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VALERIO BISPURI interview
interview
VALERIO BISPURI
Valerio Bispuri è un fotoreporter conosciuto per alcuni suoi lavori importanti. Lo abbiamo incontrato per saperne di più sui suoi progetti, passati e recenti. “Prigionieri”, “Encerrados” e “Paco”, formano una vera e propria trilogia sulla libertà perduta.
Valerio Bispuri is a photojournalist known for some of his important works. We caught up with him to find out more about his past and recent projects. “Prisoners”, “Encerrados” and “Paco” form a real trilogy on lost freedom.
Carcere penitenceria, Santiago del Chile. 2008
INTERVISTA DI ELEONORA BOVE
Eleonora Bove: Il tuo primo lavoro come fotoreporter risale al 2001. Come mai hai sposato fin da subito il genere del reportage? Cosa ti affascinava e come sei arrivato a collaborare con testate importanti?
Valerio Bispuri: La mia passione per la fotografia nasce nel 1989, all’età di 18 anni. Partecipo ad un corso di fotografia organizzato dalla Regione Lazio: diventa una passione che poi decido di far divenire una professione nel 2000. Nel 2001 parto per il Sud America, vado a vivere in Argentina e porto avanti contemporaneamente il mio primo lavoro come fotoreporter: racconto la crisi economica in Argentina. Da lì nasce un po’ tutto quanto: decido di vivere in questo Paese per 10 anni e inizio ad occuparmi di certe tematiche fotografiche. A me è sempre interessato raccontare, soprattutto le situazioni più complicate, invisibili. Da ragazzo credevo che potessi utilizzare la scrittura, poi invece sono riuscito a farlo tramite la fotografia e le immagini. Vivo la fotografia solamente come un mezzo per raccontare le situazioni estreme e nascoste, che hanno un po’ come tematica in comune la libertà perduta. Nasce da un bisogno interiore, non c’è una motivazione logica. La collaborazione con le testate giornalistiche è venuta un po’ di conseguenza. Nel 2001, quando ho lavorato sul progetto riguardante la crisi economica argentina, ho contattato molte delle testate giornalistiche in quanto lavoravo già come giornalista e avevo dei contatti. Mi sono proposto come fotografo ed è stato un primo passo. Al di là dei contatti, se un lavoro è valido, è sufficiente inviarlo ai photo editor delle varie riviste. Se ha una forza espressiva, prima o poi viene senz’altro pubblicato. E’ quello che insegno sempre ai miei alunni. Comunque, riuscire ad entrare nel mondo del fotogiornalismo è stato un passo molto difficile e compiuto con estrema calma: ogni volta era un tassello che aggiungevo in più. Era tutto un percorso da compiere per entrare nel sistema.
Eleonora Bove: Your first job as a photojournalist dates back to 2001. Why did you embrace the reportage genre right from the start? What fascinated you and how did you come to collaborate with important newspapers?
Valerio Bispuri: My passion for photography was born in 1989, at the age of 18. I take part in a photography course organized by the Lazio Region: it becomes a passion that I then decide to make a profession in 2000. In 2001 I leave for South America, I go to live in Argentina and at the same time I carry on my first job as a photojournalist: story the economic crisis in Argentina. From there a little of everything arises: I decide to live in this country for 10 years and I start to deal with certain photographic themes. I am always interested in telling, especially the most complicated, invisible situations. As a boy I thought I could use writing, but then I managed to do it through photography and images. I live photography only as a means to tell the extreme and hidden situations, which have a bit of a common theme of lost freedom. It comes from an inner need, there is no logical motivation. The collaboration with the newspapers has come a bit ‘as a consequence. In 2001, when I worked on the project concerning the Argentine economic crisis, I contacted many of the newspapers as I was already working as a journalist and had contacts. I proposed myself as a photographer and it was a first step. Beyond the contacts, if a work is valid, it is sufficient to send it to the photo editors of the various magazines. If it has an expressive force, sooner or later it is certainly published. That’s what I always teach my pupils. However, being able to enter the world of photojournalism was a very difficult step and taken with extreme calm: each time it was an extra piece that I added. It was all a process to go through to get into the system.
EB: Il tuo primo progetto importante riguarda le carceri sudamericane. Ottieni il permesso per accedere al padiglione di Mendoza, dove erano rinchiusi i carcerati più pericolosi. Quali sono state le difficoltà riscontrate durante gli scatti e quanto ha inciso questo tuo lavoro su quello realizzato successivamente nelle carceri italiane?
VB: “Encerrados” per me è il mio primo progetto, quello più importante, che ha marcato probabilmente tutto il mio successo giornalistico. I permessi nelle carceri sono stati un po’ una conseguenza. Questo progetto nasce in Ecuador, quando visito un carcere. Vedendo le carceri in Ecuador, non appena rientro in Argentina provo ad entrare in quelle argentine ed inizia pertanto a formarsi un progetto sulla libertà perduta. L’episodio di Mendoza è un po’ particolare: c’era questo padiglione numero 5 che non volevano farmi visitare dicendomi che era uno dei più pericolosi. Dopo una certa insistenza, mi hanno fatto firmare un’autorizzazione in cui mi assumevo le mie responsabilità. Sono entrato in contatto con una realtà disumana. In seguito ad un’esposizione a Buenos Aires, tale padiglione è stato liberato. I detenuti sono stati infatti trasferiti. Per me, è stato un processo molto importante. I permessi sono stati facili da ottenere in alcune zone come la Colombia; in Chile o in Bolivia, ad esempio, tutto ciò è stato più difficile. E’ strano come nei Paesi di sinistra sia stato un procedimento più difficile rispetto ad altri più chiusi, di Destra. Ogni volta inviavo un foglio all’Ambasciata italiana con un progetto scritto: alla fine, ho potuto raccontare le carceri in Sud America. “Prigionieri” nasce invece in una forma diversa: è il frutto di alcuni prigionieri di Poggio Reale che mi chiedevono di fotografare anche le carceri italiane. Da lì, pensavo che fosse più difficile. All’inizio credevo infatti di fare uno spin-off, ma poi l’idea si è allargata a varie carceri in Italia.
EB: Your first major project is about South American prisons. Youobtain permission to enter the Mendoza Pavilion, where the most dangerous inmates were held. What were the difficulties encountered during the shots and how much did your work affect the one made later in Italian prisons?
VB: “Encerrados” for me is my first project, the most important one, which probably marked all my journalistic success. Permits in prisons were a bit of a consequence. This project was born in Ecuador, when I visit a prison. Seeing the prisons in Ecuador, as soon as I return to Argentina I try to enter the Argentine ones and therefore a project on lost freedom begins to form. The Mendoza episode is a bit special: there was this pavilion number 5 that they didn’t want me to visit and told me it was one of the most dangerous. After some insistence, they made me sign an authorization in which I assumed my responsibilities. I came into contact with an inhuman reality. Following an exhibition in Buenos Aires, this pavilion was released. The inmates were in fact transferred. For me, it was a very important process. Permits have been easy to obtain in some areas such as Colombia; in Chile or Bolivia, for example, all this was more difficult. It is strange how in the countries of the left it was a more difficult procedure than in other more closed ones, of the Right. Each time I sent a sheet to the Italian Embassy with a written project: in the end, I was able to tell about prisons in South America. “Prigionieri”, on the other hand, was born in a different form: it is the fruit of some prisoners from PoggioReale who asked me to photograph Italian prisons as well. From there, I thought it was more difficult. At the beginning I thought I was doing a spin-off, but then the idea spread to various prisons in Italy.
Prigionieri carcere di Regina Coeli, Roma. 2018
EB: Come mai hai deciso di portare avanti un progetto legato ad una donna lesbica e com’è stato interagire con lei in merito ad una questione talmente intima?
VB: E’ un lavoro che io avverto lontano e non è tra i principali del mio percorso fotografico, E’ durato quasi 6 anni. L’Argentina è il primo Paese che ha concesso il matrimonio tra omosessuali e dunque mi sembrava interessante raccontare una coppia lesbica che si sposava. E’ stato un lavoro fatto insieme a loro. Giorno per giorno, con fiducia e rispetto.
EB: Why did you decide to carry out a project related to a lesbian woman and what was it like interacting with her on such an intimate issue?
VB: It is a work that I feel far away and it is not among the main ones in my photographic journey. It lasted almost 6 years. Argentina is the first country that allowed marriage between homosexuals and therefore it seemed interesting to me to tell a lesbian couple who were getting married. It was a job done with them. Day by day, with confidence and respect.
EB: Hai il merito di aver sensibilizzato l’opinione pubblica sulla questione legata al paco. Sei riuscito a far allontanare da questa droga letale alcuni di coloro che ne facevano uso?
VB: Per quanto riguarda invece il paco, è stato uno dei miei progetti più lunghi, iniziato nel 2001 con la crisi economica argenitina, in quanto questa droga è proprio figlia di quella crisi. E’ un lavoro che mi ha tenuto col fiato sospeso per molto tempo poiché mi sono serviti 14 anni per comprendere da dove venivano questi ragazzi che ne facevano uso, ma anche cosa c’era intorno ad essi. E’ stato un grosso lavoro. L’ultima parte di esso è stato dedicato ai ragazzi che provano ad uscirne, cosa quasi impossibile in quanto anche allontanandosi dal contesto del paco, restano in una realtà molto complessa. Direi che il mio lavoro sia servito, in qualche modo, a sensibilizzare e a raccontare una droga così lontana da noi. Non so se sono stato capace ad aiutare qualcuno. Ci sono sicuramente dei donatori che danno un supporto all’Associazione che si occupa di aiutare i bambini e i ragazzi ad uscire dal paco. E’ il mio secondo lavoro, dopo “Encerrados”, anche se ha camminato parallelamente ad esso. E’ un lavoro a cui tengo particolarmente.
EB: You have the merit of having sensitized public opinion on the issue related to the paco. Were you able to get some of those who used it away from this lethal drug?
VB: As for the paco, it was one of my longest projects, started in 2001 with the Argenitine economic crisis, as this drug is the daughter of that crisis. It is a job that has kept me in suspense for a long time since it took me 14 years to understand where these guys who used it came from, but also what was around them. It was a big job. The last part of it was dedicated to young people who try to get out of it, which is almost impossible as even moving away from the context of the paco, they remain in a very complex reality. I would say that my work has served, in some way, to raise awareness and to tell a drug so far away from us. I don’t know if I was able to help anyone. There are certainly donors who give support to the Association that deals with helping children and young people to get out of the pack. It is my second job, after “Encerrados”, although it has walked parallel to it. It is a job that I particularly care about.
Filippine, Manila. 2014
Paco, Buenos Aires. 2012
EB: Tratti un tipo di fotografia dove l’estetica passa in secondo piano rispetto ai contenuti. Che posto occupa dunque nei tuoi lavori? VB: L’estetica non è in secondo piano. Credo sempre che una buona foto sia importante. Più una foto è bella esteticamente, più si fa guardare. Io sono contro le foto che sono solo estetica, quando sono solo forme, linee e luci che non portano a nulla. Prediligo una foto dove c’è principalmente la narrazione, la profondità. Poi l’estetica aggiunge qualcosa al racconto e al percorso fotografico. Una foto bella può essere fatta da tutti. E’ più difficile fare una foto che abbia un racconto dietro e ricerca. Non sono contro l’estetica. Sono dunque favorevole ad un’estetica che aggiunge qualcosa alla profondità. EB: You are dealing with a type of photography where aesthetics take a back seat to content. So what place does it occupy in your works?
VB: Aesthetics are not in the background. I always believe that a good photo is important. The more aesthetically beautiful a photo is, the more it makes you look. I am against photos that are only aesthetic, when they are only shapes, lines and lights that lead nowhere. I prefer a photo where there is mainly the narration, the depth. Then the aesthetics add something to the story and the photographic journey. A beautiful photo can be taken by anyone. It is more difficult to take a photo that has a story behind it and research. I’m not against aesthetics. I am therefore in favor of an aesthetic that adds something to depth.
EB: Quali sono i lavori a cui stai lavorando attualmente?
VB: Ora sto lavorando a due progetti, essenzialmente. Il primo è un progetto sulla malattia mentale, iniziato due anni fa in Africa: sono stato in Zambia, in Kenya; la malattia mentale è qualcosa di oscuro in quei Paesi. Col Coronavirus si è bloccata la possibilità di viaggiare e mi sto occupando da mesi della malattia mentale in Italia. Il DSM (Dipartimento di Salute Mentale) qui a Roma mi ha aperto le porte. Sono riuscito ad accedere alle strutture dedicate ad essa. Anche la malattia mentale dopotutto è una libertà perduta. Poi ho ripreso anche il lavoro sui rom, al quale tengo tantissimo. Ho iniziato a lavorare su questa tematica da giovanissimo, dopo oltre 20 anni ho ripreso a fare ciò. Sono stato nei campi. Ho esplorato questo mondo anche bistrattato e odiato nelle varie società. Inoltre, attualmente porto avanti due lavori: uno riguarda i sordi e l’altro sul traffico di donne in Argentina, da cui sto fermo da alcuni mesi. Dunque, principamente sto lavorando sulla malattia mentale e sui rom. In seconda battuta, vi sono il progetto sui sordi e quello sul traffico delle donne in Argentina. EB: What are the jobs you are currently working on?
VB: I’m working on two projects now, essentially. The first is a project on mental illness, started two years ago in Africa: I was in Zambia, Kenya; mental illness is something dark in those countries. With the Coronavirus the possibility of traveling has been blocked and I have been dealing with mental illness in Italy for months. The DSM (Department of Mental Health) here in Rome opened its doors for me. I was able to access the facilities dedicated to it. Mental illness is also a lost freedom after all. Then I also resumed the work on the Gypsies, which I really care about. I started working on this issue at a very young age, after over 20 years I started doing this again. I’ve been in the fields. I explored this world even mistreated and hated in various societies. In addition, I currently carry out two jobs: one concerns the deaf and the other on the trafficking of women in Argentina, from which I have been stopped for some months. So, mostly I’m working on mental illness and Gypsies. Secondly, there is the project on the deaf and the one on the trafficking of women in Argentina.
WEBSITE | valeriobispuri.com INSTAGRAM | @valerio.bispuri FACEBOOK | valeriobispuri
Interview by ELEONORA BOVE INSTAGRAM | @eleonoraannabove