5.3.1 Aeroporto 1 scena multimodale

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Giovanni Anceschi L’aeroporto: il design della scena multimodale All’ inizio – per così dire – c’è l’esperienza dell’aeroporto con la sua base di ansietà1. Un’ansietà che è legata certo alla carica simbolica che caratterizza l’esperienza del viaggio, ma che è determinata anche da particolari condizioni ambientali. Perdersi in aeroporto, quando non sia un piccolo aeroporto, è cosa abbastanza normale. Gli ambienti sono smisurati, niente appare immediatamente a portata d’occhio o di orecchio, ma soprattutto siamo immersi in una foresta di segnalazioni, di richiami, di comunicati. Nell’aeroporto c’è una stratificazione complessa dei corredi di artefatti comunicativi. Una stratificazione che dipende dalla presenza di molteplici mittenti di messaggi (l’istituzione aeroporto, le compagnie aeree, i titolari dei servizi al passeggero, in generale le infinite marche di merci e servizi che in un modo o nell’altro vi hanno cittadinanza). L’aeroporto, a partire da un certo momento coi duty free shop e poi dilagando in tutti gli ambienti possibili, è diventato anche un importante luogo del consumo (è anche un mall), che sfrutta il passaggio di milioni di acquirenti potenziali. La realizzazione di strumenti per decifrare il proprio percorso dentro ad una simile stratificazione informativa non era ai primi inizi indispensabile. Crescendo la complessità la sistematizzazione della segnaletica diventa norma. Il primo aeroporto a adottare un sistema segnaletico coordinato è stato lo Schipol di Amsterdam negli anni ’60, ad opera di Total Design uno studio progettuale programmaticamente multimodale (diremmo noi oggi) e composto da grandi personalità (da Wim Crouwel, Benno Wissing, Friso Kramer, Paul e Dick Schwartz e dal giovane Hartmut Kowalke, che proveniva dalla Hochschule für Gestaltung di Ulm). La visione teorica di un design totale s’inquadra nelle prospettive tipiche degli anni ’60, che sono molto importanti per nascita della disciplina design della comunicazione. Due sono i testi fondamentali e fondativi: il primo è Design coordination and corporate Image di Henrion e Parkin sull’immagine coordinata, 2 e l’altro è A Sign System Manual”, di Crosby,

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Richard Saul Wurman, Information anxiety. Doubleday, New York, 1989. Henrion FHK & Parkin A., Design Coordination and Corporate Image, Studio Vista/Reinhold, London-New York 1967. 2

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Fletcher e Forbes, che riguarda i nuovi strumenti e metodologie del progetto grafico.3 Design coordination avanza una nozione decisamente di base e ricca di conseguenze: gli enti e le aziende possano essere interpretati come “persone artificiali” nel senso di organismi che si dotano di strumenti e attrezzature che servono a intrattenere relazioni comunicative con il mondo che li circonda. Il controllo dello scambio informativo e comunicativo con i pubblici – per così dire - circostanti è l’immagine coordinata. I competitori (rispetto all’ideologia progettuale dell’image), in quanto forma dell’organizzazione del progetto di comunicazione diversa dallo studio di design grafico, è l’agenzia pubblicitaria che - a partire da metà ottocento aveva sviluppato metodologie determinanti, ad esempio: la divisione del lavoro fra account e creativi, il basare il progetto su un nucleo concettuale (un enunciato forte), che venne poi chiamato strategy, ma soprattutto l’idea di campagna, importata dall’universo militare con cui la pubblicità lavorò gomito a gomito per la propaganda bellica nel 15-18. La forza della pubblicità è sempre stata quella di avere la capacità di agire opportunamente nel tempo proprio grazie a questa formula della campagna. Una sequenza di azioni convergenti (scelta dei canali e dei media, modulazione retorica dei messaggi e standardizzazione tecnicoproduttiva dei vari strumenti, ma soprattutto ripetizione dei comunicati), puntano a realizzare un obiettivo. Contro lo strapotere budgettario dell’agenzia i grafici e i designer svilupparono, proprio negli anni ’60, una concezione in grado di concorrere con questo procedere strategico. Lo studio grafico (di scuola europea), alleatosi con le ricerche sociologiche americane delle Public relations4, fece una scoperta massmediologica epocale, le cui conseguenze a lungo raggio sono andate ben oltre ogni previsione, come viene riconosciuto e contemporaneamente stigmatizzato da NoLogo5. La scoperta è consistita nell’accorgersi che l’ente, l’azienda non è solo una persona artificiale, è essa stessa un medium - potremmo dire oggi multimediale e multimodale. Con l’idea di immagine coordinata e aziendale, oggi ribattezzata – con una buona dose di wishful thinking 3

Theo Crosby, Alan Fletcher e Colin Forbes, A Sign System Manual. , Praeger Publishers, London, 1970. 4 Che sulle orme di Edward L. Bernays (1891-1995) ebbe un grande sviluppo nel secondo dopoguerra, proponendo l’idea del ventaglio composito delle relazioni aziendali. 5 Naomi Klein, NoLogo, Baldini e Castoldi, Milano, 2001 2


identità visiva6, il visual design ha inventato un nuovo strumento che controbilanciava la capacità di agire sulla temporalità della pubblicità, in quanto sostituiva l’azione nel tempo della campagna annuale con un’azione continua di costruzione dell’apparenza. La costanza dell’azione d’immagine aggiunge progressivamente negli anni elemento su elemento senza ‘buttar via tutto’ come avviene alla fine di ogni campagna. A Gui Bonsiepe si deve poi la distinzione fra immagine naturale e artificiale (costruzione delle apparenze)7. Ogni persona, fisica o artificiale, possiede un’immagine. Anche la ragazza acqua e sapone rilascia un’immagine, e ad ogni incontro con lei noi aggiungiamo un tratto a quel ritratto interiore, a quel suo simulacro portatile che ci siamo fatti di lei. Una questione problematica è la rappresentata dalla corrispondenza fra immagine e identità: una promessa esaltante a cui corrisponde ripetutamente una risposta deludente, non regge e il patrimonio di prestigio si sgretola e scompare8. Il secondo libro fondativo Sign system manual è un doppiamente un manuale. Da un lato è un trattato che insegna le nozioni e tecniche e le metodologie del visual e graphic design, e dall’altro è un esempio dello strumento principe dell’immagine coordinata: il manual, inventato dalle aziende petrolifere agli inizi del 900. Peter Beherens negli anni ’10, aveva sviluppato in modo esemplare l’immagine coordinata per le AEG (Allgemeine Elektrizität Gesellschaft. Nel caso AEG, anche se sono presenti strumenti già molto maturi di codifica del progetto, non si può però ancora parlare di manual, anche se una serie di linee di indirizzo molto precise possono essere facilmente desunte. Il Manual è il libro della legge comunicativa dell’azienda. È un codice che raccoglie il lessico dell’immagine e la grammatica della sua produzione. Da un lato ne determina il ventaglio degli elementi costitutivi (marchio-logotipo, colori di bandiera, carattere tipografico, ecc) stabilendone con precisione proporzioni e rapporti, ecc., e dall’altro fissa in regole esplicitamente formulate e scritte ciò che va rispettato nelle applicazioni. 6

In qualche manuale si critica come non abbastanza trendy e postmoderna la nozione di immagine coordinata, ma davvero incautamente, in quanto nel termine coordination (come avveniva ovviamente nell’espressione art direction) è contenuta in nuce l’idea di una registica della comunicazione. 7 Gui Bonsiepe,Teoria e pratica del disegno industriale, Feltrinelli, Milano,1975 8 Un punto di vista più recente: Kenneth J. Roberts, Managing Image in a Dynamic Corporate Environment, Lippincott Mercer, http://www.lippincottmercer.com/publications/roberts03.shtml 3


La storia del design della comunicazione e della grafica ci mostra due polarità metodologiche: una formula che possiamo chiamare hard, cioè una concezione spiccatamente centralista che col manual si propone la creazione di un’immagine – per così dire – una volta per tutte, e l’immagine cosiddetta soft9, la quale, assumendo come indispensabile un’elasticità dell’image nei confronti di un contesto che cambia per definizione, lavora per linee d’indirizzo e adattamenti senza rigidità. L’estremo paradigma della formula hard è rappresentato dalla compattezza d’immagine delle società totalitarie. Il Nazismo è un esempio di coordinazione d’immagine, perfetto per efficienza comunicativa10. Del resto è proprio nella dimensione del pubblico e non nel privato che vanno ricercate le radici del sapere che si svilupperà nell’immagine coordinata, e cioè nella dimensione storica del socioculturale. Del resto si potrebbe dire che gli artefatti comunicativi rappresentano la materializzazione delle relazioni e dei contenuti culturali presenti nella società. Si pensi alla sapienza simbolica ma anche segnaletica e comunicativa di due istituzioni come la chiesa e l’esercito. Le chiese: si pensi ai loro emblemi, ai codici cromatici, ma anche all’abbigliamento, alle regole di comportamento, ai riti, ale cerimonie, etc. Gli eserciti: oltre che alle insegne e ai gradi, si pensi al fatto che la lingua stessa chiama l’abbigliamento militare divisa ma la chiama anche uniforme. “Divisa”, da divisare, cioè distinguere, in altri termini, “ciò che esercita, cioè, la funzione disgiuntiva” e “uniforme”, “che esercita invece la funzione coesiva”). Le due funzioni sono quelle che sviluppa ogni emblema in quanto rende oggetti e uomini appartenenti al medesimo insieme o comunità e al contempo li rende distinguibili da ogni altro insieme o comunità, si pensi alla marchiatura del bestiame o all’imposizione della ‘cimice’, come veniva soprannominato lo scudetto del partito fascista. La patria dell’immagine soft è l’Italia. Il paradigma è quell’azienda mondialmente leader nella comunicazione che è stata l’Olivetti. L’Olivetti ha avuto un regista eccezionale in Adriano che come un buon direttore d’orchestra concertava l’azione di un vasto ventaglio di solisti.11Io sono 9

Giovanni Anceschi, Il punto sull'immagine coordinata 2. Etologia dell'image, in: "LineaGrafica", n.2 (mar), 1985. 10 Taylor, B. and van der Wil, W. (eds), The Nazification of Art. Art, Design, Music Architecture and Film in the Third Reich, Winchester, The Winchester Press, 1990, molto interessante Jeremy Aynsley, Marianne Lamonaca, “Print, Power and Persuasion, graphic design in Germany, 1890– 1945”, mostra tenuta al Rhode Island Museum, 2002. 11 Questi autori non componevano la 'corte del principe, come ha detto qualcuno'; al contrario, furono assunte per sviluppare le proprie competenze specialistiche: dalle relazioni interne (Franco 4


convinto che la stessa IBM di Paul Rand (il marchio forse più stabile e costante di tutti e per tutti) sia stata influenzata dall’immagine Olivetti di Giovanni Pintori. Quella che si definisce immagine soft, invece di usare una strumentazione coercitiva (codice, regole), le sostituisce un atteggiamento registico: usando un ventaglio di strumenti notazionali e normativi molto vasto che non si limita al manual, ma che orchestra una pluralità di interventi, Un esempio molto calzante di immagine coordinata soft può essere anche il primo Fiorucci (assistito dal giovane Pieracini, che andrà poi più tardi proprio in Olivetti). L’immagine stava miracolosamente insieme poggiando su Mickey Mouse di Walt Disney e, contemporaneamente, sui cherubini di Raffaello (elaborati da Italo Lupi). Un immagine riconoscibile non per l’omogeneità degli ingredienti ma per la coerenza flessibile del modo di accostarli. In qualche modo l’immagine, cioè l’apparenza diventa così una messa in scena e un si prolunga in una successione di eventi. Insomma cambia il criterio principale della progettazione. Non è più l’artefatto, ma il processo, la sua guida, la sua modulazione che diventano protagonisti. E questo anche perché non c’è solo l’aspetto identitario nella comunicazione istituzionale e aziendale, ma ci sono anche altri aspetti sostanziali, come ad esempio non esiste solo la comunicazione persuasiva e pubblicitaria ma anche quella funzionale e informativa. L’aeroporto può essere pensato come un’identità, come persona artificiale ma anche la percezione di questa identità come luogo di servizi, soprattutto informativi, la maggior parte di ciò che viene influenzata, se non determinata, dall’efficienza dei servizi che vi vengono erogati e dalla qualità delle loro prestazioni. Non sono convinto che la nozione di contenitore ci aiuti molto a questo proposito. La metafora contenitore ci fa pensare a un involucro (una scatola, dove sono passivamente impacchettati una serie di oggetti magari di forma differente). Magari potremmo pensarlo piuttosto come una sorta di pipeline lungo il quale abbiamo stazioni di pompaggio, di stoccaggio, di Momigliano) alla comunicazione (Leonardo Sinisgalli, Ignazio Weiss, Carlo Brizzolara, Libero Bigiaretti, Renzo Zorzi ), dall'elaborazione dei testi pubblicitari (Franco Fortini, Giorgio Soavi ed altri) alla grafica pubblicitaria (Xanti Schawinsky, Costantino Nivola, Salvatore Fiume, Egidio Bonfante e così via), dal design dei prodotti (Aldo Magnelli, Marcello Nizzoli ed i loro successori), alle architetture olivettiane (Figini e Pollini, e ancora Nizzoli), al design degli stand Olivetti nelle principali fiere internazionali e all’allestimento dei negozi Olivetti (GianAntonio Bernasconi, Ugo Sissa, Carlo Scarpa, BBPR, Leo Lionni e Giorgio Cavaglieri). 5


drenaggio, ecc., almeno sarebbe fatto salvo un carattere fondamentale, il cinetismo la dinamica, il tempo e le sue ansie. Quella di servizio è un’idea molto forte. Sta emergendo nella cultura del design, accanto a quella originaria di design del prodotto l’idea di design del servizio. In un primo tempo concepiti come parte dematerializzata del prodotto stesso (i servizi di manutenzione, ecc) e poi come temi autonomi. Anzi quasi rovesciando la prospettiva sono gli artefatti d’uso e gli artefatti comunicativi a diventare gli attrezzi di scena, i requisit della performance di servizio. Fino ad arrivare al pensiero che a essere venduta non è più l’automobile ma un certo numero di migliaia di chilometri di “car service”. Quella della progettazione dei servizi è una questione di grandissimo rilievo in una società nella quale la terziarizzazione assume dimensioni determinanti. Un esempio: ho conosciuto direttamente il caso di Bolzano, dove Piero Maccioni, economista di formazione, padroneggiando quindi la dimensione finanziaria e gestionale ed orchestrando un ventaglio di competenze specifiche fra cui quelle urbanistiche (pianificazione dei trasporti), e quelle di design della comunicazione (immagine coordinata e infodesign), ha istituito il nuovo sistema integrato dei trasporti regionali. Ma anche un tema diversissimo, come la famosa Estate Romana, con le straordinarie sessioni di massa di lettura poetica e di happening, ideata da Renato Niccolini a metà dei lontani anni settanta, rappresenta una formula originale di servizio ai loisirs. Il design dell’effimero, come si diceva allora, consiste nel porgere a un pubblico di destinatari e di consumatori potenziali di cultura, non una merce ma un servizio, secondo modalità efficienti quanto stimolanti. È la sostanza dell’offerta, oltre che l’immagine, a contare. La nozione di interfaccia, che mutuiamo dall’universo informatico e web, trova qui un impiego molto appropriato: la segnaletica, le mappe, i tabelloni, i monitor distribuiti, ma anche i check-in, le biglietterie elettroniche, i punti informativi fattuali e virtuali ecc., rappresentano precisamente l’interfaccia multimodale di quel megaservizio alla mobilità che è l’aeroporto12. 12

“In altri termini neanche il design industriale è esauriente. Il baricentro del fenomeno delle interfacce non è infatti tanto la tridimensionalità. Essenziale è il coinvolgimento della dimensione temporale, attraverso i movimenti del corpo e lo svolgimento dialogico. In effetti il progettista di interfacce deve possedere una professionalità che è molto prossima a quella del regista. La sua attività si configura come la messa in scena e comprende tra l'altro la coreografia. Laddove il primo termine si connota più staticamente (anche il set del fotografo è il luogo della messa 6


E ancora: la questione stessa dell’identità, cioè la sostanza dell’immagine complessiva della persona-artificiale-aeroporto, si può poi a sua volta debitamente articolare. Di fatto l’aeroporto è un’immagine che contiene molte immagini variamente stratificate. Come abbiamo accennato il problema diventa qui non quello di istaurare un’immagine singola nella sua purezza, ma di orchestrare una pluralità di immagini, di apparenze, all’interno di un’immagine comune. A questo punto, è venuto il momento di varare una proposta di natura teorica. E’ opportuno proporre una sostanziosa aggiunta, un nuovo pezzo di terminologia adeguato ad investire questo ambito della progettazione di grandi scene/pipeline della comunicazione e dell’informazione. I personaggi che si occupavano finora di queste cose erano grafici, adesso bisogna chiamare in soccorso le terminologie di discipline limitrofe non più solo dello spazio e della sua percezione ma del tempo (o dello spaziotempo) e della sua fruizione (regia e più in dettaglio coreografia da un lato, scenografia e stage design dall’altro). A dire il vero l’idea di totalità è inscritta nella disciplina da lungo tempo (come abbiamo visto, lo studio che ha progettato il primo Shipol aveva voluto chiamarsi Total design): il tema è quello di rendere riconoscibile, e praticabile una determinata entità e dall’altro consiste nella capacità di pilotare il comportamento degli utilizzatori In questo la branca della disciplina che si occupa di quella scena/pipeline virtuale che è il web, è andata molto avanti: una importante figura ella disciplina, qualcuno dice una guru della materia, che si chiama Brenda Laurel, ha scritto un libro che si intitola Computer as theatre, nel quale, come strumento concettuale per capire come montare, viene usata quella parte della la retorica di Aristotele dove si parla di unità d’azione, di tempo e di luogo13. Non è un caso che uno dei più interessanti studiosi del design dell’interfaccia, sia Ken Friedman che ha un passato come artista del movimento Fluxus anni ’60-’70, un periodo di grande interesse, sperimentazione e anticipazione. La nuova istituzione artistica promossa da Fluxus, cioè l’happening (che vuol dire evento), diventa una metafora più appropriata ancora che il teatro, in quanto il teatro è uno spettacolo chiuso, dove lo spettatore è passivo, mentre negli spazi-tempi in scena), mentre la coreografia va intesa come scrittura del movimento scenico”. Anceschi, G., (a cura di), Il progetto delle interfacce. Oggetti colloquiali e protesi virtuali, Domus Academy, Milano, 1992 13 Laurel, Brenda. Computers as Theatre, Reading, MA, Addison-Wesley, 1993. 7


dell’interazione (virtuali come i siti e fattuali come l’aeroporto) lo spettacolo o meglio la fruizione deve essere deve essere aperto.14 E qui impiego una nozione, quella di opera aperta sviluppata da Umberto Eco negli anni Sessanta15. L’dea di Eco è che l’opera d’arte non è conclusa senza la cooperazione proiettiva, interpretativa del lettore/spettatore: i quadri di Pollock funzionano - per così dire, anche - in modo analogo ai test di psicologia proiettiva di Rorschach, nelle cui macchie lo spettatore legge scene aggressive o erotiche. L’opera accoglie i contenuti e gli atteggiamenti timici prodotti dallo spettatore. Con l’happening l’apertura non è più solo ermeneutica-proiettiva, ma fattualmente ad opera dei partecipanti può succedere una cosa o un’altra. Resta però un tratto che non consente neppure all’happening di essere la metafora perfetta degli ambienti dell’interazione: come evento ha un inizio e una fine, e questa delimitazione è costitutiva. Alla complessità strutturale e interpretativa e alla apertura fattuale si deve aggiungere quindi un carattere ulteriore. L’ambiente interattivo deve essere un’apparecchiatura in qualche modo reattiva, lì – per così dire - in attesa, come potrebbe essere una trappola. O precisamente una la mostra. Tutto l’exhibition design (che non voglio chiamare allestimento, proprio perché questo termine tipico del discourse architettonico, come del resto quello di arredamento, pensa la mostra come uno spazio senza tempo, comunicazione e interazione) è l’archetipo disciplinare corretto. La mostra è il luogo del pilotaggio del comportamento, anche cognitivo, dello spettatore, attraverso artifici che ho chiamato figure di regia.16 Nell’aeroporto le sequenze di azioni e movimenti provocate dalla segnaletica presso l’utente destinatario, presentano forti analogie con la processualità dei comportamenti propri dell’exhibition design. Anche qui il progettista/regista opera una scelta vantaggiosa delle figure di comportamento dello spettatore/attore e le mette in sequenza secondo una logica di scrittura scenica (con andamenti e temperature teimiche di anticlimax e climax). Potrebbe essere davvero sensato pensare all’aeroporto come a una mostra, come a un canale comunicativo di cui vanno disegnare o meglio modulate e plasmate in funzione delle diverse 14

Ken Friedman, The Wealth and Poverty of Networks, http://www.newcastle.edu.au/journal/poetics/issue-02/ken-2.htm 15 Eco, Umberto, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee,

Milano, Bompiani, 1962, 16

Giovanni Anceschi, Retorica verbo-figurale e registica visiva, in: Eco U. e al., Le ragioni della retorica, Modena, Mucchi ed., 1986; id., Visibility in progress, in “Design Issues”, vol. 12, n. 3 (autumn), 1996.

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esigenze le diverse modalità espressivo/comunicative e la loro orchestrazione complessiva. La realtà multimodale delle diverse fasi e dei diversi comportamenti trova riscontro nella realtà tencnologica della macchina aeroporto: anzi più che una macchina siamo di fronte (anche) a un gigantesco apparato multimediale, a un proteo mediatico fattuale, ai suoi diversi canali e registri. E in effetti sulla Grande Scena Aeroportuale convivono infiniti apparati della canalizzazione (elettronica e altro) dell’informazione, come anche della presentazione e rappresentazione della comunicazione, come infine del colloquio interattivo.Il dibattito sul “silent aeroport”, ad esempio, è il risultato del problema dell’interferenza e del disturbo reciproco fra canali mediatici (e fra registri sensoriali): lasciare vuoto il canale sensoriale auditivo per favorire la comunicazione visiva. La dimensione tecnologica, cioè il ragionare in termini di canali e di (multi)media, essendo il luogo delle effettive manipolazioni e modificazioni e rappresentando la fonte e il supporto di ogni stimolazione, è fondamentale nel senso che fissa dei vincoli e offre delle opportunità, ma non va dimenticato che – se si potesse dire così – ancora più fondamentale è ciò che viene definito la struttura del destinatario, in termini somatico/sensoriali, percettivo/cognitivi. La comunicazione ai ciechi si fa in braille o comunque attraverso messaggi trasportati da veicoli segnici tattili, e in generale vanno scelti registri, codici e lessici adeguati a quelli del destinatario. Il regista multimodale è il regista degli effetti attuali (e sensati) che saranno prodotti da differenze e modulazioni fattuali tecnicamente realizzate17.

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Uso l’opposizione actual/factual come l’ha proposta Josef Albers, nel suo Interaction of Color, New Haven and London, Yale University Press, 1971, che ricalca la distinzione scolastica fra in acto e de factu.

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