1.5 il progetto della Com

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Il progetto della comunicazione visiva e multimediale Dal titolo del mio intervento ci si potrebbe giustamente aspettare un ordinato panorama attuale della comunicazione visiva e multimediale. In qualche modo il titolo sembra suggerire una discussione dell'evoluzione dalla comunicazione visiva a quella multimediale. Ma poiché di ordinato in questo panorama c'è ben poco, io propenderei per rovesciare la domanda e per formularla come segue: c'è, c'è ancora, anzi deve continuare ad esistere una disciplina progettuale delle comunicazioni visive - il visual design - nell'epoca dell'ipermediale e del multimediale ? Non si da insomma forse il caso di una sparizione di una estinzione della progettazione grafica dentro al sommovimento prodotto dall'informatizzazione? Non è pensabile un suo assorbimento disciplinare dentro all'informatica - indolore o conflittuale che sia - ? E poi qual'è il nocciolo disciplinare che attraversa la produzione delle comunicazioni visive diventati prima multimediali e poi ipermediali e cioè, soprattutto, caratterizzati dalla peculiarità dell'interazione? Le comunicazioni visive, o meglio la produzione di comunicazioni visive, non esiste da sempre, ha una data di nascita. A seconda del criterio impiegato se ne può collocare l'inizio a 30.000 anni prima di Cristo (con la pittografia parietale ), o a 3.000 anni a. C. (con i primi sistemi di scrittura ), oppure a Gutemberg (con la prima tipografia, il primo design del libro ), ecc. E poi, addirittura, per avere i primi accenni di una disciplina e di una teoria del progetto grafico bisogna aspettare gli anni '20 (col Bauhaus e dintorni ), e per un loro consolidamento gli anni '50/'60 (con le grandi scuole internazionali di design e 1


comunicazioni visive , e con l'emergere dell'international style in comunicazione ). Si potrebbe quasi dire che una disciplina autonoma delle comunicazioni visive non ha ancora finito di nascere. Le tappe tecnologiche della produzione di comunicazioni visive, tanto di quella che potremmo chiamare la sua fase monomediale, e cioè la sua linea scrittoria (calligrafia, tipografia, composizione meccanizzata, fotocomposizione), la sua linea figurale (disegno/pittura e poi fotografia, ecc.), e la sua linea produttiva - o di output, si direbbe oggi, - (stampa a pressione rilievografica, calcografia, litografia , e poi rotocalco, offset, ecc.), non hanno particolarmente contribuito alla formazione della disciplina autonoma. La storia della produzione comunicativa é una storia di skill e di maestrie, non di fondazioni disciplinari. Di autori e di tecnici si tratta non di progettisti. Se certe circostanze (come ad esempio la condizione del progetto, che distingue un far fare dal fare), hanno contribuito a far nascere il visual design e ad articolarlo in una disciplina, altre circostanze potrebbero portarlo all'estinzione. E ci si può domandare se gli sviluppi - dalla cibernetica a Silycon Walley e oltre - che vedono tutte le componenti (semilavorati e artefatti finali, raffigurazioni e scritture, modellazioni e cinetismi, simulazioni e modulazioni), unificate tutte e riunite dentro alla scrivibilità dell'informatica, ci si può domandare dicevamo, se tutto ciò non spinga in direzione dell'assorbimento disciplinare di cui si parlava. Già l'audiovisivo, prima cinematografico e poi televisivo, sembrava tendere ad una fusione di competenze e ad uno sfumare dei loro contorni. Si pensi alla ricchezza dell'intreccio di 2


registri - sonori, visivi, figurali, scrittori, immaginali e verbali - , da gestire con una azione di regia. Ma ora nell'universo informatico questo intreccio raggiunge livelli mai conosciuti prima. Tipografia digitale e CAD, sistemi di painting e di modelling, animazioni e simulazioni, colloquialità interattive e fruizioni immersive, stampa a spruzzo di cera o a sublimazione, disegno a plotter e visualizzazione su monitor, si fondono in un tutto unico, e in una sorta di supersostanza: l'informazione anche nella sua versione di icona. Generalmente avviene che sotto la pressione delle circostanze le competenze necessarie vengano per così dire evocate, in un modo o nell'altro, dentro al contesto produttivo o inventivo in movimento in quella fase. Sulle pagine di riviste come "Graphicus" e "Campo Grafico", nell'Italia degli anni '30 ad esempio - e cioè in ritardo rispetto alle situazioni analoghe mitteleuropee e inglesi - è documentata la fatica fatta dal grafico progettista per emergere dal contesto della tipografia e dell'arte pubblicitaria. In altre parole nella maestria dell'artista e dell'artigiano tipografo erano contenute in nuce le competenze del grafico, ma l'autonomizzarle diventava un fatto conflittuale. Va detto peraltro che la questione della supplenza di competenze è un fenomeno endemico in tutti gli ambiti professionali, e massimamente in quelli comunicativi. Analogamente, nel contesto informatico che ora ci circonda, le competenze di comunicazione si sono venute esprimendo all'interno dell'ambito tecnico/ disciplinare. Cioè, nel contesto dell'informatica, dalle origini soprattutto, ma anche in fasi più mature, codici, strumenti, procedure, sistemi e standard - comunicativi e visuali - sono stati concepiti e progettati da chi concepiva e produceva quello che con una metafora possiamo 3


chiamare il motore informatico. Già, ovviamente, l'hardware condiziona il software, e entrambi sono vincolanti per i processi di comunicazione e il loro darsi fenomenico. ma non si tratta soltanto di un vincolo che deriva dalla necessarietà logica e dalla determinatezza materiale della tecnologia. Si tratta di chi decide cos'è importante. E chi decide cos'è importante è in primis l'ingegnere elettronico e in secundis il programmatore informatico. Raramente nel team è invitato quel rappresentante delle istanze dell'utilizzatore che è il designer. Gli informatici portano con se nel progetto di sistema la propria filosofia a base tecnologica. Il tecnologo è orientato al "fare", anzi allo "riuscire a fare", e soprattutto in fase ponieristica, il "riuscire a fare" fa aggio sul "come fare". E il "come fare" rappresenta il succo disciplinare del design. I designer si sentono responsabili del "come". Di un "come" sensoriale, percettivo, cognitivo, retorico, estetico, ecc. Della consistenza sensoriale, della pregnanza percettiva, del funzionamento cognitivo, dell'efficacia retorica, della qualità estetica, che l'artefatto finale dimostrerà e testimonierà presso il destinatario/ utente/ consumatore. E la domanda diventa a questo punto/ si raggiungerà mai un assetto abbastanza stabile, una condizione di ritmi di trasformazione meno concitati? Un contesto tale che vi sia per i progettisti il tempo e la testa necessari per costruire una grammatica e una sintassi e un sistema simbolico e raffigurativo condiviso? Oppure la continua variazione - progresso? - della tecnologia spinta dal mercato, la continua corsa all'offerta di prestazioni, che consentono di "fare tutto", come promette ogni buon 4


dépliant, manterrà questa condizione che abbiamo chiamato pionieristica endemicamente costante? Non andrà perso per sempre l'orientamento al "come", cioè alla disciplina del design? Nel campo del progetto delle interfacce, con le sue importanti implicazioni di design cognitivo, vi sono infiniti esempi di una gerarchizzazione che potremmo definire indebita. Si pensi a quanto siano goffe e brutte la maggior parte delle interfacce dei punti informativi, con le quali siamo costretti confrontarci nella nostra vita di cittadini, di viaggiatori, di clienti. Da essi ci aspettiamo, giustamente, la perfezione sovrumana del "cervello elettronico" e invece ci imbattiamo sovente in esempi patenti di stupidità artificiale, che trasformano noi utenti in comici del cinema muto - il Chaplin della fabbrica automatizzata - alle prese con monete e bottoni, con biglietti e informazioni inscatolate a matrioska e con sequenze di gesti insensate e sempre di nuovo abortite. E neppure in un altro settore delicatissmo, quello dei sistemiautore, accade sovente che siano coinvolti gli autori e i progettisti stessi. Finendo, in generale, per produrre ipertrofie nell'offerta inutile di possibilità esecutive e mancanza di sottigliezze negli aspetti chiave particolari. Naturalmente va detto anche che autori e progettisti è raro che siano sufficientemente acculturati informaticamente. E quelli che lo sono, e che sarebbero attrezzati per interloquire, sono invece impegnati sul fronte della progettazione dei singoli prodotti, e assorbiti nell'ideazione e realizzazione dei singoli messaggi per essere disponibili ai compiti di concezione di codici e sistemi. Al Convegno Icograda di Lisbona Carl Swann, Fellow dell'Australian Design Institute, ha documentato le sue afferma5


zioni preoccupate con un grafico piuttosto terrificante. Si vedeva un'immensa torta blu, che rappresentava l'insieme della produzione di editoria multimediale, espressa in termini di investimenti, interrotta da una microscopica fettina amaranto, che stava ad indicare il 0,006 per cento di casi nei quali è coinvolta la collaborazione di visual designer. Anche nel caso di quegli artefatti informatici, che circolano nelle reti distributive - quelle fattuali: i "negozi" di CD-ROM e simili , e quelle virtuali : TV e internet - ci si può domandare se siamo di fronte a una situazione di desiderabile fusione, o di indebita supplenza. Se in termini quantitativi la situazione appare catastrofica, si ha però la sensazione che in termini qualitativi e di esperienza le cose non siano poi così amare per i designer. Le figure professionali che sanno coniugare competenze informatiche e competenze di design vanno a ruba sul mercato del lavoro. I luoghi e gli apparati editoriali dove si realizzano interfacce e programmi interattivi (educazionali, museali, bancari, ecc.), ma anche i settori del design televisivo (image di canale, immagine del palinsesto, titoli di testa, scene e grafica televisiva, ad esempio sportiva, o servizi informativi, come le previsioni del tempo), hanno fame di chi è in grado di portare in più le competenze della qualità comunicativa. Ancora nel senso di una progressiva estinzione del visual design si muove ad esempio, invece, quanto avviane nell'ambito del desk-top Publishing. Secondo una interpretazione benevola si assiste ad una migrazione dentro al sistema del software, delle competenze del buon grafico, per la progettazione di stampati. Si parla, ad esempio, di programmi estetici per la composizione. Una interpretazione malevola dice invece che questa presunta democratizzazione mette le tavolozze di effetti e le loro fi6


nezze nelle mani di chi non sa cosa farsene. E che quindi sceglie a suo (cattivo) gusto, e quindi contribuisce ad un peggioramento della media qualitativa. Sempre la medesima interpretazione impietosa aggiungerebbe che l'informatizzazione sta portando a un incremento della distanza , o come si dice oggi della forbice, fra gli happy few e i molti brutti sporchi e cattivi. Le situazioni elitarie dove i progettisti hanno il peso e il prestigio per convincere la committenza, fanno uso dell'informatica come catalizzatore e potenziatore della qualità. La grande maggioranza dei comunicatori visivi diventano invece artigiani della computergrafica, seduti al telaio informatico ore e ore al giorno, a sputare dépliantini e carte da lettere, marchietti e stampati per il mailing, in continuazione. Se, come abbiamo già accennato, il progetto nasce dalla distinzione fra far fare e fare, e se nell'infografica ipermediale questa separazione venisse meno, le conseguenze sarebbero radicali. In effetti, la straordinaria potenza combinatoria nel proporre varianti di soluzione in tempo reale sullo schermo del monitor, in altri termini la possibilità per il grafico eidomatico di plasmare in diretta ciò che andrà a colpire la retina dello spettatore, come il vasaio modella con le sue mani il vaso che toccherà le labbra dell'utilizzatore, modifica tutte le circostanze. Rappresenta cioè una ulteriore spinta fusionista - secondo una interpretazione ottimista -, o invece - pessimisticamente - un passaggio regressivo indietro verso il rischio di un'artigianalità irriflessiva. Rappresenta insomma ancora un attentato alla integrità disciplinare del visual design. Un forte indizio che va invece nel senso dell'identificazione delle specificità autonome della disciplina del progetto, e che coincide altresì con i primato del ruolo dell'utente/ destinatario 7


nella gerarchia dei pesi progettuali, é invece rappresentato da quelle pratiche che vanno sotto il nome di fast- o rapid-prototyping. Ed è proprio l'informatica a consentire la simulazione anticipata dell'interazione uomo-macchina. Prima si mette sulla scena del monitor la sequenza delle operazioni, dei gesti dell'utente, delle sue sensazioni, percezioni, dei suoi atti cognitivi, e poi si costruisce il motore informatico dell'applicazione. Questo, come tutto il settore dell'HCI (Human Computer Interaction), rappresenta un filone progettuale disciplinarmente interno all'informatica. Una sorta di teoria del design autoprodotta in seno alle scienze dell'informazione. E anche la nozione di user friendly, che proviene addirittura dalle regioni del marketing informatico e che è stata il cavallo di battaglia di una concezione vincente del prodotto informatico, è interessante. Essa potrebbe tranquillamente trovare collocazione in una revisionata disciplina del progetto. Ma probabilmente è soprattutto opportuno che informatici e comunicatori smettano di pensarsi come controparti. I due modelli concettuali, i due saperi non sono forse poi così divergenti. E' vero, ad esempio, che nei saperi pre-informatici della produzione e della progettazione di comunicazioni visive è tutto da buttare? In altra sede mi sono divertito a dimostrare che l'enciclopedia, cioè proprio quel libro, che teniamo nella nostra biblioteca, è in tutto e per tutto un ipertesto, che gira, in vece che su PC o Apple, su Codex. Il Codex è quella soluzione tecnologica inventata dagli antichi Romani, che rilega un fascio di fogli scritti. Essa funziona come una macchina che consente di ruotarli intorno a un perno, e di sfogliarli nel corso della "query" attivata dal 8


lettore. Una macchina che viene movimentata non dall'elettricità di rete ma dalla forza muscolare del lettore che la consulta, e che viene attivata dalle sue abitudini percettive. C'è proprio tutto: il link (cioè i rimandi ) gli help (cioè le note) i menù (i sommari, gli elenchi , gli indici, ecc.). Negli anni '60 Gui Bonsiepe aveva dato forma all' albero del design che ne vedeva la serie di specializzazioni andare dalla massima scala di intervento alla minima : pianificazione territoriale, urbanistica, town design, architectural design, design microambientale, il product design e il visual design. L'enfasi andava allora sulle differenze e sulle separazioni. Oggi, per lo meno per quanto concerne le due ultime discipline, visual e industrial, il confine di separazione si sta facendo meno marcato e sempre più permeabile. In seno al sommovimento dei confini di quello che gli studiosi di storia delle idee chiamerebbero il nostro sistema delle arti il corrispettivo ad esempio della suddivisione in arti meccaniche ed arti liberali nel Medioevo -, in seno insomma al nostro sistema delle discipline e delle scienze, si sta verificando un altro fenomeno di fusione che riguarda il nostro campo di interesse. E' proprio la questione dell'interazione, introdotta dall'elettronica e dall'informatica a trasformare gli oggetti in comunicati, e i comunicati in oggetti. Nel virtuale della comunicazione incontriamo oggi continuamente l'interfaccia, che si fa oggetto consistente, magari a intermittenza. Che rende tangibile la prestazione, materializza il servizio. Nel fattuale del mondo dei prodotti e delle merci (diciamo nel grande magazzino, nel supermarket, nel negozio), incontriamo invece sempre più sovente oggetti colloquiali - quasi soggetti, 9


come li chiama Ezio Manzini - dotati in maggiore o minor misura di capacità di elaborazione e di motilità reattive. Dotati insomma di capacità di comunicare. Si pensi alle nuove macchine fotografiche che ti chiedono in che stile vuoi fotografare. La forma del loro interloquire e interagire con l'utente è qualcosa che va disegnato. Ancora più lampante è il caso di una console interattiva. Lì i tasti e i bottoni fattuali entrano direttamente in concorrenza formale e percettiva con i trigger virtuali, che stanno sull'epidermide della macchina/ software: lo schermo del monitor. Qui davvero ci si può domandare dove finiscono le competenze di comunicazione visiva e dove cominciano quelle di disegno industriale. Non ci sono conclusioni di questi appunti, di questi che possiamo definire lanci riflessivi. Non si può fare a meno di constatare però, che è davvero in corso una ristrutturazione che assume soprattutto i tratti di una unificazione e fusione. Il che comporta che bisogna mettere in programma lo sforzo di sfuggire ai rischi della con-fusione, anche se è certamente insensato restare abbarbicati alle proprie abitudini disciplinari. Va inoltre constatata la necessità di prendere iniziative di ricerca e di riflessione nei confronti dell'arricchimento del ventaglio degli oggetti di progetto. Agli artefatti d'uso e agli artefatti comunicativi, digitali o meno, si è aggiunto il progetto dei servizi e dei loro "attrezzi di scena". Passando poi a quelli che ci paiono i tratti irrinunciabili del nucleo disciplinare, sia esso da coltivare separatamente oppure da inoculare energicamente nei nuovi assetti, si tratta senz'altro di qualcosa che possiede carattere etico. 10


E', come abbiamo giĂ accennato, il ruolo del design come istanza propositiva che si fa carico di rappresentare di difendere le esigenze dell'utenza al tavolo delle trattative del progetto.

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