Being Hypermodern? Perspectives for the Design Education, Research and Practice Giovanni Anceschi, Massimo Botta “Immaginiamo dei marinai che, in mare aperto, stiano modificando la loro goffa imbarcazione da una forma circolare a una più affusolata. Per trasformare lo scafo della loro nave essi fanno uso di travi alla deriva assieme a travi della vecchia struttura. Ma non possono mettere la nave in bacino per ricostruirla da capo. Durante il loro lavoro stanno sulla vecchia struttura e lottano contro violenti fortunali e onde tempestose. Nel trasformare la nave badano che non si aprano pericolose falle. Gradualmente una nuova nave emerge dalla vecchia e, mentre stannno ancora lavorando, i marinai possono già pensare a una nuova struttura, e possono essere in disaccordo fra loro. L’intera questione procederà in un modo che oggi non possiamo anticipare. Questo è il nostro fato” 1. Con questa metafora del 1932 Otto Neurath inizia una riflessione sul funzionamento della scienza che sarà caratterizzata dalla parola chiave ‘trasformazione’, intesa come movimento non solo delle cose ma anche delle idee, un concetto che implica l’esistenza di una forma precedente e – allo stesso tempo – il suo riconfigurarsi continuo2. 1. The Genetic Process of Design Per quanto riguarda il design la sua natura metamorfica è un tratto particolarmente marcato. La disciplina del design ha mostrato, nell’arco della sua seppur breve storia, una serie di trasformazioni che ne hanno ridefinito e riorganizzato i saperi, gli ambiti di intervento e le competenze per elaborare pratiche e manipolare contenuti che si sono venuti modificando. “In principio il design non c’era”, così potrebbe iniziare il nostro discorso sull’origine della disciplina. Ma sarebbe una falsità: è a partire dall’avvento dell’homo habilis che si sono fabbricati artefatti d’uso e certamente anche comunicativi. Effettivamente si deve però arrivare alla rivoluzione industriale e alla cultura di 1
Otto Neurath, “Foundation of the social Sciences”, in Otto Neurath, Rudolf Carnap, Charles Morris, Foundation of the Unity of Science Toward an International Encyclopedia of Unified Science, vol II, n. 1-9, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1939, p. 47. 2 Otto Neurath: “Protokollsätze”, in: Erkenntnis, Vol. 3, 1932/33, p. 206.
massa, perché si affermino una serie di professioni della prassi e un certo numero di istituzioni della trasmissione del sapere che si occupano proprio di questo ambito della cultura e della cultura materiale. Il primo modello concettuale lo potremmo definire premoderno: Marx lo avrebbe forse definito ‘medioevale’3, ma noi possiamo anche indicarlo come modello ‘gerarchico’. Il modello era quello dell’Architectura domina che regna sulle altre discipline ancillae, in un sistema che era quello delle Techné/Artes se non addirittura delle Beauxs Arts: L’architecture règle encore mieux tous ces arts, diceva l’estetologo francese Alain ancora negli anni ’20 del Novecento, indicando implicitamente un modello gerarchico delle discipline progettuali e confermandone la subordinazione all’architettura4. L’affermazione della superiorità dell’architettura rispetto all’industrial design trovava le sue ragioni nella contrapposizione fra una disciplina con una consolidata tradizione e l’affacciarsi di un nuovo frastagliato ambito della progettazione e nel considerare, per esempio, la nozione di scala come fondamentale criterio rispetto al quale formulare un giudizio di valore. Una espressione molto fortunata di questa ideologia un poco onnivora è stato lo slogan “Dal cucchiaio alla città”, coniato e predicato – peraltro – da modernisti del calibro di Hermann Muthesius, Walter Gropius, Max Bill e – in Italia – Ernesto Nathan Rogers. Pronunciata però ormai nel quadro della modernità, questa massima esprime un’assunzione di responsabilità unificata nei confronti del problema della ‘progettazione’. Anzi, per certi versi, vi si potrebbe leggere una sorta di sinonimizzazione incompiuta dei due termini ‘architettura’ e ‘design’. Ma potremmo dire che soprattutto questa frase dichiara implicitamente che è la ‘configurazione’, cioè la questione della responsabilità nel dar forma al mondo artificiale, il tema da affrontare in modo unitario5. Come registrerà negli anni ’60 del secolo scorso Gui Bonsiepe sulla rivista di Ulm in un famoso diagramma ad albero, la 3
Karl Marx, A Contribution to the Critique of Political Economy, Moscow, Progress Publishers, 1859. 4 Alain (Émile-Auguste Chartier), Système des Beaux Arts, Paris, Éditions Gallimard, 1926 (1920), p. 33. 5 Il tutto va collocato nel quadro di quella riflessione che prende le mosse, ad esempio da Paul Oskar Kristeller, “The Modern System of the Arts”, in Journal of the History of Ideas, XII, no. 4, 1951, pp. 496-527.
progettazione non è più pensata come unitaria, ma si è venuta articolando in un ventaglio di discipline in cui non c’è più una piramide gerarchica, ma urbanistica, architettura, industrial design e comunicazione visiva siedono al tavolo del progetto ‘da pari’. Il passaggio a questo secondo modello concettuale – il modello moderno del design – rispecchia l’affermarsi delle singole discipline progettuali. Derivava con ogni probabilità dalla constatazione di quanto si era venuto affermando nel mondo delle professioni e delle produzioni, ma anche nei sistemi formativi e educativi diffusisi in tutto il mondo, a partire – per esempio – dalla diaspora Bauhausiana. I grafici creavano associazioni professionali distinte da quelle degli industrial designer, degli architetti, degli urbanisti e pianificatori territoriali e parallelamente nascevano scuole, istituti e università per formare separatamente urbanisti, architetti, product designer e grafici. Associandosi peraltro poi in vario modo nelle scuole, magari secondo la formula americana delle facoltà di Art and Design, oppure secondo un pensiero che potremmo definire più ‘politecnico’ come alla Hochschule für Gestaltung di Ulm, oppure ancora facendo assorbire il design da prospettive decisamente ingegneresche e tecnologiche come avvenne col Bauhaus di Chicago da parte del MIT ecc. Insomma, in una certa misura, il panorama moderno del design è quello di un ventaglio delle specializzazioni del progetto ben distinte e che rivendicano un’autonomia la quale in superficie è – per così dire – disciplinare ma che copre l’esigenza di un’affermazione soprattutto professionale. La specializzazione delle professioni, infatti, si era venuta imponendo a partire dalle pratiche concrete nei media, nel mercato, nella città e nel territorio, e in questo quadro le discipline tendevano ovviamente all’affermazione di una forte autonomia. Sullo sfondo del pragmatismo anglosassone aderente al mondo vero delle attività stava perciò l’idea illuminista e humboltiana di un modello molteplice (poli-tecnico) dei saperi. Un importante effetto di queste trasformazioni sarà la sostituzione – che peraltro richiederà non poco tempo – della concezione della figura del ‘designer artista’, e poi ‘stilista’ (cioè il signore delle forme della seduzione), con quella del ‘designer determinista’, o ‘scientific designer’, orientato a stabilire e definire con rigore (e qualche volta con rigidità) i propri ambiti d’intervento, il proprio raggio d’azione e i propri strumenti, in definitiva il proprio ‘oggetto’ di design. Il processo
di separazione degli ambiti di specializzazione condurrà a visioni unilaterali ed isolazioniste, dove il rischio che si corre è che ogni subdisciplina finisca per limitarsi ad esigere il proprio riconoscimento e a rivendicare con fierezza il proprio professional pride. Gli effetti di questo comportamento porteranno ad una frammentazione delle discipline in cui diventa sempre meno evidente quale sia il loro comune denominatore. Indubbiamente, il design, è una disciplina che svolge un ruolo rilevante nel quadro della vita associata degli uomini. È una disciplina che viene insegnata nelle università di tutto il pianeta e la mappa mondiale è davvero impressionante6. Ci si aspetterebbe che una disciplina e una professione come questa, caratterizzata dalla concretezza di forti risvolti pratici, sapesse con precisione “chi fa che cosa”. Ma in verità la questione non è così semplice e di questi tempi si trasforma in un’impresa conoscitiva e istitutiva davvero rilevante, per una serie di motivi, non ultimo per il suo (della disciplina e della professione) continuo espandersi in senso – potremmo dire – geopolitico e geoculturale, per il suo contaminarsi con sempre nuovi ambiti tecnologici (per es. information & communication technologies, nanotechnologies e biotechnologies) e per il suo attivismo nell’includere, coraggiosamente ma qualche volta imprudentemente, sempre nuovi settori (non solo, ad esempio, il fashion design o il public design, ma anche il food design e il business design). Dicendo questo diamo per implicita la natura profondamente metamorfica della disciplina del design. Quello che sembra di poter osservare non è però tanto lo spettacolo di uno sconvolgimento radicale con grandiosi capovolgimenti od interscambi di ruoli o posizioni. Non c’è bisogno di aderire più di tanto a ideologie come quella del blur design per accorgersi che quello che effettivamente emerge è piuttosto il fenomeno di una maggiore sfocatura dei confini fra gli ambiti. Sembra che le discipline fluiscano più facilmente l’una nell’altra e che si influenzino l’un l’altra. Si sfoca, ad esempio, il margine fra 6
Silvia Pizzocaro, “Developing Design Research: The Study of Research as a Tool for Research”, in John Shackleton and David Durling (Eds), Common Ground, London, Staffordshire University Press, 2002. Vedi anche Silvia Pizzocaro, “Reorienting PhD education in industrial design: some issues arising from the experience of a Ph.D. programme revision”,in Art, Design and Communication in Higher Education, vol. 1, n. 3, 2002, numero monografico dedicato alle Best Practices in PhD Education for Design.
design del prodotto e della comunicazione in un mondo in cui il mercato è molto anche questione di persuasione e di suasione, e nel quale i meccanismi di un mercato influenzabile si fanno pervasivi (il fashion design che si universalizza come variatore programmato del nostro corpo, il furniture design che si fa abbigliamento variabile della nostra casa, il car design dove la carrozzeria si fa il nostro corpo giovanile di ricambio). Con in più, ad esempio, la questione dell’interaction design, la cui annessione al proprio ambito i designer della comunicazione e quelli del product design si disputano accanitamente. E che è invece manifestamente, non tanto qualcosa di autonomo, quanto di trasversale. Queste questioni di messa a fuoco concettuale si rispecchiano ed esplicitano poi particolarmente nella terminologia. Un esempio: lo stereotipo disciplinare ‘comunicazioni visive’ continua a persistere quando ormai non c’è quasi più nel mondo un artefatto – comunicativo o d’uso, che sia – il quale, sul piano di una coerenza categoriale minimamente plausibile, possa dichiararsi mono-sensoriale, mono-mediale, o meglio monomodale7. Per l’irruzione dei new media e in generale delle information and communication technologies, ma anche perché si ha un affermarsi di modelli, ambiti e metodologie del design mutuate da altri domini scientifici, la concezione veteromodernista del design – che insiste sull’isolazionismo professionale – non può che essere in crisi. Come accennavamo l’avvento dell’interaction design, che ha preso le mosse quasi come supplenza del design all’interno della Human Computer Interaction, indica non solo che è in corso il riconfigurarsi dell’insieme disciplinare, ma che gli stessi confini disciplinari sono messi in crisi dalla fenomenologia del progetto. E si pensi, ancora, all’estensione – in parte oggi ancora solo congetturale – della definizione di design al settore dei servizi dove gli artefatti sono ‘oggetti di scena’ di un evento, e dove, se la progettazione è l’affare di competenze e technicalities manageriali, la capacità configurativa si manifesta come coreografia e come vera e propria regia. O si pensi agli approcci olistici al design – che peraltro a volte rischiano di diventare 7
Multimodale significa: che intreccia una pluralità di forme tecniche (ma non tecnologiche, come indica invece il termine Multimediale). Una riflessione pionieristica si deve a Donald Preziosi, “Advantages and Limitations of Visual Communications”, in Martin Krampen (Hrg.), Visuelle Kommunikation und/oder verbale Kommunikation, Berlin, Georg Ohms Verlag, Hildesheim/Hochschule der Künste, 1983, p. 6. Per l’attualizzazione informatica del termine vedi: Letizia Bollini, “Multimodalità vs.multimedialità”, in Il Verri, n. 16, maggio 2001.
mode concettuali, ma che qualche promessa la avanzano e molte tracce le lasciano – come lo user centered design o l’experience design. In questo quadro di continua trasformazione, il punto di vista di quello che abbiamo chiamato professional pride si mostra come antitetico rispetto ai cambiamenti in corso. Non si constata solo la perdita dei confini netti fra le discipline, ma anche che tutto si svolge negli interstizi e nelle sovrapposizioni fra le discipline. E che tutto il mondo ormai è ipermoderno, o surmoderno8, ossia che non è nella specializzazione, ma è là dove le discipline sfumano l’una nell’altra che scaturiscono le novità, che si ridefiniscono le pratiche, la ricerca e la formazione. Se è vero che è in corso una riconfigurazione generale della disciplina, è altrettanto vero che se si costruisce la disciplina del design come una monade, si è già sbagliato in partenza. In altre parole, l’autodeterminazione non deve scadere nell’isolamento. Infine, il processo genetico del design ci suggerisce che le trasformazioni della disciplina sono, dopotutto, un processo che ricalca le modalità di organizzazione della scienza, e che nel definirsi come tale il design dovrebbe contemplare un duplice processo. Da un lato il design dovrebbe essere orientato a riconoscere e consolidare i suoi saperi – specifici e caratteristici – mentre dall’altro lato dovrebbe essere aperto – senza paure e preconcetti – all’esplorazione, alla relazione e allo scambio con le altre scienze.
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L’espressione hypermoderne è del sociologo/urbanista François Ascher. Vedi ad esempio il graffiante François Ascher, Le mangeur hypermoderne: Une figure de l’individu eclectique, Paris, Editions Odile Jacob, 2005. O il panflettistico François Ascher, Ces événements nous dépassent, feignons d’en être les organisateurs. Essai sur la société contemporaine, La Tour d'Aigues, Éditions de l'Aube, 2000. E una serie di studi: François Ascher, Métapolis ou l’avenir des villes, Paris, Editions Odile Jacob, 1995. Sylvain Allemand, François Ascher, Jacques Levy (ed), Les sens du mouvement, Paris, éditions Belin, 2005. François Ascher, Les nouveaux principes de l’urbanisme, La Tour d'Aigues, Éditions de l'Aube, 2004. François Ascher, Examen clinique, journal d’un hypermoderne, Paris, L'Aube, 2007. Dice Ascher stesso in una conferenza tenuta a L’Université de tous les savoirs, Le Monde, 4 gennaio 2005: “Le préfixe ‘hyper’ de l'hypermodernité exprime ainsi à la fois l'exagération de la modernité et sa structure à ‘n’ dimensions”, ma si potrebbe anche dire surmoderno come fa Marc Augé seguendo i Surrealisti. Augé studiando i non lieux [i non-luoghi], o con un termine più arguto ma meno fortunato gli hors lieux [i fuori-luogo] introdurrà questo termine in contrasto con la nozione di postmoderno. Marc Augé, Non lieux: introduction à une anthropologie de la Surmodernité, Paris, Editions du Seuil, 1992, p. 141.
2. From Design Fields to Design Barycentres Di fronte a questo vorticoso brulicare e ribollire, da un lato del mondo che circonda il design e dall’altro delle risposte che il design da a questi cambiamenti, c’è una tendenza un po’ rinunciataria – figlia del pensiero debole – che propone di affermare che non ci sono più punti di riferimento. Una sorta di rizomatismo di maniera si arrende alla ovvia liquidità del pensiero e della tecnologia, invece di sforzarsi di catturare gli aspetti salienti del mondo e di cimentarsi nel descriverli e di proporre una serie di azioni. Per capire invece e trarre vantaggio dall’effetto blur9 fra le discipline, un primo gesto teorico che potremmo intraprendere potrebbe consistere nella sostituzione dell’idea di campi o settori disciplinari del design – che ricalcano un modello topografico regionale ancora imperniato sulla demarcazione netta dei confini – con quella di baricentro. Il nostro baricentro disciplinare è il nucleo, la spina dorsale, lo zoccolo duro, del sapere in questione. È ciò che pur proveniendo da esperienze anche disparate va a costituire il suo fulcro centrale comune. È la parte più universale e ad un tempo più specifica del design, ma soprattutto la più stabile. È il sapere che nessun altra disciplina possiede e propone. È il suo sapere necessario. Insomma: niente atteggiamenti liquidatori e trendystici. È vero che ora disponiamo di tools come Fontographer e di funzioni di correzione automatica dei colori ma, non per questo è il caso di buttare via – tanto per fare un esempio – il tesoro di saperi raffinati che fanno capo alla questione della correzione percettiva dei font (dai tempi di Garamond) o dei colori (Interaction of color di Albers). L’altra metà complementare del discorso, e forse la più rilevante, è che intorno al baricentro si irradia un alone di influenza. Solo se c’è un saldo baricentro saremo capaci di accogliere e inglobare quei pezzi di sapere che via via si rendono necessari al nostro discorso o al nostro agire. Il baricentro disciplinare rappresenta il punto di equilibrio fra una certa massa critica di saperi, che oramai dobbiamo essere consapevoli di possedere, e una molteplicità di elementi ideali e pratici utili al conseguimento dei nostri scopi. 9
Stan Davis, Christopher Meyer, Blur: The Speed of Change in the Connected Economy, Boston, Little Brown & Company, 1999. In Italia vedi la rivista Blur design, diretta da Pino Grimaldi, http://www.blurdesign.net/blurdesign.html.
La consapevolezza dell’esistenza di un baricentro della disciplina ha perciò la funzione di preservare e di valorizzare quei saperi che si sono consolidati nel tempo, di permetterci di usare questi saperi anche con una certa forza, di difendere e imporre le nostre posizioni, e soprattutto di renderci sicuri – proprio e in particolare – nelle situazioni di confronto con le altre scienze e discipline. Portando avanti e cioè prolungando in allegoria la metafora baricentrica, possiamo domandarci che cosa si estende fra i diversi fulcri disciplinari. Ogni baricentro che si rispetti (e che possiamo pensare come un efficiente attrattore), possiede un raggio d’azione. Dentro al continuum galleggiano altri baricentri e attrattori, cioè altre autonome discipline. Insomma il tratto fondamentale di questo modello e di questa concezione è di dar conto del fatto che nella zona fra i baricentri c’è l’effetto, noi pensiamo – benefico, di più baricentri, di più discipline. Il passaggio dal campo al baricentro ci permette, fra l’altro, di uscire dall’idea che la relazione fra pertinenze endo-disciplinari ed eso-disciplinari, appartenga a una sorta di ontologia ideale, e sia sostanzialmente statica, eterna. Fra i saperi nati nel design (come il basic design) e, ad esempio, scienze più generali, ma che agiscono sul design (come la communication design theory, che coincide in fondo con una semiotica), si verificano influenzamenti che si modificano nel tempo e a volte tendono a una fusione. La nostra disciplina, o meglio il nostro grande ambito disciplinare, ha dunque le sue fondamenta e la stessa pratica ha le sue specificità, tanto più che appare piuttosto evidente che formazione e pratica sono intimamente connesse nel design. Del resto, già in precedenza avevamo indicato come decisamente baricentrica la questione della configurazione. In un certo senso è ‘un’ tema se non ‘il’ tema unificatore dell’intero macrocontesto. Se ci chiamano – noi designer – e ci pagano, ciò vuole dire che hanno bisogno del nostro specifico, ciò significa insomma che considerano in qualche modo necessaria quella competenza sulla quale nessun altra professione e disciplina può avanzare pretese e che consiste nell’assumersi la responsabilità della configurazione degli artefatti, dei beni e dei servizi. Non è la prestazione in quanto tale l’oggetto del design. In una certa misura quello che per l’ingegnere è l’obbiettivo e cioè il ‘riuscire a fare’ per il designer
è una condizione necessaria ma non sufficiente. Il design si occupa del ‘come fare’. Lungo la storia del design è venuto emergendo un ventaglio di definizioni davvero sterminato: istituzionali, storiche, convenzionali, visionarie e pragmatiche. Come punto di partenza per ogni ulteriore aggiustamento, il riferimento corre però – magari polemicamente – alla definizione formulata da Tomás Maldonado e adottata dall’ICSID (International Council of Societies of Industrial Design) nel lontano 1961: “Il disegno industriale ha il compito di progettare la forma dei prodotti industriali e progettare la forma significa coordinare, integrare, e articolare tutti quei fattori che, in un modo o nell’altro, partecipano al processo costitutivo della forma del prodotto. E, più precisamente, si allude tanto ai fattori relativi all’uso, alla fruizione e al consumo individuale o sociale del prodotto (fattori funzionali, simbolici o culturali) quanto a quelli relativi alla sua produzione (fattori tecnico-economici, tecnico-costruttivi, tecnico-sistemici, tecnico-produttivi e tecnico-distributivi)” 10. Generalmente é sulla seconda parte della definizione che si mette l’accento, per segnalarne l’attualità e la resistenza alla corrosione del tempo, determinata dalla sua ricchezza di sfumature e di sfaccettature problematiche. Ma qui ci preme attirare l’attenzione proprio sulla prima parte iniziale che solo superficialmente appare scontata: “Il disegno industriale ha il compito di progettare la forma dei prodotti industriali”. La forma. Una forma dotata di senso possibilmente, ma la forma. Ed è proprio intorno a questa peculiarità davvero unica del design che si può dare il rilievo che merita a una branca della disciplina che coniuga formazione e pratica. Ci riferiamo al basic design, al quale Alain Findeli11 affida un ruolo centrale e riequilibratore – per la disciplina e la professione – delle relazioni fra componente estetica, tecnologica e scientifica. Il basic design è un ingrediente disciplinare che ha uno statuto estremamente particolare e originale, anch’esso unico. Prima di tutto è una disciplina del non-verbale: il suo corpus disciplinare è rappresentato dalla collezione delle esercitazioni. Ma, per quanto ci concerne qui, è davvero cruciale perché intreccia 10
Definizione adottata dal Congresso Icsid di Venezia, 1961, ora in: Tomás Maldonado, Disegno industriale: un riesame, Milano, Feltrinelli, 1999 (1976, I), p. 12. 11 Alain Findeli, “Rethinking Design Education for the 21st Century: Theorethical, Methodological, and Ethical Discussion”, in Design Issues 17:1 (Winter, 2001): pp. 517.
intimamente propedeutica – cioè la pratica dell’insegnamento di un saper fare – e fondazione disciplinare – cioè il pensiero teorico e metodologico che le sta alla base. È la branca disciplinare che promette di insegnare a dar forma, o, più correttamente, a configurare, attraverso un approccio epistemologico di tipo ri-fondativo e induttivo. La didattica, infatti, veicola e contemporaneamente genera il corpus delle conoscenze, le quali sono dei saperi specifici che con il procedere del tempo si modificano. Ciò significa che il basic design porta con se il proprio orizzonte, per cui alcuni punti focali disciplinari (alcune esercitazioni) escono di scena e altri ne nascono, adattandosi alle circostanze e agli sviluppi del contesto, per esempio quello tecnologico12. La configurazione (in tedesco Gestaltung), questo tratto assolutamente distintivo della professione del designer, è elemento costitutivo del suo baricentro il quale è stabile ma non statico. Non è statico perchè è stato plasmato dal lavorìo delle forze della società, della cultura e della tecnologia. Il processo storico-genetico del design mostra che il tema della configurazione si è via via adattato, muovendo, magari un po’ a zig zag, fra una pura concezione estetica dell’oggetto legata ancora al mondo delle arti, passando per la concezione delle funzioni e degli elementi primari di stampo purofunzionalista e veteromodernista, per arrivare oggi alla configurazione di processi, come accade appunto nell’interaction design o nel service design, dove sono le dinamiche e le azioni ad essere progettate, e dove, in ultima analisi, ad essere configurata è l’esperienza. Ma tornando all’idea di baricentro disciplinare e affrontando il problema dell’organizzazione disciplinare più in dettaglio, possiamo immaginare di costruire uno schema, nel quale porre come centro di gravità la questione della configurazione, dal quale fare passare la retta d’azione che regge, orienta e bilancia i diversi livelli disciplinari. Al primo livello dello schema potremmo situare lo sterminato panorama degli artefatti che sono il risultato delle operazioni progettuali e produttive. Questo piano non ha solo la funzione di 12
Sull’evoluzione del basic design si veda Giovanni Anceschi, “Basic design, fondamenta del design” in: Giovanni Anceschi, Massimo Botta, Maria Amata Garito L’ambiente dell’apprendimento. Web design e processi cognitivi, Milano, McGrawHill, 2006, pp. 57-69.
contenere e tassonomizzare le soluzioni scaturite dall’attività di progetto, ma ha soprattutto la funzione di rilevare quei nuovi artefatti che compaiono nel mondo, di essere la spia che indica lo stato in cui si trova la fenomenologia del progetto. Il secondo livello dello schema riguarda le metodologie, ossia la strumentazione concettuale e pratica necessaria a gestire il processo progettuale. Qui trovano posto da un lato gli ingredienti a disposizione del progettista per comporre il progetto e dall’altro gli approcci metodologici impiegabili per determinarlo. Un esempio per tutti: l’entrata in scena di metodi di indagine quantitativa e qualitativa provenienti dalla sociologia – oggi strumenti irrinunciabili dalla fase creativa a quella di messa a punto di prodotti già operativi nel mercato – dove gli ingredienti a disposizione sono gli artefatti, le loro funzioni, le modalità d’uso, gli utenti ecc., mentre i metodi di analisi e indagine sono costituiti da questionari, focus group, ricerche demografiche, i test di rilevamento delle azioni dell’utente ecc. Il terzo livello dello schema – che ha un maggior grado d’astrazione e generalizzazione – è quello della teoria e si compone appunto delle teorie, delle storie e della critica sia esclusive della disciplina e interne ad essa, ma anche dalle formulazioni e dalle riflessioni di natura teorica che possono provenire da altri ambiti scientifici e disciplinari. Il passaggio dall’idea di campo a quella di baricentro – si badi bene, il termine ‘ambito’ designa una zona senza margini troppo precisi e quindi possiamo continuare ad usarlo per parlare dell’intero continuum che, come i marinai di Neurath stiamo riplasmando – significa che la struttura è in grado di mantenere la propria rotta indipendentemente dai contenuti che ingloba e assorbe, di sapersi adattare all’oggetto della materia. Per esempio, se ci occupassimo di web design sapremmo che intorno a questo tema ad un primo livello troverebbero posto le diverse tipologie di siti: i siti istituzionali, i motori di ricerca, i siti di e-commerce, archivi e biblioteche on-line, i social network ecc. Ad un secondo livello avremmo le metodologie per la messa a punto della visibilità, della fattibilità e dell’usabilità di un sito, e ad un livello ancora superiore avremo delle discipline che si intersecano quali il design, l’ergonomia e l’informatica. Sempre sull’ultimo livello, quello dei saperi
teorici necessari per la progettazione del web, e allargando così la visuale, si manifesta un’immagine molto sfaccettata e articolata. I saperi consolidati potrebbero essere: la teoria della scrittura e della rappresentazione, l’info design (coi i sistemi di notazione e con la tipografia), e inoltre il basic design (con la new entry del design cinetico e interattivo), e infine la teoria della comunicazione informativa e persuasiva. Mentre i saperi esterni, ma che oramai dovrebbero essere di nostro dominio, provengono dall’estetologia (ad esempio, con la fenomenologia degli stili elettronici), dalla semiotica (per l’impiego dei segni e delle narrazioni), dall’ergonomia (con l’ergonomia somatica e cognitiva), dall’informatica (con i linguaggi di programmazione ma anche con l’usabilità), dall’HCI (per il design dell’interazione), dalla massmediologia (per le infrastrutture e i mezzi di comunicazione), dalla filosofia della tecnica (per i principi generali del nuovo mezzo) ecc. Il panorama delle conoscenze multidisciplinari che emerge attraverso questo esempio, dovrebbe porre in evidenza che quando il progetto di un sito web fosse guidato, per esempio, da un informatico o da un ergonomo, gran parte dei saperi consolidati del design rimarrebbero probabilmente fuori tiro. Nello specifico delle due figure professionali, i fuochi progettuali sarebbero per l’ergonomo la prospettiva dell’utente, una questione nodale, ma forse a discapito della configurazione generale del sistema e quindi, di riflesso, dello stesso utente, mentre per l’informatico la prospettiva sarebbe quella operativa e tecnologica e in questo caso il centro di interesse diventerebbe lo sviluppo di applicativi prestazionali e solo in subordine la qualità del relazionarsi fra sistema e utente. Gli esempi potrebbero essere molti, soprattutto considerando le nuove aree in cui oggi il design opera. Se provassimo a fare questo esercizio potremmo constatare che ogni nuovo oggetto d’interesse sposterebbe il baricentro disciplinare in considerazione del panorama degli artefatti di riferimento, degli strumenti metodologici e delle teorie necessarie al progetto, e che il punto di equilibrio e caratterizzante dell’attività del designer avrebbe nel suo intorno una serie di competenze multidisciplinariche rafforzano ed espandono la principale competenza del designer, che rimane quella della configurazione. 3. Design Research and Multidisciplinarity
Calarsi nell’ipermodernità – contrariamente alla posizione debole postmoderna – dovrebbe comportare, per la comunità di ricerca del design, di attenuare il tratto prudenziale che caratterizza il suo incedere – per quanto giusto e doveroso possa apparire – e di decidersi a diventare come le altre comunità scientifiche. Per essere come gli altri, dovremmo prima d’ogni cosa tentare di liberarci del dibattito che attanaglia la nostra comunità della ricerca riguardo il fatto se il design sia una scienza o una disciplina. Qualcuno afferma che il design si differenzia dalle scienze per la sua propensione a formare, strutturare, costruire, definire il nuovo piuttosto che per la sua tendenza ad indagare, svelare, chiarire e dipanare l’esistente. Il design non sarebbe scienza, in definitiva, perché ha la peculiarità e il fine di plasmare il futuro. Ma questo è un falso problema. Per chiarire questa questione, occorre iniziare rispondendo alla domanda fondamentale: che cosa è ricerca? E di conseguenza, quali sono le intenzioni e i fini della ricerca? L’attività della ricerca punta alla produzione di nuovo sapere, con l’intenzione di produrre conoscenza in ambiti non conosciuti e con il fine di produrre un sapere che possa essere utilizzato da altri, che sia cioè una conoscenza tendenzialmente universale e universalmente accessibile. In qualche modo – da dopo l’illuminismo – una conoscenza democratica. Costituendoci come comunità scientifica e cimentandoci con l’attività della ricerca, dovremmo perciò assumere tutti i comportamenti della scienza e dovremmo accettare che il design, nel momento in cui produce nuova conoscenza, sia a tutti gli effetti una scienza. Usare il termine scienza del design13 non implica il divieto all’uso del termine disciplina: il design, nel momento in cui si occupa di didattica e progetto è, infatti, a tutti gli effetti una disciplina, ossia un insieme di conoscenze finalizzate, un agglomerato o un mosaico molto complicato di saperi e pratiche finalizzate all’attività di progetto. Ciò che differenzia la scienza del design dalla disciplina del design è il suo ruolo, ossia la funzione della ricerca di produrre nuova conoscenza dotata di un certo grado di generalizzazione che solo successivamente aiuterà il singolo problem solving e le pratiche di qualificazione (prestazionale e o , ad esempio, morfologica), in altre parole, l’attività del design. 13
Decisamente, in una prospettiva del pluralismo e dell’interdipendenza come la nostra, sarebbe poi più corretto usare scienze del design al plurale.
Scienza e disciplina non sono due opposti, una non esclude l’altra, ma coabitano avendo due ruoli con funzioni ben distinte. Questa posizione dovrebbe preservarci dal ricadere in concezioni medioevali, simili per esempio a quando il ‘designer’ Filippo Brunelleschi realizzava la cupola di Santa Maria Novella e non essendoci in quella società la norma di un sapere condiviso, formalizzato e accessibile, ancora oggi quel sapere rimane sconosciuto (il segreto del mestiere). I segreti del mestiere e i segreti industriali sono affare della professione, le conoscenze condivise sono questione della scienza. Se la ricerca è quindi orientata a produrre conoscenza e non a risolvere problemi, occorre anche specificare cosa sia la produzione scientifica. Il grande Karl Gustav Droysen, nel suo inaugurale Outline of the priciples of history: Grundriß der Historik, faceva una distinzione fra momento descrittivoinduttivo, e diremmo forse, fenomenologico, e momento deduttivo-nomologico della formulazione scrittoria. Cioè fra la scrittura che per così dire accompagna la nascita della conoscenza – scrittura di ricerca (interrogative exposition) – e la scrittura che racconta una conoscenza data per acquisita – scrittura di esposizione (recitative exposition) 14. Il percorso dell’indagine fenomenologica, che descrive il versante pratico della disciplina per poi risalire a produrre la teoria, ci suggerisce inoltre che la nostra scrittura scientifica potrebbe assumere i tratti del testo semiotico. Il design ha tradizionalmente adottato una forma di scrittura il cui riferimento è il testo filosofico, qualche volta l’essay e il panflet, e mira a definire degli scenari o a interpretare storicamente dei fenomeni, mentre il testo semiotico ha un carattere sistemico e analitico che potrebbe essere un modo adeguato per produrre conoscenza che sia, al tempo stesso generale e trasferibile ma anche caratteristica del design15. 14
Descrittiva e cognitivamente costruttiva, la prima (Il 18 Brumaio di Louis Bonaparte di Marx), deduttiva e sistemica la seconda (Il Capitale). Johann Gustav Droysen, Elisha Benjamin Andrews, Hermann Krüger, Outline of the principles of history: Grundriß der Historik, Boston, Ginn & Company, 1893, p. 51 e passim. 15 Si veda con un esemplificazione portata sul web design: Dario Mangano e Alvise Mattozzi (a cura di), EIC, nn. 3/4, 2009, nr. monografico: Il discorso del design. Pratiche di progetto e saper-fare semiotico, in partic. Claudio Vandi, “La strategia di Google: abiti e pratiche”, pp. 163-172; e per contrasto Claudia Gianelli, “Progettare l’interazione attraverso l’azione: le interfacce open source”, pp. 173-182. Per una teoria del design di carattere sistemico e analitico, relativa ai computer based systems, si veda Massimo Botta, Design dell’informazione. Tassonomie per la progettazione di sistemi grafici auto-nomatici, Trento, Valentina Trentini editore, 2006.
Sul versante della disciplina invece, le relazioni di progetto dovrebbero svilupparsi come adeguata letteratura tecnica del progetto di design, che in definitiva, racconta una conoscenza acquisita attraverso l’attività di progetto. Il credito che queste pratiche hanno nella comunità della ricerca, e quindi il fatto che la ricerca possa avvenire attraverso esse, definite secondo i casi come practice-based research, practice research, action research in design, clinical research o projectgrounded based research, ci spinge, però, a suggerire che occorre tracciare una linea netta di separazione fra ricerca e sperimentalismo, fra attività di ricerca e design di punta. Il design sperimentale segue l’idea che è ‘più ricerca’ qualcosa che è prodotta in contesti fortemente innovativi, come per esempio progettare un artefatto destinato ad andare nello spazio, quando poi invece ci si accorge di essere di fronte a comuni attività di progetto caratterizzate dal solo fatto di agire all’interno di contesti un po’ insoliti. Diverso, invece, è quando il ricercatore è cosciente del fatto che essendoci un contesto innovativo, o essendoci delle nuove tecnologie che potrebbero offrire una serie di possibilità, decide di indagare che cosa si potrebbe fare confrontandosi perciò con altri contesti, e magari ‘rubando’alcuni pezzi di sapere utili alla causa del design. È ricerca e non sperimentazione quando invece l’azione pratica, la pratica progettuale, viene avviata e istruita in modo e allo scopo di produrre conoscenza. Come ha detto Alain Findeli16, ma come aveva già detto Einstein, il ricercatore dovrebbe praticare l’opportunismo epistemologico. Dobbiamo cioè saper cogliere contenuti e modalità conoscitive dove li troviamo per usarli quando ci servono, e lo sapremo fare nella misura in cui siamo ormai disciplinarmente costituiti. La ricerca della multidisciplinarietà, che in passato era vista come manifestazione di inferiorità e di debolezza, come un aggrapparsi alla solidità altrui, significa oggi per il designer il programma di andare a prendere le conoscenze dove sono nate e non reinventare, in modo autarchico, l’acqua calda (perché questa, ogni tanto, è l’impressione). È un pregiudizio pensare che l’atteggiamento multidisciplinare si ponga in contrasto con la tendenza secondo la quale il design 16
Alain Findeli, “Research Through Design and Transdisciplinarity: A Tentative Contribution to the Methodology of Design Research”, in Focused. Current Design Research Projects and Methods, Swiss Design Network, 2008, p. 79.
deve trovare la propria autonomia nel mondo della ricerca. Al contrario la posizione multidisciplinare, vuole essere oggi, semplicemente, più inclusiva e meno spaurita e rinunciataria. Le modalità di organizzazione della scienza prevedono che ci siano dei momenti di cooperazione con gli altri, ma anche dei momenti di forza. Non è forse un caso che Brenda Laurel – nell’introduzione al libro Design Research – usi il termine muscular design, evidenziando che la ricerca in design negli Stati Uniti è stata portata avanti, e con una certa forza, in altri contesti17. La ricerca ha avuto il suo fulcro nell’interaction design18, per cui sembra essere abbastanza evidente che il design anglosassone è stato capace – con il pragmatismo che lo caratterizza – di proporre il modello forte e dialogico che auspicavamo. Aperto al dialogo e forte nel dialogo con le altre discipline. Essere forti, assumendo posizioni ‘multiple’, significa anche essere oramai intellettualmente elastici, come ci ha mostrato Laura Antonelli con la mostra Design and the Elastic Mind19, che documenta un’attività di ricerca del design sempre più fra e attraverso le discipline, in contatto con altri ambiti scientifici. O ancora, il progetto di ricerca Material Beliefs20, sviluppato in collaborazione fra designer, ingegneri, scienziati e ricercatori provenienti dalle scienze sociali, mette in luce che il design è oramai in grado di reggere il confronto e dare il proprio contributo originale in ambiti della ricerca di punta: in questo caso negli ambiti delle tecnologie biomediche e cibernetiche. Gli esempi potrebbero continuare e ciò che possiamo constatare, osservando i risultati di queste ricerche, è innanzi tutto la qualità estetica dei prodotti, la quale non è altro che ciò che rende manifesto il lavoro di sintesi configurativa dell’attività del designer e ciò che inoltre concretizza l’abilità del designer di negoziare, promuovere e rendere concreto il cambiamento attraverso il progetto di nuovi artefatti che saranno compresi e usati dal grande pubblico.
17
Brenda Laurel (edited by), Design Research: Methods and Perspectives, Cambridge, Massachusetts, London, England, The MIT Press, 2003. 18 Richard Buchanan, tra l’altro, dichiarava già l’orientamento della ricerca USA nell’interaction design nel 2001. Si veda Richard Buchanan, “Design Research and the New Learning” in Design Issues, 17:4 (Autumn, 2001): pp. 3-23. 19 Si veda a questo proposito Laura Antonelli, Design and the Elastic Mind, New York, The Museum of Modern Art, 2008. 20 Jacob Beaver, Tobie Kerridge and Sara Pennington (editors), Material Beliefs. Interaction Research Studio, Goldsmiths, University of London, 2009.
La ricerca oggi deve essere plurale. Si tratta di convocare alla conversazione le altre discipline, non di essere costretti ad appoggiarsi alla loro autorità. Si tratta di provocare il formarsi di un consesso di elaboranti, di un forum stabile, sulla tematica che ci interessa. Ormai si parla correntemente di epistemologia discorsiva (Michel Foucault21, Bruno Latour22, Isabelle Stengers23). E c’è chi aveva anticipato addirittura l’idea di un pensiero dialogico (a proposito dei filosofi Rosenzweig, Ebner, Buber24). Ma dovremmo ricordarci che la conversazione non è una chat., ossia che il conversare, anche se non è un’attività priva di piacere, non vuol dire intrattenersi a chiacchierare. La conversazione, infatti, è prima di tutto il terreno dell’oggettivazione. O dovremmo dire più prudentemente oggi dell’intersoggettivazione, in quanto è ‘vero’ quanto viene riconosciuto e condiviso da una determinata comunità25. La conversazione è per principio un procedimento epistemico. È molto spesso un processo di generazione di un giudizio di verità o falsità. La conversazione si avvia, per esempio, con la capacità o meglio con lo sforzo di rendere presente per gli altri, più chiaro e distinto possibile, quello che cogliamo nel panta rei del mondo, e/o ciò che transita nel nostro flusso di coscienza. Ciò che fa della conversazione uno strumento insostituibile è che più che ogni altra cosa conversare vuol dire metter fuori, esporre (dal latino ex: fuori e ponere: porre) allo sguardo giudicante degli altri ciò che si è catturato o colto. La conversazione è vantaggiosa perché ciascuno dei partner pratica un continuo e ripetuto avanzare tesi (thesis, dal verbo greco tithemi, porre) e un continuo e molteplice rispondere, cioè dialogare (dialettica: dia-legein). La conversazione è anche e soprattutto un discorso multiplo (la dialettica nasce collettiva nella polis greca per poi diventare procedura di un ragionamento individuale), e attraverso la 21
Ad esempio: Michel Foucault, L’Archéologie du savoir, Paris, Éditions Gallimard, 1969. 22 Prendi ad esempio il pionieristico: Bruno Latour, Science in Action, Harvard University Press,1987, soprattutto a pp. 94-100. 23 Vedi Isabbele Stengers, L’invention des sciences modernes, Paris, Flammarion, 1993, straordinaria valorizzazione dell’ingrediente humor nel discorso scientifico. 24 Bernhard Casper, Das dialogische Denken: Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner, Martin Buber, Freiburg, Basel, Wien, Herder Verlag, 1967. 25 Giovanni Anceschi, “Josef Albers: omaggio al colore”, in Giovanni Anceschi (a cura di) Basic design/La tradizione del nuovo, Venezia, PhD in Design Sciences IUAV, 2006.
conversazione si contratta, si ristruttura la terminologia, e si punta al superamento delle circostanze. Nella conversazione progettuale si possono avere due stili di attacco: il dialogo collaborativo e la discussione conflittuale. Ed è nel filone conflittuale che nell’attività di progetto e di ricerca si sviluppa la procedura tesi-antitesi-sintesi, perché si tratta di fare in modo che ‘la cosa’ sia affermata, che i nostri partner e interlocutori la vedano, la considerino, e l’accolgano o la confutino. Ed è in questa prospettiva – che è quella di una comunità di ricerca che basa il proprio agire sulla cooperazione – che viene a galla la questione della leadership disciplinare: noi propenderemmo per pensare che la scelta di chi guida il progetto – pragmatico o di ricerca – vada determinato dal contesto affrontato in questione: edilizio (l’architetto), mediale (il graphic designer/art director), produttivo (il product designer/engineer), abitativo (l’interior designer) ecc. Come si dice: “Il mazzo passa di mano a rotazione”. 4. Notions and Paradigms L’erosione delle barriere disciplinari e il passaggio di nozioni da una scienza all’altra, testimoniano la caduta del paradigma riduzionistico di matrice cartesiana, che si basava sull’iperspecializzazione e sulla separazione delle conoscenze – da un lato, mentre dall’altro ecco emergere il carattere sostanzialmente nomade dei concetti. Ciò, naturalmente, richiede grandi precauzioni epistemiche per non produrre effetti deleteri, ad esempio per non generare sfuggenti effetti di esagerata sfocatura o fenomeni di rizomatismo malinteso26, dai quali il design non sembra essere indenne. Ancora oggi, le attività d’insegnamento ricalcano però una concezione del design statica in quanto sono focalizzate in gran parte sulla comprensione e definizione fisica dell’oggetto piuttosto che sui processi che il risultato dell’attività progettuale può innescare. Per esempio, l’esercizio dello smontaggio e del 26
Non a Deleuze e Guattari, ma a Derrida possiamo lasciare la parola per prendere le distanze da un pensiero superdebolista: “Non concludetene che occorra rinunciare di colpo a sapere che cosa ciò voglia dire: si avrebbe ancora la reazione estetizzante e oscurantista dell’hermeneuein”, in Jaques Derrida, Sproni. Gli stili di Nietzsche, Milano, Adelphi, 1991, p. 122, (ed. or. Derrida J., Éperons. Les styles de Nietzsche, Flammarion, Paris 1978).
rimontaggio dell’artefatto (praticato nelle scuole di architettura di design e di comunicazione visiva) rispecchia una concezione della didattica dove l’apprendimento avviene attraverso lo studio delle singole parti dell’oggetto. En passant, si potrebbe osservare quanto – almeno dalle parti del progetto – la nozione di decostruzione non sia nient’altro che una rispolveratura, in salsa francese, della pratica pedagogica tradizionale e un po’ammuffita delle Beaux Arts: copiare i Maestri, smontare il metodo dei Maestri, e poi rimontare ad esempio un tempietto greco in cima a un grattacelo in curtain wall. Questo approccio di tipo ‘grammaticalizzante’ e sommativo andrebbe rivisto secondo una prospettiva topologica, plastica e costitutiva, che vede l’artefatto come qualcosa di trasformabile, in continua metamorfosi27. O, come suggerisce Buchanan, andrebbe rielaborato secondo una prospettiva retorica28, centrata sull’esperienza umana del design, cioè sull’oggetto in azione nel tempo e in relazione con l’uomo29. Ripetiamo: i nuovi domini che si affacciano al design, come l’interaction design, il service design, lo strategic design, l’environmental design ecc. hanno come protagonista la dimensione temporale e mostrano che quando entra in gioco la temporalità non intendiamo più il progetto in maniera puramente ontica, in quanto ciò che configuriamo è la natura dell’oggetto in relazione al soggetto: all’esperienza dell’uomo30. L’entrata in scena generalizzata della temporalità e del divenire nell’arte (dopo le anticipazioni pionieristiche di Futurismo e Cubismo), era stata esplorata a fondo dai movimenti della 27
Ludwig Von Bartalanffy, General system theory, New York, Braziller, 1969. Richard Buchanan, “Design Research and the New Learning”, in Design Issues 17:4 (Autumn, 2001), pp. 3-23. Vedi anche: Stephen Doney Farina, Rethoric, innovation, Technology, The MIT press, Cambridge Mass, 1992; Roger A. Grice, (IBM Corporation, Kingston, NY), “Information development is part of product development—not an afterthought”, in Edward Barrett (ed.), Text, context, and hypertext: Writing with and for the computer, Cambridge, MA, The MIT Press, 1988, pp. 133-148; Ken Baake, Metaphor and Knowledge: The Challenges of Writing Science, Albany, The State University of New York Press, 2003; Alan G. Gross, Starring The Text: The Place of Rhetoric in Science Studies,Carbondale, Southern Illinois UP, 2006. 29 Più in generale, per la relativizzazione socioculturale dei processi epistemici vedi Bruno Latour, Steve Woolgar, Laboratory Life: The Social Construction of Scientific Facts. Beverly Hills, Sage, 1979. 30 Un filosofo che, da pioniere, ha messo in luce il protagonismo della temporalità nella conoscenza e la sua influenza costitutiva sulle le relazioni esistenziali è stato Enzo Paci, Tempo e relazione, Taylor, Torino, 1954. 28
neoavanguardia come l’Arte cinetica e programmata e Fluxus. E il suo istallarsi saldamente nel mondo della civilizzazione tecnico-scientifica e socioculturale planetaria ci conferma che la cassetta degli attrezzi è cambiata. Ad esempio, che la nozione spazio-centrica di ‘scala’ non serve più, ovverossia, che una concezione geometrico-dimensionale della disciplina non ha più senso. Per fare un esempio: domandiamoci se un sito web è a piccola o grande scala ... Ormai emerge che i problemi ai quali siamo di fronte non sono più tanto dimensionali (soprattutto se agiamo sul piano globale e planetario), e che l’attività conoscitiva non avviene più unicamente scomponendo le parti che costituiscono l’oggetto, insomma che il problema non è più tanto quello di spezzettare perché le cose si comprendono quando sono in azione, quando sono in movimento. Abbiamo cioè capito, come accade nei giochi di guerra, che è il tempo ad essere determinante, che possiamo disporre le truppe nello spazio ma sarà solo con il tempo che si potrà vedere chi vince. Insistiamo: per progettare un artefatto oggi non basta più che il designer faccia uso di disegni costruttivi in pianta e alzato, che rappresentano geometrie e dimensioni. Il designer deve impiegare, ad esempio, strumenti come lo storyboard in grado di prefigurare gesti, metamorfosi, decorsi e processi. E si parla continuamenti di scenarios, che sono lo strumento principe per governare la nostra azione nel tempo. I nuovi domini che si affacciano al design sono caratterizzati dalla centralità del tempo. Infatti al tempo sono riconducibili una serie di nozioni che sono diventate oramai parte e linguaggio condiviso per la nostra comunità. Dice il proverbio: “le parole sono pietre” nel senso che le parole sono potenti, le parole evocano, le parole ‘chiamano’, a volte chiamano magicamente in vita. Se insomma, usare un termine o un altro non è indolore, ma anzi le terminologie sono come binari che guidano e plasmano il nostro pensiero, sarebbe forse fruttuoso sviluppare un discorso analitico e critico, una riflessione appunto terminologica, a partire dal fatto che, come abbiamo in parte accennato, quasi tutte le nuove nozioni e i metodi sono legati, in qualche modo, alla dimensione temporale e processuale. Termini come strategia, pianificazione o gestione (cioè management), sono in uso almeno da quando c’è il progetto. Non sono nozioni nuove ma sono radicalmente rinnovate dal nuovo contesto: è come se l’occhio di un riflettore si fosse
spostato su di esse. Le nuove formazioni terminologiche come strategic design, strategic planning31, scenario building o experience design ecc. sono ormai profondamente immerse e intrecciate alla pianificazione di sequenze di eventi, alla determinazione dell’esperienza dell’utente, alla calibrazione degli effetti sensoriali, alla produzione di effetti di senso, al management degli effetti prestazionali, in definitiva alla conduzione e regia (direction) di processi complessi32. E sempre del tempo si occupano termini come collaborative design, participatory design, human-centred design ecc., che designano pratiche ed approcci legati alla cooperazione degli utenti e si focalizzano quindi su procedure, processi e azioni33. Espressioni, infine, come product life cycle o life cycle design, life cycle assessment, manutenzione-riparazione-riuso, sono nozioni e approcci legati alla sostenibilità, ma non sono centrati sull’artefatto ed enfatizzano la rilevanza della dimensione temporale34. E, sul service design e service oriented design, non c’è proprio bisogno di insistere35. In conclusione proviamo a fare un esempio. È probabilmente attraverso una conversazione fra noi e la semiotica, che possiamo negoziare la necessaria mediazione fra la critica che abbiamo fatto alla limitatezza della visione del design elementarista e grammaticale da un lato e il protagonismo del tempo, del processo e del movimento nel nuovo design. 31
Interessante per la connessione fra ipermodernità e strategia: François Ascher “Dalla pianificazione urbana al management strategico; il caso francese”, in Fausto Curti e Cristina Gibelli (eds.), Pianificazione strategica e gestione dello sviluppo urbano, Firenze, Alinea editrice, 1996. 32 Come sottolinea Buchanan, l’attendibilità di questi nuovi settori disciplinari va comunque valutata con una certa attenzione, soprattutto riguardo la loro reale capacità di predirre, guidare e plasmare il futuro. Richard Buchanan, “Children of the Moving Present: The Ecology of Culture and the Search for Causes in Design”, in Design Issues 17:1 (Winter, 2001): p. 67-84. 33 Vedi ad esempio: Audrey Bennet, Ron Eglash, Mukkai Krishnamoorthy e Maire Rarieya, “Audience as Co-designer: Partecipatory design of HIV/AIDS Awareness and Prevention Poster” in AA.VV., Design Studies. Theory and research in graphic design, New York, Princeton Architectural Press, 2006. Ellen Lupton and Julia Lupton, Design Your Life The Pleasures and Perils of Everyday Things, New York, St. Martin's Griffin, 2009. 34 Ezio Manzini ha attitrato con grande anticipo l’attenzione sul tempo nel design, a cominciare dai materiali mentamorfici e reattivi. Ezio Manzini, The Material of Invention Materials and Design, Cambridge MA, MIT Press, 1989. 35 B. Joseph Pine, James H. Gilmore, The experience economy: work is theatre & every business a stage, Harvard Business School Press, 1999.
Affermare ciecamente o altrettanto ciecamente negare solo l’uno dei due versanti rischia di deformare il sistema. Lo strumento principale del nostro mestiere non sono le parole, eppure anche la più verbocentrica e testuale delle prospettive della semiotica, e cioè quella con cui Saussure combina la nozione di paradigma36 con quello di sintagma, può esser volta in nostro favore. Essa può esserci utile perché era nata per coniugare un momento preliminare, analitico e elementare, e uno sintetico e – in un certo senso – processuale. Come si legano potenzialità lessicale e frase concretamente costruita?, si domandava Saussure. E più precisamente in linguistica, il paradigma verbale è l’insieme delle forme verbali la cui conoscenza permetterà di coniugare il verbo nel tempo e nel modo voluto. L’idea di un set di elementi morfologici, plastici, figurali, di una palette, ad esempio, rimane accettabile anche nel mondo nonlinguistico del design. Qui il gesto creativo, che si muove lungo l’asse paradigmatico, pesca gli elementi necessari e li accosta e compone o li plasma e fonde, andrà a produrre il risultato finale, il sintagma (dal greco syn-tattein: con-porre). È però vero che nel corso del nostro discorso non abbiamo fatto altro che continuamente rilevare che, a causa del protagonismo del tempo, i paradigmi, e cioè il set delle componenti da associare, è fatto oggi non di elementi primari, ma di teorie, metodologie e pratiche, ma anche di procedure, strategie, tecniche ecc. già formulate e costituite, in qualche modo pronte ad essere usate. Per certi versi è come se fossero ‘parole/frasi’, paradigmi/sintagmi, dove l’atto intellettuale del ricercatore/designer, cioè la mossa sintattica (o sintagmatica), non è un montaggio sincronico, ma una concertazione diacronica di saperi pre-esistenti. Il sintagma del nuovo design monta cioè insieme ‘spezzoni di sapere’, e può generare flussi ricchi di imprevisti, percorsi articolati e complessi, ed eventi esplosivi e abbaglianti. Il nostro mestiere assomiglia sempre più alla figura poliglotta del regista, a quella astuta dello stratega, a quella innovativa del tecnologo, a quella previdente del pianificatore. Ben lungi dal chiudersi in una torre d’avorio, la nostra professione/disciplina/scienza deve avere la spregiudicatezza di 36
Qui paradigma è usato nell’accezione semiotica e non in quella della filosofia della scienza (paradigma copernicano o darwiniano), dove designa una visione globale (e globalmente condivisa) del mondo, e più specificatamente, del mondo su cui indaga la comunità di scienziati di una determinata disciplina.
andare a pescare nei saperi più consolidati e nel bagaglio di tecniche, scienze e discipline limitrofe: non solo come le ultime innovazioni della tecnologia, le discipline della pianificazione o le regole della strategia, ma soprattutto in quei contesti che per approcci, modalità e fini ci appaiono ancora così diversi dal design (appunto, come lo sono le scienze). A ben vedere la formula del ‘paradigma di sintagmi’, cioè di un ‘dizionario fatto non di parole ma di frasi’, appare dunque la morfologia adeguata all’iper- o sur-modernità che viviamo. Appare il paradigma del design ipermoderno. Le prospettive di sviluppo (o anche di decrescita), che stanno di fronte alla nostra società, all’economia, alla natura e alla cultura sono già determinate da queste nuove nozioni, e sono oramai di estrema importanza per il futuro in quanto si incontrano in quasi tutti gli ambiti di intervento e di ricerca: in quello della pianificazione urbana e dell’architettura oltre che del design del prodotto e della comunicazione. Ma anche nell’indagine delle relazioni fra politica e tecnologia, fra stili di vita e sviluppo territoriale, fra impatto della globalizzazione e ipotesi di strategie per uno sviluppo sostenibile.