a un’altra espressione formidabile che è vorstellen, (o meglio

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sich vorstellen), cioé l’idea riflessiva di vedere con gli occhi della mente: vor vuol dire davanti, ma mentre il da di darstellen è oggettivo, il vor sich significa davanti ai propri occhi interiori, la vorstellung di qualcosa è l’immagine mentale, è l’idea che ce ne siamo fatti. Queste parole ci aiutano, insomma, un poco ad orientarci. E, senza che la questione dell’uso delle parole diventi troppo un gioco fine a se stesso, è da tener presente come la funzione oggettivante sia anch’essa inscritta nel linguaggio. Quando noi diciamo “buttami giù quattro linee, buttami giù uno schizzo”, buttar giù vuol dire esattamente “staccare da se”. La divulgazione Fin qui ci siamo occupati di come il momento della rappresentazione sia fortemente interconnesso con il costituirsi del sapere o nel caso della progettazione, fortemente intreccciato con l’ipotesi di oggetto che abbiamo in mente. Poi naturalmente - sia nell’ambito della progettazione che nell’ambito del procedimento scientifico e della sua diffusione e divulgazione - viene il momento dell’istanza comunicativa, che è direttamente figlia di quella spinta all’oggettivazione che abbiamo visto. Mettendo un poco tra parentesi il registro verbale, proviamo a seguire ora le tappe di questa diffusione della conoscenza attraverso le immagini. Consideriamo ad esempio le immagini che compaiono sulle lavagne delle nostre università: si tratta di uno dei primi momenti in cui il sapere si manifesta in configurazioni non più esclusivamente legate alla sua costruzione ma che incominciano ad atteggiarsi, quando il docente è bravo, in funzione del fruitore. Potremmo poi seguirne parallelamente le tappe, magari all’interno degli scambi comunicativi, tanto ricchi di schemi, che intercorrono fra i membri di un gruppi di ricerca: ,, e poi subito pensiamo ai paper, e alle presentazioni ai convegni, che contengono sempre più componenti figurative e poi ancora la divulgazione

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scientifica ad alto livello, dove questo apparato figurativo comincia ad acquisire un peso ed un’importanza nodale. Vorrei ricordare a questo proposito una pubblicazione che ha avuto un ruolo assolutamente storico in questo senso, il mensile Scientific American. Attualmente è una tra le tante riviste ed è anche un po’ cambiata, cedendo un poco alla pressione concorrenziale della spettacolarizzazione ma per tanti anni è stato un luogo dove si è sviluppato un sapere straordinario e non banale, senza compromessi accattivanti, rispettoso dei contenuti scientifici e più vicino alle prospettive della relativizzazione. Un’altra tappa poi la conosciamo tutti, sono i libri di scuola, quelli dei nostri figli (e nipoti), dove il corredo illustrativo sta diventando sempre più importante. Infine ci sono i massmedia, dove questa dimensione della spettacolarizzazione assume caratteri anche di forte cinetizzazione, citavamo prima il modellino dell’atomo in Quark: non si tratta solo di palline ma di palline che ballano freneticamente e, da un punto di vista conoscitivo è anche probabile che girino del tutto correttamente. Correttamente in quanto generalmente in quei modelli si ha la restituzione esatta delle leggi fisiche che vi sottostanno, però quando le guardiamo sul video non è affatto l’orbita che vediamo, vediamo soprattutto un bell’effetto movimentato e coreografico. Del resto sullo sfondo di tutto ciò c’è un’espressione più recente, e cioè quella curiosa parola che è edutainment,, che indica addirittura la commistione tra entertainment ed education . E infatti molta parte della produzione multimediale o multimodale è costruita e concepita nella prospettiva di questo genere editoriale, che risucchia il marketing dentro ai processi di circolazione della conoscenza.. É peraltro ormai qualche tempo che un certo tipo di riflessione culturale si è occupata dell’interazione dei due momenti, euristico e comunicativo. Mi riferisco ad esempio ad un autore importante come Walter Ong, e al suo libro Oralità e scrittura,5 dove viene sostenuta l’influenza del sistema della scrittura

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intesa come tecnologia - e già questa interpretazione è di per sè interessante - sul pensiero stesso; la tecnologia produttiva e visiva che costituisce la scrittura, andrebbe a influire direttamente sul pensiero modificandolo. E se le elaborazioni di Ong, possono valere come sfondo concettuale complessivo, antropologico e fondativo, c’è invece un altro straordinario libro molto specifico di Elisabeth Eisenstein 6 dedicato all’influenza esercitata dalla tecnologia della stampa sul formarsi del pensiero scientifico della modernità. L’invenzione della stampa unitamente al sistema tecnico della tipografia a caratteri mobili, avrebbe dato origine ad un cambiamento radicale e ad un aumento dell’importanza dei momenti figurativi della conoscenza: la stampa e l’editoria hanno infatti consentito anche ad un pubblico vasto di vedere disegni che per lungo tempo erano esclusivi segreti del mestiere, accessibili, cioè, solo all’interno di una stretta cerchia di persone competenti. Addirittura la Eisenstein finisce per dire che la riproducibilità, la trasmissibilità, la certezza dei media, sono ingredienti serviti alla costruzione dell’oggetto stesso scientifico. É toccato però a uno studioso italiano, Manfredo Massironi, di raggiungere in proposito un grado determinante di esplicitezza. In un libro che si chiama Vedere con il disegno,7 individua una tipologia dei modi di rappresentazione discriminati dal punto di vista della percezione. Uno essi, il disegno tassonomico , viene identificato ad esempio con le illustrazioni scientifiche degli erbari oppure dei primi libri zoologici. Tali rappresentazioni hanno la particolarità di non rappresentare l’hic et nunc dell’oggetto, ma si distaccano funzionalmente da quella che sarà poi la peculiarità di rilevamento istantaneo della fotografia. Paradossalmente infatti l’istantanea fotografica che immortala un polipo che ha perduto un tentacolo potrebbe provocare la identificazione della specie eptapus. Mentre il disegno tassonomico che è il risultato di una collazione redazionale di osservazioni e documenti no. Le immagini tassonomiche sono insomma qualcosa di radicalmente diverso da un calco a distanza: (La fotografia è un calco fotochimico a distanza). Esse mostrano ad esempio di una pianta le radici,

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il fusto e i rami e in contemporanea le gemma e il fogliame, e ancora il bocciolo, il fiore e il frutto… L’oggetto di questa raffigurazione è insomma un oggetto totalmente artificiale, costruito, che ha la funzione precisa di non stare per l’esemplare ma per la specie intera, e qui viene sottinteso un costrutto concettuale che fa astrazione dall’aspetto temporale, proprio con lo scopo di generalizzare e quindi di tassonomizzare.. Il risultato è insomma un oggetto di sintesi ottenuto con un processo raffigurativo che opera nel senso di una stabilizzazione morfologica. É la raffigurazione che ha generato l’oggetto scientifico. Diversi modi di rendere visibile L’espressione visualizzare viene usata oggi molto frequentemente: si visualizza il futuro, un progetto, un’idea, una strategia. E’ una parola che piace molto e anzi nasce nell’ambito della pubblicità: il visualizer - cioè il braccio figurale dell’art director - è una figura tipica di quel mondo. In un contesto come il nostro, questa espressione mostra però la sua grande debolezza: si tratta di un termine-ombrello come direbbe Umberto Eco8, che copre realtà e operazioni molto variegate. Qui è bene insomma cercare di distinguere, di rendere manifeste le differenze che ci sono e che sono effettivamente radicali e che potremmo raggruppare in tre modalità principali. Una prima modalità del rendere visibile è, l’esibire, il mostrare ciò che c’è, ad es. un campione, un esemplare documentale, metterlo bene in vista o - per così dire - spostarlo sulla ribalta. Si tratta di un’operazione precisa, dello staccare l’oggetto dal suo contesto e del “metterlo lì”, come si dice in tedesco. Un atto registico che potremmo denominare anafora, usando invece un termine proprio della retorica, É la figura registica dello stacco anaforico:9 che trasforma magicamente qualunque

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cosa ( ad es. un oggetto d’uso) in un comunicato. Da qui si potrebbe tentare di mettere insieme un’intera teoria della rappresentazione, quella della messa in scena raffigurativa10, che consite nel pensare la raffigurazione come un mettere in situazione scenica l’oggetto. Il nucleo di quest’azione (cioè dello stacco anaforico) è un poco quello che avviene quando siamo in birreria ed alziamo la nostra bottiglia vuota verso il barista lontano, questa bottiglia che prima era servita solo a riempire il nostro bicchiere, alzata diventa un comunicato piuttosto preciso e inequivocabile. Attorno a questo gesto dell’esporre, ruota tutta la disciplina progettuale dell’exibition design (detta, allestimento in nella terminologia degli architetti), e potremmo definirla una disciplina non tanto retorica, quanto registica. Se la retorica è l’arte del dire, la registica potrebbe essere l’arte del mostrare.11. E l’illustrazione è una messa in scena che è contemporaneamente una messa in pagina. La seconda operazione, di natura questa volta più tecnica - ma che molti chiamerebbero sempre visualizzazione - è quella del rendere visibile rendendo - per così dire - patente qualcosa che è latente. Un’operazione che per farlo sfrutta le facoltà metamorfiche di certi materiali. In altre parole c’è qualcosa che non è visibile e c’è qualcos’altro di fisico, chimico o elettronico, che viene usato per materializzarlo: ad es. un’onda radio con un’oscilloscopio, un campo magnetico con la limatura di ferro, ecc. Operazioni tecniche del rendere visibile che sono insomma operazioni di trasduzione. E a questo proposito si può fare una piccola digressione sulla querelle della dematerializzazione. Si afferma oggi che i mezzi informatici stiano spingendo tutto, compreso l’universo industriale, in direzione della dematerializzazione. La mia impressione è che invece stia succedendo esattamente il contrario. In questo concordo con quel grande pensatore che è Andrè Leroy Gourhan, il quale ne Il gesto e la parola,12 affermava che l’evoluzione - lui studia reperti paleoantropologici - è un percorso di estroflessione di organi e funzioni dall’interno verso l’esterno degli organismi, nel senso in cui l’ameba estroflette

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degi pseudopodi per favorire la propria motilità. Questo sarebbe avvenuto agli organi del nostro corpo (i denti, da es. e soprattutto la mano), ma la nozione di estroflessione si può estendere alla scrittura e agli ordinateurs (cioè ai computer), nel qual caso si parla di estroflessione della memoria, Dunque staremmo assistendo se mai, non a una sparizione ma ad un’apparizione o più precisamente al fatto di mettere fuori, del mettere - per così dire - in piazza ciò che abbiamo dentro, ciò che viene chiamata la nostra interiorità. Individualmente e come specie. E pensiamo particolarmente al web,, luogo dove si materializzano e diventano accessibili substrati estremamente intimi e complicati che comprendono persino tratti inconsci anche molto oscuri, come purtroppo sappiamo. Questa modalità tecnologica della visualizzazione rivela dunque ciò che è latente, lo sposta all’interno del presente percettivo, ad es. dall’ambito invisibile dell’infrarosso a quello della tavolozza dei colori recepibili. Oppure invece agisce per condensazione. temporale Si veda, in proposito, l’espressione tedesca Zeitlupe, [lente di ingrandimento temporale], che vuol dire ripresa cinematografica al rallentatore. Tutto questo, nel quadro di ciò che si può definire come un’interpretazione protetica della tecnica13, si può anche intendere come un potenziamento degli organi di senso. A questo punto, dopo lo stacco anaforico e la visibilizzazione dell’invisibile, abbiamo il terzo caso, quello della rappresentazione, per esempio, della doppia elica del dna, o dell’albero rovesciato dell’evoluzione ma anche quello che rende manifesto il sistema ecologico di un bosco. Ognuno di questi casi è molto differente da quello del campo magnetico e dellla limatura. Qui non si tratta di nulla che sia simile a un calco (ravvicinato o a distanza che sia). Qui è necessaria tutta un’operazione complessa di elaborazione e trasformazione dell’informazione. Anche questo terzo tipo di operazione permette di raffigurare qualcosa che non c’è, questa volta però non in senso materiale ma - come dice

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Massironi - nel senso concettuale dell’ipotetigrafia, ovvero della raffigurazione di un’ipotesi. Nel senso insomma di conferire visibilità se non addirittura una certa forma di esistenza all’inesistente, o almeno a ciò che esiste solo nell’immaginazione. Anche qui si tratta precisamente della materializzazione dell’informazione ma di un’informazione che stava all’interno del nostro corpo. E noi designer o architetti è esattamente questo che facciamo progettando, se non qualcosa di più: il linguaggio grafico che ci è più proprio e cioè il disegno tecnico o costruttivo ad es., non si limita infatti a mettere ciò che abbiamo ideato davanti agli occhi della nostra mente. Non si contenta di proiettarlo fuori di essa, non fa vedere soltanto come sarà l’oggetto ipotetico o futuro ma esercita addirittura una funzione operativa. É - per così dire - un condensato di istruzioni per l’uso che produrrà come effetto una serie di azioni esecutive. É una partitura che farà compiere ad altri una coerente sequenza di gesti. Ovviamente anche le mappe di scena, ad esempio, o i coreogrammi del teatro-danza che producono come effetto la gestualità dei danzatori, oppure i diagrammi di flusso, che mettono in sequenza o in gerarchia entità o operazioni sono rappresentazioni che contengono condensati di indicazioni operative. Vi è però una differenza sostanziale se l’oggetto della raffigurazione - sia esso endogeno od esogeno - viene rappresentato in base a ciò che si sa o in base a ciò che si vede. Il primo caso (quello in cui si rappresenta ciò che si sa) è quello, che abbiamo appena visto, del disegno tecnico ma è anche quello del disegno accademico di figura, dove l’apparenza somatica del modello si disegna a partire dall’anatomia. Al suo opposto polare sta invece il quadro impressionista, dove addirittura viene compiuta un’operazione esplicita, quella di mettere tra parentesi ciò che si sa per restituire ciò che si vede. Fatto che produsse un effetto dirompente presso il pubblico dei Salon, il quale era ovviamente abituato a vedere ciò che si sa. La pittura classica o i bambini disegnano ciò che sanno, chiunque di noi che abbia avuto intorno bambini sa che quando un bambino disegna un’automobile disegna in genere le quattro ruote sul fianco: io so che l’auto ha quattro ruote e, per non mentire, te le devo mostrare tutte e quattro. Un

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disegnatore di rendering come Syd Mead o Antonio Beltrame disegna invece una vista prospettica che tenderebbe a corrispondere a quel mosaico di stimoli che ci verrebbero dall’oggetto raffigurato. C’è insomma una grande differenza tra quello che abbiamo definito come cattura notazionale e la pluralità dei modi della sua restituzione. Il destinatario Per concludere e per affrontare il terzo polo del sistema del quale - fino a questo punto - abbiamo toccato soltanto le relazioni fra i primi due elementi, e in altre parole per aggiungere ad emittente e oggetto-motivo il destinatario, vorrei ancora riflettere su un momento cruciale nella storia della rappresentazione scientifica, proprio in quella fase iniziale di cui parlavamo. Osserviamo la riproduzione del taccuino scientifico di Galileo, il quale ha appena guardato attraverso il cannocchiale 14; il suo problema è quello di catturare una sequenza di eventi che sono accaduti sotto i suoi occhi e la cosa notevole è che a lui non importa assolutamente di rappresentare fedelmente questi oggetti, ma sceglie piuttosto dei simboli tratti dall’alchimia, dunque a partire da codificazioni già esistenti, poco importa che queste figurette abbiano poco a che vedere con la realtà osservata: la lente obiettiva di Galileo gli avrà fatti vedere i satelliti come corpuscoli tondeggianti. e invece sono rappresentati da asterischi cioè stelline. L’asterisco infatti si configurano con sei punte o raggi. D’altro canto il pianeta è rappresentato con una ruota. L’innovazione di Galileo sono invece i segni frecciati per rappresentare quelle che più che orbite sono traiettorie, Anche la freccia è peraltro tratta da un codice preesistente. e anche qui siamo già in un contesto di scrittura più che di rappresentazione, una scrittura che - per così dire - in partenza, ha bisogno di catturare ancora qualche residuo aspetto figurale, ma il cui livello di semplificazione e quindi di astrazione è estremamente alto. Non c’è più quasi nessuna traccia di motivazione del segno. Il segno è astratto, in quanto ciò che importa è che tutti

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quelli a cui Galileo lo farà vedere sappiano di cosa si sta parlando. E per la memorizzazione - lo sappiamo ora bene dai computer - è più vantaggiosa (è più leggera ) una piccola icona grafica che una ricca figura realistica pittorica. Un'illustrazione quasi coeva alle annotazioni galileiane è quella del padre gesuita Christopher Scheiner,15 il quale per rappresentare un soggetto sempre astronomico crea un’immagine completamente differente, nel senso che risponde a tutt’altro tipo di esigenza. All’approccio puramente notazionale di Galileo si è sostituito un approccio assolutamente restitutivo, quasi “punto a punto”. Lo potremmo paragonare ad una operazione di telerilevamento pixel per pixel. Un po’ come nel caso dei dipinti degli impressionisti che - per così dire - mettono fra parentesi il sapere figurativo preconcetto a favore dell’attualità della percezione, padre Scheiner toglie di mezzo la popria interpretazione personale, si trasforma in uno strumento, mette da parte le proprie modalità conoscitive e diventa puro rilevatore. La cosa curiosa è che in questo modo il documento che ha prodotto - per così dire - non invecchia: mentre per il disegno precedente dobbiamo conoscere il significato che aveva l’asterisco per gli astrologi e gli astronomi del tempo, quest’immagine è - in un certo senso - neutrale. In qualche modo è “fuori dai codici”, è prossima ad un rilevamento meccanico, di tipo fotografico, appunto a una sorta di calco a distanza. É ovvio che qualche traccia della soggettività del disegnatore e della serie dei suoi filtri percettivo-culturali avrà influenzato il risultato, magari rendendolo meno fedele, però dopo quattro secoli possiamo ancora confrontarlo con l’immagine che vediamo correntemente nel cielo notturno. Il problema cruciale è quello del destinatario. Quello di Galileo era in primo luogo Galileo stesso, poi gli allievi o i sapienti del suo gruppo. In altri termini quella che abbiamo chiamato raffigurazione oggettivante e anche euristica è in sostanza un caso e un problema di autocomunicazione. L’immagine “fedele” di padre Scheiner è, invece, il caso opposto, tenderebbe ad avere un destinatario universale, indefinito o meglio standard: Il che significa anche che non è tanto un messaggio quanto un documento.

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Nel primo caso il messaggio c’è , c’è di mezzo fortemente la presenza di Galileo come osservatore ma anche come interprete, e quindi come trasformatore ma anche come emittente intenzionale. Nel secondo caso siamo di fronte invece a qualcosa che Greimas16 chiama “oggetto informatore”. Siamo cioè noi utenti a cercare di ricavare delle informazioni dal risultato operativo . L’oggetto eroga informazioni ogni volta che noi che lo interroghiamo. Una terza immagine di autore anonimo,17 sempre intorno alla metà del Seicento, è un disegno della superficie solare. L’intento - quanto consapevole non ci interessa - è qui ancora diverso: i destinatari sono qui i contemporanei del disegnatore ai quali spiegare , appunto illustrare questa che potrebbe essere stata un’osservazione, forse compiuta con il cannocchiale come nel caso delle due immagini già citate ma più probabilmente tradotta in immagini a partire da un documento o resoconto testuale. La superficie del sole viene interpretata come coperta di fiammelle. In fondo anche qui emerge la questione della parola e dell’immagine, della scrittura e della raffigurazione. In fondo ciscuna singola fiammella potrebbe essere intesa come un pittogramma che invece di una sintassi lineare ne usa una topografica. Insomma per incanto come in giapponese dove albero+albero+albero+... vuol dire ‘bosco’, fiammella+fiammella+fiammella+... si contestualizza in ‘campo infuocato’: l’importante è far capire ai contemporanei che li c’è il fuoco. Una traduzione fortemente metaforica, peraltro, perché sul sole non ci sono assolutamente quelle fiammelle né tanto meno le macchie solari sono delle nuvole nere, delle nuvole di fumo. Quella che è in atto è proprio un’operazione di divulgazione, dove il disegnatore ha cercato di trovare nel bagaglio conoscitivo del suo interlocutore degli elementi noti con i quali raccontare l’informazione non conosciuta. Al contrario del caso di padre Scheiner che prevedeva un destinatario assoluto, qui il destinatario è assolutamente relativo, particolare, con le sue connotazioni culturali precise.

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Per concludere: resta il confronto tra la prima e l’ultima immagine. In entrambi i casi siamo di fronte all’impiego di codici simbolici ma mentre Galileo piega un codice già esistente alle esigenze del suo “da dire”, ( o “da raffigurare”), nell’ultimo caso l’artista barocco piega il “da dire” in funzione delle caratteristiche e delle competenze del destinatario: siamo in un altro modo comunicativo, siamo nel mondo di Quark!

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Vedi R. Barthes, Réthorique de l’image, in “Communications”, Tome IV, 1964; vedi anche, Elementi di semiologia, Einaudi , Torino 1966. In questo testo l’autore sostiene che qualunque sistema di segni non verbali viene tradotto nell’atto della lettura, in segni verbali. 2 R. Arnheim, Il pensiero visivo, Einaudi, Torino 1974. 3 Si trattava del convegno, Franco La Cecla (a cura di), Natura e comunicazione: i media fanno male alla natura, Milano, 1990. L’idea pornoecologica di Paolo Fabbri non si discosta molto dal modo in cui negli anni ‘20 il filosofo e pedagogo per immagini Otto Neurath aveva criticato i musei passatisti, “die die Schaulust befriedigen und wenig auf dem Willen einwirken [che soddisfano il voyeurismo e agiscono poco sulla volontà]”. Cfr. Otto Neurath, Gesellschafts- und Wirtschaftsmuseum in Wien, in “Österreichsche Gemeinde-Zeitung”, n.16, 2. Jhrg., Wien, 1925, ora in Otto Neurath, Gesammelte bildpädagogische Schriften, Verlag Hölder-Pichler/Tempsky, 1991 (a cura di Rudolf Haller e Robin Kinross). 4 L’espressione cattura notazionale è modellata sulla saisie esthétique di Algirdas J. Greimas, de l’imperfection, Pierre Fanlac, Périgueux, 1987. 5 W. Ong, Oralità e scrittura, Il Mulino, Bologna 1985. 6 E. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita, Il Mulino, Bologna 1985. 7 M. Massironi, Vedere con il disegno, F. Muzzio ed., Padova 1982. 8 Un termine che copre ingenuamente ogni modalità di ostensione, rivelazione, raffigurazione dell’invisibile. Vedi G. Anceschi, Visibility in progress, in “Design Issuees” (fall) 1996. 9 Vedi Idem, La struttura narrativa della scena ostensiva, in Claudia Donà (ed.), Mobili italiani. Le varie età dei linguaggi, Milano, Cosmit, 1992. 10 Vedi Idem, L’oggetto della raffigurazione, Etas libri, Milano 1992. 11 Vedi Idem, “Retorica verbo-figurale e registica visiva”, in U. Eco e altri, Le ragioni della retorica, Mucchi editore, Modena 1986. 12 A. Leroy Gourhan, Il gesto e la parola, 2 voll., Einaudi, Torino 1977. 13 Vedi G. Anceschi, lI pensiero protetico, in "Ottagono", n.102, (marzo) 1992. 14 Intorno alla scena di Galileo che guarda nel canocchiale e disegna, si è svolta la polemica sull’iconismo tra T. Maldonado e U. Eco; cfr. la posizione che attribuisce un valore epistemico alla raffigurazione di T. Maldonado (Appunti sull’iconicità in Avanguardia e razionalità, Einaudi, Torino 1974), e la posizione più nettamente convenzionalista e comunicazionista di U. Eco (Chi ha paura del cannocchiale?, in “Op. Cit.”, n. 35). Come si vedrà la raffigurazione del sole da ragione ad Eco e anche gli appunti di Galileo per l’aspetto di riuso di codici esistenti. Ma esiste anche il disegno della luna di Padre Scheiner: una sorta di ingresso dell’iconicità nel circuito segnico. 15 L’immagine risale al periodo 1635-50 ed è riportata nel libro di Athanasius Kircher, Mundus subterraneus, Amsterdam 1678, cfr. J. Godwin, Athanasius Kircher, Thames &Hudson, Londra 1979. Padre Scheiner - si noti bene - è l’inventore del pantografo, strumento che serve per ingrandire i disegni. Esso trasforma l’immagine data meccanicamente (cioè neutralmente) 16 Algitdas J. Greimas, Del senso, Bompiani, Milano, 1974. 17 Compare nel medesimo libro di A. Kircher, cit. 1


Didascalie 1. Galileo, annotazioni sui moti retrogradi dei satelliti di Giove, 1610. Brogliaccio di Galileo Galilei, conservato alla Biblioteca nazionale di Firenze. Mentre tutto il testo e il simbolo del pianeta Giove sono tracciati in inchiostro nero, i satelliti e i loro percorsi sono tracciati in rosso. 2.Padre Christopher Scheiner, la superficie della luna vista al cannocchiale, 1635-50, riportato in Attanasius Kircher, Mundus subterraneus, Amsterdam 1678. 3.Anonimo, la superficie solare, XVII sec., riportato in Attanasius Kircher, Mundus subterraneus, Amsterdam 1678.


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