10/01/11 Giovanni Anceschi Mostra-testo, mostra-ipertesto, mostra-regia Stringa, albero e rete. (titolo di lavoro)• Titolo da citare perché è stato effettivamente pubblicato: La struttura narrativa della scena ostensiva, in Claudia Donà (ed.), Mobili italiani. Le varie età dei linguaggi, Milano, Cosmit, 1992
Premessa Hans Neuburg, Internationale Ausstellungs-gestaltung, Niggli, Teufen, 1969 Sergio Polano, Mostrare. L'allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta, Edizioni Lybra Immagine, Milano1988, n.ed. 2002. Exhibition Design vs Allestimento David Dernie, Exhibition Design, London, Laurence King Publishing, 2010 Exhibition design ad Exhibit design
Mostre Nel 1851 a Londra si verifica - sul campo e non in un laboratorio di ricerca - una scoperta di ordine inconsapevolmente massmediale e di rilievo, consapevolmente, universale: le meraviglie produttive di un industrialesimo già maturo e le infinite varietà commerciali di una cultura materiale già vastamente planetaria vengono offerte alla contemplazione stupefatta - appunto - di masse immense di visitatori in quella che sarà chiamata la Great Exhibition per antonomasia.. In essa possiamo dire che confluissero due polarità o meglio due filoni evolutivi dell’istanza culturale del mostrare. Il primo è il filone che, partendo dall’idea barocca dell’intero mondo, con i suoi esotismi, nonché dell’intero passato, con le sue rovine, raccolti nella dimora del signore, collega alla Wunderkammer la collezione di tesori, d'arte e non. Un filone questo, che condurrà poi a una forma istituzionale estremamente specializzata la quale, passando attraverso la formula della galleria dei dipinti di famiglia, si trasformerà in quel particolare negozio nel quale si vende l’art pour l’art. Oppure, parallelamente, la linea che va da 1 parco nobiliare coi padiglioni grotteschi il cui fin é la meraviglia al Luna Park. A Londra si era manifestata , accanto alle molte sale, appunto esotiste e istoriste (ad es. l’atrio egizio disegnato da Pugin), anche la seconda linea evolutiva, quella dell’esposizione, anzi dell’offerta delle merci: la serra di Paxton come il più colossale dei Grands Magasins del Commonwealth e dell’occidente industriale.
Karl Gerstner e Marcus Kutter, invece, nel loro saggio Die neue Graphik, del 1959, mostrano una splendida pagina calcografica del catalogo di un produttore di chiavi di Sciaffusa del 1770, e la intitolano “Al posto della vetrina”, implicando così l’intero sistema delle vendite per corrispondenza: si pensi alla famosa Sears & Roebuck, attiva a partire dalla metà dell’800 negli Stati Uniti. Nello stesso senso, diciamo, genetico e cioè nella prospettiva di una teoria protetica degli oggetti artificiali, ovverosia secondo una concezione che vede gli oggetti come surrogati o potenziatori di organi di un organismo vivente, e complessivamente la storia della tecnica come una catena di sostituzioni, surrogazioni e vicarianze, possiamo vedere collegati certi organi ostensivi (come appunto il catalogo o addirittura il manifesto commerciale), al sistema generale del display delle merci, e, soprattutto, a quella vetrina occasionale (colossale vetrina-evento, si potrebbe dire), che è la fiera commerciale. “Ex merce pulchrior” recita il motto del sigillo del console mercantile preposto alla fiera commerciale, creato a Bolzano nel 1635 dalla Arciduchessa Cristina de’Medici. (E in margine, a proposito della vetrinistica, troppo poco studiata, va ricordato che è stata un cavallo di battaglia dello Studio Boggeri, e va ricordato l’autentico stage design, praticato per le vetrine esterne de La Rinascente da Albe Steiner. E ancora andrebbe verificato quanto ad essa debba l’Istituzione artistica dell’istallazione, prima e dopo l’Arte Povera, così come andrebbe indagato quanto la Mail Art debba agli ephemera del mailing.) A questo abbozzo di un panorama storico-genetico si può tentare di collegare una tipologia delle forme-mostra di natura questa volta non oggettuale (protesico) ma comunicazionale (semiotico). L’idea è quella di considerare l’insieme complessivo di tutte le mostre e di provare ad ordinarle in gruppi, secondo determinati criteri. Il primo criterio classificatorio può essere rappresentato da quello che potremmo definire come lo stile complessivo dell’argomentazione sottesa alla mostra in questione: una certa mostra può collocarsi vuoi nella prospettiva di una qualche forma di persuasione o vuoi in quella della pura trasmissione; in altri termini vi sono mostre che tendono a convincere coloro ai quali si rivolgono, ed altre che si propongono di informarli. Il criterio successivo di classificazione è rappresentato invece dal tipo di intenzione comunicativa, o ancor meglio dal tipo di effetto previsto sul destinatario e atteso dal committente, e cioè dal motivo che lo spinge a realizzarla. Il gruppo tipologico della comunicazione trasmissiva e nonpersuasiva può essere dunque a sua volta allora idealmente
suddiviso - secondo, appunto, il criterio della funzione espletata - in due sotto-insiemi, quello delle mostre didattiche, nelle quali vengono provocati dei processi conoscitivi presso il destinatario: il destinatario vi viene formato, e quello delle mostre “puramente” informative, quelle esposizioni dove oggetti, immagini e testi vengono semplicemente presentati: si pensi alle mostre per collezionisti, per esempio. Ma, subito, è necessario avanzare un’avvertenza: in realtà nessun tipo è un tipo puro. Ogni manifestazione comunicativa è un mix di componenti - agitatoria o propagandistica, didattica o semplicemente notificatoria - più o meno sviluppata. Ad esempio è poco credibile pensare che una mostra didattica, non sia anche educativa (come abbiamo detto, formativa, cioè trasformatrice dei comportamenti: il che è la definizione stessa di persuasività). Quando si dice ad es. mostra didattica va intesa dunque la modalità prevalente: la spiegazione di un processo materiale complesso o di una connessione fra eventi disparati, per farne capire i nessi causali o, rispettivamente, strutturali, o simili. E in questo caso il tipo di destinatari (il che rappresenta un ulteriore criterio di affinamento della classificazione), possono andare da una polarità caratterizzata da una definizione socioculturale minima (ad es. un’esposizione scientifica che divulga universalmente i portati tecnologici della cibernetica), a una specializzazione massima (ad es. una mostra pedagogica sull’insiemistica per scolari elementari). E l’avvertenza va mantenuta in vigore necessariamente ancora, quando si passi a trattare di pura notificazione, di quella modalità cioè che, come abbiamo visto, tende a trasmettere “dati di fatto puri e semplici”. Una comunicazione che voglia solamente informare praticamente non esiste, rappresenta un’astrazione concettuale: il suo destinatario non sarebbe né un cittadino, né un acquirente potenziale, né uno scolaro, ma una sorta di ideale uomo standard. La concreta mostra persuasiva può collocarsi invece nella concretissima dimensione agitatoria (“far fare”), tendere cioè a promuovere un’attività specifica (l’acquisto di una merce, l’espressione di un voto politico). Tende, come abbiamo visto, a modificare il comportamento di qualcuno. Il tipo di messaggio, o meglio il programma comportamentale, immediato o sottinteso e inscritto in essa è una prescrizione (ad es.: “Compera!”). E la forma in cui si manifesta è l’ostensione, nella sua colorazione semantica di offerta, di messa a disposizione. Il fruttivendolo, insegna Brecht, lustra ben bene le mele e le impila sul banchetto. E il programma gestuale indotto in chi guarda è l’afferrare (come ben sapeva chi ha inventato i supermercati).
E i destinatari sono un grande insieme di pubblici, unificati dal loro comune carattere di consumatori (nel caso della Grande Fiera Commerciale), mentre si tratta di un gruppo specifico, socioeconomicamente ben definito e precisato, un pubblico di autentici acquirenti potenziali (per le fiere specializzate e le mostre promozionali), musei o gallerie. Ci si muove sempre all'interno della dimensione persuasiva, anche qualora sia mutata l'intenzione comunicativa e da quella agitatoria si passi all'intenzione più modestamente propagandistica, la quale tende ad esigere dal destinatario la formazione di una valutazione (“far pensare”, e magari “far dire”). Il messaggio tende qui in prevalenza a valorizzare l'immagine dell'entità che lo emette: mi esibisco per farmi valere. Mentre il ventaglio delle esemplificazioni legate al tipo di destinatari va dalla mostra di massa ( Tsukuba, Lisbona, Shanghai), al modello estremo di mostra esclusiva (e si può pensare a un determinato uso fatto delle mostre d'arte, o, ancor meglio, del diverso senso, non di sostanza ma di prestigio, che acquisisce una mostra al vernissage. In generale il primo gruppo di mostre (quelle a carattere informativo) potrebbe essere bene assimilato alla costruzione di un prodotto editoriale. In un certo senso la mostra storica, scientifica, ma anche la mostra artistica al museo, sono forme di pubblicazione. Sono, in un certo senso, la produzione di una specifica merce comunicativa verso e dentro la quale il destinatario muove, per così dire, spinto dalla fame di conoscenza. Le seconde, come abbiamo visto, si assimilano invece al negozio. Sono forse più simili all'occasione di un incontro, fra un offerta con tutto il suo ventaglio di opzioni e qualcuno che più che il destinatario di un messaggio è il contemplatore di un panorama, lo spettatore di un evento. Nel primo caso il protagonista è qualcosa d'altro (un cosiddetto contenuto), che viene rappresentato, raffigurato, metaforizzato, allegorizzato. Nel secondo caso il protagonista è l'oggetto stesso qui è davvero appropriato il termine Exhibit: nel caso estremo, la merce. Oppure, spesso, la sua forma metonimica e cioè il campione e cioè, se non l'oggetto nella sua fondamentale integrità sensoriale, almeno una sua parte rappresentativa e promettente. E qui non è più questione di rappresentare, ma di presentare. Non si tratta di “metter qui”, nell'astanza degli occhi della mente, e cioè di da(r)stellen (come dicono i Tedeschi), ma di “metter fuori”: ausstellen davanti agli organi visivi del nostro corpo di spettatori in carne ed ossa. Il modello di mostra che abbiamo definito editoriale, ha come presupposto il modello concettuale del flusso di informazioni. La
mostra è pensata come il meccanismo di emissione di un fiume di informazioni che passano attraverso il canale mostra. Questo trasferimento di informazioni avviene attraverso l'entità materiale rappresentata dai pannelli, dalle attrezzature di proiezione e meno dalle strutture allestitive in generale. Ma queste componenti fisiche, materiali, ed anche le scritture e le figure che vi compaiono, tutto questo insieme è pensato come veicolo trasportatore. A questo concetto si contrappone, ma forse si può dire che gli sia complementare, il modello della mostra come messa in vetrina e poi messa in scena, appunto Exhibit Se nel primo caso si può constatare uno straordinario interesse per ciò che passa dentro alla mostra informativa, cioè appunto per i cosiddetti contenuti, nel secondo caso il ruolo principale non è giocato solo dalle informazioni ma anche, e forse soprattutto, dalle percezioni. E mentre il primo caso vede il destinatario come un pubblico (magari come un certo tipo di pubblico), il secondo caso vede il destinatario come una componente costitutiva del processo di comunicazione. Un partner collaborativo e non un ricettore passivo o tutt'al più, reattivo. E ancora: nel primo caso l'itinerario dello spettatore non è particolarmente importante, è anzi irrilevante, nel senso che parte dal presupposto di un percorso dello spettatore che è dato. Nel secondo è proprio il formarsi dell'itinerario ciò che determinerà la sequenza , e cioè letteralmente il senso delle percezioni, e quindi l'effetto complessivo nella mente dello spettatore. Insomma nel primo caso il progettista intende se stesso come traduttore (in forme, luci, movimenti, figure e scritture visibili) delle intenzioni comunicative di partenza, e in questo caso anche gli oggetti eventualmente mostrati non sono oggetti nella loro interezza e totalità, ma esemplificazioni, esemplari, campioni, emblemi. Sono cioè oggetti che servono a comunicare qualcosa, che sono asserviti al compito di comunicare qualcosa. Gli oggetti sono qui forme vuote, supporti vuoti, elementi fortemente segnici. Al contrario nella prospettiva della messa in scena, come dicevamo, l'oggetto è protagonista. E l'operazione progettuale, lungi dall'essere una traduzione, può essere interpretata come un'operazione di valorizzazione: la registica allestitiva è l'arte retorica dell'enfatizzazione e della complementare esclusione o occultamento oggettuale. Tipici di questo pensiero progettuale sono i meccanismi manipolatori dell'universo spettacolare: le accurate operazioni di messa in risalto e in rilievo compiute sull'oggetto di esposizione. Si pensi all'analogia con il caso della ripresa fotografica d'atelier, cioè alla messa in posizione e poi in posa del modello (still-life o portrait), ma anche alla sofisticata operazione di messa in luce (nel cinema c'è la figura tecnica del datore di luci), il tutto nella prospettiva della costruzione e concretizzazione di una vista vantaggiosa. La lingua dice proprio “mettere in luce” come metafora della valorizzazione. E se la fotografia mette in posa l'oggetto (o la molteplicità degli oggetti) per la fissazione dello scatto, l'allestimento mette in posa
oggetto o oggetti, per la sequenza dinamica dei frames di quell'ideale story-board, che viene prodotto dal succedersi delle viste che avrà via via lo spettatore. In sostanza si tratta dell'aggiustamento, se non del compromesso, fra le posizioni di chi guarda (i punti di vista variamente vantaggiosi) e le pose (gli atteggiamenti più o meno espressivi), che viene ad assumere ciò che va messo in scena. Si tratta complessivamente di mettere in mostra, e cioè dell'atto di mettere sopra il palcoscenico della mostra: c'è sempre - ed è espressa nell'accentuazione del termine “mettere”, che accomuna l'atto espositivo a “messa in scena”, “messa in pagina”, ecc. quest'idea della necessità di uno stacco (stacco espositivo) rispetto al resto, rispetto al contesto complessivo. C'è, in altre parole, bisogno di una marcatura dell'attivarsi della funzione anaforica, (mettere avanti) che diventa così ostensiva (alzare) . É come se non bastasse semplicemente mostrare. L'oggetto deve apparire esplicitamente come oggetto in mostra. Abbiamo visto, a questo punto, da un lato il modello tubolare, il modello cioè della canalizzazione del flusso delle informazioni e contemporaneamente del percorso dello spettatore e dall'altro, invece, il modello ambientale, o meglio dell'oggetto ambientato, messo sullo sfondo di una scena. E, per inciso, quello dello sfondo scenico è in prima istanza il problema di una cancellazione dell'espressività delle preesistenze architettoniche, come fa materialmente coprendo finestre e soffitti settecenteschi con le sue vele triangolari Achille Castiglioni allestendo “L'altra metà dell'avanguardia” al Palazzo Reale di Milano (1980), o come invece fa Ugo La Pietra, costruendo una struttura/contesto fortemente focalizzante in grado di subissare il contesto novecentista, per “L'immagine della città”, alla XVI Triennale (19XX). In un certo senso la polarizzazione canale/scena corrisponde a un analogo polarizzarsi delle strutture di emissione. Cioè la mostra può assumere quasi fisicamente una struttura tubolare, in connessione con le modalità di un percorso che viene proposto, o meglio imposto, allo spettatore. E quando dico tubolare intendo un paradigma preciso: la struttura del Museo infinito di Le Corbusier, o la versione che ne ha dato Frank L. Wright al Museo Gugennheim di New York, dove il fatto che lo spettatore scenda dall'alto lungo un piano spiralico inclinato, iscrive nella sua struttura propriocettiva, e addirittura nella mielina del suo corpo, la ineluttabile monodirezionalità della visita. Abbiamo dunque una modalità nella quale lo spettatore è costretto in un percorso obbligato (o convenzionale, come nel “sempre a sinistra e verso destra” delle sale di museo), e abbiamo di contro una possibilità di fruizione secondo la quale lo spettatore dispone di un grado di libertà tendenzialmente crescente, al limite totale e completamente casuale, come potrebbe essere il caso dell'allestimento di Pierluigi Cerri per la B&B al XVIII Salone del
mobile di Milano del 1988. A una chiusura massima si contrappone una massima apertura, potremmo dire usando la famosa terminologia di Umberto Eco, demetaforizzandola però e riferendola alla struttura fisica dell'allestimento. É ad una apertura materiale, fattuale, fisica, cioè da un lato strutturale e dall'altro percettiva, e non ad un'apertura ermeneutica, interpretativa o proiettive, cioè mentale, che siamo di fronte qui. A metà strada fra questi due poli estremi trova posto la possibilità di percorsi ramificati, o gerarchizzati. Ad esempio un percorso generico, sintetico e veloce dal quale si può accedere ad una serie di percorsi di approfondimento. E qui io penso ad es. non ad un allestimento effimero ma al Musée d'Orsay di Gae Aulenti e al sistema grafico di Bruno Monguzzi e Jean Widmer, che consente, a partire dalla balconata, di pianificare il proprio itinerario, giù in basso nell'intreccio dei percorsi reali. Del resto la struttura a padiglioni e stand delle fiere commerciali rappresenta il paradigma della struttura ramificata. Stringa, albero e rete sembrano essere le tre morfologie basilari delle esposizioni così come si configurano nella concretezza progettuale, ma ciò che risulta davvero sorprendente è che esse presentano delle omologie di struttura davvero rilevanti con tre forme fondamentali dell'esposizione testuale. Se, cioè, la mostra fosse un testo, nel primo caso si tratterebbe di una normale narrazione lineare, una story con la sua sequenza di situazioni concatenate. La seconda, caratterizzata dalla molteplicità di percorsi subordinati, sarebbe la forma testuale del saggio, rappresentata da un testo principale e da un sistema di apparati paratestuali: note, illustrazioni, didascalie, marginalia, per cui la lettura si sviluppa secondo un percorso ramificato, che inanella una serie di va e vieni, secondo una sequenza di asole che partono da un certo luogo del testo e vi ritornano: cioè scendono nelle note e ritornano, passano all'illustrazione, e poi forse scendono subito alla didascalia, prima di risalire al testo e proseguire. Ma il lettore può forzare la mano e leggere solo il testo e rimuovendo, per così dire, il paratesto, oppure può cominciare a leggere tutte di seguito tutte le note, o guardare le figure, o consultare il libro a partire dai suoi indici e dalle indicazioni di numero di pagina. E così facendo, soprattutto se salta da una forma di lettura all'altra, passa impercettibilmente al terzo caso. Infatti il terzo modello è quello della consultazione enciclopedica. Cioè il visitatore dell'enciclopedia si lascia guidare da un insieme di attrazioni e di appetiti conoscitivi, e si muove in questo spazio libero saltando da una voce all'altra. E in realtà il modello di fruizione dell'enciclopedia è il modello proprio di quella forma di concatenamento informatico che si chiama ipertesto.
E sembra ancora che a queste tre forme dell'emissione espositiva, alle quali abbiamo associato altrettante forme di esposizione testuale, corrispondano altrettante forme tecniche di presentazione. Quando - come ad es. nel caso della mostra RAI del 1965, progettata da Enzo Mari e Achille Castiglioni alla Fiera di Milano non prende proprio la forma materiale di un tubo percorribile, la versione tubolare tende a vivere la mostra proprio come uno stampato ingigantito, cioè come una sequenza di pagine trasformate in pannelli, pagine, appunto per le quali è predisposto un determinato ordine di lettura. Un paradigma di questa concezione può essere identificato nella mostra che Herbert Lindinger e Claude Schnaidt allestirono per la prima grande mostra della Scuola di Ulm alla Triennale di Milano, e che corrispondeva quasi perfettamente alle pagine del catalogo. Quella editoriale è la forma di presentazione che presuppone la massima diligenza dello spettatore, in quanto appena si prende la sola libertà che ha, cioè quella di saltare un pannello o un intero capitolo, magari aiutato da segnaletiche e titolazioni, che immediatamente si ritrova nella formula successiva, per non dire che la produce. Il caso limite opposto è quello che prevede uno spazio vuoto disseminato di apparizioni, e uno spettatore pensato non come lettore diligente ma come esploratore ludico e curioso (forse un flaneur), che si muove ricevendo via via non solo le informazioni ma anche le sensazioni che i vari oggetti gli trasmettono. Quanto agli oggetti essi funzionano qui come informatori ma anche come irradiatori estesici, in qualche modo come oggetti inesauribilmente informatori, il che è legato alla natura stessa della percezione. Intorno all'oggetto da esposizione (ad es. una “rosa”), lo spettatore compie una serie di evoluzioni puntandola con gli occhi e riceve una serie di visioni prospettiche, una successione di frames o inquadrature, le quali mettono in vista diversi aspetti dell'oggetto. Ma potremmo immaginarci anche una mostra che consenta una analoga libertà di manovra aspettuale in un senso non solo ottico-percettivo ma anche semantico: della “rosa” potremo vedere l'aspettualità scientifica (ad es. botanica), ma anche forse l'aspetto cromatico (e più finemente coloristico e cromatologico), e ancora l'aspetto simbolico (la rosa rossa come simbolo della passione amorosa, ma anche come emblema storico della Guerra delle due Rose). All'interno della prospettiva scenico-interattiva sembra cioè pensabile l'iscrizione di un'apertura cognitiva, associabile all'apertura percettiva e sensoriale, anche se è proprio la componente estesica, nel caso di questo modello scenico, ad essere fortemente valorizzata, mentre nel modello informativo ci troviamo di fronte a una sostanziale censura di questi connotati. Se pensiamo a una mostra tubolare (come abbiamo detto prima), o a una mostra a sequenza obbligata di pannelli, le scelte formali o estesiche sono relativamente secondarie ed al servizio della trasmissione efficiente. Nell'altro caso, di fronte a un oggetto dato, va
tenuto conto, anzi diventano essenziali i caratteri di predisposizione all'esposizione, di iconogenia, per non dire di spettacolarità. Sono cioè le peculiarità degli oggetti ad essere esibite. Gli oggetti, in questa prospettiva, vengono trattati come individui, o meglio come attori. E la loro semantica può essere intesa come una sorta di loro particolare fisiognomica, cioè di un loro intrinseco carattere espressivo (oggetti aggressivi o accattivanti, dinamici o stabili, fragili o solidi, e così via. E ancora la sintassi fra i diversi oggetti mostrati può essere pensata come una sorta di prossemica oggettuale. Cioè gli oggetti si accostano l'un l'altro secondo compatibilità (ad es. “rime” morfologiche e cromatiche), e incompatibilità di vario registro. Ma, più precisamente, come attori sono trattati in una sorta di coreografia unitaria, tutti gli elementi comunicativi: oggetti, immagini, testi, ecc., deuteragonisti che vengono incontro al vero protagonista, cioè allo spettatore. A questo punto si potrebbe prendere questo oggetto d'esposizione, e vedergli assumere tutto un ventaglio di pose (espressive e ad un tempo comunicative). Possiamo pensare a questo oggetto e al significato che assume a seconda della maniera in cui viene messo in mostra, e a che cosa cambia se cambia la forma di quello che abbiamo chiamato lo stacco ostensivo Se noi vediamo un oggetto appeso sopra le nostre teste (mettiamo una sedia, o un appendibottiglie, o le sagome gigantografate dei personaggi TV che scendono dal cielo del Padiglione RAI, realizzato da Achille e Piergiacomo Castiglioni alla Fiera di Milano del 1966), noi ne abbiamo una limitazione delle viste teoricamente possibili. Noi possiamo vederlo secondo le viste dal basso. E il programma, non tanto narrativo, quanto coreografico che esse contengono, cioè l'azione che fanno pensare di stare facendo, è qualcosa di altamente enfatico, drammatizzante, di “elevazione”, “ascensione”, o appunto di “discesa dall'alto” (Descendat super nos) Gli sembrano incombere e esprimono una gestualità un poco espressionista. Se invece lo stesso oggetto lo vediamo appoggiato su un piedistallo, la sua posa, che tende ad eliminare sia la visione dall'alto che quella dal basso, produce un programma di azione scenica molto diverso, di tipo contemplativo. Ne abbiamo una visione normale. Normale ma leggermente rilevata, potremmo forse dire “decorosa”, certamente una visione “profilata”. E ancora - come avviene in un esempio di Joe Colombo del 1967 per la Kartell a la Rinascente - l'oggetto è posto su un piano inclinato. Forma di basamento ideale per gli oggetti di design, perché favorisce una vista che assomiglia alla più sintetica delle convenzioni rappresentative: la prospettiva assonometrica, amatissima dai padri fondatori di Bauhaus e dintorni. Per così dire, senza fare muovere lo spettatore, gli fa vedere la vista di sopra e dei due fianchi. Ma è anche una modalità presentativa altamente dinamica, come dimostra il sistema espositivo sviluppato alla fine degli anni sessanta per Fiat
da Gae Aulenti, a partire da un'idea di Pio Manzù, forse per l'allusione alla curva parabolica, o forse perché suggerisce al nostro corpo il gesto di fermare lo scivolamento in basso dell'oggetto, evoca energicamente il movimento. Una variazione della disposizione, che abbiamo definito normale con decenza, è quella dell'oggetto che per sua natura va posato sul pavimento, oppure, rispettivamente su un rialzo che fa la parte di un tavolo, nel caso di oggetti piccoli. Qui lo stacco sarà realizzato con altri mezzi e accorgimenti; ad es. l'illuminazione ad occhio di bue su uno sfondo buio, o la distanza, che crea gerarchie, oppure l'incorniciatura e il passe-partout, o la messa sotto vetro con la sua connotazione obiettivamente protettiva. Ma in tutti questi casi l'oggetto propone un programma di azione ambiguo. Da un lato ti dice: «Usami, perché sono alla tua portata», ma contemporaneamente lo stacco espositivo gli fa dire: «Io sono un oggetto mostrato, e quindi non usarmi ma guardami». E infine abbiamo la vista dall'alto, o meglio dalla superiorità dell'altezza. C'è tutta una classe di mostre (ad es. molte mostre di case, proposte da architetti), che in qualche modo trasferiscono all'exhibition design, il modello raffigurativo prediletto e cioè la sinossi della pianta architettonica. Ma il programma sceneggiante intrinseco a questa forma espositiva è piuttosto la proiezione, cioè: «Io, spettatore, mi vedo agire là dentro, in basso», un poco come avviene in certi videogame, dove un'entità vicaria, in tutto e per tutto un avatar, colpisce, schiva, avanza e arretra per te. Se nella messa in scena di ambientazione, gli attori sono gli oggetti mostrati, esiste una competenza caratteristica della professionalità registica, e cioè la cosiddetta conduzione degli attori, vale a dire la capacità di far fare agli attori ciò che serve alla storia. Una competenza che assume qui una curiosa trasformazione. E riguarda qui non solo proprio l'allestimento degli oggetti mostrati ma anche il comportamento del partner degli oggetti, e cioè lo spettatore. E che consiste proprio nello sfruttamento di quella che abbiamo chiamato la fisiognomica e la prossemica oggettuale, nonché della mimica allestitiva, cioè la gestualità di quel grande corpo che - come insegna poeticamente Niki de Saint-Phalle - è l'ambiente allestito. E nell'impiego dell'insieme degli inviti e degli ostacoli al percorso che consiste questa capacità di mettere gli spettatori nella posizione giusta. Un esempio estremo di questa facoltà è stato la manipolazione del comportamento dello spettatore nel Padiglione dell'Esercito Svizzero, all'Expo di Losanna del 1965. Il visitatore era incanalato e costretto a passare nella penombra in mezzo a delle sagome nere. Ma al momento di oltrepassare questo varco aveva la sorpresa di vedersi riflesso in un grande specchio, ben allineato in una fila di soldati in divisa e sull'attenti, cotretto quindi a sentirsi nei panni di un militare. All'inizio abbiamo parlato di due poli, un polo della massima
limitazione nel comportamento dello spettatore (il modello tubolare), e un polo della massima libertà (il modello ambientale). E se nella versione lineare il limite è la passività, nella versione ambientale e labirintica, proprio come avviene nella consultazione ipertestuale, il rischio è quello di perdersi, e di perdere il senso complessivo annegando nella frammentarietà sensoriale. Nel labirinto si può addirittura parlare di percorsi fortunati e di percorsi sfortunati. Una soluzione, che per certi versi rappresenta una variazione della versione mostra ramificata, e nella quale le competenze registiche debbono raggiungere l'apice, è un allestimento costituito da un sequenza saldamente concatenata di atmosfere. Lo spettatore può lasciarsi andare e perdersi nella ricchezza sensoriale degli oggetti ambientati per ritrovarsi ad ogni cambiamento di sala-scena. La mostra “I Fenici”, allestita da Gae Aulenti con Pierluigi Cerri a Palazzo Grassi nel 1988, è un esempio che porta alle estreme conseguenze registiche questa concezione (e forse non va dimenticata la lunga frequentazione della Aulenti scenografa con Ronconi). Porta cioè la narrazione espositiva oltre i limiti della fiction. Favoloso è infatti l'impiego del reperto autentico in un contesto di rappresentazioni realizzate autenticamente, cioè direttamente sui muri (un ulteriore radicale modo per venire a capo delle preesistenze architettoniche). Con tecniche di pittura e di graffito, dove il procedimento inventivo è stato quello del “come se”: se i fenici avessero disegnato in pianta, se avessero avuto carte geografiche come le vrebbero fatte? Per pervenire alla finzione davvero osè - in quanto passa a un capello dai geroglifici e dai caratteri greci di Asterix - di un carattere pseudopunico per le didascalie. Ma il vero problema è quando dalla mostra si esce, come quando si chiude un libro, che inequivocabilmente, come tutta la letteratura a cui appartiene, è un ilare menzogna, come insegnava coi suoi romanzi Giorgio Manganelli. Il rischio è quello di proseguire in una dimensione di vita dove l'arredamento è un fondale, che provoca un continuo entrare e uscire di scena, dove il furniture design è un trovarobato, che produce un eterno cambio di scena a vista, e dove la moda fornisce i costumi (con allegati programmi-sceneggiato che si possono intonare vuoi alla nostalgy in costume, vuoi all'avventura esotica o no-limits, vuoi all'action bellica ma magari anche quella dell'efficienza manageriale, vuoi al lusso gourmet. Il rischio è che vivere sia sempre più recitare, e recitare non sia più un jeux, un play, uno Spiel, ma una cosa mortalmente seria.