5.2 protagonismo del tempo

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Giovanni Anceschi Storia del design: il protagonismo del tempo. [Design: Storia e Identità Secondo convegno internazionale di studi storici sul design, 15-16 settembre 2008, Venezia, a cura di Marco De Michelis, Vanni Pasca, Raimonda Riccini, Arsenale Novissimo – Spazio Thetis Promosso da: Università Iuav di Venezia, Facoltà di Design e Arti e Scuola di Dottorato] La domanda da cui partire appare essere “storia sì, ma storia di che cosa?”. La storia del design è – insomma - una storia di pettegolezzi o una storia di fatti? una storia di idee o una storia di aneddoti? una storia di pratiche anonime o una storia di star? una storia di persone o una storia di cose? Prima di tutto domandiamoci: quella del design è una storia di eventi? Della Histoire evenementielle, Braudel dice che è una fra le tante categorie di storia e non la storia stessa. Effettivamente è diverso e non è questione di sfumature, parlare - dicevamo - di una storia della società o di una storia della cultura, di una storia della scienza o di una storia della tecnologia, di una storia dell’economia o di una storia del commercio, di una storia delle guerre o di una storia degli stati. In biblio- e webo-grafia si trova anche una storia della computergrafica e una storia del web, una storia della violenza e perfino una storia della merda. E questo ha fatto dire a qualcuno di essere prudenti e di dubitare delle pseudostorie1. Come, per il design, di certe storie pubblicitariamente aziendali o di certi musei decisamente promozionali di una particolare tendenza. 1 Douglas

Allchin, D. Pseudohistory and pseudoscience, “Science & Education”, 2004. 13, pp. 179-195.

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Di una articolazione e variabilità sfumata della storia e delle storie, forse il maggiore promotore è stato – appunto - Braudel: "Per me la storia è la somma di tutte le storie possibili, un insieme di tecniche e di punti di vista di ieri di oggi e di domani"2. Del resto può senz’altro esserci una storia evenemenziale del design, che si occupi di Importanti Convegni, della Fondazione di Scuole e Istituzioni, ma anche di Svolte Produttive Chiave, che abbiano magari provocato un'affermazione o un arretramento del design, ecc. Va però detto che questo tipo di eventi sono – diciamo così – generici e non autenticamente specifici del design in quanto tale. Sono eventi socioculturali tout court, che però fanno perno, e questo sì che è qualificante, intorno alla progettazione e realizzazione di oggetti. E ancora, nel caso del design bisogna ricordare che perfino gli eventi, sono oggetti di progetto: si pensi al design dei servizi. Dunque quella del design non è principalmente una storia di eventi. La storia del design - invece - non è solo una fra le tante storie possibili, ma è una fra le svariate storie di artefatti. Determinanti sono – insomma - gli artefatti. O forse sarebbe meglio dire che è una delle storie che si manifestano “per artefatti” (come, peraltro, anche la storia delle tecnologie, ma ancora, in altro modo, come la storia dell'arte, o meglio delle arti). Appare quindi ragionevole pensare che, in questo caso - in un "prima" che sia metodologico e non cronologico - nella costruzione della conoscenza del design, vengano "prima" i criteri tipologici che si apparentano più specificamente, ad es., alle prospettive proprie della Teoria della Cultura materiale. E "poi" venga la storia. Nel caso degli artefatti, le operazioni definitorie (ontologiche, tipologiche, morfologiche, ecc.), e cioè quelle che rispondono a 2 F.

Braudel, Storia e scienze sociali "La lunga durata", in Annales ESC", 4, 1958, pp-725-753, ora in scritti sulla storia, Milano, Mondadori, 1973. 2


domande del tipo: "che cosa è?", "come è fatto?”, “come si configura?”, ecc., sembrano insomma venire "prima" di quelle invece - puramente tassonomiche, che rispondono, alla domanda “dove lo colloco”, "in che contenitore etichettato lo metto". E se, ad esempio, le tassonomie possono essere di natura topica (topografica o eventualmente geografica), rispondendo cioè a domande del tipo: "dove ha luogo?", “dove ha preso piede?”, "in quali regioni si distribuisce", ecc., è la storia stessa che può - per certi versi - essere pensata come una forma - molto sofisticata - di tassonomia: una tassonomia in cui "gli esemplari", gli items, i dati e forse i fatti, si dispongono lungo una time table o una cronologia o un percorso genetico od evolutivo e che comunque si appoggiano sulla dimensione temporale. Nel senso che è rilevante nella storia rispondere a domande quali: "quando avviene", "quando è avvenuto?". E poiché dentro alla domanda “è avvenuto prima o dopo di…?”, è nascosta la credenza nel principio di causa ed effetto, bisogna esercitare il massimo della prudenza nel maneggiare questo tipo di cose. Ad ogni modo, l'espressione con la quale cominciano le definizioni del termine “storia” è quasi sempre: “la storia è lo studio del passato". Questa affermazione è indubbiamente un rigido stereotipo epistemico ma dice anche una cosa importante e cioè indica con fermezza che la categoria cruciale della storia è la dimensione tempo. "‘Scienza degli uomini’ abbiamo detto. E' ancora troppo vago. Bisogna aggiungere ‘degli uomini nel tempo’". Lo diceva Marc Bloch, e sottolineava un’altro tratto del tempo ontologico: la sua irreversibilità 3. E, a parte (come si farebbe in una commedie di Goldoni), 3 Marc

Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1969, pp-37-43. 3


permettetemi di dire che io, personalmente, sono ossessionato dal tempo: a parte l’arte cinetica, mi sono occupato del tempo nel design, cercando di introdurre la nozione di “registica”, che insiste su fenomeni come l’interaction design, il design dei servizi, il design strategico, il media design, ecc. Del resto indicare queste pratiche metamorfiche, plastiche, temporali come caratterizzanti per le nuove fasi e forse per il futuro del design potrebbe valere come il mio contributo alla definizione della nuova identità del design. E dunque, anche se forse si tratta di un ‘altro’ tempo, come diceva Lucien Febvre, è sempre il tempo la dimensione protagonista nella storia. E non è una banalità, perché proprio nell’affrontare la storia del fenomeno design la questione della temporalità appare rilevante, per esempio la questione della durata a grande scala che è quella solidificata che Braudel oppone all’evanescenza della storia evenemenziale. Infatti del design non si può certo ancora parlare utilizzando gli strumenti di elaborazione più neutri e garantiti propri della grande durata. D’altra parte, in un suo passaggio particolarmente non crociano, dove all’inizio sembra contrappore Cronaca vs. Storia, ma poi compie quasi una capriola concettuale, Benedetto Croce affermava invece con notevole grazia, che tutte le storie sono contemporanee4. E in effetti le “cronache di design” sono cruciali. Ricordo per esempio il lavoro di Aldo Colonetti nella fase iniziale e – diciamo così - gloriosa di “LineaGrafica”, prima che la rivista fosse costretta a piegarsi a quel tipo di esigenze editoriali che uccidono la teoria, e cioè ad accettare la proscrizione dei “testi-lunghi” (e, anche, prima che Colonetti, scegliesse di rinunciare al lavoro minuto e decidesse di diventare soprattutto un manager della cultura del design). 4 Benedetto

Croce, Teoria e storia della storiografia (1915), Bari Laterza, 1973, pp. 3-7. 4


Oppure, sempre a proposito della cronaca, mi viene in mente, in un esempio che intreccia l’ossessione feticista per gli oggetti con l’inizio di una mediazione culturale, mi viene in mente – dicevamo il ritratto che fa Benjamin di Eduard Fuchs, come collezionista e come – appunto – storico5, con una riflessione che potrebbe valere da manifesto di innesco per tutto il lavoro sui musei del design e particolarmente di quelli aziendali. Certamente, per il design, rimane - ancora - rilevante, per quanto riguarda il protagonismo del tempo, la questione della periodizzazione e della identificazione di linee tematiche. Ancora un aneddoto: tempo fa avevo promesso di scrivere una storia della grafica italiana e mi sono arenato di fronte alla superficialità di certe banalità conoscitive, come la nozione di “Grafica di Regime”, di “Comunicazione della Ricostruzione”, di “Pubblicità e Image nel Consumismo e nel Miracolo Economico”, ecc. Per fortuna che in Italia, secondo una linea che è in realtà un intreccio e che parte con Frateili e Gregotti e - in altro modo - con deFusco, e che si sviluppa con Vanni Pasca e – ora – con la sua giovane scuola e ancora - in modo molto diverso - con Giampiero Bosoni, e che approda infine a un approccio storico davvero intriso di teoria, con Raimonda Riccini), per fortuna – dicevamo - che adesso c’è Carlo Vinti, che questo lavoro antistereotipo lo sta facendo con energia e penetrazione. Nel fare storia, come del resto avviene dentro ad ognuna delle circostanze di approccio scientifico, due sono le istanze costitutive che si possono identificare: in primo luogo la costruzione dell'oggetto di studio attraverso le fonti e i dati, che vengono strutturati, classificati, ecc. Ed è ciò che Marrou intende parlando 5 Walter

Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico in: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1970.

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della storia come conoscenza6. E in secondo luogo gli sviluppi della mediazione, o addirittura della narrazione che può assumere caratteristiche quasi-finzonali, “opera letteraria che quel passato voglia far rivivere nel racconto” come dice, ad es. René Jolivet. Ma la scrittura di mediazione può semplicemente rappresentare la linearizzazione descrittiva di quella sorta di modello sintetico, multidimensionale e quantitativo, che è l’oggetto di studio7. Storia e storiografia, abbiamo detto un tempo. L’oggetto di studio della storia sono gli uomini nel tempo, abbiamo visto con Braudel. E per noi più precisamente, gli uomini quando si occupano della produzione di artefatti. E ancora più precisamente per la storia del design, gli uomini quando si occupano dell’attribuire una configurazione agli artefatti. Nella costruzione dell'oggetto di studio in una prima fase della storia "quando c'era ‘solo’ la scrittura", le fonti erano solo cronache ed editti, elenchi e contratti, ecc. documenti di “diplomatica”, secondo una visione forzatamente verbocentrica . Ma ora con le tecnologie e le tecniche di registrazione ormai affermate universalmente, la base dati diventa anche sonora e cinetica, immaginale e direttamente artefattuale. Un esempio di questo nuovo tipo e trattamento delle fonti storiche, che incrocia reperti immaginali con reperti artefattuali, è stata praticata nel quadro della prima edizione del seminario/workshop sul Basic Design che teniamo tutti gli anni presso il Dottorato in Scienze del Design dell’IUAV. Con una nostra collaboratrice (Azalea Seratoni, allieva di Antonello Negri e specialista di Munari), avevamo avanzato una congettura. Ci eravamo convinti che molta parte dell’opera di Munari, potesse 6 H.I.

Marrou, La conoscenza storica, Bologna, il Mulino, 1969, pp. 23-29. 7 René Jolivet, L’homme et l’histoire, in “Actes”, Convegno di Strasburgo, 1952, p.11. 6


essere interpretata come ‘supplenza’ del Basic Design assente in Italia. Seratoni nel suo piccolo saggio comparso sul catalogo delle due piccole mostre (una su Albers oltre che quella su Munari), che accompagnavano il seminario8, aveva avviato il discorso con un’osservazione acuta e divertente, e cioè che Munari, il quale si sottraeva alla propria catalogazione come artista come a quella di designer, si sarebbe schermito anche nei confronti della definizione di Basic Designer. Ma, passando poi a cercare la risposta ad una domanda più precisa e fattuale, e cioè se Munari fosse informato del Basic Design di tradizione Bauhausiano-Ulmiana, Seratoni ha potuto mostrare che Munari nel suo La scoperta del cerchio9, ha pubblicato “Konosphäre”, di Walter Zeischegg10, accostandolo poi all’opera cinetica di Munari, “Il Tetracono”, 196511. Nel medesimo contesto de seminario/workshop ancora più estremista in termini di impiego ed esplorazione di caratteri multisensoriali e multimodali nella ricerca storica, e proprio per il suo carattere paragonabile ai laboratori di Archeologia sperimentale 8 Azalea

Seratoni: Chi è? Gli artisti dicono: no, Munari è un designer. I designer dicono: no, Munari è un artista. Noi abbiamo capito che Munari è un basic designer, In: AA VV, Basic design/La tradizione del nuovo, Facoltà di design e arti, IUAV, Venezia, 2006., catalogo della ‘piccola mostra’, 9 B. Munari, La scoperta del cerchio, Milano, Scheiwiller, 1965. 10 <”Ulm” n. X> vedi ora www.fhrosenheim.de/fileadmin/inhalte/Fakultaeten/Innenarchitektur/2007/P DFs/1_2.pdf 11 Bruno Munari, Tetracono, Edizioni d’arte Danese, Milano, 1965. Si tratta dell’edizione di artefatti multipli in 50 copie. 12 Si tratta dell’acquisizione di conoscenze combinando lo sfruttamento di indizi provenienti dal passato con la sperimentazione oggi delle tecniche usate allora. Ad es. per studiare un certo tipo di 7


, si è rivelata una pratica condotta da Nunzia Coco. Si è trattato di riportare alla luce un’esercitazione multisensoriale, di Moholy Nagy, di cui si trovano generiche menzioni <…??….. > Ma della quale si ha la testimonianza di Michele Provinciali, rilasciata a Giovanni Anceschi nel 1986. Nel corso del Workshop si è trattato di fare ripercorrere ai partecipanti, una pratica laboratoriale di percezione e di rappresentazione di un’esperienza tattile, ottenuta facendo immergere ad occhi bendati il braccio denudato in tre contenitori riempiti con accoppiamenti si materiali (ad esempio olio di macchina e sfere d’accioio, sabbia e rondelle d’acciao, ecc.). E chiedendo di rappresentare con del matriare grafico-pittorico predisposto le tre esperienze. Ma l’irrompere del sonoro, del cinetico, dell’immaginale, talvolta dell’artefattuale e spesso dell’interattivo, non si verifica solo nel momento della ricerca storica, diventa caratterizzante oggi anche del momento della mediazione, quando si delinea, si manifesta e si espone il tracciato significante e comunicante che percorre la base dati. In altre patole, non si espone più soltanto attraverso il fluire del discorso orale o attraverso il susseguirsi delle linee di testo, si espone e si porge il proprio pensiero, anche attraverso la costruzione e la presentazione di una sequenza di immagini, come avviene con le schermate del Power Point. In proposito, anche se non di una storica si tratta ma di una semiotica, ricorrerò a un ulteriore aneddoto, a un’osservazione diretta, che riguarda Patrizia Magli. Nel presentare la sua relazione Maquillage/Camouflage: il trucco tra mimetismo e intimidazione al utensili neolitici (come le punte di freccia in selce), non è stato sufficiente analizzare le forme degli utensili finiti, ma è stato necessario fare oggi delle prove di produzione.Vedi, in Italia: Edoardo Ratti, Il Paleolitico - Sperimentando la Preistoria, Grafiche Lunensi, Sarzana, 2007. 8


Convegno “Estetiche del camouflage Disrupting images nelle arti e nel design”13, Patriza, ha riscosso un grande successo tramite la parformance di un Power Point, che esibiva un brillante fondo nero, molti straordinari fotocolor di nativi africani – per inciso erano foto di una qualità estrema, che riprendevano i nativi come avrebbe potuto fare un fotografo di “Vogue” . Le immagini erano disposte in una sequenza significante stringente e convincente. Patrizia si è poi lamentata dei complimenti ricevuti che si riferivano al modo di presentare e non alla sua tesi scientifica. Ma io dico che aveva torto. Galileo è un esempio straordinario di scrittura scientifica, anche perché impiegava i sistemi notazionali indispensabili per descrivere il moto retrogrado dei satelliti14. Direi poi che i musei di oggi e sempre più i musei virtuali stanno confermando l’ipotesi di Walter Benjamin quando parlava Illustriertere Aufsätze, cioè di saggistica per immagini15. Saggistica per immagini o addirittura – nel caso dei musei potremmo oggi quasi parlare di saggistica per artefatti. L’aver nominato la saggistica storica mi porta a concludere imboccando un nuovo corso di pensieri. C’è chi ha sottolineato che la scrittura è a sua volta pensabile come un’operazione di costruzione delle categorie concettuali e degli schemi intellettuali 13 Patrizia

Magli, Maquillage/Camouflage: il trucco tra mimetismo e intimidazione al Convegno “Estetiche del camouflage Disrupting images nelle arti e nel design”, 12-14 giugno 2008, Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia. 14 Giovanni Anceschi, La grafica della scienza, in Emilio Albino, Daniele Marini, Laura Moltedo (a cura di), Conoscenza per immagini, Roma, Il Rostro, 1989. 15 Walter Benjamin, Aussichten Illustrierte Aufsätze, Frankfurt a.M., Insel/Suhrkamp Verlag, 1977. 9


che le organizzano. Nel 1868 il grande Johann G: Droysen, nel suo inaugurale “Sommario di istorica”, contrapponeva la “scrittura di ricerca”, alla “scrittura di esposizione”. Induttiva, fenomenologica e cognitivamente costruttiva, la prima (Il 18 Brumaio di Louis Bonaparte di Marx), deduttiva e sistemica e sistematica la seconda (Il Capitale)16. Una scrittura che si concentra sul disvelamento e una scrittura che esibisce. Insomma, anche senza arrivare al quasi-paradosso di Becker che affermava: “I fatti storici non esistono finché lo storico non li crea”17, se lo storico non pratica il lavoro maieutico della formulazione, e se il designer rimane “afasico”, come dice Bonsiepe, anche la più brillante di quelle che io chiamo le “mosse teoriche” del design rimane confinata e anzi come sepolta in un sapere segreto e inconfrontato. In un sapere oscurantista, premoderno. Ecco, ho finito per fare ciò che deve sempre fare l’intellettuale, (ne sono convinto): l’intellettuale seguendo ciò che crede di dover dire, se è necessario, si deve contraddire. In altre parole, quello che ci appariva all’inizio come un processo lineare fatto di “prima” e di“dopo” o come un più o meno ferreo decorso, finisce per caratterizzarsi qui alla fine come un ciclo. Con la speranza che si tratti di un virtuoso circolo di conversazione.

16 Johann

G. Droysen, Sommario di istorica, Firenze, Sansoni, 1967. 17 Carl Becker, Detachment and the Writing of History,“The Atlantic Monthly”, CVI , October 1910, pp. 528. 10


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