Il Sommelier n 4 luglio agosto 2010

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speciale

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Campania

Anno 2010 AnnoXXVIII XXVIII--Numero Numero34- -Maggio-Giugno Luglio-Agosto 2010



Comunicazione Istituzionale

Pag.

Le nuove tecnologie - Roberto Rabachino

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In famiglia La Segreteria Comunica

Georgia: la culla del vino - Luisella Rubin

Salvati dalla grappa! - Silvana Delfuoco

Tartufi veri e tartufi fasulli - Giancarlo Roversi

Annata 2007: l’eccellenza del “Nizza”! - Silvana Delfuoco

Alla “GranTavolata” del Guinness dei Primati protagonisti i Sommelier Fisar del Nord-Est - Graziella Cescon

Bettolle protagonista per tre giorni della Valdichiana e del suo simbolo più importante: «la razza Chianina» - Nicola Masiello

Una FISAR al femminile - Luisella Rubin SCIENZA • TECNICA • APPROFONDIMENTI

Dietro i grandi vini Sardi ci sono delle belle sorprese: il Semidano e il Nasco dolce - Luca Iacopini e Massimo Bracci

I vini che verranno - Lorenzo Tablino

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La qualità dei vini prodotti in forte pendenza - Antonio Iacona

notizie di enogastronomia e turismo Le a cura della redazione di Quality ADV

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La Bianca di Berlino - Enza Bettelli

Campania

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ENOGASTRONOMIA • TURISMO • CURIOSITà

speciale

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L'opinione di Marcello Masi

sommario

L’opinione del Presidente

30 34

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Presidente Vittorio Cardaci Ama per comunicare con il Presidente: presidente@fisar.com

F

orse anche la Natura è in crisi, questa è un’estate che stenta ad arrivare, come d’altronde lo è stata anche quella dello scorso anno. In effetti la crisi finanziaria che ha dominato tutto il 2009, e non solo, si sta guadagnando un posto di rilievo nella storia economica del nostro Paese e dell’Europa tutta, e sicuramente non è finita qui. Il coinvolgimento di numerosi istituti finanziari, il crollo dei mercati azionari, la crisi che attanaglia la nostra industria con catastrofici ripercussioni sull’occupazione, hanno posto il Mondo ad un passo dal tracollo sistemico. Forse è la crisi peggiore degli ultimi cento anni, probabilmente peggiore della crisi degli anni Trenta. Di certo i commentatori concordano sul fatto che dopo questa crisi il cambiamento sarà epocale. Cominciamo a sentire gli effetti della Finanziaria proposta dal Governo, e tra gli interventi annunciati ce n’è uno che riguarda molto da vicino la nostra rivista, infatti non è stato prorogatoli Decreto previsto in merito alle tariffe postali agevolate per l’editoria; questo vuol dire che già dallo scorso numero abbiamo pagato i costi di spedizione della nostra rivista a “prezzi normali”: un duro colpo per la nostra modesta economia! E pensare che invece godono di contributi pubblici, che ammontano a centinaia di milioni di euro, tante testate, organi di partiti e movimenti politici che hanno il proprio gruppo parlamentare in una delle Camere o rappresentanze nel Parlamento Europeo o siano espressione di minoranze linguistiche riconosciute, avendo almeno un rappresentante in un ramo del Parlamento italiano. Attingono a questi cospicui contributi anche giornali che non escono in edicola ma che arrivano per corrispondenza agli iscritti di qualche partito politico; giornali che hanno una tiratura di poche migliaia di copie; giornali che hanno una redazione composta da due o tre giornalisti; giornali che vengono regalati affinché aumenti la tiratura e dunque il contributo dello Stato; giornali che vengono mandati al macero affinché aumenti la spesa per la carta (sprecata) e dunque il contributo dello Stato;

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Un bavaglio chiamato costi giornali che, con parte del denaro pubblico percepito, sovvenzionano quei partiti politici che gli consentono di ricevere quello stesso denaro: questa ampia e paradossale casistica mi spinge a ritenere, senza ombra di dubbio, che i giornali, di privati, dovrebbero vivere grazie al contributo dei privati cittadini che li leggono e non attingendo ad enormi quote di denaro pubblico. “Un dato su tutti: ultimamente la diffusione dei quotidiani è scesa al di sotto dei 5 milioni di copie giornaliere, cioè ai livelli del 1939, quando l’Italia era un paese prevalentemente rurale. Gli investimenti pubblicitari sui quotidiani nel 2009 sono diminuiti del 16%. Dal 2000 al 2009 – sottolinea il Rapporto - la stampa quotidiana ha perso il 40% del fatturato pubblicitario, mentre i ricavi complessivi, nello stesso periodo, sono scesi del 20%.” (fonte Rapporto 2010 sull’industria italiana dei quotidiani). Intanto, allo stato attuale delle cose, il Ministro all’Economia Giulio Tremonti ha assicurato che i contributi statali destinati a testate politiche come L’Unità, il Secolo d’Italia e la Padania, messi in discussione dalla Finanziaria, non verranno toccati. La nostra rivista Il Sommelier, come altre, non gode di alcun beneficio o contributo, ovviamente. Parlando di cose “serie”, vi posso anticipare che questa estate molti dei nostri Consiglieri nazionali, unitamente ai componenti il Centro Tecnico Nazionale, saranno impegnati nella implementazione di alcuni programmi già avviati e che speriamo potere presentare alla prossima convention autunnale che, come sapete, quest’anno si svolgerà in Veneto. Qualche esempio? Per scaramanzia meglio di no. Quando questo numero de Il Sommelier giungerà nelle vostre mani, probabilmente sarete in procinto di andare in vacanza e pertanto non posso che augurare a tutti momenti di assoluto relax, spensieratezza e perché no, anche un pò di esagerazione, e che il vostro calice sia sempre colmo.

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Rivista di Enologia, Gastronomia e Turismo

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e-mail: redazione@ilsommelier.com Hanno collaborato a questo numero Marcello Masi, Giancarlo Roversi, Enza Bettelli, Gudrun Dalla Via, Virgilio Pronzati, Luca Iacopini, Massimo Bracci, Silvana Delfuoco, Pino Imperatore e Nino D’Antonio Per la fotografia Oliviero Toscani, Saverio Scarpino, Roberto Rabachino, Enza Bettelli, Alberto Doria e immagini di Redazione.

Distribuzione della rivista La rivista viene inviata a tutti i soci Fisar, a tutti gli organi di informazione, a tutti i giornalisti dei gruppi di specializzazione di settore, a tutte le Istituzioni, a tutte le Associazioni di settore e a tutti gli IPSSAR che ne facciano richiesta tramite spedizione gratuita in abbonamento postale.

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25,00 per 6 numeri

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Le nuove tecnologie di Roberto Rabachino per comunicare con il Direttore: direttore@ilsommelier.com

Un tempo, sembrano mille secoli fa, le cantine erano ermeticamente chiuse come piccole zone franche dove il produttore era il solo custode dei suoi segreti «per fare il vino migliore degli altri»

N

essuna visita, nessun incontro diretto in azienda con il consumatore finale. Ora i tempi sono cambiati e il produttore ha tutto l’interesse di mostrare la sua cantina e far conoscere come e dove “si produce il vino che è il migliore degli altri”. Di più, è cambiato proprio il concetto di vendita: oggi non è più pensabile costruire una cantina che non sia anche visitabile e che non abbia una bella sala degustazione dove far provare i prodotti. A questa nuova rivoluzione di fatto, di cambiamento genetico, mancava ancora una cosa, un vero problema da risolvere: come informare e come indicare dove è dislocata. In risposta a questa domanda si è affiancata la nuova tecnologia: il geoportale. Il geoportale è la porta di accesso al vasto patrimonio d’informazioni territoriali, raccolte ed elaborate durante l’attività di ricerca, per la condivisione e l’uso efficiente delle conoscenze acquisite. È, come si evince dalla parola, un portale dedicato alla consultazione di cataloghi online di risorse geospaziali. Si tratta di un

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sito web (web.2 che è un termine utilizzato per indicare genericamente uno stato di evoluzione di Internet) che consente l’accesso a risorse distribuite presso un gran numero di fornitori a partire da un punto d’ingresso unico. Da questo punto di vista i geoportali sono assimilabili a grandi indici di dati associati agli strumenti necessari alla loro ricerca e consultazione. Poiché il portale rappresenta un indice più che un contenitore, i documenti distribuiti in rete non devono necessariamente risiedere su di esso. Piuttosto esso agisce da mediatore tra gli utenti e i fornitori di risorse, abilitando una serie di funzionalità che consentono la transazione di dati. Con un geoportale siamo in grado, fissato il punto fisico dove ci troviamo, di farci accompagnare al luogo desiderato e richiesto. Questo straordinario strumento, sono certo, sarà il mezzo futuro che, finalmente, riuscirà ad avvicinare l’utente finale a tutte quelle informazioni di carattere territoriale (turismo di prossimità) utili a far conoscere in tutte le sue declinazione il fantastico e unico mondo del gusto.

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Vitigni autoctoni, oro tra i filari di Marcello Masi Vice Direttore TG2 RAI e responsabile rubrica Eat Parade

Ci mancava solo la crisi dell’Euro a complicare il quadro economico

L

a crisi Greca e l’allarme conti pubblici per molti Paesi del vecchio continente rappresenta un’altra tegola che si abbatte sulle teste di chi produce. A ben vedere anche questo nuovo stop alla ripresa è figlio di un atteggiamento sbagliato. In primo luogo i Paesi più esposti hanno goduto della complicità di troppe istituzioni europee. Non per difendere ad ogni costo l’Italia, ma se Grecia e Spagna avessero avuto in questi anni la metà dei moniti che abbiamo ricevuto noi forse tutto questo non sarebbe accaduto. Ricordo ancora perfettamente quando più di anno fa Zapatero annunciava trionfalmente il sorpasso del prodotto interno lordo spagnolo rispetto al nostro. Un annuncio azzardato che però molti nostri commentatori politici ed economici è stato subito salutato come la vittoria della dinamica economia iberica su quella paludata italica. Io non credo che il nostro sia un Paese perfetto, tutt’altro, ma penso che si debba sempre diffidare degli arricchimenti repentini e senza solide radici. A ben guardare la crisi spagnola nasce proprio da un azzardo iniziato negli anni ottanta e che, effettivamente, per molti anni ha pagato.

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Ma a che prezzo? L’attuale politica lacrime e sangue messa in atto dal governo di Madrid per rimettersi in riga sembra solo un lugubre aperitivo. La caotica e abnorme crescita immobiliare in molti casi ha depauperato, forse per sempre, un territorio meraviglioso. Prendiamo ad esempio la Costa del Sol. Città bellissime come Siviglia, Malaga e Granada hanno subito negli ultimi anni un’urbanizzazione selvaggia e abnorme. La costruzione di centinaia di campi da golf tutti rigorosamente accompagnati da speculazioni edilizie ha cambiato i connotati di una regione caratteristica ed unica nel mondo. Alberghi costruiti sulle spiagge, case e grattacieli sulle colline, condomini e super strade sparsi dappertutto hanno sì, in un primo momento, attirato molti turisti, soprattutto dal Nord Europa, ma hanno anche snaturato il territorio. Non solo. Oggi quei luoghi da Buen Ritiro hanno attratto loschi affari e la criminalità di mezza Europa ed ora si assiste ad un inesorabile fuggi, fuggi che solo nello scorso anno ha fatto registrare un meno 30% delle presenze turistiche. Alcune società immobiliari, in questo clima malsano, sono

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ridotte a proporre due case al costo di una, e

apprezzare ed apprezzano, soprattutto, quei

nonostante questa incredibile promozione non

sapori unici che sono figli diretti di un territorio

hanno acquirenti.

unico.

Il nostro Paese, invece, per una serie di motivi

Nebbiolo, Nerello, Negramaro, non sono solo

è restato fortemente legato alla sua vocazione

tre nobili esempi di un uno sterminato numero

agricola. Anzi sono convinto che dopo un lungo

di vitigni autoctoni italiani sparsi sulle nostre

periodo di incertezza abbia scelto finalmente

terre, ma rappresentano qualcosa di unico ed

di investire sulle proprie radici, riscoprendo e valorizzando le proprie tradizioni. Non per niente quando nel mondo si dice Italia si pensa immediatamente alla sua arte, alla sua bellezza paesaggistica e alla sua sconfinata offerta di buon cibo e di buon vino. Un’offerta impareggiabile. A questo proposito è bene evidenziare che i nostri vitigni autoctoni, grazie al lavoro certosino e faticoso di molti produttori, enologi e sommelier stanno vivendo un vero e proprio Rinascimento. Nessun paese al mondo ha la

inimitabile. I nostri vitigni vanno curati ed amati. Rappresentano un patrimonio immenso solo in piccola parte sfruttato. Non dimentichiamo che molte scommesse enologiche sono frutto non tanto della fantasia, ma del prodotto a disposizione. In questo la scienza enologica ha permesso di scoprire una serie infinita di qualità nei filari che i nostri nonni potevano solo intuire, ma non sfruttare. È il momento di farlo e molti produttori, con lungimiranza e passione già lo fanno. Anche per questo, nonostante

nostra ricchezza.

tutto, continuo ad essere ottimista per il futuro

Ogni regione italiana, nessuna esclusa, ha sul

del nostro settore. Nessun Paese al mondo,

proprio territorio gioielli di gusto e struttura.

infatti, si siede al tavolo del Poker del mercato

Vini unici, inimitabili che rappresentano una

mondiale del vino non con cinque carte, ma con

ricchezza solo in parte sfruttata.

l’intero mazzo a disposizione come possiamo

Dopo il lungo periodo delle omologazioni oggi

fare noi.

i gourmet di tutto il mondo sono pronti ad

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Georgia: la culla del vino di Luisella Rubin

Vengono utilizzati principalmente vitigni autoctoni, in Georgia ne esistono più di 500 ed ovviamente anche una vasta gamma di vitigni internazionali

L

a Terra del Vello d’Oro, l’antica Colchide,

invasioni e guerre. Tuttavia questo Paese,

famosa per il mito greco di Giasone e gli

caratterizzato

Argonauti, è una regione del Caucaso.

possiede un grande fascino paesaggistico,

dall’istinto

di

sopravvivenza,

Situata in uno dei più importanti crocevia del

storico-culturale ed enogastronomico.

mondo, dove Europa ed Asia si incontrano e

La Georgia, infatti, vanta di essere “la culla del

popolazioni con culture diverse si mescolano.

vino”, luogo dove 8000 anni fa veniva coltivata

La sua storia è una lunga successione di imperi,

la vitis vinifera e si produceva vino. Una recente

Vigneti della regione del Kakheiti

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scoperta archeologica ha avvalorato questa tesi: in fondo ad alcune giare sono state evidenziate tracce di vino rosso risalenti proprio a quell’epoca, Molti sostengono anche che la parola “vino” prenda origine dal ”gvino” georgiano. Ed è proprio il vino uno degli elementi fondamentali della cultura di questo Paese Caucasico. La coltivazione della vite si estende dalle coste del Mar Nero fino ad oriente, ai confini con l’Azerbaigian. Ma la zona vitivinicola più

Kvevri del sec. XI

importante e maggiormente apprezzata per la qualità dei suoi vini è la regione orientale del Kakheti. Spinta

dall’enorme

curiosità

ed

interesse

per questa terra di antiche tradizioni enoiche e, trovandomi per un breve soggiorno nella multiculturale Tblisi, organizzo un tour alla scoperta dei vini georgiani. Dopo oltre cento chilometri dalla capitale e dopo aver attraversato belle vallate verdi, circondate da dolci colline, si incontra Telavi, città capoluogo del Kakheti,

I kvevri nella cantina del monastero di Alaverdi

dove i vigneti si estendono a perdita d’occhio e le cantine nascono numerose.

G eo r g i a

Attraverso la valle Alazani, che deve il suo nome

Tsinandali, Mukuzani, Akhascheni, Kindzmarauli

all’omonimo fiume, lunga più di cento chilometri e

e Manavi. Ciascuna microzona si distingue per un

larga circa venti chilometri, situata ad un’altezza

particolare micro clima che rende inconfondibili

tra i 250 ed i 500 metri sul livello del mare,

le caratteristiche delle proprie uve. Nascono vini

protetta dalla catena montuosa del Caucaso

contraddistinti da una personalità ben definita:

che frena i venti freddi del nord, gode di un clima

colori e profumi intensi, di corpo e ricchi di

temperato, ideale per una viticoltura di qualità.

tannini.

La prima tappa è presso la cantina Badagoni,

Vengono utilizzati principalmente vitigni autoctoni,

la più importante e la più grande della Georgia,

in Georgia ne esistono più di 500 ed ovviamente

con una produzione annua di oltre due milioni di

anche una vasta gamma di vitigni internazionali.

bottiglie. L’enologo Vano Nareklishvili, parlando

Il più importante è il saperavi, a bacca nera, dal

un discreto italiano, mi accompagna nella visita

quale si ottiene un vino rosso nelle versioni:secco,

all’azienda fondata nel 2002, per la quale sono stati

amabile e rosè.

fatti grossi investimenti che hanno permesso una

Dai vitigni rkatsiteli e kakhuri mtsvane nascono

crescita significativa della stessa.

vini bianchi sia secchi che amabili. Qui le tecniche

La cantina è una grande costruzione moderna,

di vinificazione moderne ed innovative, risultano

dotata delle più sofisticate e tecnologicamente

fondamentali per perseguire la nuova filosofia di

avanzate attrezzature per la produzione del

fare un vino che si avvicini sempre più al gusto

vino. Dal 2002 si avvale della collaborazione del

dei consumatori europei.

noto enologo italiano Donato Lanati. Badagoni

Ma l’amore congenito per il nettare degli Dei da

possiede 300 ettari di vigne nelle microzone di

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G eo r g i a

Vigne del Monastero di Alaverdi

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parte dei Georgiani, il cui approccio alla vite è

della Chiesa Ortodossa Georgiana; ci accoglie

quasi mistico, nonchè il valore delle antiche

calorosamente, accompagnato dalla segretaria

tradizioni, sono rimasti immutati nel tempo.

dell’ambasciatore italiano in Georgia in veste di

L’ancestrale metodo di vinificazione è più vivo che

interprete. Emozionata e colta da un certo timore

mai: la fermentazione avviene in modo naturale e

reverenziale per la presenza di un personaggio

spontaneo, in contenitori chiamati kvevri, grandi

così autorevole e carismatico, iniziamo la visita.

anfore in terracotta interrate. Le bucce dell’uva

All’entrata della cantina, grandi anfore di

rimangono a contatto con il mosto per un

terracotta dell’XI sec. sono testimoni dell’antico

periodo di tempo variabile, per i vini bianchi può

metodo di vinificazione. All’interno in un ambiente

arrivare fino a sei mesi. Nel rispetto della natura,

suggestivo, numerose nuove anfore interrate,

non viene effettuato alcun trattamento chimico.

contenenti vino bianco rkatsiteli, sono chiuse

Impaziente di vedere i famosi kvevri, dopo pochi

con coperchi di terracotta, per garantirne la

chilometri di distanza dall’azienda Badagoni,

conservazione.

raggiungiamo l’antico monastero di Alaverdi,

Ci siamo seduti tutti attorno al tavolo per degustare

entro le cui mura si erge maestosa l’omonima

una serie di vini dell’annata 2009, vinificati e

cattedrale dell’XI sec., centro spirituale del

conservati in differenti kvevri, accompagnati

Kakheti. Tra i vari edifici nel complesso monastico

da deliziosi khachapuri, una sorta di focaccia

si trova una cantina (marani) recentemente

al formaggio, pane caldo e noci. L’ospitalità è

restaurata grazie all’intervento della società

eccezionale.

Badagoni, dove i monaci producono il vino

I profumi e i sapori dei loro vini risultano

secondo la secolare tradizione.

insoliti per i nostri comuni gusti. Sono vini di

A riceverci è il Vescovo Ortodosso, seconda

corpo e fondamentalmente rustici, di spiccata

carica religiosa più importante, dopo il Patriarca,

personalità, dal colore intenso, che si sposano

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G eo r g i a

perfettamente con la loro cucina locale, molto

esclusivamente con il metodo tradizionale,

saporita e gustosa.

accompagnati dai migliori piatti della cucina

Dopo vari assaggi, l’atmosfera diventa allegra e

georgiana: khinkali, fagottini di pasta ripieni

più confidenziale e alzando le coppe di terracotta

di carne, shashlyk, spiedini di carne di

colme di vino, come vuole la tradizione, il Vescovo

agnello,manzo e maiale, shkmerul, pollo in

invita tutti i presenti ad un brindisi pronunciando

salsa di aglio, lobi, zuppa di fagioli al coriandolo

la parola “gaumardzos”(alla salute), seguita da

con noci, i noti khachapuri e formaggi.

un breve discorso che tradotto in italiano recita

Il

così “ non perdere la strada vecchia e l’antica

(vaktanguri) che si susseguono numerosi,

amicizia per avere un futuro, così come per fare il

condotti con simpatia dal titolare dell’azienda,

vino oggi non bisogna perdere la tradizione”.

È consuetudine in questo Paese che il

A questo punto Vano ricorda, con un certo

capotavola (tamada) prima del brindisi pronunci

orgoglio, che Josko Gravner, diversi anni fa, è

un discorso rivolto ai commensali per esprimere

giunto dal Collio Friulano nella culla del vino per

auguri, auspici e ringraziamenti. Tutti i presenti

trovare una nuova via, un modo ancestrale di

partecipano insieme a lui alzando il bicchiere

vinificazione, per poter dare, grazie alle anfore,

colmo di vino che, a conclusione del discorso,

un significato ben preciso al suo vino: genuinità

va bevuto tutto, possibilmente in un unico sorso.

e naturalezza.

Un vero rito all’insegna dell’ospitalità; ospitalità

Il mio tour si conclude con la visita alla piccola

che, insieme al calore dell’accoglienza e al senso

cantina Twins Old Cellar, a conduzione familiare,

dell’amicizia dei Georgiani, sono espressione di

situata nel villaggio di Napareuli.

sentimenti spontanei, naturali, autentici, veri

Qui, si degustano interessanti vini prodotti

come i vini delle loro anfore.

pranzo

è

allietato

dai

famosi

brindisi

Il vino nel Kvevri

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Salvati dalla grappa! di Silvana Delfuoco

Dopo la costruzione della centrale idroelettrica il futuro di Santa Massenza, ridente borgo trentino dalle antiche e nobili origini, sembrava volgere al peggio: fuga dei turisti, pressoché distrutta l’economia locale. Ma per fortuna c’erano i distillatori…

I

l paesino, frazione del comune di Vezzano, sembra aggrappato alla roccia a picco sul lago che da lui prende nome, nella Valle dei Laghi a pochi chilometri da Trento. In passato era molto apprezzato per il suo clima mite e per la qualità dei suoi prodotti (uva, olio, ortaggi): fin dal Medioevo qui era stato collocato il magazzino vescovile più importante di tutta la vallata, dove si raccoglievano le derrate agricole provenienti dalle decime. E dal XVIII secolo

in poi Santa Massenza divenne anche un prestigioso luogo di villeggiatura, da quando il Principe Vescovo Cristoforo Sizzo de Noris fece ristrutturare ed abbellire la residenza vescovile, trasformandola nel suo soggiorno preferito. Ancora oggi possiamo ammirare l’aquila tridentina, il suo stemma, sopra il sontuoso

Veduta aerea di Santa Massenza

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portale di settentrione e sulle colonne di pietra che sostengono il cancello di legno del palazzo, divenuto col tempo un albergo. Ma tutto questo ormai appartiene al passato. I lavori, conclusi negli anni ’50 del secolo scorso, che hanno regalato al Trentino la centrale idroelettrica in galleria più grande d’Europa, non solo hanno spezzato il legame che univa il paese al lago, ma hanno anche modificato, e non in meglio, habitat e clima locale. Niente più pesce di lago, gite in barca, turisti in visita… Che fare? Ad un trasferimento in massa, la gente di Santa Massenza non voleva proprio pensarci! Anche perché qui c’era il loro lavoro, particolare e assolutamente non trasferibile. Questo paesino di duecento abitanti è infatti il luogo a più alta concentrazione di distillatori del mondo: ancora oggi ben cinque aziende famigliari che, guarda caso!, portano tutte lo stesso cognome, qui distillano grappa da

tempo immemorabile. È chiaro che si tratta di un’esperienza quasi esistenziale prima ancora che di un’attività commerciale. Ed è proprio dalla grappa, che ha radici nel territorio e nella storia di tutto il Trentino, che i Poli, distillatori di Santa Massenza, hanno deciso di far ripartire l’economia del loro borgo. “La nostra è una piccola azienda a conduzione familiare- ci ha detto Giovanni Poli- che produce sia grappe di monovitigno (Nosiola, Muller Thurgau, Moscato, Cabernet, Marzemino, Pinot Grigio, Teroldego) che grappe tradizionali e acqueviti. Ma siamo famosi anche per un interessante distillato di genziana e per una grappa di Vino Santo dal lungo invecchiamento, pluripremiata in concorsi nazionali “. “Siamo anche noi distillatori storici di Santa Massenza – ha dichiarato Alessandro Poli, stesso cognome ma diversa azienda, che vive e lavora a pochi metri di distanza- E produciamo


Un impianto per la distillazione

anche, oltre ad altri vini tipici, un ottimo Vino Santo di Nosiola che abbiamo scelto di coltivare in biodinamica, come facciamo da qualche anno con tutti i nostri vigneti sulle colline intorno al lago. La pigiatura dei grappoli, dopo mesi di appassimento sulle arèle, i nostri graticci, avviene durante la Settimana Santa, e il vino è pronto dopo qualche anno di maturazione in piccole botti”. Indubbiamente si tratta per entrambi di prodotti di nicchia di eccezionale qualità e dalla lavorazione del tutto artigianale. La distillazione, fatta secondo le regole, e cioè entro i quattro giorni prescritti dalla legge sotto il controllo della Guardia di Finanza come un tempo sotto

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quello dei gendarmi asburgici, prevede infatti il contributo attivo di tutta la famiglia: quattro giorni di lavoro assiduo, alle prese con fumi e vapori delle vinacce nei laboratori dietro casa. L’obiettivo finale delle famiglie Poli, e dell’intera comunità di Santa Massenza, è quello di riportare al lavoro anche le altre vecchie distillerie (ce ne sono ancora sette non più funzionanti), per recuperare tutti insieme l’identità di un tempo. Si spera così nella rinascita economica del borgo, che si prepara a raccontare alle generazioni future, anche attraverso un percorso didattico-turistico che ha ormai superato la fase di collaudo, la storia di una realtà contadina di questa piccola/grande parte d’Italia.

IlIlSommelier SommelierLuglio-Agosto Luglio-Agosto2010 2010• •n.n.44


Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4


di Giancarlo Roversi

Tartufi veri e tartufi fasulli

Caratteristica comune di tutti questi finti tartufi è la somiglianza dell’aspetto con quello del tartufo vero (ma all’occhio esperto non sfugge la diversa colorazione e struttura della carne interna, confermata dall’esame microscopico)

N

onostante l’appassionato contributo alla tartuficoltura dovuto alle instancabili ricerche di alcuni centri sperimentali, il tartufo resta un prodotto raro. Ciò nonostante si sono moltiplicati i ristoranti che offrono piatti al tartufo. Sembra quasi che per questo impareggiabile frutto del sottosuolo sia avvenuto un miracolo simile a quello delle

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nozze di Cana. Anche se in questo caso anziché il vino a crescere a dismisura sono stati i tartufi. Questo fatto deve subito indurre in sospetto i consumatori. Anche perché, eccettuati i ristoranti di profilo più alto e quelli di lunga e solida tradizione, a proporre piatti al tartufo sono oggi un po’ tutti, dalla trattoria di livello medio alla pizzeria. C’è qualcosa che non

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quadra. Specie se si considera che il tartufo non si può coltivare su vasta scala e che la Natura è molto avara e restia a cedere questi suoi gioielli. Insomma non esiste nessun segnale che siano stati individuati nuovi vasti giacimenti di tartufi. E allora ? È presto detto: dietro ai tartufi si nasconde un’insidia, anzi una truffa bella e buona, purtroppo non perseguibile finchè non sarà stata approvata la tanto sospirata legge di tutela del prezioso fungo ipogeo e dei suoi fantomatici derivati. Per comprendere meglio come stanno le cose basterà fare qualche esempio pratico. Provate a immaginare di acquistare un diamante, e di pagarlo come tale, e poi di ritrovarvi con un volgare pezzo di vetro. Oppure di ordinare un vino di gran marca e d’annata e di gustare al suo posto un prodotto che ha un profumo e forse un sapore analogo a quello conosciuto, ma nel quale non c’è nemmeno un chicco dell’uva da cui dovrebbe sgorgare. Che sensazione provereste? Anzitutto quella di essere stati fregati e poi un forte senso di rabbia. E se l’oggetto del vostro desiderio così fraudolentemente appagato fosse il tartufo? C’è da scommetterci che la reazione sarebbe la medesima. Il paragone non è ozioso perché proprio attorno al tartufo si sta compiendo, molto in sordina, una speculazione colossale. Infatti da qualche anno attorno al prezioso tubero (ma in realtà è un fungo ipogeo) si sta compiendo, molto in sordina, una grossa speculazione. Le maggiori insidie si nascondono soprattutto nei prodotti cosiddetti “tartufati” oggi in gran voga e che hanno ormai colonizzato un gran numero di specialità. Ci manca solo il caffelatte al tartufo, ma forse qualcuno ci sta già pensando. La stessa cosa può capitare anche al ristorante quando si ordina un bel piatto di tagliatelle che emanano un profumo inebriante e che sono ricoperte da una di una pioggia di lamelle di quello che a prima vista può sembrare tartufo, ma che invece non ha nulla da spartire col diamante della tavola. La colpa è delle

decine di tonnellate di tarfezie importate ogni anno in Italia e provenienti dall’ex Jugoslavia, Giappone, Marocco e Paesi della costa africana del Mediterraneo, ma soprattutto dalle Cina. Caratteristica comune di questi pseudotartufi è la somiglianza col tartufo vero. Caratteristica comune di tutti questi finti tartufi è la somiglianza dell’aspetto con quello del tartufo vero (ma all’occhio esperto non sfugge la diversa colorazione e struttura della carne interna, confermata dall’esame microscopico). Quello che manca ad essi è l’elemento fondamentale: l’ineguagliabile sapore e profumo del tartufo autentico. Alcuni sono talora più mollicci o lo diventano in breve tempo, altri sono leggermente irritanti, altri ancora hanno addirittura un odore mefitico. Allora, com’è possibile che vengano venduti e usati come surrogati del tartufo e da chi? Il sistema di sofisticazione è estremamente semplice. Basta profumare i prodotti da “tartufare” con una sostanza aromatica che in natura è contenuta nello stesso tartufo, ma in abbinamento ad altre componenti che gli danno un gusto armonico e che non ha controindicazioni per la salute. Si tratta del Bismetilthyometano, ricavato sinteticamente dagli idrocarburi, che viene impiegato massicciamente per aromatizzare al tartufo creme, salse, formaggi, salumi, pasta, pane e, soprattutto, l’olio. Sono i cosiddetti prodotti tartufati dove però c’è di tutto meno che il prezioso diamante della cucina. E le lamelle che talora si vedono in sospensione?

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Anche queste sono di tartufo fasullo, appunto di tarfezia, messe lì per carpire la buona fede del consumatore. Ma è soprattutto sull’olio “tartufato” che su sta superando ogni limite e che ormai viene aggiunto a un gran numero di piatti anche da cuochi che per la loro storia e il loro talento dovrebbero aborrirlo solo a sentirne parlare. Anche perchè, come hanno dimostrato vari esperimenti l’olio d’oliva, specie l’extravergine, per sua natura non è capace di assorbire l’aroma del tartufo, quello vero; solo l’olio di semi riesce appena a catturarlo, ma in piccole quantità e usando molti tartufi. E allora come la mettiamo con l’enorme quantità di “olio tartufato” che si trova in commercio? E’ molto semplice, è stato aromatizzato con Bismetilthyometano e “arricchito” con lamelle di tartufo insapore e senza valore. Purtroppo il consumatore non lo sa perché la legge che dovrebbe metterlo in guardia e tutelarlo offre delle scappatoie laddove recita che non vanno denunciati gli aromi di arricchimento purché già contenuti nel prodotto in natura. C’è però una bella differenza fra una sostanza

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formatasi spontaneamente in associazione con altre componenti rispetto a quella derivata dagli idrocarburi. Come possiamo tutelarci e scoprire il trucco? Basta un semplice accorgimento. Se un piatto di pasta asciutta, un uovo, un carpaccio o un’altra vivanda profumano già di tartufo prima di venire cosparsi di lamelle, si corre non solo il rischio che siano state insaporite con olio aromatizzato al Bismetilthyometano, ma anche che il tartufo di copertura sia quello fasullo. Basta assaggiarlo per rendersi conto che non sa di niente anche se la pasta sottostante ha un sapore inebriante. Un sapore pungente, penetrante, troppo persistente, ben diverso da quello sottile e armonioso del tartufo vero. Agli intenditori questa differenza non sfugge mai. In ogni caso sospetto si può rimandare al mittente il piatto. Anche perché se il conto lievita a causa del tartufo, quello vero, beh pazienza semel in anno... Ma se farlo alzare è quello fasullo allora il discorso è diverso. Per fortuna nei ristoranti seri, che sono la maggior parte, questo rischio non si corre.

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Annata 2007: l’eccellenza del “Nizza”! di Silvana Delfuoco fotografia di Caterina Andorno

Una Barbera appena uscita sul mercato che farà parlare di sé nel prossimo futuro

D

iciamo tranquillamente la senza timore di smentite: sul sesso della Barbera ormai non ci sono dubbi! Così è stato ufficialmente sancito, e da esperti al di sopra di ogni sospetto, durante il Convegno “Orizzonte Nizza” che si è tenuto a Nizza Monferrato lo scorso 24 e 25 maggio. E se indiscutibilmente femmina è la Barbera, madre di figlie illustri, che dire delle sue creature? Certo una meraviglia della natura è la Barbera d’Asti, che si produce in centosessantanove comuni compresi tra le province di Asti e Alessandria. La figlia che a sua volta ha generato poi è davvero unica: è la Barbera d’Asti Superiore, istituita con D.M. 13/10/2000, prodotta in una zona ristretta che comprende diciotto comuni intorno a Nizza Monferrato. A darle vita è stata la caparbia costanza dei viticoltori della zona che, sicuri delle proprie potenzialità, hanno pensato ad un vino che potesse presentarsi sul mercato in competizione persino con i più altolocati fratelli Barolo e Barbaresco. Così, all’inizio degli anni ’80, in un periodo particolarmente difficile per il vino italiano, che rischiava di perdere credibilità in faccia al mondo, i produttori di Nizza Monferrato si sono rimboccati le maniche e hanno lavorato sodo, fino ad arrivare, nel 2002, a prendere una decisione abbastanza rara nella realtà vitivinicola italiana: quella di riunirsi in Associazione. Di anno in anno, di vendemmia in vendemmia, si è arrivati all’eccellenza: la Barbera d’Asti Superiore Nizza 2007, che si presenta come un vino particolarmente ricco di estratti e destinato a un’evoluzione più lenta del consueto. La vendemmia 2007 infatti è stata tra le più anticipate degli ultimi settant’anni, essendo iniziata nella prima decade di settembre, con circa venti giorni di anticipo rispetto alla media. Questo a causa dell’ottimo andamento climatico dell’anno che, grazie anche

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Degustazione dell'annata 2007 della Barbera Nizza

alla provvidenziale pioggia di fine agosto, venuta ad equilibrare le giornate calde e luminose dell’estate, ha determinato la grande qualità dell’uva. Secondo il Presidente dell’Associazione Produttori del Nizza, Gianluca Morino, la Barbera d’Asti Superiore Nizza sarà dunque un vino destinato a dare grandi soddisfazioni nel tempo, con ottime prospettive evolutive in bottiglia. “Noi produttori -così ha dichiarato Morino in chiusura del Convegno- siamo indipendenti nell’animo, nella forma e nel prendere decisioni: dalla base, come veri conoscitori del territorio. Abbiamo deciso che chiameremo il nostro vino semplicemente Nizza e non più Barbera d’Asti superiore. Il Nizza è un’identificazione forte del binomio Barbera e territorio storico d’elezione e può essere ambasciatore di una tradizione fatta di uomini, di storia, di cultura”. In altre parole, i produttori intendono puntare sempre più sul riferimento alla loro zona, convinti della crescita qualitativa ottenuta nell’ultimo decennio e della forte impronta territoriale della Barbera che nasce all’interno dell’area di produzione della sottozona Nizza. Auguri dunque al nuovo nato, sperando che questo improvviso cambio di sesso (ma, ne siamo certi, solo nel nome…) non metta troppo in difficoltà il povero consumatore!

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Ho scelto il Prosecco Superiore Santa Margherita.

Anch’io.

Esploratori del Gusto Prosecco di Valdobbiadene dal 1952.


La Bianca di Berlino

di Enza Bettelli

La birra è la bevanda nazionale tedesca e se ogni regione ha la sua bionda, rossa o bruna, a Berlino è invece bianca e si beve corretta con lo sciroppo che la colora e la rende particolarmente dissetante

B

erlino, ordinata ma non noiosa, è una

lentamente per non far scendere eventuali

città vivace e accogliente con tanti

sedimenti

locali sempre affollati dove la gente

che rende unica questa birra è il gusto assai

indugia volentieri a bere e a mangiare. I tavoli

acidulo, che per certi versi può ricordare quello

all’aperto sono i preferiti, in qualsiasi stagione,

dello yogurt e che viene dato dal Lactobacillus

nella

e naturalmente si ordina soprattutto birra che viene servita sempre in modo perfetto, alla giusta temperatura e con il cappello di schiuma regolamentare. L’assortimento di birre tedesche è tale da soddisfare anche i gusti più estrosi, ma i Berlinesi amano molto la “loro” birra, battezzata “Champagne du Nord” da Napoleone, una fine Weisse prodotta nell’area cittadina e decisamente diversa da quelle bavaresi. È infatti una birra di malto di frumento e di orzo con netta prevalenza di quello d’orzo, con un delicato aroma di frutta ma praticamente senza sentori di luppolo, colore giallo paglierino, perlage fitto, schiuma abbondante ma poco persistente e una gradazione che non raggiunge i 3 gradi. Ha un aspetto molto limpido ma bisogna versarla Berline Weisse

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bottiglia.

La

caratteristica


Delbruckii. Questo gusto acidulo a volte è volutamente accentuato mescolando birre a diversi livelli di fermentazione o prolungando il tempo della fermentazione fredda. La Berliner Weisse è di per sé molto dissetante e questo effetto viene accentuato durante la stagione calda dall’aggiunta di uno schizzo di sciroppo, Berliner Weisse mit Schuss, che l’addolcisce e la fa ancora più leggera. Per tradizione si aggiungono alla birra lo sciroppo di lamponi, che la rende rosata, o quello ancora più tipico di asperula che invece le dona un piacevole colore verde. L’asperula o stellina odorosa (Waldmeister) è una piantina assai diffusa nel Nord Europa e cresce nei boschi fino

Altra versione di Berline Weisse

Valdobbiadene, 3-6 settembre 2010

www.brindalavita.it

Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4 Comune di Valdobbiadene

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in collaborazione con:


Berlino Spree

a circa 1500 metri; una volta essiccata prende

bevuta a una temperatura di 8-10 gradi in

un caratteristico profumo, ha un buon potere

bicchieri da bibita e piĂš spesso in ampie coppe,

digestivo ed è spesso utilizzata

sempre corredati da una cannuccia. Per servirla

anche

per

aromatizzare i distillati.

correttamente bisogna versare nel bicchiere

La Berliner Weisse

prima la birra poi la spruzzata di sciroppo e infine

mit

si mescola energicamente per qualche istante

Schuss

va

fino a formare un bel cappello di schiuma che, tuttavia, si siede abbastanza rapidamente e dura piĂš o meno il tempo che occorre per

Il Currywurst

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Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4

portarla

dal


bancone al tavolino. Così preparata la Berliner

quelli con la carne di maiale, come lo stinco

Weisse diventa praticamente una bibita, molto

cucinato come una volta con la sua succulenta

apprezzata in estate poiché se ne possono bere

cotenna, la braciola servita con un ricco contorno,

anche grandi quantità senza problemi.

la padellata con salsiccia e tagli vari di carne. E a proposito di salsicce, il Currywurst è una moderna

Come si mangia a Berlino

variante con una piccante salsa tipo Ketchup che

Berlino è una città elegante con ristoranti

viene venduto nei chioschi per strada. Si può

che in questi ultimi anni possono vantare

gustare anche a bordo dei battelli che scivolano

numerosi grandi chef di livello internazionale

lungo i canali e il fiume Spree e dai quali Berlino si mostra in tutta la sua bellezza, alternando inattesi

e come in tutte le grandi metropoli offre anche

angoli retrò con meraviglie architettoniche. E lungo

un’ampia scelta tra le cucine di tutto il mondo.

i canali si affacciano anche alcuni locali che hanno

Tuttavia i Berlinesi tengono molto alla propria

trasformato bordi e argini in piccole spiagge senza

identità cittadina e nazionale e i locali con cucina

sabbia ma con sdraio e tavoli da dove ammirare

berlinese e tedesca sono assai numerosi e

lo scorrere dell’acqua, sorseggiando una Berliner

praticamente a qualsiasi ora del giorno e fino a

Weisse mit Schuss accompagnata da un Brezel o

notte si possono gustare i piatti tipici. Prevalgono

da un piatto di salsicce.


di Antonio Iacona

La qualità dei vini prodotti in forte pendenza

Problemi e soluzioni dal Douro alle valli etnee A Castiglione di Sicilia (Catania) il 3° Congresso internazionale Cervim

D

alla regione del Douro, dove affondano antichissime le radici della viticoltura d’altitudine portoghese, al Canton Ticino, con i vitigni Merlot della Svizzera italiana; dalla Valle del Reno, con pendenze fino al 70%, al vulcano Etna, divenuto negli anni il simbolo stesso della produzione di vino ad altezze vertiginose. E ancora, dai sistemi laser utilizzati nelle coltivazioni in pendenza, agli agenti nocivi che si presentano in particolari aree montuose; dai nuovi macchinari per la raccolta dell’uva fino alla formazione e specializzazione, per niente semplice, dei coltivatori. È stato un concentrato di questioni rilevanti, di domande ma anche di possibili soluzioni, il

“3° Congresso internazionale sulla viticoltura di montagna e in forte pendenza”, promosso dal 12 al 14 maggio dal Cervim e organizzato dalla Provincia regionale di Catania con l’Istituto Regionale Vite e Vino. Ideale l’ambientazione dei lavori, svolti all’Etna Golf Resort di Castiglione di Sicilia, in uno degli angoli più affascinanti del vulcano, dopo essere stati ospitati negli anni scorsi in Galizia e in Val D’Aosta, a St.Vincent. Gli oltre 80 lavori presentati, con interventi e illustrazioni tecniche di ricercatori del settore, docenti universitari, produttori e titolari di aziende agricole e rappresentanti di Enti pubblici e privati, sono stati il biglietto da visita di ben 11 Paesi partecipanti: Austria, Spagna, Romania, Brasile, Portogallo, Francia, Stati Uniti, Ungheria, Germania, Croazia e Italia. Un vero e proprio confronto serrato tra le diverse tipologie di trattamento dei terreni, con caratteristiche diverse ma anche con problematiche simili. Così dai paesaggi della “Quinta de S. Antònio”, dove la pendenza del terreno supera il 50%, con terrazzamenti molto stretti, si è passati alle nuove tecniche sperimentate nelle altre sottoregioni del Douro, in particolare per combattere specifici agenti nocivi come la Lobesia botrana. Tecniche che hanno portato, dal 2000 ad oggi, ad un aumento notevole della produzione di

Oratori al congresso del CERVIM

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vino. Aspetti illustrati nella relazione dell’esperto J. Queiroz (Viticoltura in forte pendenza e densità di impianto: “banquettes” strette, regione del Douro). Affascinante, certamente, ma aspro, poi, il paesaggio del Reno, dove la pendenza tocca il 70% e il problema principale è trovare agricoltori disposti a compiere vere e proprie scalate per la raccolta dell’uva. Azione, quest’ultima, che fino a qualche anno fa era possibile praticare soltanto a piedi e che oggi ha visto l’adattamento di macchine specifiche a quei determinati terreni. Le soluzioni negli studi di A. Simonis (Lavorazione dei vigneti in forte pendenza con il sistema della trazione diretta e il verricello autorampicante), R. Keicher (Sviluppo di un dispositivo autonomo di trasporto e di un sistema di propulsione per alleggerire il lavoro nei vigneti in forte pendenza), E. Vollmer (Confronto tra due moderni sistemi di meccanizzazione per vigneti in forte pendenza). A costituire un vero mosaico della biodiversità è l’Etna, che al congresso è stata presentata, montagna suggestiva ma anche aspro vulcano, sotto due aspetti principali: I suoli dei paesaggi viticoli del complesso vulcanico dell’Etna, con l’intervento di F. Terribile e gli studi di M. Iamarino, e Inquadramento generale sul clima dell’Etna, illustrato da L. Pasotti. Il vulcano stesso rappresenta, infatti, il “sistema Etna”, con i suoi 23 mila ettari di territorio e una qualità particolare del vino prodotto legata ai genotipi e alla gestione agricola dell’area. Tra i 400 metri e i 900 metri s.l.m., l’Etna presenta un ecosistema che fa ormai parlare di “terroir”. Per anni gli agricoltori etnei hanno dovuto prima affrontare l’eliminazione fisica delle rocce per poi realizzare i terrazzamenti. Da qui la necessità di un approccio multidisciplinare per la produzione vitivinicola, che tenga conto del terreno, dei suoi sedimenti, delle sue pendenze (nord, nordest, est, sudest, sud), del fattore vento, del clima, degli eventi piroclastici, delle colate laviche, del materiale secolare che dalle scienze agrarie rimanda alla geologia, alla geomorfologia, che registrano enormi cambiamenti se ci si sposta solo di poche decine di metri. Infatti, il complesso

Vigneti a muretto in Valle d'Aosta

scenario del vulcano è in grado di passare dall’elevata fertilità dei terreni di Linguaglossa, dove non sono presenti pietre, al terreno vitrico di Nicolosi, con accentuate convessità, crinali, ripiani. Fino alle diverse condizioni climatiche, che hanno portato gli studiosi a definire questa fetta di Sicilia “il continente nel continente”. È proprio il massiccio dell’Etna, come emerge dagli studi dell’Osservatorio regionale delle acque, a determinare le escursioni termiche, che consentono all’uva di non subire danni nonostante le elevate temperature estive, salvaguardandone l’acidità, i polifenoli, le sostanze aromatiche: in una parola, la qualità. Un vulcano che si presenta come uno spartiacque tra il versante orientale e quello occidentale: tra il paese di Nicolosi e quello di Ragalna, per citare un caso esemplare, il divario di pioggia può arrivare fino a 500 mm. Un caso simbolo, dunque, a livello internazionale, dove economia del territorio e produzione agricola si intrecciano fortemente con i più svariati aspetti scientifici e atmosferici dell’isola. Numerose le presenze alla tavola rotonda, tra cui il presidente della Provincia di Catania, Giuseppe Castiglione intervenuto anche in qualità di capo del comitato organizzatore del congresso, l’eurodeputato Giovanni La Via, il presidente del Cervim, Francois Stevenin, e il direttore generale dell’Istituto regionale Vite e Vino, Dario Cartabellotta. Positivo il messaggio conclusivo del Congresso: spesso, più difficili sono le condizioni di produzione del vino, migliori sono i risultati qualitativi.

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Alla “GranTavolata” del Guinness dei Primati protagonisti i Sommelier Fisar del Nord-Est

di Graziella Cescon

Il grande pranzo attorno alla lunga tavolata, ricoperta da una tovaglia in pezzo unico di 1461 metri ha visto riuniti circa 6.000 commensali provenienti da tutta la provincia di Treviso, dal Veneto e dal vicino Friuli

L

a città di Treviso, con l’Associazione Treviso Viva, ha organizzato domenica 6 giugno scorso, nel parco adiacente la sede dell’Amministrazione Provinciale, una suggestiva manifestazione enogastronomica, entrata per ben due volte nel Guinness World Records: per la tovaglia più lunga e la bottiglia di grappa più grande al mondo (alta 186 cm e contenente 138 litri di ottimo distillato). Il grande pranzo attorno alla lunga tavolata, ricoperta da una tovaglia in pezzo unico di 1461 metri ha visto riuniti circa 6.000 commensali provenienti da tutta la provincia di Treviso, dal Veneto e dal vicino Friuli. Per questa straordinaria occasione, che ha coinvolto anche le Istituzioni del territorio, sono state attivate 17 cucine nelle quali hanno operato, con le loro brigate, 34 cuochi e ristoratori della Marca Trevigiana, che hanno servito ai commensali un menu a base esclusivamente di prodotti tipici del territorio. E con i ristoratori hanno lodevolmente collaborato docenti e studenti delle Scuole Alberghiere di

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Stato di Treviso e Castelfranco Veneto, I vini sono stati serviti da oltre 130 bravissimi sommelier del Coordinamento Nord-Est (Delegazioni di Treviso, Venezia, Padova, Pordenone, San Donà di Piave e PortogruaroLison-Pramaggiore). Il compito di allacciare e tenere i rapporti con la complessa organizzazione della manifestazione dei record e quindi riunire il gran numero di sommelier delle province venete e friulane è stato svolto con lodevole impegno e grande bravura dal sommelier trevigiano Roberto Donadini, con Davide Piai, mentre impeccabile direttore del servizio è stato il sommelier Massimo Barattin, che ha guidato con alta professionalità i suoi oltre centotrenta sommelier, che hanno servito, a corretta temperatura, migliaia di bottiglie di Conegliano–Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg, Prosecco Doc Treviso, Manzoni Bianco IGP e ancora Merlot, Cabernet e Carmenere Doc Piave e, al dessert, oc Colli di Conegliano Torchiato di Fregona, tutti anticipatamente controllati.

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Il certificato del Guinness World Records

Con la loro presenza, e con lo stand Fisar visitato da molti presenti, la nostra Associazione ha mostrato una grande e matura professionalità, un’ottima capacità ed efficienza organizzativa, ottenendo una enorme visibilità, dimostrando ancora una volta la capacità di affrontare con successo anche le prove più difficili. Presenti alla manifestazione numerose autorità, il Presidente della Provincia di Treviso Leonardo Muraro, numerosi sindaci fra cui quello di Treviso Gobbo, i consiglieri nazionali Fisar Graziella Cescon e Luisella Rubin, il coordinatore triveneto Antonio De Vitiis e i responsabili delle delegazioni Fisar del Nord-Est, ma soprattutto la gente comune che non ha voluto mancare a un incontro che, oltre ai due record da Guinness, aveva uno scopo benefico: sostenere l’Advar,

una benemerita associazione trevigiana che collabora con le famiglie nell’assistere i malati terminali. Dunque un grande successo, al quale la Fisar del Veneto e del Friuli-Venezia Giulia ha dato il suo generoso contributo, mostrando di essere fra i più seri, qualificati e apprezzati protagonisti della società veneta.

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a cura della redazione di

le notizie di enogastronomia e turismo

PER TORREVILLA (OLTREPÒ) La Montina BUONE PROSPETTIVE nuove bottiglie IN CINA ed etichette È la Cina il nuovo fronte di esportazione, molto interessante, per il Ventennale per Torrevilla Viticoltori Associati, la nota azienda d’Oltrepò la cui produzione supera oggi i 3 milioni di bottiglie e punta decisamente verso i 5 milioni. Il direttore-enologo di Torrevilla, Guerrino Saviotti, ha fatto parte in giugno di una delegazione di produttori italiani che si sono recati nel Distretto industriale cinese di Canton per incontri con autorità, importatori e buyer. “Abbiamo incontrato diverse autorità locali – afferma Saviotti (nella foto, con Tim Mai Zhiqian, uno dei più influenti sommelier dell’area cinese) – perché senza l’appoggio della politica locale in Cina non si combina niente. È un mercato in forte espansione e presto le vendite saranno interessanti. Il mercato europeo è ormai saturo, quello russo molto difficile e quello americano non più allettante. Il mercato cinese, orientale in genere, è in forte espansione, dovuto allo sviluppo dell’economia e quindi rappresenterà sempre di più il naturale sbocco per la produzione mondiale di vino. Noi presentavamo Pinot Grigio, Bonarda, Pinot nero vinificato in rosso e Sangue di Giuda: al momento il mercato è nelle mani dei Francesi, seguiti da Australiani, Cileni e Californiani, i quali presentano tutti i vini internazionali (sauvignon, chardonnay, cabernet, merlot). Con i nostri vini “nostrani” abbiamo avuto notevole successo, soprattutto con Pinot grigio e Sangue di Giuda: il rosso sangue, frizzante e dolce, ha fatto letteralmente impazzire i cinesi. Il programma delle presentazioni è continuato ad Hong Kong, dove già Torrevilla dispone di un distributore affermato che ha attivato il sito di vendita on line”. Un grande lavoro in estremo Oriente attende Torrevilla, stimolante ed attraente, che sta togliendo almeno un lustro di anni al suo “maturo” direttore… TORREVILLA - www.torrevilla.it

Grande apprezzamento di addetti al lavoro e giornalisti per il nuovo il design delle bottiglie e la rinnovata immagine delle Tenute La Montina di Monticelli Brusati, azienda fra le più note e blasonate della Franciacorta, che ha celebrato con questa assoluta novità le sue prime 20 vendemmie. Un traguardo importante, che segna per la famiglia Bozza una fase di ulteriore sviluppo e impegno. Le nuove etichette sono declinate nei 6 colori che d’ora in poi contraddistingueranno i Franciacorta delle Tenute La Montina, che per quanto riguarda le tipologie più complesse sono definiti anche da un nuovo nome: il color avorio per i Brut, l’oro per i Brut Millesimato Aurum, l’argento per i Brut Satèn Argens, il verde per gli Extra Brut, il rosa melograno nelle versioni Rosé Demi Sec (bottiglia nera) e Rosé Extra Brut Rosatum (bottiglia trasparente), per concludere con l’etichetta di colore nero e logo in oro per denominare le Vintage, le grandi Pas Dosé Riserva, orgoglio di famiglia. In occasione del Ventennale l’azienda ha presentato anche la sua prima Riserva, il Vintage 2004, un Extra Brut affinato sui lieviti in bottiglia per almeno di 60 mesi, elegante e avvolgente al naso, complesso al palato, ampio e di grande personalità. LA MONTINA S.R.L. - www.lamontina.it

SARTORI DA QUATTRO GENERAZIONI IN VALPOLICELLA Nata dallo spirito imprenditoriale del nonno Pietro che a fine Ottocento nella sua trattoria proponeva a commercianti e industriali locali il vino ‘Veronese Rosso’, l’Azienda, oggi


a cura della redazione di

le notizie di enogastronomia e turismo

condotta da Andrea, Luca e Paolo Sartori e i soci di Colognola, riscuote molto successo anche all’estero, realizzando oltre il 75 per cento del fatturato in Europa, America del Nord e del Sud, Russia e Sud Est Asiatico. Sartori, come amano dire in azienda, ha sempre combattuto per Verona, lavorando esclusivamente sui vini veronesi: Valpolicella, Soave, Bardolino, Bardolino Chiaretto, reinterpretati in chiave elegante e personalizzata. Le etichette sulle quali punta sono Regolo Valpolicella Superiore Doc Ripasso e Marani Bianco Veronese Igt, oltre a Cent’Anni Igt ‘Rosso Veronese’, nato per il centenario dell’azienda e successivamente prodotto solo in annate eccezionali. Prodotto secondo la tecnica di vinificazione simile a quella del rigoverno alla toscana, è un vino di colore rosso con riflessi rubino molto intensi, profumo persistente con note di spezie, sapore vellutato con corpo pieno, robusto, lungo, che si sposa bene con tutti i piatti a base di carne e cacciagione e a formaggi a lunga stagionatura. LE ANNATE DEL CENT’ANNI E LE BOTTIGLIE PRODOTTE: 1995 - bottiglie 3000; 2000 bottiglie 4000; 2001 - bottiglie 5000; 2006 - bottiglie 5000. CASA VINICOLA SARTORI - www.sartorinet.com

MEDAGLIA D’ORO AL RECIOTO DELLA VALPOLICELLA CLASSICO SANTA SOFIA Sono stati comunicati in occasione del London International Wine Fair di maggio i risultati del Decanter Word Wine Awards, una delle competizioni enologiche più prestigiose a livello mondiale. All’edizione 2010 hanno partecipato 10.983 vini (numero più che raddoppiato dalla prima edizione del concorso di 7 anni fa): solo il 2,86% ha ricevuto la medaglia d’oro. Tra questi il Recioto della Valpolicella doc Classico vendemmia 2006 della storica azienda della Valpolicella, Santa Sofia (1811), condotta con maestria dal 1967 dall’enologo Giancarlo

Begnoni. “Grande soddisfazione per un prodotto di nicchia” – afferma con entusiasmo Luciano Begnoni, ambasciatore nel mondo dei vini dell’azienda – “è una medaglia che sarà sicuramente di volano per proporre il Recioto a nuovi mercati”. Da 100 kg di uva, fatta appassire per circa 90-120 giorni, si ottengono 25 litri di questo prezioso vino di colore rubino scuro intenso, 14% Vol. e 130 g. di parte zuccherina, con note di ciliegia, mora in confettura, spezie, vaniglia, cacao. Vino di grande eleganza e struttura, matura per 12 mesi in piccole botti di rovere di Allier, si abbina a pasta frolla, dolci di mandorle, ma anche a cibi dai sapori decisi, come il cioccolato fondente. Az. Santa Sofia - www.santasofia.com

LA SVOLTA “VERDE” DI SANTA MARGHERITA Eco-sostenibilità e rispetto per l’ambiente sono un impegno concreto per il Gruppo Vinicolo Santa Margherita che ha fatto scelte specifiche e mirate per attuare fondamentali principi di comportamento a favore di uno sviluppo sostenibile. Azienda sempre all’avanguardia nei diversi aspetti enologici, ha anticipato, nel settore, il trend della nuova consapevolezza ecologica, attuando una vera e propria scelta “Verde”. Un’autentica rivoluzione che ha toccato sia l’organizzazione aziendale sia la produzione e che ha trovato le prime basi su un equilibrato mix tra agricoltura sostenibile, ovvero come coltivare la vite riducendo al minimo gli interventi della chimica di base e ottenendo uve di sempre maggiore qualità nei vigneti di proprietà e sfruttamento dell’energia solare come fonte di produzione energetica nella cantina di Fossalta di Portogruaro. La lungimiranza di Santa Margherita ha fatto sì che sia stata una delle prime aziende ad aderire al progetto Magis per l’eccellenza della viticoltura italiana. L’autoproduzione di energia dal fotovoltaico che, grazie ad un impianto di 2mila metri quadrati, produce 200 kilowatt e copre l’11% del fabbisogno energetico, è un ulteriore passo per un’evoluzione “environmentally friendly” della cantina. SANTA MARGHERITA S.P.A. - www.santamargherita.com


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le notizie di enogastronomia e turismo

DAL COSTA RICA ARRIVA IN ITALIA IL RON CENTENARIO Costa Rica è una piccola repubblica centroamericana che rappresenta un vero e proprio angolo di paradiso per tutti coloro che sono alla ricerca di un autentico contatto con la natura. Le sue grandi foreste tropicali, i suoi vulcani, le sue meravigliose spiagge oceaniche sono meta di un crescente turismo internazionale. In Costa Rica, dal 1969, è attiva la Centenario Internacional S.A. (CISA), che produce e distribuisce i Rum più pregiati del Paese, e che ora arriva per la prima volta anche in Italia con i suoi prodotti: AÑEJO ESPECIAL - affinato in fusti di quercia, colore dorato, bouquet con note di vaniglia e di ciliegia e gusto morbido e molto equilibrato. CONMEMORATIVO - 7 anni di invecchiamento, colore dorato intenso, sentori di brandy e di uva matura, dal gusto intenso e pieno, con un lungo, piacevolissimo finale. FUNDACION XX AÑOS – RESERVA ESPECIAL - 20 anni di invecchiamento, colore ambrato intenso, aroma sontuosamente fruttato, con ricordi di brandy, dolce e morbidissimo, di interminabile persistenza al palato. FRATELLI RINALDI IMPORTATORI - www.rinaldi.biz

LE CANTINE PELLEGRINO PREMIATE ALLA SELEZIONE DEL SINDACO Grande successo delle Cantine Pellegrino al concorso “La Selezione del Sindaco”, l’unico concorso enologico internazionale che prevede la partecipazione congiunta dell’azienda vitivinicola e del Comune di appartenenza, che si propone di valorizzare i vini eccellenti frutto della tradizione e del territorio e di favorirne la conoscenza. L’edizione 2010 si è tenuta lo scorso maggio presso il Castello Svevo di Brindisi. L’azienda di Marsala è stata pluripremiata con ben tre vini che hanno vinto la medaglia d’oro: Marsala Vergine Riserva del Centenario 1980 Doc, Nes Passito naturale

di Pantelleria Doc, Marsala Superiore Riserva Oro Doc e due etichette che hanno ottenuto la medaglia d’argento: Dinari del Duca Syrah Igt Sicilia e Gibelè zibibbo secco Igt Sicilia. Una grande soddisfazione per la Cantina che quest’anno celebra 130 anni di attività e che rappresenta una delle realtà enologiche più importanti della Sicilia, con oltre 22 milioni di euro di fatturato e circa 7 milioni di bottiglie prodotte. Leader assoluta nella produzione del Moscato e Passito di Pantelleria DOC, la Carlo Pellegrino nel corso degli anni, attraverso una crescita costante, si è affermata come una delle aziende di riferimento nella produzione dei vini Marsala e vanta oggi una profondità e ampiezza di gamma anche nei vini siciliani da tavola: ottimi bianchi e rossi che si trovano con il marchio Duca di Castelmonte sia nel canale Ho.re.Ca sia nella grande distribuzione. CARLO PELLEGRINO & C. S.P.A. - www.carlopellegrino.it

SOSTA TRE SANTI 2007, UN BLEND SICILIANO DAL LUNGO AFFINAMENTO L’ultimo nato in casa Nicosia, storica azienda vitivinicola etnea, è il Sosta Tre Santi, un prezioso blend di Nero d’Avola e Syrah. L’accurata selezione delle uve, la lenta macerazione e il lungo affinamento ne fanno un rosso di gran corpo e struttura, dal ricco e prorompente corredo aromatico. “Sosta Tre Santi – afferma il titolare delle cantine Carmelo Nicosia – è l’approdo finale di un lungo e paziente percorso di ricerca qualitativa, la sintesi più alta della nostra passione per il vino e del fortissimo legame che unisce la nostra famiglia ad un territorio unico come la Sicilia. Non è un caso se per produrlo abbiamo scelto di utilizzare quelli che sono ormai divenuti i due vitigni simbolo della moderna enologia siciliana”. Il nome è un tributo a Trecastagni, antico borgo alle pendici dell’Etna dove sorge la casa vinicola, e ai tre santi Alfio, Cirino e Filadelfo che nel loro viaggio verso il martirio fecero sosta nella cittadina, dove godono di una grande devozione popolare. Prodotto in sole 3.500 bottiglie, Sosta Tre Santi va ad aggiungersi alla selezione di vini a denominazione d’origine e monovarietali Fondo Filara grazie alla quale l’azienda siciliana, tradizionalmente forte nella distribuzione moderna, è


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le notizie di enogastronomia e turismo riuscita negli ultimi anni ad affermarsi anche sul canale Ho.Re. Ca. e ad ottenere numerosi riconoscimenti a livello nazionale ed internazionale. Così, mentre gli Etna Doc continuano a mietere premi in giro per l’Europa, l’altro fiore all’occhiello di Cantine Nicosia, il Cerasuolo di Vittoria Classico Docg Fondo Filara ha recentemente conquistato una prestigiosa medaglia d’argento al Decanter World Wine Awards ed è stato scelto da Alma, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana fondata dal maestro Gualtiero Marchesi, per essere inserito nell’esclusiva Cantina Didattica di Colorno. Nicosia S.p.a. - www.cantinenicosia.it

MONTALBERA… NON SOLO RUCHE’ Montalbera azienda porta-bandiera del Ruchè si distingue “anche” per le eccellenze qualitative di altri vini presenti nella propria produzione. Franco Morando trentenne a capo dell’azienda appena tornato da Bordeaux per ritirare la Medaglia di Bronzo (Challenge International du Vin) al Suo Moscato d’Asti d.o.c.g. SAN CARLO 2009 prodotto nella seconda azienda di famiglia a Castiglione Tinella di dieci ettari, ci spiega con passione che la Sua famiglia è molto legata alla cantina di Castiglione Tinella perché le loro origini derivano proprio da lì. La casa è quella natale del capostipite il Sig. Enrico Riccardo ancora tutt’oggi attivo e presente in azienda. L’ultima parola di Franco Morando (wine producer) è : “una storia iniziata da appena sei generazioni…” SOC. AGR. MONTALBERA S.R.L. - www.montalbera.it

BRAILLE, UN LINGUAGGIO DI NICCHIA IN CANTINA Italo Cescon Storia e Vini ha aperto il 22 maggio 2010 le porte della cantina per un evento speciale organizzato in collaborazione con UIC, Unione Italiana Ciechi. “La nostra sensibilità ci ha portato alla realizzazione di un’innovativa etichetta con l’iscrizione in braille” – spiega Graziella Cescon – “Diamo molta importanza alla bottiglia, uno scrigno prezioso del nostro lavoro nonché testimone delle nostre terre e mezzo di comunicazione, al mondo, dei nostri sforzi. Siamo i primi nel Veneto a dare ai non vedenti la possibilità di “leggere una

bottiglia di vino” – continua Graziella Cescon – “Abbiamo scelto di iniziare questo percorso dalla nostra linea più prestigiosa, “I Cru”, per enfatizzare l’importanza di questo progetto. Un tour che inizierà con due passi in mezzo alla vigna e un giro della cantina (vinificazione, affinamento, barricaia, imbottigliamento, zona stoccaggio), concludendosi con una degustazione guidata dall’enologo di Svejo, Mejo, Chieto e Rabià, che presenterà, per l’occasione, in anteprima, il nuovo packaging. Un sentito grazie al Sig. Mario Girardi, commissario straordinario UIC Treviso, per l’entusiasmo con cui ha appoggiato il nostro progetto sin dalle prime idee e per i preziosi consigli durante lo studio e la realizzazione”. Cescon Italo Storia e Vini srl - www.cesconitalo.it

BRANDINI PRESENTA IL NUOVO LANGHE ARNEIS DOC Nella suggestiva cornice della sala degustazione dell’Agricola Brandini (La Morra), si è svolta, martedì 15 Giugno, la presentazione del nuovo Langhe Arneis DOC. Questo vino fa parte della nuova linea di prodotti distribuiti dalla Commerciale Brandini che ha come obiettivo la distribuzione nel mondo di una selezione di vini provenienti dalle cantine del gruppo Eataly. Il Langhe Arneis DOC - già premiato al XXX° Concorso Enologico Città di Acqui Terme - si presenta sul mercato con un’immagine decisamente diversa da quella dei grandi rossi dell’Agricola Brandini: un’immagine che già dall’etichetta minimalista e raffinata vuole comunicare in modo esplicito la filosofia dell’azienda che ha come obiettivo primario quello di offrire sempre ai consumatori prodotti di eccellenza ad un prezzo giusto e sostenibile. Questo vino nasce da un progetto enologico di Beppe Caviola, enologo di fama internazionale e consulente dell’Agricola Brandini. Di colore giallo paglierino, presenta al naso un ricco bouquet floreale e fruttato, in bocca è pieno, equilibrato, con piacevole acidità e dal finale lungo e persistente. Ottimo con antipasti, carni e pesci delicati, perfetto a tutto pasto in estate. Brandini Commerciale S.r.l. - www.agricolabrandini.it


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Campania

La Campania: bella da morire In questo speciale parliamo della Campania. Il tema del turismo è centrale per una regione che attira milioni di turisti ogni giorno. Ma le bellezze della Campania non sono solo legate a questo. La cultura, la storia, i paesaggi incontaminati e da sogno fanno di questa regione dai forti connotati meridionali una meta di quelle persone che vogliono vivere momenti da consegnare al loro albo dei ricordi. Questo speciale ha avuto dei protagonisti. Voglio ringraziare il giornalista Nino D’Antonio che si è occupato della zona dell’Irpinia, la giornalista Daniela Volpecina per la parte casertana e, soprattutto, il giornalista Pino Imperatore che ha coordinato tutto il lavoro redazione in stretto contatto con la Mariateresa Lanza e tutti i delegati Campani. Un grazie anche alla redazione centrale di Torino ed a Gaia Neri, insostituibile nostra “impaginatrice”.

Grazie a tutti.

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Roberto Rabachino

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Campania

Irpinia, ritratto di un territorio

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Terra disomogenea, la Campania rimane tale anche a oriente, nell’area dell’Irpinia.

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ove, più che mai evidente risulta la contraddizione insita nel territorio. Da un lato, luoghi irripetibili, che la diffusa presenza dei miti carica di ulteriori suggestioni, dall’altro una geografia difficile, sconcertante sotto ogni aspetto, dove è pressoché inutile cercare riferimenti coerenti. La classica distinzione fra pianura, collina e montagna, diffusa pressoché ovunque, qui non trova riscontro. A questa anomalia non fanno eccezione i fiumi, dal Calore all’Ofanto, le cui acque imprevedibili e irregolari, contribuiscono a rendere ancora più anarchica la geografia dei luoghi.

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Fiumi che nascono in letti troppo ampi rispetto alla portata acqua, ma che d’improvviso si trovano a scorrere fra gole strette o lungo selvagge pendici, dopo aver aggirato una teoria di massi rocciosi. Eppure, anche qui gli aspetti negativi danno luogo a episodi di grande fascino, specie quando questi fiumi, all’origine, raccolgono le acque di vari torrenti e avanzano impetuosi, a salti, fra solchi e gole di selvaggia bellezza. È il ritratto di una terra antica per storia e civiltà, ma piuttosto giovane dal punto di vista geologico. Come prova l’accentuato rischio sismico. Richiama un singolare poligono a cinque lati, l’Irpinia.

Un campionario di vallate, dorsali, massicci montuosi, boschi e corsi d’acqua. Uno scenario di forte suggestione, che sconfina a nord in Puglia e a sud in Basilicata. Terra difficile, ha sofferto per secoli di un’economia chiusa, dovuta soprattutto alla mancanza di strade, che nelle aree più interne (quelle dell’Alta Irpinia) significava spesso un pesante isolamento. Così un’agricoltura di eccellenza carni ovine e prodotti caseari di grande qualità - hanno stentato a lungo a trovare un mercato. Dal punto di vista della viticoltura, il territorio ha del miracoloso. In un’area piuttosto ristretta, è presente il trittico Taurasi, Fiano e Greco,

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e la spinta economica del terremoto hanno fermato. Ma chi sono storicamente gli irpini? La loro origine è legata a una piccola tribù, che dietro l’insegna totemica del lupo (hirpus) lasciò il Sannio settentrionale per insediarsi nelle valli del Calore e dell’Ofanto. In sostanza, si tratta di una costola di quella antica civiltà sannitica che emigra nei territori confinanti. E prima che il nuovo insediamento assuma una sua sicura identità, dovranno passare vari secoli. Poi l’insegna del lupo è andata avanti da sola. E da allora, ne ha fatto di strada.

Le Castagne di Montella Fine secolo. Quello garibaldino e romantico, s’intende.

L’entroterra irpino, stretto fra le vette del Cervialto e del Terminio, vive la condizione comune a queste terre, verdi e aspre, ma soprattutto povere, dove un lavoro stabile è un terno al lotto. E Montella, pochi chilometri dal Laceno, un abitato tipico di impronta montana, non fa eccezione. L’economia è quella dei boschi quanto mai ricchi di castagne e di qualche caseificio, che vive l’avventura di portare fino a Napoli una ricotta già famosa. Per il resto, castagne. Quintali di castagne. Raccolte e vendute a sacchi, per poche centinaia di lire. Eppure è un frutto che non ha riscontro in altre zone. Niente da spartire con le castagne dei Monti Lattari o della Sila. Altra pasta: morbida, saporosa, umida e soprattutto sana.

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i soli vini a Docg di tutto il Sud. Un fenomeno che lascia perplessi, se si tiene conto che l’Irpinia è costituita per il 55% di montagne e per il resto di aree collinari. Il terreno è quasi sempre accidentato, e per circa un quarto è pressoché inutilizzabile dal punto di vista agricolo. Solo pascoli di montagna per greggi fortunate. La dorsale appenninica attraversa interamente il territorio, dividendolo in due versanti: quello tirrenico, che comprende il circondario di Avellino, e quello adriatico, con Ariano e S.Angelo dei Lombardi. I terreni sono ricchi di materiale vulcanico, che in alcune zone è tanto evidente da costituire l’intero spessore dello strato coltivabile. Il quale, integrato dagli apporti del Vesuvio, si presenta piuttosto permeabile, ricco di argilla e di potassio, requisiti questi tra i più felici per la coltivazione della vite. L’argilla, infatti, cede lentamente acqua alle piante, per cui l’uva durante la siccità estiva matura più a lungo e con più equilibrio. Un fattore che non è estraneo alla qualità dei vini rossi e al loro invecchiamento. Gente laboriosa, fortemente legata alle proprie origini contadine, gli irpini hanno fatto per anni registrare una massiccia emigrazione, che solo il ricambio generazionale

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Irpinia

Le Castagne di Montella

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Poi, anche le istituzioni scopriranno la castagna di Montella e la sua tipicità, e così nel ’96 arriva la IGP e successivamente la DOP. Da allora la rimonta non ha conosciuto più soste. Individuate le richieste del mercato, la risposta è stata a ventaglio. Castagne di prima scelta e della maggiore pezzatura (da cinquanta a sessanta per chilo) da destinare a caldarroste e marrons glacés; castagne bianche per il diverso utilizzo in cucina; e poi quelle cosiddette del prete, e ancora quelle al rhum. In apparenza, tutto sembra ridursi a una questione di pezzatura, e invece – fatte salve quelle vendute fresche – le castagne vanno sottoposte ad una fase di essiccamento per ridurre da 50 a 12 il quoziente di umidità e consentire così la loro migliore conservazione. Gli essiccatoi, i cosiddetti gratali, in passato non erano più che rudimentali forni a legna, in genere ubicati nel cuore stesso del castagneto. Oggi sono speciali strutture, a perfetta tenuta, all’interno delle quali su appositi ripiani e a varie temperature vengono asciugate le castagne. Non è un’operazione automatica, per la quale basta caricare il forno. È forse il passaggio più impegnativo, quello

che richiede un’esperienza affinata con gli anni, perché non c’è regola che tenga. E veniamo alle castagne del prete. La denominazione desta curiosità. Di sicuro è legata all’inventiva di qualche sacerdote che per conservare il frutto il più a lungo possibile pensò di bagnarlo a più riprese, in modo da restituirgli l’umidità persa. Il comprensorio della castagna irpina include sei comuni (Montella, Montemarano, Cassano, Nusco, Bagnoli, Volturara) nei quali operano non più di altrettante aziende, tutte a conduzione familiare. Fra queste, un posto d’onore spetta alla Cooperativa Agricola Castagne di Montella, fondata nel 1975, allo scopo non solo di tutelare la qualità del prodotto, ma di garantirne

la migliore distribuzione sul territorio nazionale. La Cooperativa è fra le più attive realtà del comparto e vanta un’estensione di ben 7500 mq, di cui oltre mille coperti per le varie fasi della lavorazione. Quantomai ampia l’offerta dell’azienda: castagne fresche, curate, infornate e sgusciate. Senza escludere la farina, prodotto-principe per il famoso castagnaccio.

Il Tartufo di Bagnoli Irpino Piaceva ai Borbone, ed era celebrato nella Roma di Apicio e di Giovenale, per non dire – in epoca più vicina – dai napoletani Della Porta e Cavalcante. Ma per i palati raffinati, il tartufo nero di

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avvolto in carta assorbente, chiuso in contenitore ermetico e conservato in frigo. La carta va spesso sostituita per impedire che il forte odore investa gli altri cibi. Il suggerimento rientra nel mio incontro alla Tartufaia, l’azienda leader del settore, con undici ettari di bosco, dove il tartufo viene lavorato e conservato nel modo più naturale. Fondata da Tobia Patrone, anzitutto appassionato ricercatore, La Tartufaia offre anche una tipica accoglienza e un ventaglio di prodotti tipici, a cominciare dai funghi porcini.

L’Olio di Ravece Ulivi e alberi da frutta sono da sempre emblematici di tutto il Sud e trovano la loro consacrazione in quella Campania felix, di cui l’Irpinia è il cuore verde. A vini di particolare eccellenza (e al di là delle tre Docg sono oltre cento i vitigni autoctoni), si aggiungono l’olio, i prodotti caseari, le castagne, il tartufo nero, tanto per limitarci a quelli

più accreditati. L’olio di Ravece – dal nome delle ulive da cui nasce – non è la sola tipologia presente in Campania. Basti ricordare la Pisciottana nel Cilento, la Rotondella nel Salernitano, la Racioppella nel Sannio e la Sessana e la Cavassana in provincia di Caserta. Ma la Ravece gode di una sua reputazione, che non è estranea ad alcuni fattori. Vanta oltre cinque secoli di storia, ed è ben considerata anche come oliva da tavola; ha una produzione costante, anche se la resa in olio è piuttosto bassa; presenta un gusto appena piccante e amaro, ideale per condire piatti caldi, zuppe e minestroni (classici della cucina contadina) affianco a bruschette e grigliate. L’olio è verde, con tonalità gialle, sapore deciso, aroma fruttato e intenso. La Ravece cambia nome nell’area compresa fra Grottaminarda ed Ariano. Qui, infatti, viene chiamata Curatona e Olivona, ma conserva i medesimi caratteri. La distribuzione in Campania degli uliveti è assai interessante, anche per i suoi riflessi economici. Il comparto conta oltre novantamila aziende e impegna l’80% dei Comuni. Al di là di alcune grosse strutture, si tratta di

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Campania

Bagnoli Irpino continuava ad essere il parente povero di quella blasonata famiglia che faceva capo al Bianco di Alba. Poi, la progressiva scoperta (e il riconoscimento) dei suoi requisiti, lo ha accreditato anche presso i gourmet più esigenti. A cominciare dalla disponibilità del Nero di Bagnoli in primavera, vale a dire quando la stagione dei tartufi è ormai largamente superata. Fino a quel suo odore forte e pungente, che ne fa il complemento ideale per una sicura identità anche per piatti d’autore. Ma è nell’Alta Irpinia che le sue preziose lamelle sono chiamate a rispettare le origini povere di una cucina d’impronta contadina. Il tuber mesentericum (è questo il nome scientifico) se ha la sua patria a Bagnoli Irpino, nasce nei boschi che circondano il bacino del lago Laceno. Boschi di faggio, ma anche di querce, betulle, noccioli, che salgono lungo i fianchi del Terminio e del Cervialto. Il tubero ha una sua precisa fisionomia: corteccia ruvida, polpa nera o violacea, sottili venature, sufficienti dimensioni (gli esemplari più grandi si avvicinano al pompelmo) e inevitabilmente vita breve. La sua durata non va oltre i quindici giorni, un tempo durante il quale il tubero va

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aziende al di sotto dei cinque ettari. Ed è proprio in questo segmento – dove il produttore di Ravece accredita il suo olio mettendoci la faccia – che si trova il meglio. “Come per la vite, l’uliveto richiede assidue cure. Poi la raccolta a mano, il trasferimento in piccole cassette, perché la drupa non resti schiacciata e infine la molitura, rigorosamente a freddo, nell’arco della stessa giornata. Tutto qui si dirà? Ma un olio in purezza non ha bisogno di altro. Ogni aggiunta è una mistificazione…”. Su questo Antonello Nudo, patron di un autentico agriturismo, qual è Fontana Madonna a Frigento, e produttore di extravergine da olive di Ravece, non ha dubbi. Il territorio dell’Alta Irpinia è tra i più vocati per l’olio, e chiunque ha modo di gustarlo non rinuncia a portarne a casa qualche bottiglia.

Il Pecorino di Carmasciano di Nino D’Antonio L’area di produzione è quella compresa fra Rocca San Felice, Sant’Angelo e Guardia dei Lombardi. Carmasciano, che dà il nome al celebre pecorino, è solo una delle frazioni del Comune di Rocca. Anche se tutta la

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Irpinia

Valle dell’Ansanto è la patria storica di questo formaggio, racchiusa fra Rocca San Felice, Frigento, Torella e Villamaina. La Valle, già nota in epoca romana, per il suo aspetto carico di mistero e di paura, viene descritta da Virgilio nel settimo libro dell’Eneide, quale porta per l’aldilà. La

Il Pecorino di Carmasciano

depressione del luogo, il fitto dei boschi, il piccolo laghetto vulcanico dalle acque ribollenti e le continue esalazioni di zolfo hanno fatto il resto. Ma torniamo al Carmasciano, oggi tra i formaggi più richiesti e non solo in Campania. Il latte è quello degli agnelli Laticauda (a coda larga), che pascolano nella Valle dell’Ansanto. Il processo di lavorazione è quello di un tempo. Caglio da stomaco di ovino e rottura della cagliata dopo mezzora. La pasta, lavorata rigorosamente a mano, viene ripartita nelle fuscelle (tipici cestelli di vimini), dove riposa per 48 ore. Le forme vengono poi scottate con siero caldo e sfregate con il sale. Comincia da qui la fase di stagionatura

in cantina, su assi di legno, dopo aver spennellato ogni forma con olio, vino bianco e aceto. Il risultato, dopo sei mesi, è quello di un pecorino a forma cilindrica, crosta dura e rossiccia, pasta compatta, gusto sapido e piccante, che tende ad aumentare col tempo. I produttori di Carmasciano non sono una folla, e questo spiega come ogni ristoratore tenga ad approviggionarsi in tempo utile. Il formaggio viene infatti preparato dalla fine dell’inverno all’estate, e le richieste superano sempre le disponibilità. “È tra i nostri prodotti più tipici, quello che meglio esprime la nostra civiltà pastorale”, mi dice Carmela Forgione, titolare dell’omonima azienda agricola, nonché presidente del Consorzio del Carmasciano. L’organismo è costituito da sole donne, tutte animate dall’intento di contribuire non solo alla migliore qualità del prodotto, ma alla sua crescente qualificazione nell’area dei pecorini, vista la particolarità del latte e dei criteri di lavorazione. Una legittima aspirazione, tenuto conto che viene fatto come secoli fa, in quello stesso scenario che colpì la fantasia di Virgilio. “Mi creda, aggiunge la Forgione - una scheggia del nostro pecorino apre o conclude in modo superbo la migliore cena”.

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Campania

Benevento, tra streghe e Pietrelcina La provincia di Benevento è delimitata a nord dal complesso del Matese e della Daunia ed è attraversata dai fiumi Tammaro, Fortore, Sabato e Calore.

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l suolo è composto prevalentemente da colline e montagne, fra cui spicca il massiccio del Taburno-Camposauro, il cui profilo evoca una donna che dorme (per questo motivo è denominato “la dormiente del Sannio”). L’antichissima storia di Benevento, fondata secondo il mito da Ausone, figlio di Ulisse e di Circe, si intreccia con leggende di streghe, qui meglio indicate col nome di “janare”, e con le alterne vicissitudini del popolo dei Sanniti. Nelle prime due guerre contro tale popolo i Romani non osarono aggredire la roccaforte sannita, ma poi, agli albori del III secolo a.C. conquistarono la città e, in seguito alla vittoria qui riportata su Pirro nel 275 a.C., ne trasformarono il nome da Maleventum nel

beneaugurante Beneventum. Collocata sulla Via Appia, che collegava Roma a Brindisi, la città divenne ben presto un nodo importante nei traffici commerciali tra Roma e l’Oriente. A testimoniarne l’importanza strategica oggi si può ammirare il Ponte Leproso, posto a cavallo del Sabato, il fiume il cui nome sembra derivi dalle “sabbatiche”, le indemoniate sarabande delle streghe che si riunivano lungo le sue rive, sotto alberi di noce e serpenti penzolanti. Anche l’Arco di Traiano (114 a.C.), monumento simbolo della città, è collocato sul percorso della Via Appia, rivolto ad est per accogliere l’imperatore che tornava vittorioso dalle sue spedizioni in Oriente. Altra testimonianza dello splendore dell’epoca romana è il Teatro Romano (II sec.

d.C.), che poteva ospitare fino a diecimila spettatori. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, Benevento fu preda di Goti, Bizantini, Longobardi e Normanni, e poi a turno sottomessa a Svevi, Angioini e Stato Pontificio. Risale al periodo longobardo l’edificazione di due monumenti rappresentativi della città: la Rocca dei Rettori e la Chiesa di Santa Sofia. Da non perdere in provincia il Parco Regionale del Matese, con i suoi 33mila ettari

Vigneto del Taburno

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di boschi, montagne innevate e natura incontaminata, con piccoli antichi borghi fortificati, castelli medioevali, chiese, conventi e altre testimonianze storico artistiche; il Parco è anche una delle più grandi oasi faunistiche del Sud e può annoverare la presenza di specie protette come l’aquila reale, il falco pellegrino, lo sparviero, la donnola e il tasso. Il complesso termale di Telese, le cui acque sulfuree riaffiorarono in superficie dopo il terremoto del 1349, oggi rappresenta non solo un’area attrezzata per la cura di malattie respiratorie, cardiocircolatorie e dermatologiche, ma anche un sicuro punto di riferimento turistico, specie in estate, con una fittissima programmazione di eventi culturali, musica e spettacoli. Pietrelcina, meta di pellegrinaggi, è la città natale di Padre Pio: qui, in un’atmosfera segnata dalle tracce della Passione di Cristo, è possibile visitare i luoghi in cui Francesco Forgione, futuro Santo, studiò, iniziò il noviziato e ricevette le prime stimmate. Un’altra esperienza da non perdere, legata a riti religiosi anche se con derivazioni pagane precristiane, sono i Riti Settennali di Guardia Sanframondi: in questa cittadina ogni sette anni, nell’ultima decade di agosto,

tra migliaia di devoti che accorrono al Santuario dell’Assunta, la Vergine che una leggenda popolare vuole dissotterrata dai maiali, vengono messi in opera i Misteri, scene raffiguranti episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento. La domenica, durante la processione al seguito della Madonna, uomini incappucciati, detti “flagellanti” e “vattienti”, in segno di penitenza si frustano e si percuotono il petto con spugne dotate di chiodi appuntiti. Per la cronaca: il prossimo Rito dell’Assunta si svolgerà nell’agosto di quest’anno...

La caratteristica sono i piatti della terra In perfetta coerenza con le peculiarità del suo territorio e con il suo clima appenninicocontinentale, il Sannio Beneventano ha improntato la propria cucina su piatti di terra, molti dei quali di origine contadina; piatti semplici, con primi a base di pasta fatta a mano, zuppe di verdure di ogni specie, carni e salsicce piccanti. I cecatielli, i cazzarielli e le lagane vengono conditi con sugo di agnello, con legumi o con broccoli. Le flavole sono sfoglie di pasta ripiene di formaggio e uova e poi

infornate; i panzerotti di San Giuseppe sono a base di pasta sfoglia, con ripieno di ceci e cannella, fritti nell’olio d’oliva. La zuppa delle streghe consente alla sensibilità di ogni chef di variare dosi ed ingredienti, tra i quali verdure, spezie, noci, pinoli, uova, formaggi, peperoncino e gli immancabili tocchetti di pan tostato, ricostruendo nell’immaginario comune l’atmosfera magica con cui le janare la preparavano nottetempo, danzando davanti a un calderone bollente su una catasta di legno in fiamme. Altri piatti tradizionali sono il pancotto con friarielli e le scarole e fagioli. Per i secondi, è molto diffusa la preparazione del mugliatiello, involtino di fegato e interiora di agnello con aglio e prezzemolo, avvolto in budella e accompagnato a legumi. La salsiccia alla beneventana, generalmente piccante, è cucinata al forno in un impasto di uova e formaggio. L’offerta agroalimentare è caratterizzata da un elevato livello qualitativo, espressione di un ambiente naturale incontaminato, di una scelta accurata delle materie prime e della lavorazione rigorosamente artigianale dei prodotti. A cominciare dall’alimento base per eccellenza: il pane di Ariano

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B e n e v e n t o


Lavorazione del prosciutto di Pietraroja

Il torrone di San Marco dei Cavoti

Campania

di Castelfranco in Miscano dà prodotti finissimi nei mesi primaverili, quando il bestiame è allevato al pascolo. Il caciocavallo silano è un ottimo formaggio a pasta cruda, da gustare in abbinamento ai famosi taralli di San Lorenzello, conditi con spezie ed erbe aromatiche. Il pecorino di laticauda, dal caratteristico gusto aromatico e note piccanti a maturazione avanzata, prende il nome dall’omonima razza ovina, dove “lati cauda” sta ad indicare la coda larga che la pecora utilizza per accumulare grassi nei periodi di carenza alimentare. Tra i prodotti certificati del Sannio spiccano anche l’olio extravergine di oliva delle Colline Beneventane e la mela annurca campana, che in diverse zone della provincia di Benevento vanta una cospicua diffusione. Il torrone, già noto in epoca

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Irpino, rinomato per le lunghe lievitazioni, per la fragranza e la digeribilità. Gli allevamenti dell’Alto Sannio, dalla Valle Caudina alla Valle Telesina, forniscono bestiame di qualità eccezionale, da carne e da latte; tra le Valli del Fortore e il fiume Tammaro, a ridosso di San Giorgio La Molara, c’è una forte concentrazione delle razze Marchigiana e Frisona e un consistente numero di vacche di razza Chianina e Podolica. La salsiccia rossa di Castelpoto è un prelibato salume, con parti scelte di maiale insaccate con peperoni rossi. La salsiccia di Apice è invece una salsiccia piccante di polmone di maiale e altre carni povere. Il prosciutto di Pietraroja, prodotto di nicchia con una produzione che non supera i 200 pezzi all’anno, è ricavato esclusivamente da carni suine selezionate. ll caciocavallo

romana, è considerato il dolce sannita per eccellenza. Tra le applicazioni più ricercate c’è quella a base di liquore Strega, altro prodotto di questa terra che ha contribuito a far conoscere il nome di Benevento in tutto il mondo. Grande merito, per la sua confezione rigorosamente artigianale, va attribuito al torrone di San Marco dei Cavoti, confezionato in piccole barrette ottenute dall’impasto di mandorle e nocciole spezzettate ricoperte da finissimo cioccolato.

Benevento: la trasformazione Qualità in costante ascesa, quantità necessaria a competere con i numeri giusti sui mercati. Questa è la Benevento del vino, una provincia che da sola rappresenta più del 40 per cento dell’intera produzione campana, attualmente caratterizzata dalla metamorfosi della vecchia viticoltura massiva del Sud. In poco tempo – negli ultimi 20 anni, ma con accelerazioni

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esponenziali negli ultimi 6/8 anni – il panorama locale si è trasformato completamente: le vecchie raggiere, le pergole e i pesanti tendoni sono passati in disuso e, soprattutto nell’area a maggior vocazione, quella che come un semicerchio lambisce i pendii a settentrione del Monte Taburno, oggi è un bel vedere di guyot, spalliere e cordoni. Anche attorno a Castelvenere, il Comune più vitato d’Italia, dove l’economia si regge quasi esclusivamente sulla produzione di uva e vino, le vecchie forme d’allevamento hanno ceduto spazio ai nuovi vigneti. La resa media dei vigneti, il segnale più evidente del cambiamento, è vertiginosamente calata, passando nell’ultimo decennio da 140 a meno di 100 quintali per ettaro. L’economia agricola beneventana, dopo la crisi della coltivazione del tabacco, confida oggi quasi totalmente sulla vite e sul vino. Basti pensare, tra forzalavoro e indotto, al numero di lavoratori impiegati, molti dei quali ruotano attorno alle due cantine sociali, che da sole oggi rappresentano circa 1800 soci conferitori, con più di 3500 ettari di vigneto e 4 milioni di bottiglie prodotte. Nelle 6 D.O.C. della provincia (Taburno, Aglianico del Taburno, Sant’Agata dei Goti, Solopaca, Guardiolo-

Guardia Sanframondi e Sannio), i vitigni più diffusi sono Aglianico e Piedirosso, Falanghina e Coda di Volpe. L’Aglianico assume la sua espressione migliore nei vigneti posti a nord e ad est del Monte Taburno, in località come Torrecuso, Ponte, Paupisi, Fontanavecchia, e negli areali di Guardia e Castelvenere. Il vino che ne deriva si presta a lunghi periodi

Arco di Traiano a Benevento

di invecchiamento in legno e affinamento in bottiglia, ha forte carica fenolica, aromi di prugna matura, more, viole, spezie e tabacco; ha buona presenza di tannini, struttura e alcolicità. Il Piedirosso, soprattutto se vinificato in purezza, si impone al palato dell’intenditore per franchezza e pulizia, per i caratteri straordinari di forza e struttura, morbidezza ed equilibrio. La Falanghina è il vitigno autoctono più diffuso della Campania e lega gran parte

della sua fama alla D.O.C. Sant’Agata de’ Goti. Dà prodotti di pronta beva, di buona acidità, con forte presenza di aromi primari e di frutta matura all’olfatto, armonici ed equilibrati. Non mancano, soprattutto nella zona di Guardia e del Taburno, splendidi esempi di passiti da Falanghina e di vinificazioni in forma tardiva, che sembrano indicare una nuova strada enologica per questo vitigno. Il Coda di Volpe, vitigno rigoglioso e redditizio, se in altre province è considerato il parente povero del Greco o del Fiano, qui invece assurge a ruolo di protagonista assoluto. Al naso ha spiccati sentori di frutta gialla ma è capace di evolvere nel medio periodo; non è solo un prodotto di pronta beva, ma assume anche note di particolare eleganza, è piuttosto fresco, morbido e ben strutturato. Da ricordare anche i vitigni rossi Sciascinoso, Barbera e Sangiovese, i bianchi Fiano, Greco, Malvasia di Candia e Trebbiano, e i vitigni minori della raccolta ampelografica locale, come il Cerreto, il Mangiaguerra, l’Uva Simone, il Sommarello (sinonimo campano dell’Uva di Troia) e il Moscato di Baselice, un raro e prezioso moscato giallo da cui si ricava un vino passito di grande spessore ed eleganza.

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B e n e v e n t o


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I prodotti dell’agroalimentare e le ricette del Casertano Il patrimonio enogastronomico rappresenta una delle maggiori ricchezze della provincia di Caserta.

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all’oro bianco della mozzarella ai gustosi sapori delle ciliegie e delle mele annurche passando per le castagne tempestiva e paccuta di Roccamonfina e Teano, l’olio dell’area caiatina e le pregiate produzioni vinicole. Deliziosi i prodotti di nicchia quali i funghi di Santa Maria a Vico, il tartufo marzolino di Castel Volturno, la rara lenticchia di Valle Agricola, gli asparagi di Pozzovetere, le pescaiole di Vairano Patenora, le nocciole di Talanico. Gli estimatori trovano nei formaggi un’emozionante gamma di sapori ed aromi: dai caciocavallini di San Gregorio Matese al formaggio molle di Ailano, al conciato romano di Castel di Sasso, al cacioforte di Roccaromana, al pecorino di Lauticada.

Crescono in produzione e si affermano in qualità gli oli extravergine, tra i quali spicca il Colline Caiatine Dop, ottenuto dalla cultivar autoctona caiazzana, assieme a Corniola, Frantoina e Leccina. La tavola propone ricette tradizionali di sapiente arte culinaria, proposte da numerosi quanto valenti ristoratori di Terra di Lavoro: abbuoti, pariatella, zuppa di rane e funghi porcini, vellutata di cicerchie, pettole e fagioli, scarpariello, tianiello a base di maialino nero (di cui casertani, senesi, ma anche spagnoli e inglesi si contendono la paternità), stufati e arrosti di bufala o di agnello laticauda, (anch’esso con origini contese tra casertani e beneventani, ma che probabilmente risale a razze magrebine), stoccafisso

e baccalà, e, dulcis in fundo, scauratielli, roccobabà di Casal di Principe, pigna o la polacca aversana. Un patrimonio gastronomico di elevato valore socioeconomico, che va tutelato nella sua identità consentendone rivisitazioni senza alterarne l’attendibilità storico-culturale. Con questo intento la delegazione Fisar di Caserta, sempre attenta a quanto di innovativo e prestigioso emerge dal territorio in termini di qualità enogastronomica, è partner esclusivo dell’iniziativa “Del Simposio e del Convivio: la cucina storica da Federico II ai Borbone”®, originale quanto interessante progetto del professor Andrea Buondonno, ordinario di Pedologia presso la Seconda Università degli Studi di Napoli. Obiettivo è la ricostruzione, rigorosamente

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documentata, della cucina storica dell’Italia meridionale, unendo il piacere della degustazione a quello della cultura sociale. Primi a cimentarsi su questo arduo ma gratificante mandato sono la prestigiosa Antica Hostaria Massa di Caserta, gestita dal patron Michele Della Rocca con la brigata dello chef Rosario Gala, e l’emergente Nobel di Aversa, con i patron Federico Falco e Carlo Emini e la brigata del giovanissimo chef Aniello Turco, ma già pervengono numerose altre richieste di partecipazione. Il breve accenno alle eccellenze di Terra di lavoro e l’iniziativa intrapresa, vogliono essere, non solo informazione, ma anche un invito a quanti apprezzano cultura ed enogastronomia, ed averli graditi ospiti, commensali e compagni di “cultura” per condividere passioni con chi qui vive e lavora.

Chef Rosario Gala

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Caserta: il turismo oltre la Reggia La Reggia vanvitelliana rappresenta da sempre il principale attrattore turistico della provincia di Caserta oltre che uno dei monumenti più visitati in Campania. Le maestose architetture del Vanvitelli, la suggestione dei giardini e delle fontane, la sontuosità delle sale di rappresentanza e ricevimento, ricche di preziose decorazioni e arazzi, e la varietà di stucchi, ori e marmi della Cappella

Palatina e del Teatro di Corte hanno già incantato milioni di visitatori provenienti da tutto il mondo. Ma chi arriva in città non può non concedersi una passeggiata tra i vicoli dello storico borgo medioevale di Casertavecchia. Un luogo affascinante e pittoresco che sembra custodire la memoria di un’antica civiltà mai del tutto scomparsa. La Cattedrale, frutto di diversi linguaggi artistici, la chiesa dell’Annunziata in pieno stile gotico, i ruderi del Castello e l’eremo di San Vitaliano sono

Federico Falco e Aniello Turco

Chef Aniello Turco con la sua brigata

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Belvedere di San Leucio

solo alcuni dei siti di grande valore storico-artistico che possono essere ammirati passeggiando tra le stradine del borgo. Chi invece volesse rivivere i fasti dell’antica colonia ferdinandea di San Leucio con le rinomate fabbriche di seta e broccati famosi in tutto il mondo, non può lasciarsi scappare l’occasione di visitare il Real Belvedere di San Leucio, sede del Museo della Seta, che conserva alcuni macchinari originali, ancora funzionanti, per la lavorazione di questo prodotto. Al trittico Reggia-BelvedereCasertavecchia si aggiungono poi percorsi nuovi, atti a valorizzare il prezioso patrimonio storico-artistico di cui è notoriamente ricca Terra di Lavoro. È il caso dell’antica basilica benedettina di Sant’Angelo in Formis, famosa per i suoi affreschi bizantini, che, per la loro integrità, compattezza del programma iconografico e qualità formale, rappresentano il più importante ciclo pittorico dell’XI secolo in Italia. Discorso analogo per il sito di Carditello, noto ai più come residenza di caccia dei Borbone, che oggi ospita il museo della civiltà contadina.

E ancora, l’Anfiteatro di epoca romana di Santa Maria Capua Vetere, secondo per dimensioni soltanto al Colosseo, le chiese barocche di Marcianise, il Museo Campano di Capua e quello Diocesano di Aversa, che contiene argenti sacri risalenti al Seicento e al Settecento. Ma anche i sepolcri e i mausolei di Alife, dove sono custodite le reliquie di Papa Sisto I, patrono della città. Un patrimonio di inestimabile valore che attende soltanto di essere ammirato e al quale guarda con estremo interesse la Soprintendenza per i Beni Architettonici: «Lo sviluppo turistico del territorio casertano – spiega in merito la soprintendente Paola Raffaella David – deve passare attraverso la creazione di un vero e proprio sistema ed una gestione più efficace delle risorse disponibili. Occorre un nuovo modello di governance che si basi sul concetto di cooperazione tra i maggiori responsabili e beneficiari del turismo; non solo organismi istituzionali, dunque, ma anche operatori del settore e, più in generale, la stessa comunità locale nell’ottica di una logica di partenariato istituzionale, economico e sociale».

Tutto il mondo del vino passa da qui. La più antica delimitazione della Capuania – Campania Felix è circoscritta proprio alla città di Capua, ai municipia confinanti e all’ager falernus. E questo resterà il centro nevralgico anche quando la fertile campagna assumerà il nome di Terra Laboris. Il Falerno è in assoluto il vino più famoso dell’antichità. Il vino preferito dagli imperatori fu anche la prima doc del mondo perché si identificava, allora come oggi, con lo stesso territorio di produzione, l’area che si estende tutt’intorno al monte Massico. La diversità dei terreni, tra la costa e le colline più interne, fa sì che anche i vitigni usati per produrre il Falerno rosso, in base ai disciplinari, siano completamente diversi. Regina Viarum è l'azienda che con il suo Falerno del Marsico Primitivo doc eleva in assoluto questo prodotto. A Mondragone, località di mare, o a Falciano, dove i terreni sono più sabbiosi, si usa il

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La storia del vino è passata da qui

La Soprintendente Paola Raffaella David

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vitigno Primitivo, che dà vini fruttati, morbidi e potenti. Nelle colline interne, dal terreno argilloso e pietroso, il Falerno viene prodotto a base di Aglianico, che conferisce al vino longevità, tannicità e aromi complessi. Nella produzione del Falerno bianco, la fresca e fragrante Falanghina mette tutti d’accordo. Ma la perla enologica, esclusiva assoluta dell’autoctonia casertana, è rappresentata dall’Asprinio, vitigno principe della doc Aversa che vede nell'Azienda Cantine Caputo di Mario e Nicola Caputo la sua eccellenza. Con l’Asprinio dobbiamo andare con la mente alla notte dei tempi, agli albori della viticoltura, quando proprio qui si incontrarono, di certo casualmente, due popoli e due culture viticole opposte. Da un lato, in rapida ascesa dall’Enotria si cominciava a trasmettere l’abitudine greca di fissare la vite ad un tutore, saldamente infisso nel terreno; proveniente dal Lazio e dalla Maremma, invece, s’era diffusa la pratica etrusca di adagiare le viti alle piante ed

agli alberi da frutto. Vestigia della viticoltura etrusca, il sistema dell’Alberata Aversana, tuttora in uso e considerato patrimonio mondiale della viticoltura, è realizzato appoggiando le viti a mo’ di festoni ai fusti dei pioppi, alti anche dodici metri. Dalla vite, così “maritata” agli alberi, dopo faticose vendemmie, effettuate a mano e su lunghe scale a pioli, si ottiene un bianco dalla freschezza non comune e dal residuo zuccherino bassissimo: l’ideale, soprattutto se spumante, per accompagnare la mozzarella di bufala. Il Galluccio doc è prodotto nell’area più settentrionale della provincia, a ridosso con il Lazio. Qui i vitigni, Aglianico e Falanghina, assumono connotazioni fortemente calde e minerali in virtù del suolo, un dolce susseguirsi di fertili colline di origine vulcanica, culminanti nel cratere spento di Roccamonfina. Con lo stesso nome, nel più ampio areale Igt Roccamonfina è possibile utilizzare anche altri vitigni, come il Greco, il Fiano, il

Coda di Volpe e lo Sciascinoso, che danno vini carichi di estratto, profumati ed eleganti. Nell’ambito della Igt Terre del Volturno meritano attenzione particolare, infine, i vitigni Pallagrello e Casavecchia, coltivati nei vigneti circostanti le Colline Caiatine. Si tratta di vitigni che venivano annoverati, fino a qualche tempo fa, fra i cd. “minori” ma che oggi, ricostruita la matrice storica che li riconduce ai superbi vini della Vigna del Ventaglio dei Borbone, danno risultati a dir poco sorprendenti. Il Pallagrello bianco si presta a lavorazioni in legno e dà un vino di buon corpo, con aromi di vaniglia e frutta tropicale, dal gusto morbido e complesso. Il Pallagrello nero ed il Casavecchia, diversi morfologicamente e per comportamento in vigna, si somigliano di più per capacità di maturazione in legno e per talune note organolettiche, le tante sfumature di frutta di bosco, funghi e muschio, il gusto pieno e decisamente tannico.

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el segno dell’innovazione nella tradizione ecco l’azienda agricola Bianchetti Rossetti. All’inizio dell’Ottocento la famiglia Bianchini già produceva vino sulla collina di San Paolo a Casale di Carinola, piccolo paesino del Casertano nell’epicentro dell’Ager Falernus. Tanti anni sono passati e l’imperativo, ad un certo punto, è stato quello di recuperare l’azienda di famiglia condotta da Antonio Rossetti e dallo

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zio Fracesco Bianchini con l’intendo di portare in distribuzione un vino già conosciuto e molto apprezzato nel territorio “il vino di Don Franchino”. Il 2005 segna l’inizio di quest’avventura, dopo il rinnovo delle vigne tre ettari Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4

in tutto, vengono prodotte in piccoli numeri le prime bottiglie di Falerno. Scopo primario dell’azienda è quello di continuare a produrre vini dal forte carattere varietale che rispecchiano a pieno le caratteristiche del primo vino al mondo identificato con un luogo di produzione, il Falerno ed il suo Ager. Due sono le eccellenze: Mille880 Falerno del Massico DOC Rosso e Saulo Falerno del Massico Riserva DOC Rosso.



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Degustando: 10 vini al TOP

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Campania del vino in grande salute, rossi sugli scudi.

È

quanto emerge dal responso del panel di esperti che nella splendida cornice del settecentesco Palazzo Lanza a Capua, il 15 maggio scorso, ha indicato, al termine di una degustazione “alla cieca”, tra circa 150 bottiglie suddivise per tipologia, i migliori vini di ogni provincia. Riportiamo qui di

Provincia di Napoli Campi Flegrei Falanghina Doc ’08 “Coste di Cuma” Azienda Grotta del Sole Cosa non si è detto di questo vino e dell’azienda che lo produce, guidata dalla famiglia Martusciello, con in testa Elena, gran donna del vino... Dai profumi di pesca e di frutta esotica, nuances floreali e di vaniglia, morbido e suadente, caldo e avvolgente al palato. Lacryma Christi Doc ’09 rosso - Azienda De Falco La quintessenza del Piedirosso verace del Vesuvio, semplice e profumato, sincero e lineare in tutti i suoi aspetti, per il suo corredo aromatico minerale, dall’inconfondibile velo di fumo che l’accompagna. Gustoso, mai invadente, affidabile e generoso compagno delle pietanze vesuviane.

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seguito i vini prescelti dal gruppo di degustatori, tra cui va annoverata la presenza degli enologi Sergio Romano, Gianluca Tommaselli e Sergio Pappalardo e dei giornalisti di settore Antonella Petitti, Maurizio Paolillo e Vincenzo D’Antonio. Le note descrittive che accompagnano i vini sono state redatte da Ugo Baldassarre.

Provincia di Benevento Taburno Falanghina Doc ’09 - Azienda Cantina del Taburno Versione classica della Falanghina coltivata nei generosi vigneti ai piedi del massiccio. L’uso del solo acciaio e la perfetta maturazione delle uve, rispetto alle altre versioni più spinte prodotte dalla stessa cantina, ne esaltano freschezza e sincerità del frutto, favorendone beva e abbinamenti di tutto pasto. Aglianico del Taburno Doc “Vigna Cataratte” ris. ’06 Azienda Fontanavecchia Potenza e longevità del vitigno consentono un lunghissimo affinamento in legno, fino ai due anni. Con Vigna Cataratte l’aglianico si esalta e riesce a

dare il meglio di sé, offre un esempio di come, con il tempo e la sapienza dell’uomo, i profumi varietali possano restare integri e, senza esser sopraffatti, arricchirsi di sensazioni olfattive speciali: aroma di caffè tostato, tabacco, cuoio e radice di liquirizia. Alla bocca, la trama è spessa e il tannino ben distribuito, nel finale caldo persistono a lungo i sapori del frutto e delle spezie. Provincia di Avellino Greco di Tufo Docg ’09 Azienda Di Marzo L’azienda “è” la storia stessa del vitigno greco dal grappolo gemello, l’aminea gemina. Qui, a Tufo, la famiglia Di Marzo nel 1827 cominciò a coltivare il Greco proprio accanto alle miniere estrattive di zolfo, che essa stessa conduceva. Il

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10 vini al TOP

Provincia di Caserta Falerno del Massico Doc bianco ’09 – Azienda Moio Paese che vai, Falanghina che trovi. Il Falerno di Michele Moio, azienda caposaldo della storia della viticoltura in Campania, è tra i più compiti ed eleganti. L’aspetto olfattivo è fresco e fragrante, completato da aromi di frutta matura esotica e fiori gialli di campo. Alla degustazione presenta buona acidità e gran movimento di bocca, è giustamente caldo, in equilibrio perfetto. Falerno del Massico Doc rosso “Campantuono” ’06 Azienda Papa Primitivo, forza della natura... Aromi di frutta sotto spirito,

Provincia di Salerno Paestum Igt bianco ’07 “Pietraincatenata” Azienda Luigi Maffini Che il Fiano nel Cilento offra prodotti d’eccezione è cosa nota. Ma questo cru di Luigi Maffini va anche oltre l’eccezione, è assolutamente un pezzo unico. “Pietraincatenata” guarda al futuro del vino bianco: fermentato in barriques, prosegue il suo affinamento per almeno 8 mesi negli stessi piccoli legni. I profumi che si sprigionano dal bicchiere ricordano l’albicocca matura, il fico bianco, il dattero maturo. Alla bocca struttura e spalla acida ancora sorreggono la nota alcolica, decisa e suadente nel finale. Colli di Salerno Igt rosso ’07 “Montevetrano” Azienda Montevetrano Tra i più noti vini campani, è un capolavoro della moderna scienza enologica. Il colore è

rubino scuro con intensa unghia violacea; il bouquet è ampio e complesso, con profumi di mora e carrubo, fave di cacao, pepe e spezie d’oriente. Non è un gioco di parole definirlo indifferentemente come “il più internazionale tra i campani o il più campano tra gli internazionali”, giacché la mirabile combinazione di cabernet, merlot e aglianico al gusto si traduce in un connubio eccezionale tra freschezza e morbidezza, note minerali e morbidi tannini, eleganza, equilibrio ed armonia di tutte le componenti.

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Taurasi Docg ’05 “Nero Nè” Azienda Il Cancelliere Da produzione biologica, questo vino, dal colore vermiglio quasi impenetrabile, al naso è il paradigma del Taurasi, con sentori netti di prugna matura, viola e tabacco, tutti molto persistenti. La bocca è piena e carnosa, con ogni elemento in perfetto equilibrio. Grande armonia e gran bella beva: nel finale la fanno da padroni il tannino, ben presente ma rotondo e quasi setoso, e la spiccata acidità.

uniti ad odori di sottobosco, muschio e felci caratterizzano questo Primitivo in purezza, dal colore rubino straordinariamente carico. Ma il compito arduo, un piccolo miracolo per chi lavori questa materia, importata dalla Puglia già dall’Ottocento, è quello di riuscirne a salvare, tra l’infinita gamma di spunti caldi e morbidi, anche le cuspidi di acidità e tannini. Con questo Falerno, Papa riesce a fare tutto ciò in maniera davvero esemplare.

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“vino dello zolfo” ha profumi di agrumi, di fiori e di mandorle fresche, appena sgusciate. Freschezza a non finire, acidità non comune: questo il dato caratterizzante della beva, che ne fa il migliore compagno di ostriche frutti di mare.

Merita un cenno a parte un vino che segna la storia della Campania vitivinicola: il Taurasi docg “Radici” di Mastroberardino, degustato dal panel nella sua versione Riserva dell’eccezionale annata 1999. Il colore è rubino scarico, tendente al granato, con unghia leggermente aranciata. È perfettamente limpido, persino luminoso. Al naso è fine ed elegante, dalle infinite nuances fruttate e floreali, spezie orientali, note balsamiche, vaniglia, cuoio, grafite. Alla bocca l’animo dell’aglianico si mostra giovane ed in ottima salute: il tessuto fitto e succoso e l’acidità sostenuta fanno pensare ad un futuro ancora molto lungo. Il finale, caldo e avvolgente, è ricco di sensazioni retrolfattive, di grande persistenza; i tannini, seppur setosi, scoppiettano ancora per l’allegria della beva.

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Un protagonista del gusto: Gennaro Esposito di Pino Imperatore

Il mio piatto preferito? Non ce n’è uno in particolare, ma ogni piatto in cui mi riconosco, in cui sento che riesco a far percepire il passaggio di civiltà. La cucina è un terreno di confronto, di osmosi, di recupero delle culture. Le emozioni, le ispirazioni più significative provengono dal confronto delle esperienze.

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ualcuno ha detto che l’estro in cucina consiste nel vedere in maniera diversa qualcosa che da sempre è sotto gli occhi di tutti. Questa ed altre intuizioni, come il riuscire a cogliere anche nella tradizione ogni arcano, rimodellando i tramandamenti

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più statici per renderli nuovamente attuali o come, invece, interpretare il futuro come una possibile variante di esperienze già vissute, rappresentano i segreti della genialità di Gennaro Esposito. Ed è proprio da qui, dal rapporto tra il passato

e il presente, che iniziamo la nostra chiacchierata con lo chef. Tradizione e innovazione: che rilevanza hanno nella tua cucina? Non esiste, in termini percentuali, un’importanza maggiore dell’una o dell’altra. Il rispetto per il passato non deve ostacolarne un’interpretazione intelligente. Il passato è un punto fermo, attorno al quale è però giusto e possibile costruire delle varianti. Il valore della tradizione sta proprio nel poterne trarre insegnamenti a beneficio del presente, e le nuove conoscenze e le nuove tecnologie servono, a loro volta, a migliorare e a rendere attuali le esperienze del passato. Per altri versi, va considerato

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PRESENTA Le tenute di Terredora Di Paolo Soc. Semplice Agricola, si estendono per circa 185 ettari in proprietà, tutte in provincia di Avellino, di cui oggi circa 170 ettari a vigneto specializzato, in un susseguirsi di colline e valli meravigliosamente ricche di vigneti, che promettono una sublime ricompensa a chi ha dedicato la sua vita all’arte del “fare vino”. Una scelta che in Campania vede protagonisti indiscussi Walter Mastroberardino, sua moglie Dora Di Paolo ed i suoi tre figli Paolo, Lucio e Daniela. L’azienda agricola Terredora sorge a Montefusco, nel cuore dell’Irpinia, in una terra favorita da condizioni climatiche ottimali, che consentono la produzione di vini dai profumi e dal gusto inconfondibili. La magnificenza della natura, in questo territorio, regala ogni anno il piacere di grande doni, che si esprimono attraverso i bei grappoli delle millenarie uve autoctone, a cui vanno ad aggiungersi le più moderne e scrupolose tecniche di allevamento che valorizzano questi gioielli unici e particolarissimi. Una felice intuizione quella di voler ripristinare vitigni esistenti da tempo immemorabile sui territori irpini, avuta da Walter Mastroberardino, che va ad aggiungere un plus valore di qualità ai vini già eccellenti. Queste numerose e specifiche caratteristiche hanno permesso all’azienda Terredora di creare vini premiati in tutto il mondo, sia DOCG che DOC, come il Fiano di Avellino, il Greco di Tufo, il Taurasi, l’Aglianico e la Falanghina d’Irpinia, il Rosae Novae rosato d’Irpinia, il Lacryma Christi del Vesuvio sia bianco che rosso. Dopo vari riconoscimenti nazionali ed internazionali ecco arrivare il riconoscimento forse più ambito: per il terzo anno consecutivo, infatti, Wine Spectator ha riconosciuto a questa realtà l’onore di rappresentare l’Italia enologica dei vini bianchi nel mondo, inserendo la Falanghina d’Irpinia DOC vendemmia 2007 tra i migliori 100 Top del mondo, così come aveva già fatto nel 2006 con la vendemmia 2005, e nel 2007 con l’altro campione di casa, il Greco di Tufo crù Loggia della Serra DOCG vendemmia 2006. Ma la crescita di Terredora sui mercati non si ferma ai soli vini bianchi: infatti anche quest’anno ha ricevuto per i suoi vini rossi una lunga serie di riconoscimenti nazionali e internazionali. Sottolineamo il fatto che se ci sono delle regole queste vanno rispettate, e se rispettandole si ottengono prodotti di alta qualità,

la nostra fatica è sicuramente ripagata anche dal mercato. Questa è la mission di Terredora, che alla “Fatica Contadina” ha dedicato e realizzato un crù del suo vino più longevo, ossia il TAURASI DOCG, oggi disponibile il crù Fatica Contadina vendemmia 2003, insieme al crù Taurasi Campore DOCG vendemmia 2003. Merita attenzione anche l’ultimo nato, il Taurasi crù Pago dei Fusi DOCG vendemmia 2003, che appena presentato ai mercati ha ricevuto grande successo e ha concentrato tanta attenzione sia per la maestosità e l’eleganza che questo nobile vitigno, l’aglianico, sa dare ai suoi figli (i vini), sia per la grande morbidezza e finezza che sa esprimere. Infatti, oltre alla naturalità, alla grande qualità, alla ricerca e all’amore per il proprio lavoro, ecco allora che, se oltre alle regole c’è la passione, l’ Azienda Terredora è un esempio di questa alta qualità. Aglianico d’Irpinia Il Principio DOC 2005

Rosae Novae Rosato d’Irpinia DOC 2007

Aglianico Campania IGT 2007

Terredora di Paolo S.S.A. Via Serra, snc - 83030 Montefusco (AV) Tel. +39 0825 968215 - Fax +39 0825 963022 www.terredora.com - info@terredora.com

Taurasi crù Fatica Contadina DOCG 2003

TERREDORA CONSIGLIA Il Timo Gourmet C/o Sheraton Catania Hotel Via Antonello da Messina, 45 95020 Cannizzaro (CT) Tel. 095-7114111 - www.sheratoncatania.com

Per festeggiare i 25 anni di attività, lo Sheraton Catania ha di recente inaugurato, in un’atmosfera cool e rilassante allo stesso tempo, un ristorante dedicato esclusivamente a coccolare la clientela individuale: Il Timo Gourmet.

Saverio Piazza, executive chef dello Sheraton Catania dal 2001, ha creato due diverse linee di menu: Light & Quick, piatti semplici e veloci per la clientela commerciale che combatte contro il tempo e La grande carte, che comprende le sperimentazioni di tutto il gruppo di lavoro della cucina. Alcune delle follie: La Tavolozza del gusto, un percorso armonico tra i sensi, pennellate di diverse essenze che, abbinate al vino, preparano il palato ad accogliere le creazioni di un uomo che ha restituito i rebbi alla forchetta. Il menu viceversa, ideato per chi, quando si siede a tavola, sa quale vino bere, ma rimane perplesso all’idea di abbinarlo a piatti non conosciuti. Il cliente sceglie quindi il vino ed il numero di portate, segnalando al maître eventuali intolleranze o pietanze non gradite e allo Chef è lasciata la responsabilità di selezionare il menu.

Corona di rigatoni ripieni al ragù d’oca con foie gras e pepe dolce Ricetta per 4 persone:

Per il pepe dolce: gr. 20 di pepe nero in grani tostato, gr. 50 di zucchero di canna Fate un caramello con lo zucchero di canna, unitevi i grani di pepe nero, stendete su un tappetino di silcone e fate raffreddare. Ragù per il ripieno: gr. 300 di rigatoni (preferibilmente Cavaliere Cocco), gr. 300 di polpa d’oca tritata, gr. 150 di brunoise di carote e cipolla, un bicchiere di vino bianco, un cucchiaio di marsala, una foglia d’alloro, brodo d’oca, olio, sale. Fate appassire la brunoise con l’olio e l’alloro; aggiungetevi l’oca facendo cuocere a fuoco vivo per 5 min. circa. Quindi, sfumate con vino bianco e marsala; allungate con del brodo, aggiustate di sale e lasciate cuocere per 30 min. circa. Spegnete e lasciate raffreddare. Riempite i rigatoni, che avete precedentemente cotto al dente, con il ragù utilizzando una tasca da pasticcere. Per finire: gr. 100 di speck tagliato a fettine sottilissime, gr. 50 di paté di foie gras, gr. 50 di grana grattugiato, gr. 30 di burro per imburrare gli stampi. Dividete i rigatoni in gruppi da 10/15, metteteli in piedi e bardateli con lo speck. Imburrate degli anelli da forno apribili e ponetevi dentro i rigatoni; spolverate con il grana. Portate il forno alla temperatura di 180° ed infornate per 10 min.Riscaldate il ragù rimasto, distribuitelo sul piatto e adagiatevi lo sformato; completate con dei fiocchetti di foie gras ed una grattata di pepe dolce. Il vino da abbinare a questo piatto è il Principio Aglianico d’Irpinia Doc.


Campania speciale

che la cucina, da sempre,

Il tuo piatto preferito?

in

si collega necessariamente

Non ce n’è uno in particolare,

rappresenta l’unica certezza

al tipo di vita e alle esigenze

ma ogni piatto in cui mi

di continuità del lavoro ed è

della società in cui si inserisce:

riconosco, in cui sento che

quindi

così molti piatti poveri, che

riesco

il

a chiacchierare con lui, per

in

scaturivano

passaggio di civiltà. La cucina

ricevere le sue impressioni, per

difficoltà

è un terreno di confronto,

avere conferme o smentite. Da

economiche del momento,

di osmosi, di recupero delle

questo punto di vista, credo

non trovano riscontro nei fatti

culture.

le

che il cuoco sia un “artigiano

e nelle esigenze attuali. Anche

ispirazioni

significative

dal punto di vista tecnico, le

provengono

privilegiato”, perché è uno dei

nuove

hanno

delle esperienze. Ad esempio

fornito importanti certezze sul

in Brasile, a Salvador de Bahia,

rapporto tra cucina, alimenti

ho potuto provare pietanze

e qualità. Se cento anni fa

che

avessi chiesto ad un cuoco

mélange delle colonizzazioni di

perché rosolasse l’arrosto, mi

quel popolo, con interferenze

avrebbe sicuramente risposto:

europee,

“Perché si fa così.

della religione e della cultura.

passato

dalle

particolari

conoscenze

a

far

Le

percepire

emozioni,

più dal

confronto

rappresentano

africane,

Inconsapevolmente

un

aspetti anche

Due grandi maestri, Vissani

noi facciamo tutto questo,

e Ducasse: da chi hai avuto

mettiamo anche noi nel piatto

di più? Un solo nome,

la nostra cultura. La cucina è

prego...

davvero un universo infinito. mio

cliente

fermarsi

pochi che può interloquire sempre con l’utente finale. Nel tuo ristorante hai una gran cura dei vini. Come avviene la scelta? Non avviene su carta, ma attraverso una “summa” di esperienze fatte in giro per il mondo oppure, a volte, grazie alle tavole di colleghi che ti fanno scoprire le “perle” del loro territorio. Una delle regole di qualità è che il cibo sposi il

percorso

Parlaci del tuo rapporto con

formativo, e ognuno dei due

il cliente. Quanto contano le

è stato fondamentale per la

opinioni del consumatore?

mia crescita. Entrambi hanno

Il cliente è al centro del nostro

stimolato in me il senso di

mondo. Quando pensiamo

responsabilità e mi hanno

ad un nuovo piatto pensiamo

aiutato ad aver fiducia nelle mie

sempre

capacità d’interpretazione. Dal

del cliente, a cosa ne potrà

primo ho appreso l’amore e il

pensare: il nostro non è mai

personalità non comuni, sia

rispetto per le grandi materie

un mestiere autoreferenziato.

per l’origine, in vigna, sia per

prime;

dalle

Si

la sapienza dell’uomo. Oggi la

vissute

con

esperienze

alla

tratta

di

soddisfazione

un

rapporto

vino in modo che i sapori e i profumi dell’uno esaltino quelli dell’altro. E così come nella cucina mi piacciono piatti con “unicità”, non omologati, lo stesso accade per i vini che esprimano un carattere, una

a

Campania ha una produzione

l’importanza

misurare il lavoro di tutti i

d’eccellenza, è all’altezza dei

dell’organizzazione in cucina

giorni. In questo mestiere

più grandi vini del mondo.

e

ogni

sei agli antipodi rispetto ad

I grandi vini italiani sono

dettaglio, anche il più piccolo.

una catena di montaggio,

indubbiamente quelli davitigno

(Ndr: c’era da aspettarselo,

ogni giorno si cambia e ogni

autoctono, come l’Aglianico,

Gennaro un solo nome non ce

giorno hai bisogno di verifiche,

il Nebbiolo, il Montepulciano

lo dà...)

di

d’Abruzzo.

ho

54

del

importante

Il

fondamentali nella ristorazione

Li ho incontrati in momenti diversi

discussione.

appreso l’attenzione

il

secondo

verso

necessario,

misurarti,

che

di

serve

metterti

Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4


speciale

Parlaci del rapporto con i “Giovani Ristoratori” e del confronto con le altre cucine d’Italia e d’Europa. L’adesione all’associazione “Jeunes Restaurateurs d’Europe” mi ha fatto crescere

ben oltre la sfera professionale e mi ha consentito, attraverso il confronto con giovani ristoratori di tutta Europa, di capire che i confini, soprattutto nel nostro campo, non esistono, sono solo un’inutile sovrastruttura mentale. Per quanto riguarda l’Italia, credo che in questo momento abbia una cucina dalla qualità altissima. L’unica sfortuna viene da un passato non lontano, quando il nostro Paese ha avuto cattivi ambasciatori all’estero, per colpa dei quali la nostra cucina è ancora legata nell’immaginario a vecchi stereotipi, all’improvvisazione, alla cucina della nonna. La conferma che questa non è solo una sensazione viene dalle ultime statistiche e dalle guide che mettono ancora ai primi posti i francesi, che in realtà sono solo più bravi nel

fare sistema e a comunicare l’aspetto “qualità”. Ma oggi abbiamo in Italia una nuova generazione di chef, che negli ultimi 15 anni ha lavorato in modo eccezionale. Occorre adesso creare un circuito forte, che coinvolga tutte le professionalità e le istituzioni, nell’ambito del quale si deve rafforzare la comunicazione ed il marketing del territorio.

Campania

Con una proposta gastronomica incentrata soprattutto sulla cucina di mare, come quella de La Torre del Saracino, quali i bianchi preferiti? I più interessanti sono sicuramente il Fiano e il Greco, assieme al Tocai, per sceglierne uno fuori regione. Sono tutti vini che hanno una marcia in più, che parlano del territorio. Ma il mondo del vino ha ancora molto da studiare e da sperimentare, siamo solo all’inizio, soprattutto per vitigni considerati minori, come la Falanghina.

Lo chef Gennaro Esposito

Gennaro Esposito Nome e cognome non lasciano dubbi sull’origine. È nato nel 1970 a Vico Equense, una delle più belle località della Costiera Sorrentina, a pochi chilometri da Napoli. Qui si diploma nel 1988 presso la scuola alberghiera. Ma i primi insegnamenti, come lui stesso ama ricordare, li aveva avuti ancor prima, fin da bambino, osservando con attenzione il lavoro in cucina della madre. Subito dopo la scuola si susseguono esperienze e stage con le più grandi firme della cucina contemporanea. Prima è la volta di Vissani, che oltre a trasmettere al giovane Gennaro il rispetto per le materie prime e la ricerca della qualità, con i suoi insegnamenti ne fortifica un carattere già tenace e orgoglioso. Nel 1992, rientrato in città, assieme alla compagna di sempre, la moglie Vittoria, abilissima pasticciera, apre il ristorante La Torre del Saracino. L’incontro con Alain Ducasse determina l’ascesa del giovane Esposito nel firmamento delle stelle: lavora con il maestro francese nelle cucine del Le Louis XV dell’Hotel de Paris a Montecarlo e del Plaza Athénée di Parigi. Nel 2001 viene la prima stella Michelin, nel 2003 le 3 forchette del Gambero Rosso, nel 2006 La Torre del Saracino è il miglior ristorante campano de “L’Espresso”. Il 2008 è l’anno della seconda stella Michelin.

Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4

55


speciale

Campania

L’oro bianco della Campania di Pino Imperatore

Le aziende che producono mozzarella di bufala campana e che aderiscono al Consorzio sono circa 130. Detto così non sembra un gran numero, ma fa una certa impressione, invece, il volume del prodotto totale: nel 2009 dalle 300mila bufale sono stati ricavati 140 milioni di litri di latte, per una produzione totale che sfiora le 34mila tonnellate, tra mozzarelle e altri derivati.

L

a parola mozzarella viene dal termine “mozzare”, cioè dall’operazione di darle forma nella fase finale della lavorazione, utilizzando indice e pollice. Le prime attestazioni risalgono al XII secolo ed alla zona di Capua, all’uso da parte

dei monaci del monastero di San Lorenzo in Capua di offrire ai pellegrini una “mozza”. Fu in quel periodo che il bufalo, introdotto nel continente dalla Sicilia dai Normanni intorno all’anno 1000 a portare il bufalo, poté finalmente acclimatarsi nel

basso versante tirrenico grazie al formarsi di paludi, habitat ad esso più congeniale. L’area d’origine è quella che oggi viene definita dei mazzoni, dal nome dell’arnese con punta di ferro usato per governare i bufali, e comprende il territorio che va

Mozzatura tirata a mano

56

Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4


speciale

Campania

da Mondragone al Volturno. Il primo allevamento fu creato dai Borboni nella tenuta reale di Carditello, dove insediarono anche il primo caseificio della storia.

Le due mozzarelle Gli orientamenti di gusto e, diciamolo, un po’ anche il sano antagonismo di campanile dei due territori più importanti per la produzione della mozzarella di bufala campana, da una parte l’Agro Aversano e dall’altra la Piana del Sele, col passare degli anni hanno fatto sorgere nell’immaginario comune l’idea dell’esistenza di ben due mozzarelle di bufala, quasi si trattasse di due prodotti diversi. Oggi questa dicotomia non trova altre ragioni se non in piccole sfumature di gusto, tipo callosità e salagione, che sono lievemente più accentuate in quella aversana. È scomparsa anche l’abitudine di indicare quella più grande, da almeno 500 grammi, come “aversana”, giacché questa taglia di prodotto, assieme a quella da 250 grammi, per ragioni pratiche oggi è universalmente la preferita. I più piccoli “bocconcini” e le piccolissime “ciliegine”, da appena 20 grammi di peso, sono più adoperati negli antipasti e a corredo di piatti di portata. Completano la gamma le cd. “trecce”, mozzarelle ottenute, appunto, dall’intreccio di tre strisce di pasta filata che, sfruttando l’effetto del moltiplicarsi delle parti esterne, danno una sensazione di maggior consistenza al gusto.

Un Consorzio, tante garanzie In ogni caso, una “reductio ad unum” della bifronte mozzarella avviene anche ad opera del Consorzio di Tutela della Mozzarella di Bufala Campana, che sin dal 1996 è l’organo deputato a difenderne il prestigioso riconoscimento europeo, il marchio DOP, denominazione di origine protetta. Lo slogan adottato dal Consorzio di Tutela della Mozzarella di Bufala Campana recita: “un assaggio vale più di mille parole”, e mai vi fu espressione più azzeccata per porre in evidenza quanto sia importante, addirittura imprescindibile, degustare personalmente, almeno una volta nella vita, la mozzarella di bufala: solo così si può avere un’idea di cosa sia esattamente questo capolavoro alimentare, perla del patrimonio nazionale. E, effettivamente, per quanti aggettivi si possano sprecare quando si parla di mozzarella, non esistono, non sono ancora stati coniati termini adeguati a

descrivere l’oro bianco della Campania. Come distinguere, allora, questa delizia del palato dagli innumerevoli prodotti concorrenti, spacciati anch’essi per mozzarella di “bufala”? Èsemplice, basta prestare attenzione all’aggettivo che completa il marchio DOP: la parola campana, aggiunta all’espressione mozzarella di bufala, è l’unica garanzia che il prodotto sia stato realizzato esclusivamente con latte di bufala. Diffidiamo, quindi, di qualsiasi altra mozzarella di bufala, che non sia campana DOP, perchè conterrà anche del latte vaccino. La prima garanzia sta nel simbolo del Consorzio, che può essere apposto sull’involucro della mozzarella solo dopo meticolosi controlli preventivi, sugli animali negli allevamenti e sul latte prodotto, e a seguito delle certificazioni di un istituto terzo, il CSQA di Thiéne (VC). Il numero di incarti/marchi rilasciati è tarato sulla produzione prevista o sulla quantità di latte prodotto, tenendo conto che occorrono quattro litri di

Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4

57


Campania speciale

latte per produrre un chilo di mozzarella di bufala. Ai controlli preventivi si aggiungono quelli effettuati successivamente dal Consorzio stesso che verifica, prelevando campioni già in commercio, l’utilizzo esclusivo di latte bufalino e riscontra i parametri percentuali di grasso e umidità.

La promozione, la formazione Davvero frenetica l’attività del Consorzio che, ad esempio, al recente Cibus di Parma ha portato ben 18 caseifici, e che, soprattutto, nel partecipare a tutte le maggiori fiere di settore internazionali, come il Sial di Parigi, il Nuga di Colonia o Alimentaria di Barcellona, ha sperimentato con successo un’efficace formula innovativa. Si tratta della promozione in associazione con gli altri maggiori Consorzi di Tutela, come Asiago, Parmigiano, Pecorino Romano ecc, in una sigla unica, “I Formaggi d’Italia”, una compartecipazione che rafforza notevolmente l’immagine dei prodotti alimentari di qualità del made in Italy. Sempre assieme a quei Consorzi si svolgono le cd. “giornate professionali del formaggio”, con sessioni di formazione destinate a tutti gli operatori del settore quali ristoratori, addetti al banco di

sono circa 130. Detto così non sembra un gran numero, ma fa una certa impressione, invece, il volume del prodotto totale: nel 2009 dalle 300mila bufale sono stati ricavati 140 milioni di litri di latte, per una produzione totale che sfiora le 34mila tonnellate, tra mozzarelle e altri derivati. Questi numeri fanno attestare, nel panorama nazionale, la mozzarella al quarto posto assoluto tra i prodotti a marchio DOP, subito dopo grana padano, parmigiano e gorgonzola, con un fatturato annuo superiore ai 300 milioni di euro. Circa la ripartizione “territoriale”, il primato spetta alla provincia di Caserta, con circa il 55% della produzione; Salerno produce poco più di un terzo del volume totale e il restante prodotto, circa il 10%, è opera dei caseifici del basso Lazio.

verrà. Nelle terre di Don Peppe

salumerie e di gastronomie.

Il caseificio più importante

di

I numeri Le aziende che producono mozzarella di bufala campana e che aderiscono al Consorzio

58

La mozzarella più buona? Gennaro Testa, responsabile Promozione del Consorzio, non ha dubbi: «Quella che

Diana, il parroco anticamorra assassinato in chiesa sedici anni fa, sta per avere attuazione La Mozzarella della Legalità, un’esemplare

iniziativa

di

Libera – Associazione contro le mafie. Anche il Consorzio sta collaborando a questo progetto, che prevede la creazione di una cooperativa di persone in condizione di svantaggio sociale, destinata all’allevamento bufalino ed alla produzione di mozzarella di bufala. Realizzata proprio sui terreni confiscati alla camorra nel casertano, a breve nascerà una struttura modello, una fattoria didattica dai criteri produttivi biologici,

scrupolosamente energie

alternative,

pannelli fotovoltaici ecc., per promuovere

la

tradizione

e i mestieri legati alla filiera della Sarà

mozzarella sostenibilità questa

in

chiave

ambientale. la

mozzarella

più buona del mondo, per il suo inconfondibile gusto ma soprattutto per il suo sapore di libertà e giustizia».

Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4



Campania

Napoli, gastronomia e prodotti

speciale

A tavola non si può cominciare se non dalla pizza napoletana.

I

l piatto partenopeo per antonomasia, che oggi può fregiarsi del riconoscimento europeo di STG – Specialità Tradizionale Garantita, è solo quello artigianale, con cottura in forno a legna ed ingredienti d’eccellenza, come mozzarella di bufala, olio extra vergine e pomodori San Marzano. Ma il re dei piatti, il più conosciuto e più celebrato, il protagonista delle domeniche, è il ragù. Essenziali, per un buon ragù, il cui sugo viene servito rigorosamente su paccheri, candele o ziti spezzati, sono la scelta di carni e ingredienti e la lunghissima cottura, fino ad

Monte Somma e Vesuvio

60

otto ore. Nonostante il nome, ha origini squisitamente locali la genovese, piatto a base di carne, cipolle, carote, sedano e aromi, giunto da Genova nel Cinquecento grazie agli osti del porto che ne carpirono la ricetta ai marinai genovesi. La parmigiana, altro piatto autoctono a dispetto del nome, è quasi un piatto unico, con le melanzane che, dapprima fritte, dopo essere farcite con mozzarella, pomodoro e basilico, vengono ricoperte da sugo e parmigiano ed infornate. In periodo freddo-natalizio, invece, a Napoli e in provincia si cucina la menesta maritata,

un insieme di verdure selezionate – cappuccia, borragine, scarola, scarolella, torzelle – che, assieme ad erbe e spezie, vengono “maritate”, cucinate lentamente assieme a carni diverse. Dalla storpiatura di parole francesi derivano i nomi di altre due pietanze napoletane: il gattò di patate e il sartù di riso. Il gattò/ gateau è un impasto di patate con latte, burro e uova, cui si uniscono pezzi di salame e mozzarella; prima di infornare e di ricoprire con pan grattato, si completa la preparazione con pepe sale parmigiano e uova sode. I segreti del sartù furono “scippati” ai cuochi

La Grotta Azzurra di Capri

Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4

Ad Ischia la monorotaia sul Monte Epomeo



Campania speciale 62

francesi, i monsù di Palazzo Reale. Il popolo imparò ad apprezzare il riso, considerato altrimenti un alimento per “sciacquabudella”, arricchendolo di carni e spezie, fegato, salsicce, piselli, cipolle e parmigiano. Il piatto tipico di Capri è il raviolo caprese, con sfoglia fresca, ripieno di caciotta e uova, condito con pomodoro fresco e basilico. Ad Ischia, i segreti del superbo coniglio di fossa derivano anche dallo stato semibrado con cui viene allevato: le colonie vengono introdotte in buche profonde più di metri e nutrite con erbe spontanee e mangimi naturali. Su tutte le pietanze della cucina “di mare” spicca la zuppa di pesce, in cui non deve mai mancare lo “scorfano” e il “coccio”, cucinata col pomodorino del piennolo, aglio peperoncino e vino bianco. Altra pietanza marinara è il polpo affogato, cucinato a fuoco lento e rigorosamente nel tegame di terracotta, senza mai aprire il coperchio durante la cottura. E poi, le zeppole di alghe e i cicenielli, piccoli pesci fritti in pastella. Universalmente celebri le specialità della pasticceria napoletana,

Napoli

come la sfogliatella o il babà, diventato col tempo sinonimo di delizia nel vocabolario della lingua italiana. La pastiera, a base di ricotta fresca, canditi e grano cotto, è il dolce tipico della tradizione pasquale; struffoli e roccocò completano invece il pranzo natalizio.

La fertile campagna della provincia offre ogni dovizia di doni. I pomodorini del piennolo del Vesuvio, colti immaturi, vengono infilati l’un l’altro nel “piennolo” e messi a maturare fino ad autunno inoltrato. Sul Vesuvio si produce un delizioso liquore, il nocillo, e si coltivano ben nove varietà di albicocche. I limoni

dell’isola di Procida sono carnosi e buoni anche da mangiare; da quelli IGP di Sorrento si ricava anche il famoso limoncello. Prodotti rari e preziosi sono il cipollotto nocerino, le fave di Miliscola e le cicerchie dei Campi Flegrei. Tra le produzioni alimentari, godono di fama nazionale il provolone del Monaco DOP ed il salame di Napoli IGP, spesso affiancati nel piatto al fiordilatte di Agerola. Nella provincia di Napoli, a Gragnano, si produce anche la pasta artigianale, da tutti considerata la più buona al mondo. Da ricordare, tra le

Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4 Pasta con il ragù


speciale

meraviglie del pescato del Golfo, il pesce azzurro del Golfo di Pozzuoli.

Storia e mondanità “Vedi Napoli e poi muori”. In questa frase di Goëthe è insito un suggerimento importantissimo: occorre, almeno una volta nella vita, recarsi in visita nella città

di Partenope, per provare sensazioni indimenticabili. La leggenda vuole che Napoli sia sorta con la sirena Partenope, che dopo aver tentato invano Ulisse, sfinita approdò sull’isolotto di Megaride, su cui oggi sorge il Castel dell’Ovo, costruito sui resti di una villa di Lucullo del I secolo a.C. e ristrutturato dagli Aragonesi nel 1503.

Campania

Presepe Cuciniello

L’appellativo di Neapolis (“città nuova”) fu assegnato al centro abitato più antico dagli Attici, che ricostruirono il borgo dopo la distruzione ad opera dei coloni della vicina Cuma. Dopo i Greci, anche i Romani ridisegnarono i confini della città, creando uno schema viario delimitato da tre assi più grandi, i decumani, che intersecavano strade più piccole, i cardini. Nel corso dei secoli la città si è sviluppata per stratificazioni, e i manufatti realizzati in varie epoche si sono sovrapposti a quelli esistenti. Risale al II secolo d.C. la statua del dio Nilo, fiume sacro agli Egizi, conosciuta anche come “Corpo di Napoli”. Innumerevoli i luoghi di culto della città. Il Duomo custodisce il Tesoro di San Gennaro e l’ampolla col sangue del Santo. San Lorenzo Maggiore è un raro esempio di stratificazione di testimonianze, con gli scavi che hanno portato alla luce il macellum, il mercato romano. Da non perdere il Monastero di Santa Chiara, la più grande basilica gotica della città, edificata nel Trecento per volere di Roberto d’Angiò. Anche San Domenico Maggiore, chiesa edificata ad opera degli Angioini. Avvolta da un

Teatro San Carlo di Napoli

Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4

63


Campania speciale

N a p o l i 64

alone di mistero, la Cappella

“Real Fabbrica”.

Sansevero dei principi De

La passeggiata in città è

Sangro custodisce sculture

contrassegnata

pregiate come il Cristo Velato

monumenti da non perdere:

del

proprio

la Galleria Umberto I e la

accanto a due scheletri con

Galleria Principe di Napoli.

sistema venoso mummificato,

Quest’ultima

risultato degli esperimenti del

sul

principe Raimondo, maestro

Nazionale,

di alchimia ed arti esoteriche.

importanti al mondo.

Il Castel Nuovo, monumento-

Alle spalle di Napoli, il Vesuvio,

simbolo

Sammartino,

della

si

Museo

due

affaccia

Archeologico uno

dei

più

più

dalla cui sommità si può godere

conosciuto come Maschio

un panorama mozzafiato della

Angioino, edificato nel 1226

città e delle isole del Golfo.

ad opera di Carlo I d’Angiò,

Ai piedi del vulcano le città di

segna

della

Ercolano e Pompei, dai cui

città a capitale del Regno di

scavi sono emersi il genio e

Napoli e Sicilia. Il Palazzo

la ricchezza di Roma antica.

Reale è stato sede del potere

Protesa nel Golfo, la Penisola

monarchico fino alla fine della

Sorrentina

seconda

mondiale.

da bellezze naturalistiche e

Annesso al Palazzo, il Teatro

località con forte vocazione

di San Carlo, il più antico

turistica,

d’Europa. Sovrasta la città

Vico Equense, Sant’Agnello

Castel

e Massalubrense.

il

città,

da

passaggio

guerra

Sant’Elmo,

torre

è

caratterizzata

Sorrento,

come

d’origine

Dalla fascinosa Capri, perla

normanna, oggi sede di eventi

del Golfo, Tiberio resse le

culturali e artistici. Accanto

sorti dell’Impero; oggi l’isola

alla fortezza si staglia la

è una delle mete turistiche più

Certosa di San Martino,

ambite del mondo. Ischia,

con chiostri, loggiati, opere

l’Isola Verde, è nota per le

pittoriche di grandi artisti ed

virtù terapeutiche di sorgenti

una sezione museale che

salubri ed acque termali che vi

ospita

d’epoca.

sgorgano abbondanti. Anche

Sempre in collina, la Reggia

nei Campi Flegrei l’aspetto

di Capodimonte, residenza

caratterizzante

estiva dei Borbone all’interno

vulcanico, con specchi lacustri

di un parco di 134 ettari,

come

sede museale caratterizzata

ritenuto dagli antichi l’entrata

dalla più grande collezione di

per l’Oltretomba. Da visitare

porcellane provenienti dalla

le fonti termali delle Terme di

d’osservazione

presepi

il

Lago

è

il

suolo

d’Averno,

Grappolo di Coda di Volpe

Agnano, le Stufe di Nerone a Bacoli, la Solfatara di Pozzuoli. Numerosissime le vestigia del passato più antico, come l’Antro della Sibilla e l’Acropoli di Cuma, il Museo Archeologico del Castello di Baia, la Casina Vanvitelliana sul Lago Fusaro, o l’Anfiteatro Flavio di Pozzuoli, terza arena d’Italia per ordine di grandezza.

Una viticultura eroica e di tradizione Pur essendo caratterizzata da microclimi differenti, esposizioni ed altimetrie varie, tutta la provincia di Napoli ha in comune un suolo argilloso, a tratti sabbioso, ma sempre fertile, ricco di scheletro e minerali. Buona parte delle aree vitate si dipana lungo una linea vulcanica che parte dal Vesuvio, attraversa i numerosi crateri inattivi dei Campi

Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4


speciale

Napoli

riservata alle uve bianche,

del

del Golfo. Questi aspetti del

per preservarne freschezza

Surbegna

terreno hanno consentito a

e aroma. Tra i bianchi, il più

è

molte viti originarie, che hanno

antico di tutti è il Biancolella,

anche

potuto resistere all’invasione del

flagello

sopravvivere

Vesuvio,

Suppezza,

e

Castagnara,

divenuto

vinificabile Catalanesca.

il

che fu piantato sull’isola già

L’uva

fillossera,

di

dai greci di Eubea; il nome

di chiare origini spagnole,

tuttora

su

dell’altro

è

prezioso

bianco,

“catalana”,

perché

caratterizzata

dalla

piede franco. Non è raro il

Forastera,

invece

maturazione tardiva, anche

fenomeno di viti, come quelle

chiaramente come il vitigno

di fine ottobre, e grazie ad

circostanti il Lago d’Averno,

sia stato importato solo di

che fruttificano al meglio dopo

acini spargoli e robusti ha

recente, nell’ottocento.

cento e più anni di vita. Le

Nella Doc Campi Flegrei

una

denominazioni d’origine sono

dominano

cinque e seguono come un

Piedirosso e la Falanghina,

semicerchio il disegno della

coltivati con il vecchio sistema

provincia. A cominciare dalla

dello “spalatrone puteolano”,

Doc Ischia, una delle più

antenato della “falange”, il

antiche d’Italia, che risale

palo cui la vite si avvinghia

al 1966. Qui la viticoltura,

con i suoi pampini. Al centro

definita

costringe

dell’arco naturale del Golfo

l’uomo a vendemmiare sulle

di Napoli, troviamo la Doc

irte

Monte

Vesuvio, con la sua più nota

casi

e preziosa variante Lacryma

con l’ausilio di monorotaie

Christi. Suggestiva l’origine

costruite

il

del nome secondo il de

trasporto delle uve. Il vitigno a

Musset: “Il Signore, vedendo

bacca rossa d’eccellenza è il

che Lucifero aveva trascinato

Per ‘e Palummo, Piedirosso

in quei luoghi un lembo di

indicato

Paradiso, pianse, e dal suo

“eroica”,

scoscese

Epomeo,

in

del alcuni

apposta

per

localmente

con

indica

vitigni

vite...”.

conservarsi

sulla

a

pianta.

Tutte caratteristiche, queste, che

ne

fanno

un’ottima

materia prima per vini passiti. Proseguendo verso sud ci si imbatte in vigneti affacciati sul mare del Golfo, con buona escursione termica tra giorno e notte. Ci troviamo tra le terrazze della Doc Penisola Sorrentina,

con

le

sue

sottozone Sorrento, Lettere e Gragnano. Di fronte alla Punta Campanella, proprio in fondo alla Penisola Sorrentina, posta a conclusione dell’arco naturale del Golfo di Napoli, si staglia Capri, l’isola di Tiberio.

pianto

la somiglianza del raspo, per

Ancora il morbido Piedirosso,

forma e per colore, al piede

in versione minerale e fumé,

Doc che risale al 1977, viene

del colombo. Ma questa è

è il protagonista dell’uvaggio

realizzato principalmente con

terra d’elezione per vitigni

dei rossi; il Coda di Volpe,

vitigni Piedirosso, Falanghina

bianchi che qui, grazie al clima

che qui sul Vesuvio è detto

e Greco. I piccoli terrazzi dei

caldo e ventilato, maturano

Crapettone,

vigneti, che si arrampicano

assai

uno

spessore e sorbevolezza ai

faticosamente

degli spettacoli cui si può

bianchi. Dal 2005, nell’ambito

scoscesi dell’isola, assommano

assistere, già dalla seconda

della

ricca

raccolta

di

a circa duecento ettari, per una

metà di agosto, è il rito della

vitigni

minori

presenti

sul

produzione totale che sfiora le

vendemmia

Vesuvio,

notturna,

la

il

attitudine

l’espressione che ne ricorda

precocemente:

nacque

come

spiccata

conferisce

come

Tintore

Campania

Flegrei e riemerge nelle isole

Qui il vino, prodotto nella

sui

fianchi

duecentomila bottiglie.

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speciale

Campania

Salerno: Cucina e prodotti dell’agroalimentare Non è un caso che la dieta mediterranea, moderna teoria alimentare che ha posto in relazione salute e alimentazione, durata della vita e qualità dei prodotti, sia nata proprio dal lungo soggiorno del suo ideatore, il fisiologo Ancel Keys, nella località di Pioppi, suggestivo borgo incastonato al centro della Costa Cilentana.

O

vunque, in provincia di Salerno, nella ridente Costiera Amalfitana, nella fertilissima Piana del Sele o nelle variopinte alture del Cilento, la qualità dei prodotti dell’agroalimentare raggiunge picchi di vera eccellenza. Il carciofo tondo di Paestum IGP possiede caratteristiche inimitabili: ha foglie morbide e delicate, è privo di spine e matura precocemente, già da febbraio, ma è

Il Carciofo Paestum

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talmente forte e longevo da restare in produzione fino a maggio inoltrato, quando tutti gli altri sono finiti da un pezzo. Il soffice suolo ricco di corsi d’acqua di quel lembo di Piana del Sele racchiuso tra Capaccio, Eboli e Battipaglia, rappresenta l’habitat naturale più congeniale all’allevamento delle bufale. La mozzarella di bufala campana DOP, prodotta nelle decine e decine di caseifici, alcuni dei quali

insediati attorno ai templi greci o proprio all’interno delle rovine di Paestum, è un prodotto di qualità eccelsa. L’olivo è la pianta che caratterizza il paesaggio cilentano e qui, nell’area di Pisciotta, fu introdotta dai greci la più antica varietà di olio al mondo. L’olio extra vergine del Cilento e l’olio delle Colline Salernitane possono entrambe fregiarsi del riconoscimento di Dop. Il pomodoro DOP San Marzano, dal nome dell’omonima cittadina sul fiume Sarno, alimento centrale nella tradizione della dieta mediterranea, è povero di calorie ma assai ricco di antiossidanti, è rinfrescante e stimola l’appetito; complemento ideale della pizza

La Nocciola tonda di Giffoni

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speciale

napoletana, si abbina a piatti semplici o a base di pesce. Il pomodorino di Corbara, coltivato alle pendici dei monti Lattari, ha bacca piccola, sapore agro e si presta ad essere conservato a grappolo per il consumo invernale. Tra i frutti, hanno conquistato i consumatori di tutta Italia il limone della Costa d’Amalfi IGP, la nocciola tonda di Giffoni IGP e il fico bianco del Cilento DOP, essiccato e farcito con mandorle, noci e bucce di agrumi. La provincia di Salerno può vantare anche produzioni di legumi rari: i fagioli borlotti di Tramonti, i ceci di Cicerale – paese che trae il nome proprio dal legume – e i fagioli di Controne, preziosi per le eccezionali qualità nutritive e per la sottilissima buccia, quasi inconsistente, che favorisce tempi di cottura e ne agevola la digeribilità. In cucina, vale la pena di provare i paccheri al tonno rosso, gli scialatielli allo scoglio e i totani e patate, piatti tipici della zona tra Amalfi

assieme agli “scazzetti”, i pasticcini di pan di Spagna farciti di crema pasticciera e fragoline di bosco, e ricoperti dalla glassa purpurea che li fa assomigliare al berretto cardinalizio, chiamato popolarmente con lo stesso nome.

Campania

Alberato Aversano

e Praiano. Anche Atrani è un paesino della Costiera Amalfitana, praticamente ad un tiro di schioppo da Amalfi, ma qui il piatto tipico è il “sarchiapone”, specialità a base di zucche bianche farcite con carne trita e formaggi. Un piatto tipico, praticamente diffuso dappertutto nel salernitano, è il “fegato in rezza”, fegato di maiale avvolto nella “rete” del suo intestino, lardellato con sugna ed aromatizzato con pepe, spezie e foglie di alloro. Un piatto semplice della tradizione locale, consumato spesso in estate, è la “caponata”: sul pane raffermo e poi bagnato vengono poste delle melanzane, condite con olio, pomodorini e acciughe. Altri piatti da non perdere: le orecchiette e fagioli di Scala e il coniglio alla foglia di limone della Penisola. L’immancabile limoncello della Costa d’Amalfi completerà il pranzo ideale,

Il Salernitano, tra spettacolo e bellezze naturali I primi insediamenti di cui la storia conservi tracce riguardano le colonie etrusche dell’alta provincia, Nuceria e Fratte. Solo più tardi i greci popolarono la Piana di Posidonia, ribattezzata col nome di Paestum dai Romani, ed Elea, l’odierna Velia, dove si dice siano nati Zenone e Parmenide, i filosofi più importanti del tempo. Qui, tra i più suggestivi ricordi dell’antichità, oggi si ergono i templi dedicati al dio Nettuno, ad Hera e alla dea

Vite secolare in Costiera Amalfitana

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Campania speciale

Athena, nume tutelare della terra e delle messi. Anche il capoluogo ha origini antiche, probabilmente osche, ma divenne un nodo strategico solo allorché i Longobardi, strappando la città ai Bizantini, ne fecero un baluardo fortificato. A simboleggiare il periodo, il Castello di Arechi, fortezza dell’ottavo secolo d.C. che domina dall’alto la città. In città, la Cattedrale romanica del 1100, di architettura arabonormanna, raccoglie una preziosa collezione di mosaici e gli affreschi del cosiddetto Paradiso Salernitano. La

fare una passeggiata sul Lungomare Trieste, o per visitare l’ottocentesco Teatro Verdi e i rigogliosi Giardini della Minerva, il più antico orto botanico d’Europa, in cui si svolge periodicamente un mercato internazionale di giardinaggio e piante rare. Nel periodo natalizio, adornano la città le installazioni luminose di artisti contemporanei: Luci d’Artista il nome dell’evento realizzato in collaborazione con il Comune di Torino. Il 17 gennaio, il giorno di Sant’Antonio Abate, a Salerno si tiene la Notte del Fuoco,

Bottaia a Montevetrano

Chiesa di Sant’Andrea della Lama, costituita da tre edifici posti l’uno sull’altro su un antico sito romano, reca anche una necropoli a vista. La Chiesa di Santa Maria di Lama, posta nel centro della città, conserva rarissime testimonianze pittoriche longobarde. Il Tempio di Pomona, risalente ad epoca romana, oggi è sede di importanti mostre ed esposizioni d’arte. Una volta in città, non bisogna perdere l’occasione per

durante la quale i più importanti ceramisti si radunano in piazza per dar luogo alla cottura delle loro opere. Tra gli eventi fuori dalle mura cittadine, da non perdere il Giffoni Film Festival, rassegna di cinema internazionale per ragazzi in svolgimento nell’omonima cittadina, e la Giostra Medievale di Eboli, che rievoca la simbolica riconsegna della città dal re normanno Roberto D’Altavilla, detto il Guiscardo. Oltre all’area archeologica di Paestum-Velia, la provincia di Salerno ha altri due Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco: la Costiera Amalfitana ed il Parco Nazionale del Cilento. In Costiera, le località in cui recarsi sono davvero tante. Vietri, la città delle ceramiche; Amalfi, con il meraviglioso Duomo di stile gotico. Maiori e Minori sono piccoli borghi abbarbicati a costoni roccia, digradanti verso il mare, sembrano spuntare da una tela d’artista. A Positano non si può fare a meno di Certosa di Padula

Vigneto sui Monti Picentini

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Il patrimonio viticolo della provincia di Salerno segue il solco di tradizioni antichissime, con vini di grande pregio e specificità territoriali decisamente marcate. La Salerno del vino può essere distinta per macro-aree, le stesse che delimitano gli ambiti di produzione delle tre Doc, ognuna con distinte caratteristiche

1100 ettolitri di vino, appena un milione e mezzo di bottiglie. I vitigni che primeggiano sono l’Aglianico e il Fiano, che qui assumono connotazioni di rara eccellenza. Le basse rese per ettaro e il carico limitato su pianta favoriscono la concentrazione degli zuccheri, trasmettono potenza e longevità nei vini. L’influsso marino è evidente e non di rado i vini, quelli prodotti da aziende della fascia costiera di Pollica e Acciaroli, o sulle alture tra Rutino e Prignano, rivelano inusuali e intriganti sensazioni salmastre. La Doc Castel San Lorenzo, la più produttiva con quasi 4mila ettolitri di vino, comprende il territorio che si stende ai piedi dei Monti Alburni, dove da sempre il terreno calcareo ha incentivato la piantumazione di vitigni robusti e produttivi, come i nazionali Barbera, Sangiovese, Trebbiano, Malvasia e Moscato. Nell’ultimo decennio la produzione di questa Doc, affiancata nell’immaginario del passato al concetto di “quantità”, grazie alla decisa trasformazione dei sistemi ed all’innovazione tecnologica offre prodotti di qualità crescente e sempre più raffinati. Non manca, infine, un’interessante patrimonio di vitigni internazionali come Cabernet Sauvignon e Merlot che, dando prova di essersi perfettamente acclimatati, regalano vere e proprie meraviglie enologiche.

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Campania

Enologia nella provincia di Salerno

geomorfologiche del suolo e con impiego di vitigni anche molto diversi tra loro. La produzione di vino, circa un quinto dell’intero comparto regionale, si attesta sui 350mila ettolitri, ma di questi solo 6500 sono realizzati nelle Doc, mentre il resto viene prodotto come vino da tavola e nelle due Igt. La Doc Costa d’Amalfi, distinta nelle tre sottozone che prendono il nome delle incantevoli Ravello, Amalfi e Furore, è caratterizzata da vignetiterrazzi che si affacciano a mo’ di belvedere sul meraviglioso mare del Golfo: qui, sul fertile e impervio suolo di origine vulcanica le piante crescono a piede franco. Accanto ai autoctoni più conosciuti come Aglianico, Piedirosso, Sciascinoso, Falanghina e Biancolella - tantissimi sono i vitigni rari del passato sopravvissuti all’invasione della fillossera: Fenile, Ginestra, Fenile, Ripoli, Biancazita, San Nicola, Pepella, Tronto e Tintore. Le coltivazioni, che in alcune zone più impervie assumono connotazioni di “viticoltura eroica”, offrono uve cariche di zucchero, di estratti e di sali minerali. I vini, soprattutto i bianchi, hanno come note comuni i profumi vegetali, intensi e avvolgenti, grande freschezza e buona struttura. La Doc Cilento è la più grande della Campania per estensione ma una delle più piccole per volumi di produzione, con poco più di

speciale

S a l e r n o

passeggiare e fare lo shopping nelle botteghe degli stretti vicoli. Conca dei Marini è il paese della sfogliatella; Cetara è famosa per la colatura di alici e per la genovese di tonno. Ravello, che gode dall’alto un panorama incantevole, è la città della musica, in cui si tiene il rinomato Festival dedicato a Wagner, che proprio qui, nei magici giardini di Villa Rufolo, compose il suo capolavoro Parsifal. Il Parco del Cilento rivela paesaggi incantati, luoghi da sogno popolati da fauna protetta, vegetazione lussureggiante, ruscelli, cascate e piccoli corsi d’acqua. Le Grotte di Castelcivita, con stalattiti e stalagmiti dalle forme più bizzarre, si insinuano per chilometri nei Monti Alburni. La Certosa Di Padula, o Certosa di San Lorenzo, in stile barocco, è la più grande Certosa d’Italia, con 320 stanze e più di 50mila metri quadrati di superficie.

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Campania speciale

Il Taurasi primeggia fra i grandi vini rossi del sud di Nino D’Antonio

Ma che c’è dietro questo vino tanto celebrato? La Vitis hellenica, da sempre presente nella zona (il nome si è corrotto, nei secoli, in Aglianico, ma qualcuno su questo dissente) è diffusa in molte aree del Meridione, a cominciare da quelle del Vulture in Lucania.

È tra i primi dieci grandi Rossi d’Italia, e il primo nel Sud cui è stata conferita la Docg. Il solo a poter reggere il confronto con i più accreditati piemontesi, e spesso a batterli in fatto di invecchiamento. Questi i dati anagrafici del Taurasi, un vino sul quale Arturo Marescalchi, padre della moderna enologia, non esitò a dichiarare: “Sotto l’usbergo del mio rasposo carattere piemontese, devo asserire, domandando scusa ai miei Barbera e Barolo, che il Taurasi è il loro fratello maggiore”. Eppure alle spalle di questo rosso tanto celebrato non c’è nè la storia nè i trascorsi

del Falerno o del Cecubo, anche se la Vitis hellenica da cui nasce ha origini fra le più antiche. A questo si aggiunga che il Taurasi (come il Greco di Tufo e il Fiano) si afferma solo a partire dagli anni Settanta, grazie alla faticosa opera di selezione delle uve e di affinamento in cantina, promosse e portate avanti dai fratelli Mastroberardino. Prima di allora, il Taurasi era solo un

buon rosso, molto richiesto sui mercati del Sud, largamente esportato al Nord, ma senza particolari titoli. Ma che c’è dietro questo vino tanto celebrato? La Vitis hellenica, da sempre presente nella zona (il nome si è corrotto, nei secoli, in Aglianico, ma qualcuno su questo dissente) è diffusa in molte aree del Meridione, a cominciare da quelle del Vulture in Lucania. Il paese, che dà il nome al vino, ci riporta all’antica Taurasia: un territorio irregolare, che secondo Orazio richiama la forma di un toro, e intorno al quale corre il fiume Ofanto. Abitato dagli Irpini (da irpus, lupo), una tribù sannitica

Vigne di Taurasi

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speciale

macerazione carbonica per ottenere da uve troppo cariche di acido malico un vino bevibile in tempi brevi. Il metodo – ancora oggi applicato per i vini novelli – è fondato sulla fermentazione dell’uva all’interno degli acini stessi. L’Irpinia è ricca di argilla, elemento che accresce

la qualità del vino, perché rispetto ai terreni sabbiosi trattiene meglio l’acqua, e quindi nei periodi di siccità assicura una maturazione più regolare. Senza contare che nell’argilla non mancano certo i polifenoli, tanto importanti per le caratteristiche organolettiche e i processi

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Campania

dedita all’agricoltura e alla pastorizia, seppe tenere testa alle legioni romane fino alla pesante sconfitta ad opera di Silla. Terra aspra, ma felice per le condizioni climatiche, ha nella sua lunga storia la presenza della vite. L’antica vinificazione si è basata a lungo sulla

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Campania speciale 72

di invecchiamento del vino. Il territorio appare difficile, diviso quasi in eguale proporzione fra colline e montagne, le quali creano una sorta di barriera che il mare (il Tirreno è lontano in linea d’area una trentina di chilometri) non riesce a violare. Ma sono proprio queste frequenti disuguaglianze morfologiche e i forti contrasti altimetrici (si va da un minimo di 60 metri ai 1809 della cima del Cervialto) a rivelarsi paradossalmente alleati della viticoltura irpina. Non è certo una scoperta moderna – e ce ne dà una testimonianza Virgilio – che la vigna quanto più s’insedia in ambienti ostili, tanto più il vino acquista una sua connotazione, una precisa identità. Mentre da un clima e un ambiente perfetti, e nonostante l’intervento dell’uomo, si possono avere anche dei vini piatti e anonimi. Eppure il Taurasi ha rischiato seriamente di scomparire, come il Fiano e il Greco: vale a dire il grande trittico dei vini irpini, Il flagello della fillossera verso la fine del secolo scorso spinse infatti molti vignaioli a preferire l’innesto di vitigni alloctoni su piede americano, sacrificando così quelli originari. Per fortuna il fenomeno fu piuttosto contenuto, per cui l’Aglianico e il Piedirosso, anche se in buona parte non più su piede franco, ebbero modo di salvarsi. Buon per

Antica Cantina Hirpinia

noi, perché i vitigni autoctoni si sono presi più tardi una clamorosa rivincita, e questo grazie anche alla crescente sensibilità dei produttori verso il nostro patrimonio enologico. La storia di questo vino passa attraverso la stazione ferroviaria del paese, assai più di quanto si possa pensare. È da questo scalo infatti che, a partire dagli anni Venti, migliaia di ettolitri di Aglianico (era ancora tutta da venire la denominazione Taurasi) prendevano la via per il Nord, verso il Piemonte e la Francia. Quanto di questo vino appartenesse al territorio di Taurasi e quanto invece ai paesi vicini, interessati a godere del suo buon nome, faceva parte di quel patrimonio di conoscenze di ogni mediatore. O meglio sensale, come usava dire allora. Il commercio del vino era

nelle loro mani. Chi comprava e chi vendeva poteva farlo solo attraverso l’opera del sensale. Nessuno sarebbe arrivato dal Piemonte in paese, senza aver avuto le più ampie garanzie sulla partita di vino da acquistare da Ciccio Sacco, da Domenico Caputo o da Pasquale Caggiano: personaggi ormai mitici di quella lunga stagione che, dal primo dopoguerra, si è protratta sino agli anni Sessanta. Poi l’inversione di tendenza e la scoperta delle straordinarie potenzialità di questo Aglianico. E poi ancora la conquista della Docg. Inizia così il declino di quello scalo ferroviario sulla Rocchetta-Sant’Antonio, che ha fatto per anni la storia del paese e del vino. Attualmente il comprensorio sotto la tutela della Docg è costituito da diciassette comuni, tutti di particolare

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speciale la presenza di due giovani imprese – l’Azienda Agricola Perillo e la Cantina Boccella ha impresso una forte spinta alla promozione del Taurasi, anche oltre i suoi tradizionali confini.

Campania

del Taurasi non deve trarre in inganno. È piuttosto ristretto, infatti, il panorama dei produttori più qualificati. Una speciale menzione va ai comuni di Castelfranci e di Montemarano, dove

Il Disciplinare, aggiornato nel marzo del ’93, prevede che almeno l’85% delle uve debba essere di Aglianico, dal quale il Taurasi acquista personalità e un colore più accentuato; mentre il restante 15 può invece essere costituito da altri vitigni a bacca rossa, sempre della provincia di Avellino, da soli o in concorso fra loro. L’uva privilegiata è la Piedirosso, in quanto ha il potere di ammorbidire quella nota di asprezza presente nell’Aglianico. Non sarebbe invece benefico l’apporto di uva Sangiovese, la quale matura con largo anticipo, rispetto all’Aglianico, finendo così per abbassare la longevità del Taurasi. Merito forse di un pH acido relativamente basso, a confronto di altri rossi pregiati, e della ricca presenza di sostanze tanniche e coloranti, certo è che una bottiglia di Taurasi può vivere in media dieci/quindici anni, e in particolari annate anche superare i venti. Sul piano dell’invecchiamento, la prescrizione del Disciplinare è rigorosa: almeno tre anni di cui uno in botte di rovere o di castagno, mentre per la Riserva il periodo sale a quattro anni. È giudizio unanime che l’invecchiamento giovi in modo particolare al Taurasi, perché lo libera dell’originaria ruvidezza e lo rende piacevolmente armonioso. Si ha così quel colore rubino che acquista riflessi arancioni e quel sapore corposo, ma al tempo stesso gradevole al palato, con profumi di marasca e di viola e un lieve sentore di spezie. Un vino “gaudioso”, secondo la felice definizione del Carducci. E veniamo al servizio. Il Taurasi è un rosso che ha bisogno di respirare, cioè – stappata la bottiglia – di stare a contatto con l’ossigeno a lungo, tanto più a lungo quanto maggiore è stato l’invecchiamento: solo così il bouquet e il sapore vengono esaltati.

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Il Taurasi

vocazione vitivinicola. È ovvio che le cantine più rappresentative – o meglio quelle di più antico retaggio – siano concentrate a Taurasi, dove un posto di riguardo spetta alla Cooperativa Produttori Antica Hirpinia, forte di ben 170 soci. È questa una creatura di Antonio Buono, sindaco al suo secondo mandato, che è stato per anni, prima presidente e poi amministratore della cantina. Che opera in una moderna struttura, situata su un’area di seimila metri quadrati, esempio di perfetta simbiosi fra tradizione e tecnologia. Grandi botti di rovere e piccoli carati di legno pregiato si affiancano ai moderni serbatoi di acciaio. I vigneti sono a perdita d’occhio. Duecento ettari di territorio sulle soleggiate colline dell’Irpinia centro-orientale. Ma Taurasi è celebre anche per le sue storiche cantine, fra le più affascinanti del nostro Sud dove dai dodici ai quindici metri di profondità vive la sua stagione di invecchiamento il prezioso vino. Spesso queste strutture ospitano insospettabili musei, che vedono variamente distribuiti non solo strumenti di lavoro della passata civiltà contadina, ma archi, fregi, decori, faticosamente recuperati fra le macerie del terremoto dell’Ottanta. La vastità del comprensorio

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di Nicola Masiello - Vicepresidente

Bettolle protagonista per tre giorni della Valdichiana e del suo simbolo più importante: «la razza Chianina»

S

i è conclusa positivamente la 7a edizione della Valle del Gigante Bianco, evento che caratterizza e valorizza la razza chianina nella sua zona di origine. La manifestazione nata in sordina ha raggiunto livelli qualitativi elevati, grazie alla caparbietà ed alla volontà dei cittadini di Bettolle che per questo evento mettono in risalto quanto di vero e schietto esiste nella loro storia, ne sono prova provata tutte le manifestazioni che hanno animato la tre giorni: dalla ricostruzione di una stalla, alla rievocazione di un matrimonio contadino dei primi anni 50’, ai salotti dove si è discusso di civiltà contadina, degli usi e costumi di metà novecento con chi quei momenti li ha vissuti ed oggi rari testimoni di una storia vera ed unica. Ritornando alla chianina questa l’abbiamo vista cucinare e degustata in tanti modi, all’osteria della nonna con piatti poveri, al mangiare di strada alle cene elaborate e curate dall’Associazione cuochi Senesi con un unico denominatore comune: il quarto anteriore ed i tagli poveri quindi brasati, peposi, bolliti, griffi trippe, lampredotto e via dicendo, per tornare indietro a sapori unici abbinati con maestria dai sommelier della Fisar ai vini prodotti nei Comprensori del Chianti Classico, Brunello di Montalcino, Nobile di Montepulciano, tutti introdotti a tavola da una selezioni di grandi spumanti Italiani in collaborazione con Forum Spumanti d’Italia ad

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accompagnare aperitivi in musica ed a chiudere i dibattiti specifici sulla razza. La razza appunto, è stata motivo di un ampio e motivato convegno dal titolo: “Chianina è Salute”. Il dibattito che, partendo da una breve presentazione della Dott. ssa Clara Sergentini, profonda conoscitrice ed attenta studiosa della chianina, ha visto snocciolare problemi di tracciabilità e qualità della carne, biochimica della qualità della carne, la qualità certificata della carne attraverso la denominazione “I.G.P. Vitellone Bianco dell’Appennino centrale” ed infine il problema della filiera corta per un prodotto di qualità quale appunto la carne chianina. Da non dimenticare il Concorso di cucina, riservato a cuochi professionisti che ha visto in finale tre cuochi Senesi e due Aretini sfidarsi rigorosamente in diretta sempre con carne chianina e prodotti del territorio, davanti ad una giuria professionale attenta a cogliere anche un piccolo errore. Per la cronaca ha vinto il premio per il miglior piatto il cuoco Bacci Silvano con “Prato di Chianina” mentre il premio come miglior abbinamento cibo-vino Trofeo Confcommercio è andato al giovane cuoco Mencarelli Maicol con “Salpikon di controfiletto di chianina con verdure” abbinato al vino nobile di Montepulciano docg 2006 “Poldo” di Villa sant’Anna.


Una FISAR al femminile

di Luisella Rubin - Consigliere Nazionale

Nell’ambito della FISAR, è nata l’esigenza di organizzare una serie di attività al femminile, volte a promuovere la cultura del vino e nel contempo a valorizzare la figura della donna sommelier

L

a necessità di comunicare e confrontare le varie esperienze vissute all’interno di ciascuna Delegazione ha trovato il consenso e l’entusiasmo di molte socie fisariane. A tale proposito la nostra rivista “Il Sommelier” dedicherà una rubrica alle donne, in cui esse potranno raccontare di sé e del meraviglioso mondo del vino, offrendo così ampia visibilità a tutte coloro che desiderano collaborare in modo piacevole e costruttivo a questa proposta. Le degustazioni a tema su vino e cibo, inserite anche in programmi di musica, poesia, teatro, moda.., i convegni legati al settore vitivinicolo, le manifestazioni enogastronomiche a livello locale e nazionale, i concorsi relativi alla sommeliere, gli incontri conviviali, vedranno impegnate le sommelier FISAR, che con competenza e professionalità sapranno trasmettere entusiasmo, curiosità e passione per l’affascinante mondo enoico. La crescente importanza della donna come protagonista nel settore vinicolo, storicamente di impronta maschile, è oggi ampiamente riconosciuta. Gordon Childe, rinomato etnologo e archeologo australiano, sostiene che il primo ruolo rivestito dalla donna nei confronti del vino, è antico ed importante. Risale all’epoca in cui le prime tribù nomadi, in Oriente, diecimila anni fa, cominciarono a diventare stanziali e la donna aveva il principale compito di gestire le derrate. Sembra quindi che nella manipolazione dei prodotti della terra sia stata proprio la donna ad avviare i primi fenomeni di fermentazione di cereali e dell’uva. Nel corso della storia, il rapporto del mondo femminile con il vino, ha assunto differenti caratteri in relazione alle epoche, alle società, alle culture e alle famiglie diverse in cui la donna è vissuta.

Andando indietro nel tempo, nel 1800 in Francia, troviamo esempi di donne che, da sole, lavorando con tenacia e determinazione, hanno portato al successo i loro vini in tutto il mondo: La Vedova Cliquot creò lo Champagne “Veuve CliquotPonsardin”, Madame Pommery diede un grande impulso commerciale ai suoi prodotti di Reims. In Australia Mary Penfold fece crescere quella che ancora oggi è l’azienda vinicola più importante di quella terra. Ai giorni nostri, in Italia, l’interesse per il mondo del vino al femminile è cresciuto in modo rilevante. L’Associazione delle Donne del Vino è una delle realtà più rappresentative e qualificate nel paesaggio vinicolo italiano. Le donne hanno affermato la loro influenza in questo vasto campo, diventando protagoniste del cambiamento e della trasformazione culturale all’interno della filiera del vino, dal punto di vista della produzione, della comunicazione, della ricerca, della gastronomia, della degustazione e del giornalismo. Sono numerose infatti le produttrici di vino, enotecarie, sommelier, ristoratrici, giornaliste e quelle che si interessano di marketing, che operano attivamente perseguendo l’obiettivo comune della divulgazione della cultura del vino e della valorizzazione dei prodotti tipici del nostro territorio. In questi ultimi anni, anche nella nostra Federazione si è visto un considerevole incremento della presenza delle donne; donne che desiderano conoscere il vino come prodotto legato alla terra, alla tradizione, alla comunicazione, alla cultura e all’arte e che vogliono raccontarlo nelle sue mille sfaccettature, per offrire fantastiche emozioni, in momenti significativi di aggregazione, caratterizzati da spirito di gruppo e di appartenenza.

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Dietro i grandi vini Sardi ci sono delle belle sorprese: il Semidano e il Nasco dolce

di Luca Iacopini e Massimo Bracci

Il Semidano è un antico vitigno autoctono di cui non si conoscono con certezza le origini. Molto probabilmente è arrivato in Sardegna in tempi antichi nel sud dell’isola avendo nel Campidano di Cagliari la sua zona di elezione

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l Vinitaly oltre a essere una manifestazione unica nel suo genere per poter degustare e apprezzare tutto il panorama enologico italiano è anche un occasione che ti permette di scoprire vini poco conosciuti, eccellenze che non hanno niente da invidiare a nomi più blasonati e che sono solo in attesa di essere giustamente apprezzati. Vini che “saranno famosi”, parafrasando un titolo cinematografico. Questa nostra ricerca ha dato risultati molto interessanti e tra i vari “inediti” abbiamo trovato il Semidano di Sardegna. Il Semidano è un antico vitigno autoctono di cui non si conoscono con certezza le origini. Molto probabilmente è arrivato in Sardegna in tempi antichi nel sud dell’isola avendo nel Campidano di Cagliari la sua zona di

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elezione. La diffusione attualmente è molto limitata e l’area di coltivazione si colloca nella regione dell’alta Marmilla nelle province di Oristano e del Medio Campidano, nasce in una terra famosa per i cereali. Una piccola area coltivata a Semidano si ritrova anche nella provincia di Cagliari. È un vitigno che in passato ha conosciuto un largo utilizzo per poi essere espiantato e sostituito con il Nuragus. Questa scelta è da ricondursi alla bassa produzione per ettaro e per ceppo e alla grande suscettibilità nei confronti delle principali malattie come la peronospora e l’oidio. Per tali motivi i viticoltori negli anni decisero di sostituirlo con il più resistente e produttivo Nuragus. La cantina di Mogoro ha sempre vinificato il Semidano sia in purezza oppure utilizzandolo

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per ingentilire il ruvido Nuragus. A fine anni novanta credendo nelle grandi potenzialità di questo vitigno la Cantina “Il Nuraghe” ha portato avanti una battaglia per il riconoscimento della DOC così ottenendo nel 1996 la denominazione di origine controllata “Sardegna Semidano” con sottozona Mogoro. Sono previste 5 tipologie: “Sardegna” Semidano, sottozona Mogoro, Spumante, Superiore e Passito. Tra l’altro la tipologia spumante ha ricevuto negli anni anche molti riconoscimenti da parte della critica specializzata. La denominazione di origine controllata è riservata al vino bianco, ottenuto dalle uve provenienti da vigneti composti, nell’ambito aziendale, per almeno l’85% dal vitigno Semidano e per il resto massimo il 15% da altri vitigni non aromatizzati autorizzati per le provincie di Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano Attualmente la doc Sardegna Semidano sottozona Mogoro può considerarsi una doc mono-aziendale in quanto la quasi totalità della produzione viene realizzata dalla Cantina “Il Nuraghe” che propone due tipologie di Semidano. Un Semidano base e un Semidano Vendemmia Tardiva. La raccolta avviene tra fine settembre e la prima quindicina di ottobre. I vigneti sono realizzati

con Sistemi ad alberello la cui produzione supera raramente i 60 q/ha. Il Semidano è un vino bianco che si comporta come un rosso. Ha una grande propensione all’invecchiamento tanto da raggiungere il massimo della sua maturazione passato un anno in bottiglia, anche dopo due anni sorprende ancora piacevolmente per il suo continuo arricchimento aromatico, potremmo dire uno dei pochi vitigni bianchi a cui il tempo gioca un ruolo positivo e sappiamo come i bianchi in genere debbano essere consumati giovani per meglio apprezzare le proprie caratteristiche. È un vino di grande struttura e complessità. Al naso si ritrovano note di macchia mediterranea, fiori di campo, ginestra e bosso. Non ha freschezza floreale o fruttata tipica dei vini più giovani ma evolve verso note più complesse dovute a un’evoluzione successiva in bottiglia. In bocca è un vino di grande corpo che può essere perfettamente abbinato a piatti molto importanti e ricchi di sapore e grassezza. Queste sue caratteristiche lo rendono un vino unico nel suo genere e di grande interesse enologico. Un’altra perla che ci ha appassionato è il Nasco passito; Uno dei vitigni più antichi della Sardegna e coltivato da pochissime aziende

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nell’isola per un totale di circa venti ettari. La cantina “Il Nuraghe” lo ha recuperato da un appezzamento di circa mezzo ettaro su piante ad alberello di circa quarant’anni, è stato prodotto un passito su pianta attraverso la tecnica della pinzatura dei grappoli. L’appassimento prosegue anche dopo la raccolta per circa due settimane su graticci per poi essere vinificato a basse temperature e affinato per due mesi in barriques. La curiosità di questo vino è che è stato uno dei primi vini sardi ad essere conosciuto a livello internazionale, infatti a Vienna nel

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1870 è stato il primo vino della Sardegna ad essere premiato. Al naso presenta evidenti profumi di pesca e albicocca con una grande persistenza aromatica anche al palato in cui i frutti percepiti precedentemente si confermano in tutta la loro pienezza con l’aggiunta anche di aromi dati dalla speziatura della barrique come il tiglio. Il mondo del vino è sempre più affascinante in un mondo sempre più globalizzato si scoprono degli “artigiani” del vino che ci regalano prodotti dalla terra veramente deliziosi.

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I vini che verranno di Lorenzo Tablino

Ancora si cercano vini ottenuti con processi di cantina minimali sul piano degli additivi aggiunti e delle tecnologie applicate. Il tutto con l’occhio sempre aperto verso la cosiddetta sicurezza alimentare

P

oter spostare avanti le lancette dell’orologio del tempo. Che chimera! Essere tra dieci anni tra gli scaffali di Meregalli a Monza o tra gli stand del Vinitaly a Verona. Che vini si consumeranno in quel 2020? Quelli che avranno successo, cioè quelli graditi dai consumatori. Insomma “Saranno famosi”. Una premessa è d’obbligo: nel 2001 scrivevo su Slow Food notizie: “Colore: violaceo inchiostro, profumo giovane, fruttato, gusto pieno, alcolico, corposo, ricchissimo di estratto. Un vino così deve essere necessariamente morbido, quasi dolce! Il termine esatto è “vino concentrato”. Il mio giudizio su questi vini nel 2001 era del tutto negativo ma ero in netta minoranza. Oggi mi danno ragione. Provo allora a individuare i vini del futuro. Il carattere prioritario avrà un solo nome: leggerezza. Significa mote cose, non solo grado alcolico contenuto, ma anche colore non troppo carico, struttura e corpo medio bassi, persistenza media.

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Vini che siano di facile bevibilità e molto gradevoli, poliedrici a tavola e adatti alle nuove tendenze della moderna alimentazione. Correlate a due fattori precisi. Incremento delle diete a basso contenuto calorico e timori di eccedere nei limiti alcolici legali nel sangue. Ma altre tendenze avanzano, infatti, cambiano i parametri di riferimento per il concetto di qualità del vino. Prevalgono genuinità e naturalità, correlate a territori e vigneti il meno possibile inquinati, magari incontaminati, con tendenza all’ecologico. Ancora si cercano vini ottenuti

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con processi di cantina minimali sul piano degli additivi aggiunti e delle tecnologie applicate. Il tutto con l’occhio sempre aperto verso la cosiddetta sicurezza alimentare. E allora ecco che torna il letame tra le vigne; in molti eliminano i concimi chimici e soprattutto i diserbanti, fonte di grandi inquinamenti ambientali. Si utilizzano i lieviti o naturali dell’uva, onde identificare alla perfezione vino e territorio. Anche se quest’ultima pratica sul piano scientifico è discutibile, importante è comunicarla in modo efficiente. In tema di riduzione degli additivi usati nel vino l’anidride solforosa è senz’altro il più attuale e importante. Sul piano enologico non è difficile; già 40 anni fa ho assistito a tentativi e sperimentazioni. Con rese ridotte nel vigneto, l’utilizzazione di gas inerti, azoto in primis in tutti i passaggi di cantina (mosto vinoimbottigliamento), con tecniche di abbattimento delle sostanze ossidabili e con massima igiene e microfiltrazione, si possono abbattere tranquillamente i livelli di questo additivo del 50%. Ovvero, per un vino bianco, stare sotto i 60 mgr per lt contro i 100-120 usuali (dati indicativi). Arrivare a zero è possibile ma: 1 Il lievito comunque in fermentazione produce naturalmente solforosa partendo dal mosto. Un po’ resta nel vino - circa 10 mgr /litro. 2 Un vino a solforosa zero perde in tipicità e qualità; è un altro vino insomma. Può anche piacere a qualcuno, ma non è certo un Barolo o un Soave. Non è protetto in senso assoluto per cui si ossida e cambia presto i caratteri organolettici. Oggi e soprattutto in futuro un’altra valenza sarà cercata nei vini. Totale tracciabilità dal numero di codice stampato sul contrassegno docg si arriverà –come già oggi nell’Asti docg– all’imbottigliatore, al vinificatore e al viticoltore. Ma non è solo un è un fatto solo amministrativoburocratico. Tutt’altro. Garantisce una filiera controllata e trasparente in ogni passaggio. Per un vino docg è il massimo risultato che correla insieme vitigno e territorio. Quello che interessa ai futuri consumatori di vino. Sempre più attenti, critici, soprattutto sempre più informati.

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in famiglia Delegazione in festa a Catania per gli attestati ai nuovi sommelier Un eccellente “Petit Manseng” Spumante Extra Brut e un elegante “Kerner” Spumante Brut, Carpené Malvolti. Con questi due vini pregiati, lo scorso 14 maggio, la Delegazione Fisar di Catania, alla presenza del presidente nazionale della Federazione e direttore del corso, Vittorio Cardaci Ama, ha dato il via alla festa di fine corso per una trentina di nuovi sommelier etnei. La consegna ufficiale degli attestati Fisar,

con il delegato provinciale, Gaetano Prosperini, e il segretario provinciale, Carlo Guzzardi, si è svolta nella suggestiva “Sala degli Archi” del ristorante “Il Cuciniere” al Katane Palace Hotel, nel cuore di Catania. Colorate, mediterranee, calde le scenografie, condite dal divertimento dei commensali e dalle ammalianti danze del ventre della “Scuola di arti orientali Iaset” della tunisina Samia Zbidi, accompagnata da una collega siciliana sulle note del deserto africano. E poi, a rendere unico il “Galà del Sommelier” all’ombra del vulcano, un menù dai sapori autentici del Mare Nostrum, con l’abbinamento di vini eleganti.

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Dopo gli aperitivi, salumi e formaggi tipici accompagnati dai citati “Petit Manseng” e “Kerner”, con la collaborazione del Gruppo Italiano Vini, l’appuntamento siculo-arabo si è snodato tra primi e secondi piatti che hanno liberato sapori e aromi isolani: “Flan di fave fresche e ricotta infornata al guazzetto di pesce e basilico”, “Zuppa di mandorle e vongole”, “Vialone nano ai calamari e gamberi mantecato con robiola di capra girgentana” e “Filetto di pesce azzurro in agrodolce e caponata barocca”. La scelta delle etichette è così caduta su un “Tufae, Soave Classico Doc 2009” Bolla, un “Re Manfredi” Basilicata Bianco Igt 2009, Terre degli Svevi, e un “Grand Cru” Chardonnay Sicilia Igt 2007, Tenuta Rapitalà. Un “Recioto della Valpolicella Classico” Doc 2006, Bolla, ha invece accompagnato il dessert, un prelibato “Tortino di cioccolato piccante alla menta”. “Il mondo enoico catanese – ha detto con viva soddisfazione il presidente nazionale Fisar, Cardaci Ama – si pregia di accogliere i nuovi sommelier, che hanno tagliato questo importante traguardo. Cultura, eleganza, discrezione e, soprattutto, alta e specifica preparazione sono i segni distintivi dei nostri corsisti a livello nazionale e rappresentano il biglietto da visita della nostra Federazione. A loro va l’augurio di una crescita sempre più importante nell’arte del servizio e nella conoscenza del vino”. Durante la serata, infine, è stato possibile per i soci Fisar e i loro ospiti utilizzare i nuovi calici

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in famiglia della Federazione, caratterizzati da un gambo

del bevante ideato e voluto dal presidente

più alto e da un bevante più ampio rispetto

nazionale Cardaci Ama, inoltre, è possibile

ai precedenti, consentendo così, in perfetta armonia, di apprezzare colori e sapori sia dei

esaminare al meglio gli spumanti. Con questi

vini bianchi che dei rossi e dei rosati. Grazie

calici brillanti, alzati tra i sorrisi, si sono intonati i

all’inserimento di un “punto perlage” sul fondo

brindisi della piacevole serata.

La notizia è inviata da Antonio Iacona

La Delegazione di Livorno ai Grands Jours de Bourgogne La Delegazione di Livorno ha realizzato un sogno: organizzare per i propri sommelier una gita “tecnica” in Borgogna, per conoscerne i vini in occasione della 10a Edizione dei Grands Jours de Bourgogne. Un bel gruppo di 17, guidato dal Delegato Mario Albano e dalla Responsabile dei Sommelier Silvia Puccini, è partito da Livorno sabato 20 marzo 2010 per giungere a Beaune in serata. Domenica 21 marzo la mattina si è fatto innanzitutto un po’ di turismo, con la visita all’HotelDieu, alla Cattedrale ed alle vie del centro della elegante ed accogliente cittadina “capitale” della Borgogna vitivinicola. Poi, dopo un primo assaggio di pinot noir (un Volnay 2002) in Place Carnot, il pomeriggio è stato dedicato ai vigneti ed alle appellations. Percorrendo la Route des Grands Crus, ecco

Pommard, Volnay, Meursault, Puligny-Montrachet, con doverosa sosta al Montrachet, vigneto Grand Cru che produce i più grandi bianchi del mondo da chardonnay, e con foto di gruppo all’arco di ingresso del Grand Cru ChevaliersMontrachet. Ritornando poi verso Nord, dopo aver attraversato ChassagneMontrachet e lasciata alle spalle la affascinante collina di Corton e la Côte de Beaune, ecco la Côte de Nuits, sulla RN74, con i vigneti 1er Cru di Nuits-StGeorges, l’omonima cittadina, e l’arrivo al mitico vigneto Romanée-Conti, con i suoi vicini La Tache e Richebourg, a Vosne-Romanée: è stata grande l’emozione dei sommelier livornesi davanti alle viti di questi grands grus, già segnate dal “pianto” primaverile. Tutto il percorso è stato

accompagnato dalle spiegazioni del sommelier Davide Amadei, che con passione ha descritto le caratteristiche dei territori e dei prodotti delle varie zone, dei diversi village e dei loro principali premiers e grands crus. Lunedì 22 la mattina è stata dedicata alla degustazione dei Grands Jours de Bourgogne a Chablis, evento denominato La Porte d’Or de la Bourgogne. I tanti assaggi hanno reso manifesta la estrema mineralità come caratteristica di tutti gli Chablis, dai base ai profondi grands crus. Nel pomeriggio su appuntamento si è visitato il Domaine du Clos des Lambrays, con l’accoglienza e la guida di Thierry Brouhin, grande personaggio borgognone: ci ha proposto la degustazione del Morey-St-Denis village 2009, spillato dalla botte, e poi dei

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in famiglia grandissimi Clos des Lambrays Grand Cru 2009 (dalla botte), 2008 (appena imbottigliato), 2006 (un vino emozionante per intensità olfattiva – la canfora! - e profondità gustativa) e… 1996, di intrigante complessità al naso, con note evolute di sottobosco, fungo e tartufo, ma anche frutta, e di eccezionale equilibrio e freschezza in bocca. Poi è stata la volta della visita a Chateau de La Tour nel Clos de Vougeot, con la spiegazione in vigna e in cantina e la degustazione dei magnifici Clos de Vougeot Cuvée Classique e Clos de Vougeot Vieilles Vignes,

entrambi 2006 per percepire la differenza di profondità tra il “base” (si fa per dire…) e quello da vigne del 1910. Martedì 23 la giornata è stata interamente dedicata agli assaggi di Gevrey-Chambertin e relativi grands crus (Chambertin e Clos-de-Beze su tutti!) a Marsannay-La-Côte, di Chambolle-Musigny e MoreySt-Denis a Gilly-Les-Citeaux, con i Grand Cru Musigny, Bonnes-Mares, Clos-de-laRoche; di Nuits-St-Georges nella sala di degustazione dell’omonima cittadina, con la particolarità che erano

Il gruppo al Grand Cru Romanée

presentati qui anche vini di annate vecchie più o meno (come un “Vaucrains” 1er Cru 1972 di Chicotot!) recenti. Dagli incontri e dagli assaggi la Borgogna è ormai entrata nel cuore dei sommelier livornesi, che hanno potuto apprezzare davvero la realtà della qualità del vino fondata sulla integrale valorizzazione del terroir. Oltre a qualche bottiglia che riposa in cantina aspettando il momento migliore per essere aperta, resta la voglia di tornare presto a coltivare le emozioni che solo il vino e la sua cultura sanno suscitare.

Conti

Notizia inviata dalla Delegazione di Livorno

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in famiglia Un grave lutto colpisce la Delegazione di Massa Il nostro collega massese Sommelier Alessandro Pedrini di soli 46 anni purtroppo ci ha lasciato. Tutto è successo nella notte tra martedì 8 e mercoledì 9, stava lavorando al computer a casa sua, quando all’improvviso qualcosa non ha più funzionato, nessuno se ne è accorto fino al mattino quando la madre alle 6,30 insospettita dalla luce accesa lo ha trovato accasciato sulla sedia ormai privo di vita. L’ora e la causa di questa disgrazia verranno stabilite dall’autopsia fatta all’ospedale di Pisa. L’unico elemento che abbiamo in mano è la mail, forse l’ultima cosa che ha fatto, girata al suo amico il Delegato FISAR di

Massa Valerio Della Tommasina, riportante l’ora 22,20. Alessandro aveva due grandi interessi il vino e la zootecnia. Conseguita la pergamena di Sommelier nel 2005, nel 2006 diventa Direttore di corso entrando poi nel Consiglio di Delegazione. Si assume l’incarico di Responsabile dei servizi dei sommelier ed organizza serate di aggiornamento didattico aperte anche ad esterni. Lavorava in Lunigiana, medico veterinario della Asl di Massa Carrara, curava pecore, cavalli, mucche e i tanti animali che vivono sulle Apuane; da quelle parti gli volevano tutti bene e si rivolgevano a lui con fiducia. Viveva coi genitori a Marina di Massa, persona corretta,

leale, riservata e al tempo stesso socievole, amava la precisione e conduceva una vita sana, regolare senza mai eccedere in nulla. Enorme il vuoto che lascia, e grandissimo il dispiacere per chi lo ha conosciuto. A Lui va il nostro ultimo saluto, ai suoi cari il nostro affetto. Ciao Alessandro.

Notizia inviata dal Segretario Nazionale Mario Del Debbio e dal Delegato di Massa Valerio Della Tommasina

Le Delegazioni di Savona ed Imperia con la Nazionale Italiana di calcio Le delegazioni di Savona ed Imperia hanno prestato servizio con i propri sommelier durante la giornata dedicata dalla FIGC all’incontro fra gli sponsor e la squadra (Sponsor Day). La manifestazione si è tenuta presso il Gran Hotel Sestriere di Sestriere, gestito dal Delegato di Savona Lusca Novara. A preso parte attiva anche la sezione AIBES (Associazione Italiana Barman e Sostenitori) di Sanremo capitanata da Donatella Uslenghi.

Notizia inviata da Stefano Delfino della Delegazione di Savone e Imperia.

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in famiglia La Delegazione di Portogruaro LisonPramaggiore consegna i diplomi Il 19 maggio presso il Ristorante Eden di Ottava

superato il test d’esame ricevendo i complimenti

Presa di Caorle si è svolta la cena di gala per la

da parte della commissione d’esame per la loro

consegna dei diplomi di Sommelier.

brillante preparazione composta dal Consigliere

Alla consegna erano presenti tutti i 12 partecipanti

Nazionale Giorgio Penazzato, per il C.T.N. il Prof.

al corso di Terzo livello, i quali hanno brillantemente

Silvio Dalla Torre, il Docente Vittorino Valent e il delegato della Delegazione. I neo diplomati sono: Battistutta Franca, Comin Devis,

Lucchese Giannino, Maliycheva Alina,

Malocco Silvia,

Marin Eugenio,

Missio Loris,

Minjares Carlos,, Palamin Barbara, Rizzetto Gabriele, Tabaro Sara e Venturuzzo Annalisa. Notizia inviata da Celio Sartori della Delegazione di Portogruaro Lison- Pramaggiore

La FISAR alla Mostra Nazionale Vini di Pramaggiore La Mostra Nazionale Vini di Pramaggiore (la prima ad essere costituita in Italia nel 1946) e sede di uno dei più prestigiosi concorsi enologici a carattere nazionale, alla sua 64° edizione ha visto per la prima volta tra i suoi protagonisti la delegazione Fisar di Portogruaro-Lison-Pramaggiore che, oltre a essere stata costantemente presente con un proprio stand durante tutto il periodo dell’apertura, ha organizzato una serie di degustazioni per presentare e far conoscere al grande pubblico uno dei prodotti classici e più rappresentativi della DOC Lison–Pramaggiore il celebre vino “Tocai”, che, a seguito di un verdetto dell’Unione Europea, non può più essere chiamato col nome col quale era conosciuto fin dal ‘700. Attualmente nel Veneziano viene ufficialmente chiamato “Lison” e, nel cuore dell’area più vocata, “Lison Classico”, mentre altrove, nel Veneto, è chiamato “Tai”. Le degustazioni sono state guidate dal giornalista e scrittore Giampiero Rorato profondo conoscitore

di questo territorio e dei suoi prodotti. La presentazione dei “Tocai”, il cui vitigno d’origine è il Sauvignonasse, introdotto inizialmente dalla Francia nella Venezia Orientale da ricchi possidenti locali nella seconda metà del ‘700 e poi diffusosi anche nel Trevigiano e in Friuli-Venezia Giulia (dove ora il vino è chiamato Friulano), ha visto un notevole successo per il gran numero di persone intervenute, provenienti da diverse province del Nord-Est, che hanno poi partecipato alla degustazione guidata dei vini. Grazie a ciò la Fisar, con la Delegazione di Portogruaro-LisonPramaggiore, ha ottenuto un’ottima visibilità facendosi conoscere a numerosi amatori del vino. Oltre a questo sono stati raggiunti accordi molto importanti con la dirigenza della Mostra Nazionale Vini, la Strada dei vini di Pramaggiore e altre organizzazioni associate, per garantire una sempre più propositiva e incisiva presenza della Fisar nel territorio.

Notizia inviata dal Delegato Celio Sartori

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in famiglia La Delegazione di Trapani premia l’eccellenza In occasione de “La giornata del

Sommelier”

celebrata

con uno squisito percorso enogastronomico tipico della terra di Sicilia, ha premiato con

due

apposite

targhe

il prof. Paolo Austero ed il Conte Burgio delle Gazzere. Paolo Austero, giovane e bravissimo chef, docente dell’ Istituto Alberghiero “Ignazio e Vincenzo Florio” di Erice, è stato premiato per l’alta professionalità

dimostrata,

anche a livello internazionale, nel nobile

promuovere cucina

conquistando

la

siciliana,

una serie di

vittorie in prestigiosi concorsi.

che lo hanno fatto apprezzare

Bruno Pastena, contribuì alla

In ordine di tempo, l’ultimo

nel

successo del prof Austero è

ricerca ed allo studio delle

dello sport e dell’agricoltura.

stato l’ambito

Gran Trofeo

origini

Il Conte, infatti, appartenente

ristorazione

ad un’antica nobile famiglia

cultivar autoctoni regionali.

d’oro Italiana,

della

conquistato

mondo

della

cultura,

di alcuni importanti

La simpatica manifestazione

a

siciliana impegnata da quasi

Brescia, appena un mese

un millennio in agricoltura, e

fa, in un concorso che l’ha

soprattutto in vitivinicoltura, è

visto protagonista con la sua

stato il primo consulente, a titolo

scolaresca, in una gara tra

gratuito, del primo Presidente

docenti ed alunni di ben 30

della Regione Siciliana, on.

istituti

europei.

Giuseppe Alessi. Con la sua

Per il Conte Aurelio Burgio è

preparazione ed esperienza il

stata consegnata agli eredi

Conte contribuì, nel 1947, alla

seicentesco Baglio Poggio

la targa alla memoria per la

redazione del Piano Agricolo

Allegro, di proprietà degli

figura del grande personaggio

Regionale. E, chiamato alla

eredi del Conte Aurelio Burgio

qual è stato, con interessi vari

collaborazione

delle Gazzere.

alberghieri

dal

prof.

di premiazione, tenutasi alla presenza del Consiglio della delegazione provinciale Fisar, è culminata in una degustazione

squisita

di vini e di

prodotti tipici, e si è tenuta in Mazara del Vallo,

nel

Notizia inviata da Attilio L. Vinci

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in famiglia Giornata del Sommelier a Villa Petriolo Lo scorso 15 maggio, in occasione della giornata del Sommelier, la Fisar, delegazione di Pisa, è stata ospite dell’azienda vinicola Villa Petriolo di Cerreto Guidi. Purtroppo i sommelier intervenuti non hanno beneficiato delle migliori condizioni meteo, ma sicuramente della squisita ospitalità dell’azienda. Nonostante la pioggia, leggera, ma insistente, la visita a Villa Petriolo è proceduta senza intoppi, secondo il programma stabilito con la titolare, la signora Silvia Maestrelli. Villa Petriolo era un’antica residenza dei Conti Guidi, passata poi alla nobile famiglia degli Alessandri di Firenze. Nel corso di quattro secoli, gli Alessandri hanno trasformato la proprietà, ricca di ville, giardini, orti e una fornace, quella di Golpaja. Quest’ultima secolare testimonianza ha sfornato, nel Cinquecento, i mattoni della Villa Medicea di Cerreto Guidi. Oltre al vino, Villa Petriolo, come ha tenuto a precisare la titolare, ha creato un concorso letterario, quest’anno alla sua quarta edizione, a cui partecipano scrittori emergenti con racconti inerenti il vino e l’enogastronomia, un importante strumento di promozione del territorio e delle sue tradizioni. La proprietà conta circa 160 ettari tra vigne, olivi e frutteti e produce sei diverse etichette di vino grazie alla preziosa collaborazione dell’enologo piemontese Federico Curtaz, che ha alle spalle una lunga collaborazione con Angelo Gaja. Dopo le notizie storiche la comitiva ha visitato le cantine con le grandi vasche in cemento e la barriccaia, nei sotterranei della villa settecentesca. Come illustrato dal signor Curtaz, intenzione dell’azienda è quella di arrivare in pochi anni alla selezione di vari cru di Chianti, uno per ogni diverso appezzamento, vista la grande variabilità dei terreni della tenuta. Sotto la guida dell’enologo la visita è proseguita con la degustazione guidata di due vini di Villa Petriolo e due vini della Tenuta di Fessina, azienda siciliana acquistata nel 2007 che sorge nel comune catanese di Castiglione di Sicilia. Nell’ampia sala preparata per l’occasione, ogni invitato ha avuto a disposizione quattro ampi calici e le schede dei vini in degustazione: IGT rosso di Toscana L’Imbrunire, Canaiolo in purezza, anno 2008; Etna rosso DOC Erse, Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio, anno 2008; Chianti DOCG Rosae

Mnemosis, Sangiovese in purezza, anno 2007; Etna rosso DOC Il Musmeci, Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio, 18 mesi in legno di tonneaux, anno 2007. Alla degustazione è seguita la cena, allestita in un’ampio locale della villa, adibito a cantina. È stato proposto un menù toscano, così composto: antipasto a base di affettati toscani, accompagnati da ricotta fresca, ceci e pomodorini conditi con olio extravergine dell’azienda, primo di crespelle ricotta e spinaci, coniglio ripieno con patate e trippa alla fiorentina con tanta cipolla, a conclusione crostata di

marmellata di albicocca. In abbinamento il Se, un Sicilia IGT di Chardonnay in purezza, poi il Chianti base Villa Petriolo del 2007, Sangiovese al 90% e Colorino. A seguire il Golpaja, IGT di Toscana, da uve Sangiovese (60%) e Merlot (40%), affinato in barrique per 14 mesi. Con la crostata di marmellata è stato servito il Vin Santo del Chianti del 2004, ottenuto con le varietà tradizionali, affinato per 5 anni in caratelli di rovere. Anche durante la cena l’enologo ha avuto cura di presentare e commentare i vini proposti. A conclusione della cena il delegato Messina Mariacristina, dopo i sinceri ringraziamenti alla Signora Maestrelli e al signor Curtaz, ha consegnato i tulipani d’oro ai sommelier Mustaro Davide e Lecci Nadia per il raggiungimento dei 50 servizi fatti. Oltre le foto di rito, scattate dal delegato, anche il responsabile dell’ufficio stampa dell’azienda, signora Diletta Lavoratorini, ha voluto immortalare in un video tutte le fasi della visita scaricati poi in un blog sul sito di Villa Petriolo.

Notizia inviata da Luca Barsanti, consigliere della FISAR di Pisa e Litorale

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in famiglia A Prato, cena di Gala e consegna dei diplomi Una serata di brio è stata quella del 9 Giugno, presso il ristorante Valentino alle Fontanelle di Prato, che ha visto riuniti insieme numerosi soci della Delegazione pratese. Sono stati consegnati gli attestati dei corsi appena conclusi. Un aperitivo Fantasia, servito ai bordi della piscina del sontuoso Ristorante, costituito da fritto di piccoli moscardini, brignoline salate etc.e accompagnato da un Prosecco Andreola extra dry, ha accomunato i vari corsisti, e permesso loro di conoscersi e socializzare, nell’attesa di sedere ad un grande tavolo ricco di decorazioni, in una sala riservata alla FISAR, sotto quella che nel passato era un’antica cascina. La Delegata ha salutato tutti i corsisti, complimentandosi con quanti hanno superato gli esami finali. Ha incoraggiato tutti nel proseguimento dell’impegno dimostrato nell’avvicinamento al vino ed al cibo; ancora una volta ha rivolto l’invito ad una costante partecipazione alla vita dell’Associazione. Ha ricordato i momenti salienti del percorso appena ultimato, attraverso anche le varie degustazioni, prima fra tutte quella alla Tenuta Argentiera di Bolgheri, rimasta nel cuore di tutti per l’esperienza fatta visitando le moderne cantine e degustando i supertuscan di Bolgheri. L’entusiasmo manifestato dai componenti dei due Corsi ha acceso gli animi alla speranza di un sempre più vivo impegno nella vita della Delegazione. Un saluto particolare ha riservato ai Consiglieri, che ha ringraziato uno ad uno per l’impegno profuso. Linguine alle vongole e arselle sgusciate sono state accompagnate da un Fiano di Avellino Radici docg 2009 di M. Berarodin; il poker di Valentino, costituito da capesante

ripiene, rombo alla mugnaia, uova di seppie con verdure di stagione, baccalà gratinato era accompagnato da un Soave doc 2009 Tremellini. Per finire Fresche delizie: tre semifreddi alla frutta (i tre colori della Nazionale, prima dell’inizio del Mondiale!, beneaguranti) serviti con il Moscato Rosa spumante Cormons. Il servizio dei vini è stato assicurato egregiamente dai Sommelier della FISAR, Fabrizio Fabbri e Alessio Vitale. La loro professionalità ha arricchito la serata conviviale. Sono stati assegnati con scrosci di applausi e flashes di foto gli attestati di primo livello ai seguenti corsisti: Bilotti Pierluigi, Cappelli Mario, De Stefano Luca, Lomi Enrico, Oliverio Santo, Palazzeschi Corrado, Parretti Stefano, Ponzecchi Amedeo, Ponzecchi Fabio, Totti Arturo, Varocchi Riccardo. Particolarmente festeggiati i nuovi Sommelier della FISAR Pratese: Bacarelli Maurizio, Bonistalli Jonni, Cappellini Paola, Gaiffi Simona, Lucchesi Isabella, Orlandi Simona, Pecchioli Stefano, Scarpellini Luigi, Vitiello Carmine. L’attestato di frequenza di terzo livello è stato dato a Rosati Andrea.

Notizia inviata da Vanda Ingarossa della Delegazione di Prato

SommelierLuglio-Agosto Luglio-Agosto2010 2010••n. n.44 IlIlSommelier

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in famiglia Ad Alessandria la FISAR Italia Nord Ovest celebra la Giornata del Sommelier 2010 Il pubblico è stata parte attiva Domenica 6 giugno 2010 nella intervenendo sull’argomento suggestiva location del Castello o con domande ai relatori. di Morsasco in provincia di A seguire è stato servito il pranzo Alessandria si è svolta la consueta sociale nel cortile del Castello a cura Giornata del Sommelier Fisar 2010 di “Villa Delfini Organizzazione Eventi, che quest’anno ha visto insieme dove lo chef Claudio Barisone, chef per la prima volta le delegazione conosciuto per la sua cucina con del coordinamento dell’Italia Nord il vino, ha deliziato i presenti con Ovest ( Lombardia, Piemonte, le sue specialità abbinati con i vini Liguria ed Emilia Romagna). del Podere La Guardia di Morsasco La manifestazione ha ricevuto serviti dai sommelier di Alessandria, il patrocinio istituzionale delle da sx Ferrari Orietta, delegazione che ospitava l’evento. Provincia di Alessandria. La il vincitore Piaggesi Luigi e Alle ore 15:00 è iniziato il giornata ha avuto inizio con Gori Maria Pia concorso per definire il Miglior un convegno dal tema “ Uno Sommelier FISAR 2010 - Italia Nord Ovest. strumento di comunicazione: la carta dei vini”. Il concorso ha visto i sommelier partecipanti Dopo i saluti iniziali di benvenuto da parte del cimentarsi sulla tecnica di servizio, su domande Delegato di Alessandria Lorenzo Diotti, in una sala di cultura generale legata al vino e su completamente piena di fisariani ed invitati provenienti una impegantiva prova di degustazione. da tutte le regioni dell’Italia Nord Ovest, ha preso la Per la prima volta anche il pubblico è stato parte parola il Componente la Giunta Nazionale Luigi Terzago attiva al concorso rispondendo alle domande per i saluti a nome del Consiglio Nazionale FISAR. e degustando i vini proposti ai concorrenti. Il convegno è stato moderato dal giornalista Roberto La classifica finale vedeva il sommelier ligure Luigi Rabachino - direttore della rivista Il Sommelier Piaggesi della Delegazione di Varazze primeggiare su e portavoce del coordinamento dell’Italia Nord tutti e ricevere il Trofeo messo in palio dalla Rastal, Ovest della FISAR - ed ha visto intervenire come sponsor ufficiale FISAR.Classifica finale generale: relatori l’Assessore all’Agricoltura della Provincia di 1° classificato e Miglior Sommelier Fisar 2010 Italia Alessandria Lino Rava ( che è anche il Presidente Nord Ovest: del Centro Sperimentale Regionale Vitivinicolo Piaggesi Luigi - Delegazione di Varazze Tenuta Cannona Carpeneto”), l’enotecaia Monica 2° classificato: Moccagatta e il produttore Walter Massa. Ferrari Orietta - Delegazione di Genova 3° classificato: Gori Maria Pia - Delegazione di Alessandria Gli altri concorrenti ( tutti 4° a pari merito): Astorino Ignazio – Delegazione di Torino Deserio Savino - Delegazione di Bareggio Iachipino Barbara – Delegazione di Biella Salomoni Silvana – Delegazione di Genova Schepis Franca – Delegazione di Pavia

in piedi Lorenzo Diotti, da sx Luigi Terzago, Lino Rava, Roberto Rabachino, Monica Moccagatta e Walter Mussa

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I primi tre classificati parteciperanno e saranno ospitati dalla FISAR al prossimo Concorso miglior Sommelier d’Italia 2010 che si svolgerà in ottobre in Veneto. Notizia inviata da Elisabetta Castellucci della Delegazione di Alessandria

Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4


DIVINANDO 2010 La sfida continua

di Alberto Giustarini

Divinando tornerà anche quest'anno, con la sua terza edizione, per rinnovare la sfida tra le delegazioni Fisar, all'insegna dell'amicizia e dell'amore per il mondo del vino

Quest'anno la finale avrà uno scenario

eliminatorie

quali

quindi, è per tutti a settembre per le

diverso. Sempre in Veneto, ma non

usciranno le sei squadre finaliste, che

eliminatorie e, successivamente per i finalisti

più in casa dello sponsor ufficiale della

si contenderanno il Trofeo, che nelle

a Castelbrando.

manifestazione, la prestigiosa Carpené

precendenti edizioni è stato appannaggio

Ma a vincere sarà, oltre all abilità, l’amicizia e

Malvolti, bensì nel suggestivo scenario

prima della delegazione FISAR Treviso e poi

l’amore per il vino.

di Castelbrando in Cison di Valmarino in

di Messina. L'auspicio

concomitanza con il Convegno Nazionale

è, ovviamente, che le

FISAR (12-14 novembre prossimi).

delegazioni partecipanti

Cambia il teatro della finale, ma non

siano

l’impianto e la filosofia del gioco che, come

superiore a quello delle

al solito, metterà a dura prova l'abilità e la

passate edizioni.

preparazione delle squadre partecipanti. Sì,

Già ci arrivano, in questo

perché Divinando non si limita ad essere

senso, segnali molto

un test di preparazione specifica sul vino,

incoraggianti, anche se

ma necessita di una preparazione a più

qualche delegazione è

ampio raggio: dalla musica, al cinema, alla

frenata dal fatto della

letteratura, a tutto ciò che ruota interno al

difficoltà della prova.

mondo del vino. Ed è proprio per questo

In effetti, per partecipare

che, nei suoi primi due anni di vita, ha

al

riscosso tanto successo, a partire proprio

necessario

da chi vi ha materialmente partecipato.

dubbio

Ma un altro aspetto che conta, e non poco,

allenamento,

in Divinando è che questo concorso,

ad

questo

preparazione.

gioco,

si

è

immediatamente

interregionali,

in

numero

Divinando, un

po

di oltre

un'indubbia

Ma

conta, per riuscire, è lo

Così sono nate amicizie, gemellaggi, ulteriori

spirito di squadra; quello

occasioni di incontro, non più limitate a

che porta a superare i

quelle meramente istituzionali. In definitiva

momenti più difficili ed

“Divinando” sta contribuendo a creare uno

a trovare la soluzione ai

spirito autenticamente fisariano.

quesiti più complessi.

avranno

luogo

le

fasi

2010

è

delegazioni, anche lontanissime tra loro.

settembre

diVinand inando diV

senza

trasformato in un'occasione di incontro tra

In

dalle

quello

che

più

L'appuntamento,

Regolamento, moduli iscrizione e calendario disponibili sul sito

®

FEDERAZIONE ITALIANA SOMMELIER ALBERGATORI RISTORATORI

www.fisar.com

Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4

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Dal 12 al 14 novembre a Cison di Valmarino (Tv) il prossimo Congresso FISAR. La Segreteria comunica

La rubrica «la segreteria comunica» ospita, in questo numero, la delegazione Fisar di Treviso che si prepara a ospitare, in uno degli angoli più belli del Veneto, il prossimo Congresso Nazionale dell’Associazione

I

l luogo scelto è Castelbrando, cioè lo storico

ferro di cavallo; una struttura lineare e imponente di un

Castello Brandolini, che è un antico e possente

rigoroso stile classico. Nel 1997 il massiccio Castello

maniero in comune di Cison di Valmarino.

viene acquistato e restaurato completamente da

Il grande e stupendo fortilizio ha alle spalle oltre

una società privata che lo ha riportato al fascino

duemila anni di storia, poiché il luogo era abitato

dei tempi del suo massimo splendore, realizzando

già nella preistoria e nel 15 a.C., con la costruzione

una un raffinato hotel quattro stelle con 80 eleganti

della via imperiale Claudia Augusta, che da Altinum

camere, suite e appartamenti ubicati in tre contesti

(alle porte di Venezia), attraverso le Alpi arrivava

diversi di grande fascino; un moderno Centro

ad Augusta Vindelicorum (l’odierna Augsburg in

Benessere situato nell’ala più antica del castello;

Baviera), qui venne eretto il primo castrum romano

un elegante e raffinato ristorante ed un altro più

a difesa e controllo dell’importante strada militare e

informale e diversi bar, cantine ed enoteche; un

commerciale.

centro congressi ed eventi composto da ben tre

Nel corso dei secoli conobbe una serie di

teatri e 7 sale: lo storico “Salone degli Stemmi”,

ampliamenti: fu dimora dei Da Camino, una famiglia

il Teatro Magno, il Teatro Tenda e le splendide

di guerrieri di stirpe longobarda che nel medioevo

sale del ‘700. Questo è il luogo proposto dalla

signoreggiarono sulla Marca Trevigiana e che lo

Delegazione di Treviso per la prossima Assemblea

cinsero interamente di una imponente merlatura

Nazionale: un esaltante tuffo nella storia e … nel

alla guelfa e vi eressero una torre centrale; passò

vino, visto che il Castello domina un’ampia parte

poi sotto il controllo della Repubblica di Venezia,

delle colline dove nascono il Prosecco e i Vini che

che lo diede in feudo prima al doge Marin Faliero e

portano le insegne dei Colli di Conegliano, mentre,

poi, per meriti d’arme, ai capitani di ventura Giovanni

a valle, si sviluppa l’ampio comparto dei grandi Vini

Brandolino ed Erasmo da Narni, più noto come il

del Piave. Qui la Delegazione FISAR Treviso attende

Gattamelata. Con la famiglia Brandolini, che più

i colleghi sommelier e gli amici soci e sostenitori di

di altre ne ha segnato la storia e il carattere, nel

tutta Italia per un appuntamento assolutamente da

cinquecento, il maniero venne ampliato nella sua

non mancare per vivere, tutti insieme, un’esperienza

parte centrale con gusto sansoviniano che ne

unica e indimenticabile.

impresse un garbo veneziano. L’ultimo a sorgere è stato il corpo settecentesco a

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Il Sommelier Luglio-Agosto 2010 • n. 4

Delegazione FISAR Treviso


Congresso Nazionale f.i.s.a.r.

Cison di Valmarino (Tv)

dal 12 al 14 Novembre2010

Via B. Brandolini, 29 - 31030 Cison di Valmarino (Tv) • Tel. 0438 9761 • www.hotelcastelbrando.com



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