Officinae 2013 Settembre

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Trimestrale internazionale di attualità , storia e cultura esoterica — Anno XXV - Settembre 2013 - n.3


Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXV - n.3 - Settembre 2013 Direttore Editoriale e Responsabile LUIGI PRUNETI Direttore ANNA GIACOMINI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Comitato di Redazione LINA ROTONDI LUISA CERAVOLO SABRINA CONTI VALERIA DI PACE STEFANO MOMENTÉ FEDERICA POZZI GIANCARLO GUERRERI MATTEO BARTOLETTI RENATA SALERNO Comitato Scientifico VINCENZO CIANCIO ALDO ALESSANDRO MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI RAFFAELE MARRŸ PAOLO MAGGI RENATO ARIANO BARBARA NARDACCI hanno collaborato a questo numero DAVIDE ARECCO LUCA BAGATIN PIERO BIANUCCI ANTONIO BINNI GIULIANO BOARETTO GIUSEPPE CIRILLO PIOTR DE PESLIN LACHERT MAURIZIO GALAFATE ORLANDI GIUSEPPE IVAN LANTOS GERARDINA LAUDATO IDA LI VIGNI PAOLO MAGGI ALDO ALESSANDRO MOLA CLAUDIO NOBBIO ANTONELLA OREFICE LIDIA PARENTELLI MARIA SOFIA PERRELLA ROBERTO PINOTTI LUIGI PRUNETI PAOLO ALDO ROSSI ANNALISA SANTINI JEAN MARC SCHIVO FIORENZO SOGNI PATRIZIA TASSELLI ANTONINO ZARCONE progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO


L.Pruneti - Congedo — 2 A.A.Mola - Masons in Italy — 4 A.Binni - La ‘Carta del Carnaro’ — 22 M.Galafate Orlandi - Il manoscritto di Cooke — 30 G.I.Lantos - La giustizia massonica e la dea Maat — 34 P.Tasselli - La stanza buia — 38 P.De Peslin Lachert - Iniziazione — 44 A.A.Mola - Aldo Chiarle, Maestro massone — 48 A.Zarcone - Francesco Baracca — 50 P.A.Rossi - L’utopia rosacrociana in Johann Valentin Andreæ — 54 A.Binni - Giordano Bruno — 64 A.Orefice - Mariano d’Ayala — 76 I.Li Vigni - Secoli d’oro o secoli di ferro: quale Rinascimento? — 80 G. Laudato - Fede e Libero pensiero — 86 G.Boaretto - J.R.R. Tolkien — 96 L.Pruneti - Un incontro fra le nuvole — 98

Sommario

P.Maggi - 1988: Missione su Marte — 104 C.Nobbio - Ciao Hugo — 108

J.M.Schivo - Notre-Dame de Paris, tra materia e luce — 112 F.Sogni e M.S.Perrella - Il mistero dei giorni della settimana — 124 R.Pinotti - Extraterrestri, Angeli e Tradizione esoterica — 130 L.Parentelli - Diario di Bordo: Washington massonica — 138 G.Cirillo - Il Caban, l’Eskimo e... il Loden — 144 A.Santini - Ex Libris — 147 In Biblioteca — 152 Fregi di Loggia — 167


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ari Fratelli e lettori, questo numero equinoziale chiude un ciclo che si aprì tanto tempo fa quando, eletto alla suprema carica il Fratello Luigi Danesin, fui nominato direttore responsabile di Officinae. Sono passati dodici anni da quei giorni che hanno visto il nostro trimestrale crescere e affermarsi nel mondo massonico e in quello profano. Dal fascicolo di poche facciate siamo passati a un volume rilegato che – nel caso dei numeri doppi – conta ben centosessanta pagine. La veste grafica è stata via via migliorata come pure la qualità delle immagini, anche se una particolare attenzione è stata rivolta ai contenuti che si sono avvalsi dell’opera di studiosi di chiara fama, in taluni casi esterni alla Comunione pur essendone vicini per pensiero e idee. La Rivista è stata, in seguito, distribuita in librerie specializzate, ottenendo ovunque consensi e apprezzamenti. Ho avuto in questi anni occasione d’incontrare numerosi uomini politici e spesso sono rimasto sorpreso nel constatare che conoscevano Officinae e l’ammiravano, considerandola una pubblicazione bella e interessante, priva di schematismi e di preconcetti. Nessun timore: a un ciclo ne seguirà un altro che mi auguro sia più luminoso di quello che si sta concludendo; per il futuro avremo tempo, ora però è il momento di congedarsi, ringraziando tutti coloro che per oltre un decennio hanno collaborato alla nostra rivista, permettendole di crescere e di migliorarsi. Fra i tanti voglio ricordare il professor Aldo Alessandro Mola al quale sono legato, da oltre vent’anni, da affetto e profonda amicizia. Studioso di eccezionale competenza e storico rigoroso, nemico dalle ciclotimiche mode culturali, tessute d’ipocrisia e di conformismi ideologici, è stato e rimarrà un timone sicuro per navigare nel mare pressoché infinito della conoscenza. Un pensiero poi per Paolo Aldo Rossi e Ida Li Vigni che si sono adoperati in ogni modo, offrendo contributi fondamentali, costituendo, de facto, il nucleo portante della Redazio-

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ne, correggendo bozze e offrendo idee e spunti sempre preziosi. Non posso dimenticare Roberto Pinotti, studioso di fama internazionale e amico carissimo, sempre al servizio del trimestrale e autore di pezzi pregevolissimi. Concludo, infine, ringraziando Paolo Del Freo che iniziò a lavorare per il periodico della Gran Loggia d’Italia in epoca antidiluviana. Lo incontrai per la prima volta a Pisa forse nel 1995: aveva diversi anni di meno e qualche capello in più. Grafico straordinario e abilissimo fotografo, si è dedicato a Officinae non solo con professionalità di altissimo livello ma, soprattutto, con entusiasmo e affetto, come si è soliti fare con un figlio che si vede crescere giorno per giorno. Non può mancare, in chiusura, un pensiero per quei collaboratori che non ci sono più, pur vivendo nella nostra memoria. Antonio Piromalli fu il primo a lasciarci, subito dopo l’importante convegno tenuto a Viareggio su Hugo Pratt. Esperto di letteratura italiana, di cui scrisse saggi fondamentali, fu un maestro per tutti coloro che ebbero la fortuna d’incontrarlo. Il ricordo va poi ad Anna Giacomini, il cui nome ho voluto nel colophon fino al presente numero. Ricercatrice geniale e ottima penna, riusciva a essere creativa e pragmatica, sognatrice e razionale; direttore della rivista dal 2002 fino al momento della dipartita, fu l’artefice del nuovo corso, quello del successo e dell’affermazione. Una fronda di acacia, sul retro copertina, segna anche il nome di Renata Salerno. Se ne andò questa primavera, all’improvviso e da quel momento Officinae e la Comunione persero una delle principali risorse, giacché Renata era intelligenza e volontà, coraggio e buon senso, probità e entusiasmo. Tanti nomi per una testata che, nata un quarto secolo fa, è diventata uno dei più importanti periodici massonici europei e continuerà ad esserlo ancor di più se conserverà la vicinanza, l’attenzione e l’affetto di tutti voi cari Fratelli e lettori. P.2-3: Plenilunio, 2013, (fotografia P.Del Freo).


Congedo Luigi Pruneti

Odor di muschio nella roggia antica e dell’acqua che scorre la canzone di ciò che se ne va per non tornare. Come quei giorni ormai senza stagione che porto via, fidando di affrancare dalla nebbia del tempo l’emozione di tutti voi il ricordo familiare. Per questo saldi nella mia memoria sarete sempre fratelli di elezione che nella vita mi avete regalato del tempio e del cammino l’emozione. Ma ora ho fretta, debbo salutare. La Luna che risplende mi rammenta che è giunta l’ora della notte argentea, per lo specchio che devo attraversare.

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(Sponsored by the Grand Lodge of California’s Institute for Masonic Studies and the University of California, Los Angeles)

Masons in Italy Borderland between fanaticism and liberty. Aldo Alessandro Mola

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Le origini in Italia, in un’età di cambiamenti profondi. In Italia la Massoneria fu introdotta nel 1730 da Inglesi residenti a Firenze, capitale del Granducato di Toscana governato dall’ultimo De’ Medici, il dissoluto Giangastone (17301738). Sono state avanzate molte ipotesi su logge precedentemente fondate a Napoli o a Roma, ma senza documentazione convincente. Sappiamo di sicuro che la Massoneria in Italia arrivò dall’estero e che per molti decenni i Massoni rimasero nuclei di poche decine di affiliati. Formate da aristocratici, studiosi, persone ricche e colte, quasi sempre le logge contarono anche sacerdoti cattolici. In Italia la Massoneria si diffuse in coincidenza con profondi mutamenti politici, culturali e religiosi. Non vi è alcuna prova che i Massoni vi abbiano avuto un’unica regia, né che siano stati orchestrati dall’estero, in specie dalla Massoneria inglese, l’unica già dotata di organizzazione unitaria, anche se ancora in via di assestamento. In primo luogo, dopo secoli di stabilità, in Italia avvennero cambiamenti politici generali. Al dominio degli Asburgo di Spagna, che dal Cinquecento controllavano direttamente o indirettamente quasi tutto il paese, nel 17131714, cioè dopo la Guerra di Successione sul trono di Spagna (sul quale salì Filippo di Borbone, nipote di Luigi XIV di Francia), subentrò il Sacro Romano Impero (Asburgo d’Austria), che ottenne Milano e l’Italia Meridionale, mentre la Sicilia fu assegnata al duca Vittorio Amedeo II di Savoia, col titolo di re. Nel 1738, dopo la Guerra di Successione sul trono di Polonia, l’Austria venne sostituita nel Regno di Napoli e di Sicilia dai Borbone di Spagna, cioè dalla stessa dinastia che sedeva sul trono di Francia. Il cambio fu bilanciato con l’assegnazione della Toscana a Francesco Stefano di Lorena, marito dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria. L’imperatore consorte era stato iniziato alla Massoneria; sarebbe però ingenuo dedurne che l’Impero o il governo delle sue tante e diverse province fossero perciò “orientati” dalla Libera Muratorìa. La pace di Aquisgrana (1748), a conclusione della guerra che confermò Maria Teresa sul trono imperiale di Vienna contro la tradizione che lo riservava esclusivamente ai maschi per il suo ca-


rattere sacrale, confermò gli equilibri esistenti in Italia. Risultò evidente il declino di Stati un tempo potenti e prestigiosi, come la Repubblica di Venezia e lo Stato Pontificio. Le Repubbliche di Genova e di Lucca erano piccole e deboli. La seconda trasformazione riguardò la vita culturale. Essa ebbe i suoi centri vitali a Napoli, dal 1734 capitale di un regno autonomo con Carlo III di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna e suo successore designato; e a Milano, ducato assegnato all’Impero d’Austria. Napoli, Milano e Firenze divennero centri di ricerca scientifica e di diffusione del pensiero illuministico anglo-franco-germanico, nell’ambito delle dinamiche in corso in tanta parte d’Europa e delle Americhe, come ha documentato Margaret Jacob in L’Illuminismo radicale (Bologna, 1983) e in Massoneria illuminata (Torino,1995). Anche centri minori, come Parma (passata ai Borbone di Spagna), Padova, Modena, Cremona, e città portuali (Livorno, Palermo) divennero sede di scambi culturali propizi alla installazione di logge. Il terzo cambiamento si intrecciò con quelli politici e culturali e riguardò la vita religiosa. Finite le guerre di religione, che non riguardarono direttamente l’Italia, ove l’unica minoranza (i Valdesi, evangelici) venne tollerata nei domini dei Savoia, la cristianità rimase divisa non solo tra Occidente e Oriente, ma anche tra Cattolici, Evangelici e Riformati. Gli Ebrei rimasero invece privi di diritti civili e politici, a parte avare concessioni nell’Impero asburgico. La Chiesa di Roma esaurì la spinta innovatrice della Riforma cattolica, condannò il giansenismo (Clemente XI) e sondò il dialogo con i protestanti (Benedetto XIV, 17401758), ma senza convinzione e quindi senza successo. Nel 1773 papa Clemente XIV sciolse la Compagnia di Gesù, fino a quel momento molto influente sulla vita intellettuale e politica, ma ormai in conflitto con le potenze cattoliche (anzitutto i Borbone e i Braganza in Portogallo) e con la cultura dei Lumi. In Italia inizialmente le logge furono strumento di penetrazione degli Inglesi. Questi temevano che il Mediterraneo divenisse un lago dominato dai Borbone, il cui potere andava dalla Spagna all’Adriatico. Gli Inglesi mirarono a creare un’o-

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Come negli Stati Uniti studiano la storia della Massoneria: La ‘‘II Conferenza Internazionale sulla Massoneria’’ UCLA - Università di Los Angeles, 6 aprile 2013

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abato 6 aprile si è svolta all’Università di Los Angeles (California, USA) la II Conferenza Internazionale sulla Massoneria. Essa è stata promossa dall’Istituto per gli studi massonici della Gran Loggia di California, diretto da Margaret Jacob, studiosa di prestigio internazionale assoluto, e dall’UCLA (University of California, Los Angeles). Margaret Jacob è storica di fama internazionale. Interessata, anche per motivi famigliari, al secolare conflitto religioso e politico anglo-irlandese, ha percorso una prestigiosa carriera accademica, dal St. Joseph College di Brooklyn alla Cornell University, all’Università di Tampa (1968). Si è dedicata alla storia euroamericana con saggi e opere di riferimento, quali Western Civilization: a concise history ora alla IX edizione. Ha ottenuto riconoscimenti dalle istituzioni accademiche più prestigiose (Harward University, Institute for Advanced Study di Princeton, Fulbright

Foundation, National Science Foundation, Guggenheim Foundation. Docente invitata da numerose Università europee e membro della Royal Historical Society, candidata alla presidenza dell’American Society for Eighteenth Century Studies è componente del comitato scientifico di riviste quali Journal of Modern History, Journal of British History, Isis, Eighteenth Century Studies. In Italia sono da tempo note sue opere magistrali, quali Illuminismo radicale Massoneria illuminata. Un suo conciso studio del 2012 ha fissato le radici vere e le leggende della nascita della Massoneria. Margaret Jacob dirige altresì il programma Massoneria e società civile incardinato nell’Università di Los Angeles, con il sostegno della Gran Loggia di California. Alla Conferenza di Los Angeles sono stati relatori Steven C.Bullock, docente all’Istituto Politecnico di Worcester, che ha esaminato “il futuro del passato” massonico: 5


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un amabile gioco di parole per illustrare le reali prospettive di un Ordine in rapido “invecchiamento”; Marie-Cécile Revauger, dell’Università di Bordeaux (curatrice con Charles Porset del poderoso Dizionario dei massoni del Settecento), che ha ripercorso la Massoneria femminile in Francia dal XVIII secolo a oggi; Alexandre Mansur-Barata, dell’Università Federale di Ruiz de Fora (Brasile), autore di un acuto affresco della Massoneria brasiliana nell’Ottocento, con speciale attenzione per la sua composizione sociale; e Jessica Harland-Jacobs, dell’Università della Florida (USA), cui si deve un suggestivo studio su Massoneria, impero e globalizzazione: una visione innovativa delle logge quali network planetario, basata su una miriade di informazioni analitiche sull’accelerazione di comunicazioni e trasporti. I lavori sono stati aperti dal Gran Maestro della Gran Loggia della California John L.Cooper e dal suo futuro successore John F.Lowe; coordinati dal Gran Cerimoniere della Gran Loggia e dalle prof.sse Margaret Jacob e Maria Eugenia (“Maru”) Vazquez Semadeni. Artefice instancabile della Conferenza, Maru Vazquez 6

ha pubblicato un fondamentale saggio sulla Massoneria nella formazione del Messico all’indomani dell’indipendenza e cura la pubblicazione degli Atti nei Quaderni REHMLAC (Rivista di studi storici sulla massoneria dell’America latina e caraibica). Alla Conferenza l’Italia è stata presente con Aldo A. Mola (Masons in Italy: Borderland betweeen Fanaticisms & Liberty), ampio affresco sulle maggiori difficoltà incontrate dalla Libera Muratoria in un Paese nel quale essa è stata talvolta conosciuta, mai riconosciuta, quasi sempre perseguitata e screditata. Ne pubblichiamo la versione in italiano, precisando che essa è destinata a un pubblico d’oltre Atlantico, che si accosta con difficoltà alle problematiche della Massoneria in Europa e specialmente in Italia. Laggiù la Massoneria è sempre stata libera di operare alla Vera Luce del Sole. In alcuni Pae-si americani (è il caso del Costa Rica) è stata promossa da ecclesiastici, anche cattolici. In Europa, e specialmente in Italia, essa fu - e ancora viene - associata a satanismo e altre diavolerie, insufflate da chi inventa demoni per nascondere la propria incapacità di raziocinio.

pinione favorevole nei circoli colti, puntando specialmente sugli studi di antiquaria, arte, storia. In un secondo tempo fu la Massoneria francese a diffondersi in Italia, dal regno di Sardegna (Chambéry in Savoia, Torino, Casale Monferrato …), che era lo stato militarmente più forte della penisola, al ducato di Parma e altri centri. 2. La Chiesa di Roma scomunica la Massoneria. La Chiesa ebbe subito motivo di preoccuparsi per la diffusione della Massoneria, che per costituzione si sottraeva al suo controllo. La reazione del Papato fu immediata e coincise con l’assegnazione della Toscana alla Casa di Asburgo, per comprensibili motivi storici più tollerante dei Borbone nei confronti di Luterani, Evangelici ed Ebrei. La presenza di Massoni inglesi, quindi anglicani o evangelici, allarmò il Papato, che si sentì minacciato. Il programma della Massoneria non era affatto chiaro. Non si sapeva che cosa davvero avvenisse nelle logge, sospettate di essere centro di intese segrete tra forze nemiche o indifferenti al primato dei Papi. Nel 1738 papa Clemente XII usò l’arma più forte: la scomunica dei Massoni dalla Chiesa, i quali, del resto, in buona parte non erano cattolici o non erano osservanti. Nel 1739 il segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Ercole Firrao, aggiunse la condanna dei Massoni a pene severissime, incluse la morte e la confisca dei beni. La Chiesa era sicura che i sovrani cattolici, a cominciare da quelli d’Italia, ne avrebbero seguito l’esempio e avrebbero vietato e perseguitato i Massoni. Invece al di fuori dello Stato pontificio le logge continuarono a


diffondersi, sia pure con molta prudenza, per indolenza e opportunismo dei rispettivi sovrani più che per tolleranza. In Italia i circoli massonici erano circoscritti ma influenti in ambienti di potere. Lo si vide a Napoli, ove il massone più prestigioso fu Raimondo Sangro di San Severo, un principe molto ricco, colto, di spirito indipendente, fondatore della prima Gran loggia italiana. Nel 1751, cioè tre anni dopo il trattato di Aquisgrana che in Italia aprì quasi mezzo secolo di pace, papa Benedetto XIV, un pontefice di vasta cultura e in corrispondenza anche con Voltaire e altri esponenti dell’Illuminismo, confermò solennemente la scomunica. La Chiesa rifiutò totalmente la Massoneria. La considerò pericolosa per il Triregno, la stabilità politica e il primato teologico della Cattedra di Pietro. La scomunica della Massoneria è stata e viene generalmente considerata una manifestazione di intolleranza da parte della Chiesa, di rifiuto del dialogo e di negazione della fratellanza. Il Papato, però, non aveva alcuna ragione di essere tollerante e di dialogare con quello che considerava un nemico pericoloso. La Chiesa si fonda sul primato dottrinale del successore di Pietro: una prerogativa che il Concilio Ecumenico Vaticano I (1870) formulò nel dogma dell’infallibilità dei pronunciamenti del pontefice ex cathedra su questioni di fede. Dal suo punto di vista, la Chiesa non poteva agire diversamente. D’altronde, altrettanto facevano le autorità delle altre confessioni cristiane e, al loro interno, quelle della religione

israelitica, a tacere delle islamiche. Perciò in Italia la Massoneria si trovò a vivere in una condizione ambigua, sotto costante minaccia di persecuzione fanatica, annientatrice. A differenza di quanto accadde in altri Paesi europei, quali la Gran Bretagna, la Francia, i Paesi Bassi, gli Stati baltici e, naturalmente, le colonie inglesi della Nuova Inghilterra, in Italia essa non si dette mai un’organizzazione ufficiale, alla luce del sole. Lo stesso principe di Sangro sconfessò l’appartenenza alla Massoneria e dichiarò che essa è ridicola e irrilevante. I Massoni furono costretti a nascondersi e quindi divennero sempre più sospetti. La necessità di mantenere il segreto per evitare persecuzioni, processi e condanne determinò gravi conseguenze. Il pensiero massonico non poté circolare liberamente, tramite libri, rituali, catechismi, contatti pubblici con la “città”. La conseguenza fu che esso rimase oscuro anche ai suoi adepti e mancò una unità della Massoneria. La Libera Muratoria risultò opposta alle “religioni del libro”. Fu una somma di simboli e di messaggi orali. Perciò si prestò a manipolazioni e a interpretazioni, a “eresie”. José Antonio Ferrer Benimeli afferma, giustamente, che la Massoneria ebbe radici cristiane, ma, in un’età di divisione della cristianità in tante confessioni, la religiosità e la spiritualità non bastavano certo a impedire condanne e scomuniche da parte della Chiesa di Roma, come già era accaduto per tante altre “sette” ed “eresie”. Ogni gruppo (o loggia) interpretò la Massoneria secondo l’insegnamento di chi via via la organizzò e la animò. È molto significativa la diffusione in Italia dell’“Ordine della Stretta Osservanza”, che mirò a chiarire l’origine della Massoneria. Il fallimento del Convento di Wilhelmsbad (1780-1782), che avrebbe dovuto chiarire una volta per tutte se la Massoneria discenda dai Crociati (come asserito da Michel de Ramsay sin dal 1737) e precisamente dai Templari (come affermava la “Stretta Osservanza”), ebbe ripercussioni anche in Italia perché molti affiliati rimasero delusi e contrariati. Fu il caso del cattolico Joseph de Maistre. Ai loro occhi la Massoneria risultò un “grande nulla”, come sentenziato da Federico II di Prussia, al quale

poi vennero fantasiosamente attribuite le “grandi costituzioni” del Rito scozzese antico e accettato. 3. Massoneria e Illuminismo. I principali circoli culturali italiani della seconda metà del Settecento, da Milano a Firenze e Napoli, contarono anche

Storia massoni, ma non è affatto provato che le logge fossero l’unico o il principale laboratorio delle riforme e della diffusione dell’Illuminismo. È il caso di Milano, ove i fondatori della rivista “Il Caffè” non erano Massoni. Non lo fu neppure Cesare Beccaria, il giurista italiano più famoso, che propose l’abolizione della tortura nel processo penale e della pena di morte. Anche a Napoli vi furono illuministi massoni ma molti tra i giuristi, medici, scienziati e uomini politici più innovatori non erano affatto Massoni. Parecchi riformatori risultano indifferenti od ostili alla massoneria. Negli ultimi anni del Settecento i Massoni d’Italia erano molto diversificati. In Piemonte vi erano aristocratici e militari molto conservatori e scienziati, come il medico-filosofo Sebastiano Giraud, inizialmente indirizzato verso misteri e alchimia, poi di orientamento “democratico”. A Napoli vi erano Massoni fedeli al modello inglese, che vieta di introdurre in loggia questioni politiche e religiose, mentre altri ritenevano che la Massoneria fosse una

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scuola eminentemente politica. Tra questi la figura più interessante dell’epoca fu Antonio Jerocades, un sacerdote calabrese convinto che le logge dovessero svolgere una missione civile. Jerocades ebbe dalla Madre Loggia di Marsiglia speciali patenti per rinnovare la Massoneria nel Mezzogiorno d’Italia ed espose il suo pensiero in poesie raccolte in La Lira Focense (1783), che rimane l’unica opera poetica italiana dichiaratamente massonica. Aveva già pubblicato Paolo, o sia l’Umanità liberata (1783). La Lira focense precedette di poco il suo viaggio a Marsiglia, riflesso in Il codice delle leggi massoniche ad uso delle Logge Focensi (Neapoli) Pamphilia,1785 (trascrizione di G. Kloss, ms. II, C 2, Klossbibliotek, L’Aja). La sua opera segnò lo spartiacque in Italia tra le due concezioni della Massoneria: tra quella speculativa e l’operativa, 8

tra la via iniziatica e la lotta per il potere, tra filosofia politica e rivoluzione, tra umanesimo e militanza a prezzo anche di vite umane. Nel decennio di fine Settecento la Massoneria in Italia attraversò una stagione di cambiamenti, di rigenerazione e anche di sbandamento. Le logge persero il contatto con le centrali dalle quali erano nate e si inventarono il proprio percorso. La Gran Bretagna guardava ai Massoni illuministico-giacobini con sospetto perché temeva che fossero strumento della Francia rivoluzionaria, che rifiutava gli equilibri raggiunti tra le grandi potenze dopo la Guerra dei Sette Anni e la prima spartizione della Polonia e usava gli ideali democratici come veicolo del proprio dominio. Però anche i pochi nuclei massonici italiani filoinglesi o non filofrancesi non vennero legittimati da

Londra, che preferì avvalersi di nemici dei Massoni come Ferdinando di Borbone e il re di Sardegna. In Francia durante il Terrore e nei primi tempi del Direttorio Massoni e Massoneria vennero messi ai margini della vita culturale e politica. Molti furono suppliziati. Quasi tutte le logge vennero sciolte. Il massone Vittorio Alfieri deplorò l’ugualitarismo rivoluzionario. Il conte di Cagliostro fu portato in trionfo a Parigi prima dell’Ottantanove, cadde prigioniero di papa Pio VI, fu processato e imprigionato a San Leo, ove subì maltrattamenti mortali. Nei suoi ultimi anni, però, il Terrore non fu solo clericale. La riorganizzazione della Libera Muratoria, dopo il 1798, avvenne all’insegna del lealismo nei confronti del governo. Le logge estere non ebbero scelta: allinearsi alle direttive di Parigi o scomparire. 4. L’età franco-napoleonica: fioritura di logge politiche. In Italia a fine Settecento la Massoneria cadde per breve tempo in sonno coatto. Era aristocratica (aristocrazia di nascita e di cultura, con apporti del mondo ecclesiastico), militare (incardinata sui principi dell’onore e della fedeltà), pronta sempre a invocare la protezione del sovrano sulle logge (o della sovrana nel caso di Maria Carolina d’Asburgo, regina di Napoli, sorella di Maria Antonietta di Francia, a sua volta molto legata a Maria Luisa di Carignano, principessa di Lamballe, massona, orrendamente assassinata dalla plebe parigina). Da quel sonno si ridestò su impulso dell’irruzione in Italia dell’Armata comandata da Napoleone Bonaparte (1796-1797). Questa non


determinò l’immediata rinascita delle logge, ma creò le condizioni per la diffusione di un nuova cultura politica incardinata sulle costituzioni, basata sui principi quali l’introduzione di regole condivise, il libero confronto tra uguali e il voto finale, tutti metodi tipici dei “lavori di loggia”. In pochi anni vennero elaborate le costituzioni delle repubbliche di Bologna (1796), che per prima adottò il “tricolore nazionale”, verde, rosso e bianco, Cispadana (1797), Cisalpina (1797 e 1798), del popolo Ligure (1797), della repubblica di Lucca (1799), di quella Romana (1798) e della Napoletana (1799), che fu sicuramente la più innovativa di tutte, della Repubblica Ligure (1802) e, infine, della Repubblica Italiana (1802). I princìpi ispiratori del costituzionalismo erano la Rivoluzione americana del 1776, la costituzione degli Stati Uniti d’America, la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea nazionale francese (1789) e le diverse costituzioni susseguitesi in Francia sino al colpo di Stato del 18 brumaio 1799, l’instaurazione del Consolato, l’avvio verso un regime monocratico e infine l’ordinamento dell’Impero dei Francesi (2 dicembre 1804), confermato dal plebiscito. In Piemonte, direttamente annesso alla Francia, nel 1802 le logge di orientamento giacobino o sospettate di infiltrazioni repubblicane e antinapoleoniche furono chiuse. Rinacquero solo dopo una rigorosa epurazione interna, attuata con espulsioni o conversioni e funzionarono da tramite fra la dirigenza locale e quella francese. La trasformazione della Repubblica italiana in Regno d’Italia (una “provincia” dell’Impero di Francia) impose la riorganizzazione della Massoneria italiana. Ne ha scritto François Collaveri. Il 16 marzo 1805 a Parigi venne costituito il Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato in o per l’Italia, emanazione di quello di Francia e dunque, in ordine cronologico, terzo Supremo Consiglio dalla nascita del Rito stesso. Il 20 giugno 1805 il Rito insediò il “Grande Oriente d’Italia” a Milano, capitale del regno comprendente il Lombardo-Veneto e l’Emilia-Romagna, con Gran Maestro il ventiquattrenne Eugenio di Beauharnais, figlio adottivo di Napoleone.

Storia

Le logge della Lombardia documentano la realtà della Massoneria franco-napoleonica. Dopo l’incoronazione di Napoleone a Re d’Italia (26 maggio 1805) e l’insediamento di Eugenio di Beauharnais, suo figlio adottivo, come viceré, la loggia “Joseffina Reale” di Milano contò personalità diversissime (Gian Domenico Romagnosi, Pietro Calepio, Francesco Saverio Salfi…, tutto lo stato maggiore del regime napoleonico, senza più margini di doppia lealtà). Negli anni seguenti la Penisola italiana contò tre gruppi di logge: quelle direttamente dipendenti dal “Grande Oriente di Francia”, insediate nei territori annessi all’Impero (dall’Occidente liguro-piemontese all’ex stato pontificio, ove venne demolito il potere del papa Pio VII, deportato da Roma); quelle incardinate sul “Grande Oriente d’Italia”; e le logge all’obbedienza del “Grande Oriente di Napoli”, che ebbe per Grandi Maestri prima Giuseppe Bonaparte e poi il cognato di Napoleone, Gioacchino Murat, re di Napoli dal 1808 al 1815. Il regime franco-napoleonico non solo permise ma incoraggiò la moltiplicazione delle logge come anelli forti della catena di unione tra la Francia imperiale e la

dirigenza dei territori direttamente o indirettamente dipendenti da Parigi. Non è chiaro se l’imperatore fosse o no iniziato; lo erano però il principe Jean Jacques Régis Cambacérès, Arcicancelliere dell’Impero, e tutti i maggiorenti di un regime fondato sull’autocefalia del potere politico, emancipato dalla consacrazione ecclesiastica sin dall’incoronazione in Notre Dame il 2 dicembre 1804 e da quella nel Duomo di Milano, ove l’imperatore calcò sul capo la Corona Ferrea, simbolo della regalità in Italia. Per conservare la libertà al proprio interno, le logge dovettero allinearsi alle direttive del governo e celebrarlo in tutti i propri riti ufficiali e nelle pubblicazioni. Questa dipendenza politica divenne ancora più evidente quando Napoleone conferì al figlio avuto da Maria Luisa d’Asburgo il titolo di Re di Roma: una decisione di grande valore simbolico, anche perché declassò la Città Eterna da capitale della Chiesa cattolica a seconda città dell’Impero. Prima la Piramide, poi San Pietro. Napoleone fu il punto di arrivo sia del mito egizio esploso nel Settecento, presente nell’opera di Mozart, sia del neotemplarismo, sottratto alla “Stretta Osservanza” ed elevato a sacerdozio 9


della modernità. In quel contesto storico le logge italiane non ebbero affatto l’obiettivo dell’indipendenza e dell’unificazione nazionale. Esse furono funzionali al potere franco-napoleonico. In loggia si parlava di politica (elogio dell’imperatore e delle autorità civili) e si praticava-

Storia no riti parareligiosi, di impronta naturalistica, neopagana, solare. Le feste massoniche coincisero con quelle del calendario imperiale e assunsero sempre più carattere ufficiale, come se le logge fossero uno Stato nello Stato o il suo nucleo di pensiero e di progetti politici. Questo rende ancora più singolare che Napoleone non faccia mai cenno alla Massoneria nel suo carteggio e neppure nei pensieri dettati a Sant’Elena. La condizione della Massoneria nello spazio geografico italiano nel primo quindicennio dell’Ottocento risulta interessante per un altro motivo: le logge e i Massoni furono presenti, anche in forma pubblica, in tutta la Penisola, compresa Roma, senza che né il papa (Pio VII) né altri ecclesiastici ne ricordassero la scomunica. Non solo. Negli Stati franco-napoleonici italiani non ebbero alcuna circolazione le opere che denunciavano la Rivoluzione francese, il Terrore e l’Impero napoleonico come frutto di un complotto massonico. Le più famose, i Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme di Augustin Barruel o Il velo alzato per’ curiosi dell’abate François Lefranc, non vi vennero stampate. La Massoneria rimase al di sopra delle critiche e delle polemiche. Nessuno la mise in discussione come pilastro portante dell’ordine politico, conciliato con la Chiesa dal Concordato del 1801. All’opposto, la Massoneria rimase rigorosamente vietata in Sardegna, ultimo dominio di Carlo Emanuele IV di Savoia, che abdicò ed entrò novizio nella Compagnia di Gesù, e poi di Vittorio Emanuele I di Savoia, per i quali continuava a valere la proibizione della Massoneria decretata da Vittorio Amedeo III come misura politica contro l’avanzata dei rivoluzionari francesi e dei loro alleati interni filogiacobini. La Massoneria fu vietata anche in Sicilia, dominio di Ferdinando IV di Borbone, sorretto dall’in10

glese lord William Bentinck. La Costituzione siciliana del 1812 risulta diversa da quella del Regno di Spagna approvata nel 1812 dalle Cortes convocate a Cadice, perché previde un Parlamento bicamerale e riconobbe quindi il potere dei Baroni (o Pari), mentre la spagnola fu monocamerale. Entrambe però riconobbero una sola religione di Stato, la Chiesa cattolica apostolica romana, e vietarono le altre confessioni cristiane e le religioni non cristiane: deismo, libero pensiero, agnosticismo e ateismo non meritarono neppure di essere menzionati. In altre parole, la Gran Bretagna esercitò influenza politica in funzione antinapoleonica ma non in direzione delle libertà dei cittadini, che rimasero succubi della monarchia cattolica in Sardegna e in Sicilia. 5. Restaurazione, Risorgimento, Unificazione nazionale. Nel 1814-1815 la Restaurazione ripristinò i regimi rovesciati da Napoleone, a eccezione delle repubbliche di Genova (assegnata ai Savoia), Venezia (tornata all’Austria, che l’aveva ottenuta con la pace di Campoformio nel 1797) e Lucca, assegnata a Maria Luisa di Borbone, il cui ducato originario (Parma e Piacenza) fu dato come vitalizio a Maria Luisa d’Asburgo, moglie di Napoleone, esiliato a Sant’Elena. La Massoneria venne vietata in tutti gli Stati italiani. Pio VII, poi imitato dai successori (Leone XII, Pio VIII, Gregorio XVI), ribadì la scomunica dei Massoni e di tutte le associazioni segrete. Però nessun sovrano ignorava che tanti sudditi erano stati attivi in logge. La proibizio-

ne non ebbe valore retroattivo. Nell’imminenza della Restaurazione, le organizzazioni massoniche entrarono in sonno, con provvedimenti non sempre documentati. Si può calcolare che i Massoni attivi intorno al 1813-1814 in Italia fossero non meno di 20.000. Con la Restaurazione nessuno di essi fu arrestato o condannato in quanto massone. D’altra parte la Massoneria aveva e conservò ruolo eminente in Gran Bretagna, l’unico stato che, a parte la pace di Lunéville (1801), non si era mai piegato a Napoleone e, anzi, aveva alimentato coalizioni contro di lui anche quando Prussia, Russia (“brindisi di Tilsit”, 1807), Austria, etc. avevano trattato o stretto alleanze con l’Impero dei Francesi. Inoltre la Massoneria rimase attiva, anche se in tono minore, nella Francia di Luigi XVIII e di Carlo X. Il ministro degli Esteri, Maurice de Talleyrand, marescialli, ammiragli, prefetti continuarono a servire lo Stato mentre Giuseppe Bonaparte rimase Gran Maestro del “Grande Oriente di Francia”. Le nuove proibizioni, condanne e scomuniche non vollero punire chi era stato massone (il passato era passato e non era il caso di rinfacciarselo a vicenda), ma impedire che le logge divenissero centri di nuove cospirazioni. Nel Settecento il capofila dell’antimassonismo nell’Europa continentale era stato il Papato; con la Restaurazione la guida della lotta contro la Massoneria divenne l’Impero d’Austria, non per motivi religiosi, ma politici e ideologici. Quelli politici erano chiari: Vienna (il Cancelliere Clemens von Metternich) considerava le logge il punto di incon-


tro di tutte le società segrete miranti a distruggere l’ordine ristabilito. La Massoneria fu proibita come tutte le altre sette (Carboneria, etc.) e i movimenti liberali e costituzionali, secondo i quali la sovranità risiede nella nazione (era il caso della costituzione di Spagna, giurata da Fernando VII, che nel 1814 la rinnegò) e i cittadini partecipano al governo eleggendo il Parlamento o una delle Camere. Per impedire alla Massoneria di svolgere il ruolo (supposto) di centrale occulta della cospirazione Vienna doveva combattere il liberalismo in ogni sua forma: proibire o controllare libri, riviste, giornali, circoli culturali e tutta la vita intellettuale (università, scuole) e religiosa, perché anche gli ecclesiastici erano stati e potevano essere cospiratori e monarcomachi. Per conseguire l’obiettivo Vienna dovette appoggiarsi alla Chiesa cattolica. Ma l’alleanza tra il trono e l’altare si affermò solo nell’Impero austriaco e, per certi aspetti, in quello di Russia (non cattolico), in Spagna, Portogallo e negli Stati italiani; invece esercitò poca influenza in Francia, ove la vita culturale continuò ad avere ampi spazi di libertà, e negli Stati prevalentemente evangelici o luterani. La Restaurazione fu un progetto politico a suo modo illuministico: doveva assicurare la stabilità dell’Europa, e quindi la pace, fondata sull’equilibrio tra le grandi potenze, inclusa la Gran Bretagna. Essa ebbe però un altro volto: quello della Santa Alleanza, retriva e liberticida, con effetti profondi e durevoli sulla Massoneria in Italia. Gli antichi affiliati cominciarono a sperare nel ritorno di Napoleone. Anche chi lo aveva odiato come tiranno, di fronte al dominio austriaco e clericale, lo rimpianse. Molti Massoni, costretti a nascondere la propria storia personale per salvaguardare la vita, cercarono un nuovo referente. Tra il ritorno dell’imperatore e la Santa Alleanza si aprì una terza via, la Gran Bretagna: fu quella imboccata dai liberali italiani e da una parte importante di massoni, carbonari, antichi illuministi e anche da tanti giovani cresciuti nei licei, nelle università e nelle scuole militari italiane in età napoleonica, che aveva aperto orizzonti drasticamente chiusi dalla Santa Alleanza. Il cambio fu profondo e condizionò il secolo seguente della vita culturale, morale e politica dell’Italia; e

progetto e guidavano il movimento. Sull’esempio della rivoluzione spagnola del gennaio 1820, in luglio i liberali insorsero a Napoli e imposero al re la promulgazione della Costituzione di Cadice, proposta anche dai cospiratori piemontesi nel regno di Sardegna nel mar-

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quindi anche della Massoneria. I pochi segni di vita della Libera Muratorìa italiana dopo la Restaurazione furono l’iniziazione di Federico Confalonieri, capofila dei liberali italiani, in una loggia inglese comprendente il fratello del re, l’attivismo di nuclei massonici in alcuni porti (anzitutto a Livorno, in Toscana) e, in risposta, la dura repressione di ogni segnale di liberalismo. L’Austria, il governo pontificio e quello di Ferdinando I di Borbone a Napoli arrestarono, talvolta torturarono, processarono e condannarono a pene pesanti tutte le persone sospettate di complotto liberale. Malgrado la repressione si diffusero le sette di carbonari, adelfi, federati, ecc., che arrivarono a contare centinaia di migliaia di affiliati, anche popolani. Nel loro ambito i Massoni erano pochi, ma avevano un

zo 1821. Nel frattempo l’Austria arrestò massoni e carbonari a Milano (Piero Maroncelli, Silvio Pellico, Gian Domenico Romagnosi, Confalonieri…) e il papato ribadì la condanna dei Massoni. Senza aiuti dall’esterno, i liberali italiani fallirono. Nel marzo 1821 a Napoli vennero pubblicate le Costituzioni del Rito scozzese antico e accettato: un “messaggio” per gli anni venturi. Tutto rimase immobile sino al rovesciamento di Carlo X dal trono di Francia e all’ascesa di Luigi Filippo di BorboneOrléans, il “re borghese” (luglio 1830), e al moto coronato con la fondazione del regno dei Belgi. In Italia liberali e massoni si mossero nel Ducato di Modena e nello Stato pontificio, ma con esito sfortunato (1831). Subito dopo il ventisettenne Giuseppe Mazzini (Genova, 1805 Pisa, 1872), già carbonaro, mai regolarmente iniziato in Massoneria, arrestato, condannato all’esilio, fondò in Francia la “Giovine Italia”, che tra gli obiettivi fondamentali ebbe proprio la cesura generazionale tra i nuovi patrioti e chi era stato iniziato alle società segrete in età na-

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poleonica o nel clima confuso dei moti costituzionali del 1820-21. La nuova Associazione (o Fratellanza) negò l’ingresso a chi avesse più di quarant’anni. Essa aveva tuttavia un’organizzazione simile a quella della Massoneria, a cominciare dal rito di iniziazione, che imponeva il giuramento di fedeltà sino alla morte, il segreto assoluto e una serie di “prove”. Il suo obiettivo però fu solo e sempre politico: indipendenza, unità e repubblica. Inoltre essa fu nazionale anche quando Mazzini fondò la “Giovine Europa”, concepita come liberazione e fratellanza dei popoli oppressi in forma di unione ed espressione della volontà divina (“Dio e popolo”). Mazzini predicò sempre cospirazioni (anche in forma di attentati) e insurrezioni, nella convinzione che un moto anche piccolo avrebbe provocato l’incendio generale. Il suo messianismo, di carattere religioso, contrastò con l’universalismo pragmatico della Libera Muratorìa, fondato sul principio della gradualità e diffidente nei confronti dei disordini. Tra mazzinianesimo e Massoneria vi fu sin dall’inizio un solco destinato ad approfondirsi nel tempo e a divenire incolmabile, come accade tra progetti e metodi nettamente diversi nei fini e nei metodi. Mazzini ideò la “Giovine Europa” per rianimare la “Giovine Italia” e l’Alleanza Repubblicana Universale quando constatò che i repubblicani italiani non avrebbero mai abbattuto la monarchia nazionale di Savoia, garante della pace e perciò accettata dal concerto delle grandi 12

potenze, con pieno sostegno delle Istituzioni massoniche. Sino al 1848 l’Italia non ebbe nessuna rete massonica effettiva; d’altra parte, i “patrioti” non ebbero un programma preciso. Volevano unire l’Italia ma non era chiaro come farlo: confederazione, federazione, unione, unificazione erano tante vie possibili ma diverse. Mancava soprattutto un punto di riferimento nazionale e internazionale. Nel 1844 Massimo d’Azeglio propose di superare le sette segrete e di agire alla luce del sole, per formare una “opinione nazionale”. Due anni dopo papa Pio IX (1846-1878) venne preso a egida dell’italianità. Il neoguelfismo ebbe immenso successo. In pochi mesi furono pubblicate migliaia di libri, opuscoli, giornali che parlavano apertamente di Italia unita, almeno in forma di lega tra gli Stati esistenti, con la presidenza del papa. I pochi Massoni attivi in Italia, costretti al sonno e al silenzio, rimasero però prudenti, perché nello Stato della Chiesa rimanevano in vigore tutte le discriminazioni religiose e politiche ai danni dei non cattolici e dei massoni. Tra il 1831 e il Quarantotto in Italia non vi furono logge organizzate; però alcuni Italiani vennero iniziati massoni all’estero. Fu il caso di Giuseppe Garibaldi (Nizza, 1807-Caprera, 1882), che nel 1844 entrò in una loggia di Montevideo all’obbedienza del “Grande Oriente di Francia”, che era in rapporti fraterni con la “Gran Loggia Unita d’Inghilterra”. Garibaldi entrò dunque nel circuito della Masso-

neria regolare universale, come si vide anche dai suoi legami con massoni degli Stati Uniti d’America. Nel 1848-1849 la Massoneria si riaffacciò in Italia, ma in posizione periferica, circoscritta e complessivamente ininfluente sul corso politico-diplomatico-militare scandito, a livello europeo, da moti sociali, insurrezioni liberali, rivolte nazionali (dalla Boemia all’Ungheria all’Italia stessa). La “primavera dei popoli” colse di sorpresa anche i cospiratori più preparati, da Mazzini a Garibaldi, che per dare un segnale nel 1847 offrì la sua spada a Pio IX. Le logge non ebbero tempo di organizzarsi. Nel marzo 1849 il regno di Sardegna fu sconfitto dall’Impero d’Austria. In luglio la Repubblica romana, che vide in azione anche alcuni massoni, venne abbattuta dalla spedizione militare francese mandata dal presidente Luigi Napoleone, futuro Napoleone III. Poi crollò anche la Repubblica di Venezia. Nel regno delle Due Sicilie liberali e patrioti furono incarcerati, esiliati o, nel migliore dei casi, costretti al silenzio. Unico vero progresso di quel biennio fu lo Statuto del regno di Sardegna promulgato da Carlo Alberto di Savoia il 4 marzo 1848. Esso enunciò due principi fondamentali: la religione cattolica era la religione dello Stato, ma vennero ammessi altri culti e fu dichiarata l’uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi. Ai Valdesi (evangelici) e agli Ebrei furono riconosciuti diritti civili e politici. Quella fu la vera svolta, perché da quel momento sia i liberali sia la Massoneria poterono contare sul re di Sardegna. Vittorio Emanuele II, asceso al trono dopo l’abdicazione del padre, conservò lo Statuto, l’elettività della Camera e dei consigli provinciali e comunali, la libertà di stampa; e dette asilo politico agli esuli politici delle altre terre italiane. Tuttavia la Massoneria rimase silenziosa. Molti massoni preferirono rifugiarsi in Francia, Gran Bretagna o nelle Americhe. Altrettanto fecero patrioti, poi iniziati massoni all’estero, soprattutto nelle Americhe, in Gran Bretagna e in Francia (fu il caso di Luigi Pianciani). Il Libro d’Oro del Supremo Consiglio del rito scozzese antico e accettato fornisce al riguardo importanti informazioni. La monarchia e i suoi ministri, sia poli-


tici (come Massimo d’Azeglio, Camillo Cavour, Urbano Rattazzi), sia militari (come Alfonso La Marmora) non amavano le sette. Temevano che il giuramento di fedeltà pronunciato all’ingresso in loggia potesse risultare in contrasto insanabile con quello di fedeltà al re. I modelli della Massoneria francese e inglese rimasero estranei al regno di Sardegna. Dopo la vittoria del Regno di Sardegna, alleato con la Francia di Napoleone III, contro l’Impero d’Austria nella guerra dell’aprile-luglio 1859 e l’annessione della Lombardia da parte del Piemonte, solo nell’ottobre del 1859 venne fondata nella sua capitale, Torino, la prima loggia “italiana”. Il suo stesso nome, “Ausonia”, antica denominazione dell’Italia, indicò il programma: arrivare all’unità nazionale. Dal 1860 le “officine” si moltiplicarono e accolsero centinaia di iniziati, metà dei quali nelle logge della capitale (“Ausonia”, “Cavour”, “Dante Alighieri”, “Campidoglio”, “Osiride”: tutti nomi programmatici). Si scoprì che vi erano almeno due logge all’Obbedienza del “Grande Oriente di Francia”, a Genova e a Livorno. Una, a Chiavari, era all’Obbedienza della “Gran Loggia del Perù”. Gli eventi politico-militari del 1860 furono però molto più rapidi del cammino dei Massoni: l’unione di Toscana ed Emilia-Romagna al “re costituzionale” Vittorio Emanuele, la spedizione dei Mille guidata da Garibaldi in Sicilia e nell’Italia meridionale, la conquista sabauda di gran parte dello Stato pontificio, i plebisciti che gettarono le basi della proclamazione del regno d’Italia (14 marzo 1861). 6. La Massoneria nella Nuova Italia: luci e ombre. I documenti non provano che la Massoneria ebbe ruolo di protagonista in quelle rapide trasformazioni, che tuttavia parvero ispirate dai suoi ideali: indipendenza, unità, ordine, fratellanza tra i “popoli d’Italia”, divisi sin dalla caduta dell’Impero Romano in Occidente e per secoli soggiogati da potenze straniere, tra gli Italiani e le altre nazioni. Il banco di prova della nuova Massoneria fu proprio la questione nazionale. Occorreva definire che cosa fosse l’italianità e il ruolo della Nuova Italia nel mondo. Il primo massone a scriverne in modo chiaro fu l’ebreo piemontese David Levi,

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in vista della prima assemblea costituente massonica, indetta a Torino a fine dicembre 1861, cioè ben sette mesi dopo la costituzione del Regno. Levi unì la nascita dell’unità d’Italia alla storia della libertà dei popoli. Era la poesia di Alessandro Manzoni, la musica di Giuseppe Verdi. Fino a quel momento esisteva un “Grande Oriente Italiano”. L’Assemblea di Torino fondò la Massoneria italiana col nome di “Grande Oriente d’Italia”, che non aveva alcun legame diretto, nessuna continuità diplomatica con quello fondato a Milano nel 1805, agli ordini di Napoleone. Il “Grande Oriente” del gennaio 1862 era di un regno d’Italia che andava dalle Alpi alla Sicilia. Quello del 1805 era un cappella laterale del sistema napoleonico. L’assemblea elesse Gran Maestro Filippo Cordova, un siciliano già fiduciario di Cavour, che prevalse su Giuseppe Garibaldi. Il Gran Maestro ebbe due obiettivi: farsi riconoscere dalle organiz-

zazioni degli altri Paesi e unificare le varie organizzazioni massoniche che stavano nascendo in Italia. Non ottenne nessun risultato. La “Gran Loggia Unita d’Inghilterra” prese atto della nuova organizzazione ma non strinse patti di fratellanza. Cavour (di cui Londra non si era mai fidata pienamente) era morto il 6 giugno 1861 e in Italia vi erano troppi rivoluzionari. Inoltre a Palermo venne costituito un Supremo Consiglio di Rito Scozzese Grande Oriente d’Italia che vantò il riconoscimento dalla Giurisdizione Sud del Supremo Consiglio degli Stati Uniti d’America e quindi legittimità universale. Tra il 1861 e il 1885 la Massoneria italiana visse un quarto di secolo di assemblee costituenti, tentativi di conciliazioni, conflitti. Garibaldi venne eletto Gran Maestro nel 1864 ma si dimise dopo due mesi. Nel 1867 fu fondata a Firenze, capitale del regno dal 1864, la loggia “Uni13


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verso”, che doveva unire i parlamentari e le personalità più influenti per governare l’Italia. Il paese viveva anni difficili. Per fronteggiare gli enormi debiti il governo statizzò i beni degli ordini religiosi “contemplativi”. Sin dal 1860 il papa scomunicò Vittorio Emanuele II, i ministri del suo governo e quanti collaboravano con lui: tutti agenti del Diavolo, perché lo avevano privato di gran parte del suo Stato. Il re unì l’Italia, Pio IX la divise perché non rinunciò al potere temporale. Nel 1864 pubblicò il Syllabus, che condannò tutte le dottrine politiche del Sette-Ottocento (liberalismo, democrazia, socialismo) e tutte le “società segrete” a cominciare dalla Massoneria, poi bollata come “sinagoga di Satana”. Una parte del clero italiano era schierata per l’immediata conciliazione tra la 14

Chiesa e il Regno d’Italia, che era ormai una realtà. Tra questi si contarono anche gesuiti come padre Carlo Maria Curci e Carlo Passaglia. Ma prevalsero i fautori della scomunica. L’Italia venne divisa in due soprattutto da quando anche Roma venne occupata dall’esercito italiano (20 settembre 1870) e annessa al Regno col voto dei suoi cittadini. La Massoneria italiana cominciò solo dal 1870-1872 a darsi un vero programma. Fino a quel momento era rimasta con un piede nella cospirazione, un altro nella repubblica, un terzo vicino alla Corte, un quarto nel governo, un quinto nell’opposizione costituzionale, il sesto nell’internazionale socialista. Non aveva un progetto chiaro né una dottrina. I massoni sapevano poco di Massoneria. Lo documenta il libretto Una Voce di Ludovico

Frapolli, Gran Maestro aggiunto e poi effettivo, mazziniano, garibaldino, morto suicida dopo essere stato espulso dal “Grande Oriente”. Frapolli scrisse e cancellò varie volte persino il titolo del “programma” che doveva sintetizzare l’essenza della Massoneria universale e italiana. Il Gran Maestro era il primo a non avere una conoscenza precisa della Massoneria, delle sue costituzioni originarie (1723 e 1738), dei riti, a cominciare dallo Scozzese antico e accettato. Sovrappose le sue opinioni personali alla Tradizione. Improvvisò anche catechismi massonici. D’altra parte la sua “carriera massonica” è molto indicativa: venne iniziato nel dicembre 1862, promosso subito al 3° grado e in un paio di giorni fu elevato al grado supremo del Rito scozzese antico e accettato. Mirò a creare un unico Concistoro dei quattro Supremi Consigli esistenti in Italia (Torino, Firenze, Napoli, Palermo). Quello di Napoli era capitanato da Domenico Angherà, un arciprete originario della Calabria. Nel frattempo con Ausonio Franchi (già don Cristoforo Bonavino, un ecclesiastico temporaneamente entusiasta del messaggio massonico), assunse la guida del Rito simbolico italiano, molto semplificato rispetto al Rito francese e a quello scozzese. Nei primi decenni successivi all’avvento del Regno d’Italia, la Massoneria stentò a darsi unità e regolarità. Si dedicò a compiti estranei alla Tradizione. A conferma, non venne pubblicata alcuna traduzione delle Costituzioni di Anderson, né degli Antichi Doveri, neppure in forma semplificata. In oltre sessant’anni di vita (1864-1926) le riviste ufficiali del “Grande Oriente” dedicarono solo un articolo di tre pagine alle Costituzioni di Anderson (“Rivista della massoneria Italiana”, anno XXX, 1900, pp. 20-22). Nel 1864 e nuovamente nel 1872 Garibaldi scrisse il suo programma massonico: per lui essa era la “madre della democrazia”, un’associazione filantropica, impegnata a realizzare riforme sociali e aperta alle donne. Per confermarlo iniziò sua figlia, Teresita, e numerose altre massone. Celebrò anche battesimi e matrimoni massonici, secondo un cerimoniale che si diffuse e che, a ben vedere, imitava quello cattolico. Negli ultimi anni dispose che la sua salma fosse cremata all’aria aperta, ma non venne ac-


contentato perché al funerale presenziò il rappresentante della Casa regnante, contraria a entrare in conflitto con la Chiesa cattolica, che condannava la cremazione non in sé ma quale affermazione di naturalismo positivistico, in contrasto con il cattolicesimo. La “pira omerica” rivendicata da Garibaldi comunque non fu propriamente massonica, sia perché la Libera Muratoria non fece mai della cremazione una regola vincolante o preminente, sia perché, per motivi igienico-sanitari, risultava del tutto impraticabile nelle città dell’Otto-Novecento, ancora privi di acquedotti e di rete fognaria. Alcuni massoni propugnarono la costruzione di forni crematori, ingentiliti in “are”. Nel trentennio seguente (1865-1895) la massoneria ascese a partito dello Stato, con una profonda differenza rispetto all’età franco-napoleonica. Per lo statuto del regno d’Italia la religione dello Stato era e rimase quella cattolica. La Massoneria era conosciuta ma non riconosciuta. Lo Stato non varò mai una legge sulle associazioni. Perciò la Massoneria visse sempre in una condizione difficile, perché in qualsiasi momento poté essere dichiarata segreta. Il vero ostacolo non fu la Chiesa cattolica ma l’ordinamento giuridico e, a ben vedere, essa stessa perché i massoni italiani non gradivano il riconoscimento “ufficiale” per non subire controlli da parte del governo. Per conoscere la Massoneria italiana dall’Unità alla Prima guerra mondiale e all’avvento del governo Mussolini (31 ottobre 1922) disponiamo di molte fonti e documenti, sinora utilizzati solo in piccola parte: in primo luogo il “Bollettino del Grande Oriente d’Italia” (18641869) e la “Rivista della Massoneria italiana” (1870-1904), poi “Rivista massonica”(1905-1926); i Verbali manoscritti del Consiglio dell’Ordine e della Giunta esecutiva del “Grande Oriente d’Italia”; la matricola generale degli affiliati del “Grande Oriente” dal 1875 allo scioglimento delle logge al 1925: oltre 60.000 nomi. Vi è inoltre un’enorme quantità di documenti negli archivi di Stato (quasi un centinaio), di enti pubblici (province, comuni) e di varie istituzioni e privati che ebbero relazioni con massoni e Massoneria. Manchiamo invece dei verbali di loggia, a parte poche eccezioni, come “La Concordia” di Firenze, la “Rienzi”

italiano nella Città Eterna, 20 settembre 1870; plebiscito a favore dell’annessione alla corona sabauda, 2 ottobre) segnò la debellatio dello Stato pontificio ma anche la condanna dello Stato da parte della Chiesa, che ribadì la scomunica del re, dei suoi ministri e collaboratori. In centi-

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di Roma. Nel 1925 il governo italiano rese impossibile la vita della Massoneria, perciò i Grandi Maestri delle due organizzazioni in quel momento attive, il “Grande Oriente” e la “Gran Loggia d’Italia”, sciolsero le logge. È comprensibile che siano state distrutte o nascoste molte carte per evitare persecuzioni. Esistevano tuttavia decine di logge all’estero, sia in Paesi europei, sia nell’Africa settentrionale e nelle Americhe, oltre che nelle colonie del Regno, ma della loro vita e della loro documentazione non si sa quasi nulla, così come si sa pochissimo delle relazioni tra i vertici della Massoneria italiana e le maggiori obbedienze straniere. Nel 1924 il “Grande Oriente” contava un terzo delle proprie officine fuori confine, inclusi gli Stati Uniti d’America, ove aveva alla propria obbedienza logge sicuramente floride a Denver (Colorado), Cleveland, Chicago, Christofer e Herrin (Illinois), Boston (Massachussets), Newark (New Jersey), Philadelphia, Pittsburg e Uniontown (Pennsilvania), per un insieme di dodici Officine. Anche la “Gran Loggia d’Italia” aveva parecchie dipendenze nelle Americhe, ma la documentazione al riguardo solo adesso comincia a essere studiata, su impulso di Annales: Gran Loggia d’Italia degli A.L.A. M.: cronologia di storia della Massoneria italiana e internazionale (1908-2012) di Luigi Pruneti (Roma, Atanor, 2013), del rinvenimento dei registri degli affiliati (26.000 nomi tra il 1915 e il 1925) e di molti altri inediti, in corso di ordinamento. L’annessione di Roma al Regno d’Italia (ingresso dell’esercito

naia di documenti (encicliche, costituzioni apostoliche, lettere, discorsi…) papa Pio IX ripeté solennemente la condanna della Massoneria, accusata di complottare contro la Chiesa cattolica, la religione, ogni forma di spiritualità. Il suo successore, Leone XIII (1878-1903), nel 1884 confermò la condanna della Massoneria nell’enciclica Humanum genus. Vi disse che forse nelle logge vi erano anche persone in buona fede ma la Massoneria in sé era il Male e pertanto i suoi membri erano esclusi dalla Chiesa. I più autorevoli periodici cattolici, a cominciare dalla prestigiosa rivista dei Gesuiti, “La Civiltà cattolica”, condussero una battaglia continua per screditare la Massoneria, accusata di praticare al proprio interno riti osceni e blasfemi. La condanna fu estesa anche alle istituzioni pubbliche (governo, enti locali…), prendendo a pretesto che promuovevano o non impedivano l’erezione di monumenti a eretici e la loro celebrazione. Nel 1889 a Roma venne scoperto il monumento a Giordano Bruno, il filosofo arso vivo in Campo de’ Fiori. Altri monumenti vennero eretti ad Arnaldo da Brescia, Galileo Galilei, Paolo Sarpi, sino a fra’ Dolcino, cioè a eretici e a tutte le vittime della persecuzione clericale. Molti nemici della Chiesa pretendevano di averne la benedizione perché erano “credenti” più fanatici degli ecclesiastici. Molte logge si identificarono con la “ribellione”, cantata dal “poeta nazionale” Giosue Carducci nell’Inno a Satana. Il governo e le istituzioni rimasero però sempre estranee a manifestazioni anticlericali e la Massoneria stessa non sempre aderì ufficialmente. Era e rimase un ventaglio. Lo si vide quando non partecipò al Concilio anticlericale indetto a Napoli in conflitto con l’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano I (8 dicembre 1869). Molte logge presenziarono, il “Grande Oriente” no. La Massoneria italiana non aveva una identità 15


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propria: prese a prestito e fuse insieme tante figure del Risorgimento e dello Stato unitario, tra i cui presidenti del consiglio e ministri (specialmente alla Giustizia e alla Pubblica istruzione) si contarono numerosi massoni: Agostino Depretis, Francesco Crispi, Giuseppe Zanardelli, Alessandro Fortis, Francesco De Sanctis, Michele Coppino, Ferdinando Martini, Nunzio Nasi… Ma capi di governo, ministri e parlamentari non sono una politica, non sono lo Stato. Si diffuse la leggenda che 300 dei 450 deputati fossero massoni: non è affatto vero. I parlamentari iniziati in loggia erano poche decine e ciascuno di essi camminava per 16

la propri strada, nell’alveo della monarchia costituzionale. Tuttavia la Massoneria volle essere depositaria del progetto di “fare gli Italiani”, cioè di costruire la coscienza civile del Paese attraverso la scuola obbligatoria e gratuita e la sostituzione delle cerimonie religiose con riti civili (il termine “laico”, un francesismo, le rimase estraneo), quasi sempre aggiunti a quelli religiosi, come documentano i funerali di massoni prestigiosi, celebrati con rito cattolico (Depretis, Crispi, Zanardelli…). Allo scopo la Massoneria rivendicò di essere stata all’origine dell’unificazione nazionale e imputò alla Chiesa cattolica di essere il

nemico. Con i Grandi Maestri Giuseppe Mazzoni, Giuseppe Petroni e, soprattutto, Adriano Lemmi, essa aumentò il proprio prestigio e il controllo della vita pubblica divenendo il “partito dello Stato”. Dopo la loggia “Universo” (Firenze, 1867), fondata da Frapolli per progettare le riforme legislative, nel 1877 Lemmi creò la loggia “Propaganda massonica”, direttamente alla sua Obbedienza, per raccogliervi i “fratelli” di prestigio supremo, dispensati dagli obblighi comuni (capitazioni, frequenza, quote, visitatori…). Essa raccolse docenti universitari, militari, uomini politici, insigni patrioti. Tra i suoi membri più autorevoli vi furono Aurelio Saffi, già triumviro della Repubblica romana, e Giosue Carducci, stratega della cultura della Nuova Italia, garibaldino d’affetto ma cantore dell’Eterno femminino regale, consapevole che la Nuova Italia doveva essere monarchica e non federale. Carducci agì in pieno accordo con Francesco Crispi, capo del governo tra il 1887 e il 1896 (con il massone Zanardelli alla Giustizia abolì la pena di morte e rese elettive le cariche degli amministratori locali), e con Adriano Lemmi. Però, contrariamente a quanto si immagina, la “Propaganda” non contò mai uomini di potere effettivo e non prese affatto in pugno la vita pubblica. Negli anni della sua Gran Maestranza (1885-1896) Lemmi organizzò la finanza del “Grande Oriente” e codificò i capisaldi del pensiero massonico italiano: fare dello Stato il garante delle libertà e del progresso civile di tutti i cittadi-


ni e combattere con ogni mezzo il papato, “coltello piantato nel cuore dell’Italia”. Come Carducci e Crispi, Lemmi puntò sul consolidamento della monarchia, che a sua volta onorò la memoria di Garibaldi e di Giuseppe Mazzini con i monumenti elevati in Roma e in tante altre città, spesso con simboli massonici in evidenza (squadra e compasso). L’Italia cominciò a essere un Paese unito, con tanti e gravi problemi, ma con una prospettiva di progresso. Il massone Luigi Pagliani fu l’artefice della prima legge sanitaria, che impose il rinnovo dei piani regolatori delle città. La Chiesa continuò a ripetere le condanne di sempre. Negli anni 1885-1896 venne affiancata da Léo Taxil, Domenico Margiotta e altri che screditavano il “Grande Oriente d’Italia” per abbattere il capo del governo, Crispi, fautore dell’espansionismo coloniale, aspramente avversato dalla Francia. Contro il Gran Maestro venne ripubblicata la condanna a un anno di carcere di un Adriano Lemmi per un furto a Marsiglia nel 1844: un’accusa infamante. Anziché difendersi in sede giudiziaria ordinaria, Lemmi si fece assolvere da un giurì del Rito scozzese. Travolto dalle polemiche e da dissidi interni, nel 1896 si dimise e fu sostituito da Ernesto Nathan, ebreo londinese italianizzato: una scelta che alimentò le polemiche dei clericali contro il complotto ebraico, massonico, socialista, analogo a quello che in Francia divampò sull’“affaire Dreyfus”. Le dimissioni di Lemmi non placarono la tempesta. Nel 1896 molte logge rifiutarono obbedienza al Gran Maestro e due anni dopo nacque il “Grande Oriente Italiano”, di orientamento radicale e repubblicano, subito riconosciuto dal “Grande Oriente di Francia”, artefice della secessione. Per colpire la Massoneria la Chiesa usò dunque gli argomenti spregevoli di Taxil e della Lega antimassonica, che celebrò a Trento il suo primo e unico congresso (1896), dopo il quale Taxil dichiarò di essere un burlone: si era preso gioco sia della Massoneria, sia dei clericali. A smascherarlo, però, non furono i massoni ma alcuni ecclesiastici. Così la Chiesa mostrò di sapersi liberare dalla menzogna; nell’immaginario popolare (e non solo) la Massoneria rimase invece come

venne dipinta nelle Confessioni di un 33 di Taxil e nelle polemiche antimassoniche di democratici e radicali come Felice Cavallotti, secondo il quale “se non tutti i massoni sono farabutti, tutti i farabutti sono sicuramente massoni”: una lapide mortuaria gettata sull’Ordine che si atteggiava ad artefice dell’Unità nazionale e dell’incivilimento degli italiani. Essa venne dettata non da un curato ma dal capofila del “partito degli onesti”, a sua volta in odore di iniziazione liberomuratoria forse non abbastanza appagante. 7. Dall’Ordine al Caos. La Massoneria introdusse al proprio interno i motivi di divisione in partiti e di conflitti religiosi e ideologici, che secondo le sue costituzioni dovrebbero rima-

nere estranei ai lavori di loggia. Ma ormai – come venne documentato anche nella “Rivista della Massoneria Italiana” – molti fratelli andavano in loggia senza paramenti rituali, persino in divisa quando erano militari; e nelle sedute si decidevano le candidature elettorali po-

Storia litiche e amministrative, gli affari spiccioli della “città”. Nel primo decennio del Novecento con i Grandi Maestri Nathan ed Ettore Ferrari (1903-1917, sovrano del Rito scozzese antico e accettato sino alla morte, nel 1929), le iniziazioni balzarono da 3-400 a 25003.000 l’anno. Gli apprendisti portarono

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in loggia le loro passioni; ma quanti erano i Maestri capaci di insegnare a dominarle, a dirozzare la pietra? Tra il 1860 e la Grande Guerra (19151918) la maggior parte degli iniziati portò all’interno dei templi le proprie ambizioni di politici politicanti (parlamen-

Storia tari, amministratori pubblici, militanti di partito…), con esperienze e/o aspirazioni rivoluzionarie spesso estranee agli antichi doveri e alle stesse Costituzioni dell’Ordine, peraltro ripetutamente modificate, proprio per dare spazio alle or-

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mai prevalenti motivazioni ideologiche. Fu il caso di Ettore Ferrari, che da giovane militò nel Circolo dei diritti dell’uomo; di Luigi Pianciani, che premette per avere nella “Rienzi” di Roma il socialista Antonio Labriola; di Mario Panizza, Giuseppe Mussi, Malachia De Cristoforis, Adolfo Engel…: una tentazione (o deriva) radicale condivisa sia dal rito simbolico italiano, sia da alti dignitari del Rito scozzese, germe di tensioni, divisioni, ricomposizioni e della lacerazione definitiva del 1908-1910. 8. Nuove condanne (socialisti, nazionalisti, liberali). Il nuovo papa Pio X (1903-1914) non pubblicò nuove condanne dei massoni. Dovette fronteggiare il “modernismo” dei cattolici (cioè l’apertura della Chiesa al “mondo moderno”), che fu scomunicato, anche perché sospettato di essere manovrato dalle logge. La Massoneria venne però investita da altre ondate polemiche. Dal 1904 i socialisti rivoluzionari chiesero l’espulsione dei massoni dal partito. Lo ottennero nel congresso di Ancona del 1914, su proposta del trentunenne Benito Mussolini. I nazionalisti negarono che Risorgimento e unificazione d’Italia fossero di matrice massonica, perché (secondo loro) in Italia la Massoneria era sempre stata un’organizzazione al servizio di potenze straniere. Infine anche un autorevole filosofo liberale, Benedetto Croce, definì la Massoneria cultura “ottima per commercianti e maestri di scuola elementare” e dichiarò che gli ideali della Massoneria (filantropia, fratellanza, libertà…) sono una utopia, mentre la storia è lotta, come affermato dall’idealismo dialettico dalle sue remote origini (Eraclito) a Hegel e alle scuole che ne discesero (il marxismo da un canto, l’attualismo di Giovanni Gentile dall’altro). La Massoneria si affermò nella Nuova Italia grazie a due circostanze storiche: la contrapposizione tra Stato e Chiesa cattolica; e il sistema elettorale, che favoriva i “notabili”. Quei due prerequisiti del suo successo crollarono nel 1908-1912. Il primo bastione cadde perché il governo presieduto dal liberale Giovanni Giolitti respinse la richiesta di massoni, socialisti e repubblicani di vietare l’insegnamento della religione nelle scuole elementari. Era la fine del conflitto tra Stato e Chie-

sa, che potevano coesistere nelle rispettive sfere di libertà. La Massoneria si spaccò perché il “Grande Oriente” processò i deputati schierati con Giolitti. Una parte del Supremo consiglio scozzesista, capitanata dal pastore protestante Saverio Fera, rifiutò quella decisione sia in nome della libertà dei deputati e della separazione tra logge e politica, sia in difesa della “libertà religiosa”, che non significa solo libertà di non credere ma anche di credere, in linea con le Costituzioni di Anderson. Fera respinse il clericalismo degli anticlericali. Nel 1912 il Supremo Consiglio da lui presieduto fu accolto e riconosciuto dal Convento mondiale del Rito scozzese. Il “Grande Oriente” imboccò invece la linea del “libero pensiero”. In alcune sue logge gli affiliati giuravano di combattere la monarchia, il servizio militare, la religione. Il secondo cambiamento dello scenario generale fu il conferimento del diritto di voto a tutti i maschi maggiorenni alfabetizzati e agli analfabeti che avessero prestato servizio militare o trentenni. Gli elettori divennero 8.500.000. La Massoneria non fu più in grado di controllare la macchina delle elezioni e perse di importanza. Nel 1912-1913 essa fu travolta da un’inchiesta giornalistica promossa dai nazionalisti. Quasi tutti gli intervistati (uomini politici, scienziati, artisti, docenti ‘di grande prestigio) dettero un giudizio duramente negativo della Massoneria, giudicata segreta, ridicola e camorristica, incompatibile con il mondo moderno. 9. Dalla Grande Guerra al fascismo. Quando l’Europa venne precipitata nella Guerra del 1914-1918 il “Grande Oriente” si schierò subito per l’intervento dell’Italia contro l’Impero d’Austria per completare l’unificazione politica. Era l’occasione per riprendere il controllo del potere. Le conseguenze invece furono catastrofiche, perché il Parlamento perse il governo del Paese. Dopo la guerra la scena politica fu dominata da socialisti rivoluzionari e da clericali, nemici del Risorgimento e della Massoneria. Dopo anni di guerra civile strisciante, il 31 ottobre 1922 nacque il governo presieduto da Benito Mussolini, ex socialista rivoluzionario, ex repubblicano, capo del Partito Nazionale Fascista: un governo


di unione nazionale, comprendente molti massoni. L’Italia era nella confusione e lo rimase sino all’avvento del regime di partito unico, il “fascismo”, la cui prima legge importante vietò agli impiegati pubblici di appartenere ad associazioni segrete. La Massoneria non era segreta, ma la legge era contro la Massoneria (maggio-novembre 1925) e fu gradita a quasi tutti i parlamentari, inclusi molti liberali e “democratici”. All’epoca in Italia i Massoni erano almeno 60.000 (quarantamila nel “Grande Oriente”, ventimila nella “Gran Loggia”). Sotto l’offensiva fascista il Gran Maestro Domizio Torrigiani sciolse le logge del “Grande Oriente”, imitato poco dopo dal Sovrano della “Gran Loggia” Raoul Palermi. Al termine della Grande Guerra il re aveva ufficialmente ringraziato la Massoneria per il suo contributo alla vittoria (vi perse il 10% degli affiliati). Sette anni dopo essa crollò di schianto e disparve. Pochi massoni però vennero effettivamente perseguitati, costretti all’esilio, condannati a vivere in luoghi isolati (“confino di polizia”). La generalità degli affiliati entrò in sonno. Molti di essi collaborarono con il governo Mussolini in posizioni eminenti. Fu il caso di Alberto Beneduce, il principale organizzatore dell’economia italiana; di Balbino Giuliano, ministro dell’Educazione Nazionale, di Edmondo Rossoni, sindacalista fascista, dello scrittore Curzio Malaparte. In loggia entrò anche Telesio Interlandi, che poi diresse la rivista “Difesa della Razza”. Fu un pe-

riodo di confusione e di contraddizioni. I massoni non si opposero apertamente al governo e nella grande maggioranza non vennero infastiditi. Anche in quegli anni uscirono riviste sapienziali e si affermò Julius Evola, già collaboratore di Arturo Reghini e di altri “grandi iniziati”. Il fascismo combatté la Massoneria per tre motivi fondamentali: in primo esso luogo voleva essere “la Nazione” e quindi non poteva avere un “concorrente” come la Massoneria che si proclamava Madre e Custode della Patria. In una guerra di Simboli non ci possono essere due vincitori. In secondo luogo Mussolini sapeva che una parte dei gerarchi fascisti (Italo Balbo, Roberto Farinacci, Giacomo Acerbo, Alessandro Dudan…) e molti militari (Luigi Capello, l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Ugo Cavallero…), diplomatici, magistrati, alti dirigenti pubblici erano massoni e non voleva avere “la serpe in seno”. Infine, per assicurarsi il sostegno della Chiesa cattolica, essenziale per la stabilità del governo, doveva “dare un esempio”: proibire la Massoneria, salvo assumere il ruolo di difensore della laicità dello Stato sul terreno strategico dell’educazione dei giovani. Malgrado lo scioglimento delle logge, dopo il 1925 molti massoni continuarono a operare nel silenzio e nell’esilio, ove furono aiutati da Fratelli degli Stati Uniti d’America, come Arturo Di Pietro, Charles Fama e Frank Gigliotti, tutti protestanti. Gigliotti ebbe parte importante nella rinascita della Massoneria nel 1943-1960. Facilitò i rapporti tra i Fratelli d’Italia e gli Americani, a tre condizioni: il rifiuto netto del social-comunismo, dell’anticlericalismo e della visione nazionalistica della storia. L’Italia doveva tornare nell’Occidente. Gli ostacoli però rimanevano tanti e difficili da superare, a cominciare dall’antica scomunica da parte della Chiesa cattolica, ai cui occhi anche il “Rotary” (combattuto dal regime fascista e sciolto dopo l’alleanza tra fascisti e nazisti) e i “Lions” rimanevano “sospetti”. Inoltre vigeva il divieto di affiliazione massonica per quasi tutti i partiti politici, che si dichiaravano antifascisti ma rimanevano totalitari (partito comunista, partito socialista, democrazia cristiana, ai quali poi si aggiunse il movimento sociale ita-

liano, reincarnazione del PNF). 10. La Massoneria nell’Italia attuale: non riconosciuta, male conosciuta. Nel giugno 1946 in Italia un plebiscito molto discutibile segnò la caduta della monarchia e l’avvento della Repubblica. Alla rinascita, nel 1944-45, la Massone-

Storia ria italiana risultò prevalentemente repubblicana, sino a dimenticare che dal 1861 al 1925 la monarchia le aveva assicurato libertà e progresso. Sin dal 1924, anzi, quando già era iniziato l’assalto alle logge per opera di squadristi fascisti, molti massoni entrarono nei “Rotary”, presieduti da Vittorio Emanuele III: una sorta di riparo estremo. Quel passato, però, venne messo tra parentesi e cad-

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de dalla memoria. Del Risorgimento furono rievocati solo Mazzini e Garibaldi, mentre Cavour e soprattutto i re caddero nell’oblio. La distorsione della verità dei fatti fece credere a tanti affiliati che la Massoneria fosse geneticamente repubblicana, anzi rivoluzionaria e che essa avesse per insegna il cosiddetto “trinomio”: un’invenzione di Lamartine, neppure massone. La Costituzione della Repubblica italiana (1948) è largamente ispirata ai principi massonici di uguaglianza dei cittadini “davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art.3). La Massoneria rimase ai margini della vita pubblica, in una sorta di limbo, circondata da sospetti di ogni genere. 20

Tuttavia il “Grande Oriente d’Italia” si affermò con i Grandi Maestri Giordano Gamberini (1960-1969) e Lino Salvini (1970-1978), che ottennero il riconoscimento di molte Grandi Logge americane e della “Gran Loggia Unita d’Inghilterra” (1972) e maggior rispetto da parte della Chiesa cattolica. Nel 1974 il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, cardinale Ferenc Seper, scrisse al cardinale Krol che i cattolici possono entrare nelle logge che non cospirano contro la Chiesa. In quel nuovo clima filosofico e culturale, la Loggia “Propaganda massonica” n. 2 (P2), retta da Licio Gelli su mandato del Gran Maestro Salvini raccolse esponenti di tutte le forze politiche, alte cariche dello Stato (soprattutto militari), industriali, banchieri e giornalisti. Gelli ideò anche

una Organizzazione mondiale per l’assistenza massonica. Anche la “Gran Loggia d’Italia” compì importanti progressi con il Sovrano Giovanni Ghinazzi. Essa aprì l’iniziazione alle donne, nel solco di Giuseppe Garibaldi, e istituì relazioni con le massonerie liberali, quale il “Grande Oriente di Francia”. Dal 1981 sia la loggia “Propaganda massonica n. 2” e il “Grande Oriente”, di cui era componente, sia la “Gran loggia d’Italia” vennero colpite da uno scandalo artificioso di enormi proporzioni. La P2 fu sciolta dal Parlamento come associazione segreta, senza alcun approfondimento critico. Una commissione parlamentare d’inchiesta si concluse con sei diverse relazioni e un giudizio provvisorio. Dopo dieci anni la P2 venne assolta in sede giudiziaria dall’accusa di cospirazione militare o politica. Il pregiudizio negativo però rimase, anche perché nel 1994 il Gran Maestro del “Grande Oriente” lasciò la carica e creò una nuova organizzazione, subito riconosciuta dalla “Gran Loggia d’Inghilterra”. Poi il “Grande Oriente” tornò a contare circa 20.000 affiliati dal Gran Maestro Armando Corona a Gustavo Raffi. Si affermò anche la “Gran Loggia d’Italia” (circa 10.000 affiliati) da sei anni presieduta dal Gran Maestro Luigi Pruneti, che ha dato impulso alla ricerca storica e alla presenza pubblica della “Gran Loggia”. In Italia non esiste una legge che protegga il nome della Massoneria. In sua assenza, qualunque gruppo di cittadini può darsi il nome di Massoneria. Perciò oggi in Italia esistono circa duecentocinquanta organizzazioni che si proclamano “massoneria” senza che nessuno riesca a impedirlo. Questa babele genera confusione e discredito e non aiuta la conoscenza di origine e storia della Massoneria. Nelle maggiori librerie i pochi volumi sulla Massoneria sono generalmente ordinati in scaffali accanto a opere su spiritismo, magia, occultismo, new age, erboristeria, sessuologia… Perciò molti pensano che l’iniziazione femminile in Massoneria sia come la Wicca e altre forme di naturalismo. Anche l’antimassonismo politico-ideologico e religioso rimane molto


diffuso, non solo tra i clericali e gli estremisti di sinistra e di destra, ma anche in movimenti populistici, che promettono un mondo di uguali nell’uniformità anziché nella libertà. Durante i loro pontificati Giovanni XXIIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e lo stesso Benedetto XVI non hanno pubblicato alcun documento contro la Massoneria; anzi non ne hanno mai pronunciato il nome. Benedetto XVI ha lamentato il “relativismo”, ma, come i suoi immediati predecessori, ha elogiato i principi costitutivi della Massoneria: la promozione di libertà e di fratellanza, la benevolenza e il rifiuto del totalitarismo e delle discriminazioni in tutte le sue forme. Papa Francesco I ha invece denunciato il pericolo delle lobbies dei massoni, accomunate a quelle degli affari e degli omosessuali. In Italia la Massoneria rimane combattuta dai clericali, dai comunisti e da chi dice che la storia è frutto di complotti organizzati da ebrei, massoni, rivoluzionari, alta finanza, tutti sempre orchestrati dalle logge. In tempi recenti sia il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ex comunista, sia il presidente del governo italiano, Mario Monti, e il suo successore, Enrico Letta, sono stati accusati di essere al servizio dell’internazionale massonica. Anche il leader del centro-destra, Silvio Berlusconi, è spesso dipinto come massone perché a suo tempo iscritto alla loggia P2. Sono affermazioni infondate, ma vengono credute da chi teme che la storia sia controllata da poteri misteriosi, invincibili: il Diavolo, già ripetutamente evocato da papa Francesco. La crisi in corso (economica, sociale, culturale e civile) genera insicurezza e paure e spinge a cercare soluzioni totalitarie, populiste. Perciò la Massoneria in Italia rimane in posizione difficile: essa è esposta a inchieste giudiziarie, vittima di pregiudizi antichi e di movimenti che hanno bisogno di trovare un capro espiatorio da immolare per “uscire dalla crisi”. In conclusione si può dire che senza la Massoneria l’Italia non avrebbe raggiunto l’unità nazionale e il livello di libertà e di civiltà politica attuale. Senza la Massoneria l’Italia tornerebbe indietro di secoli. Perciò essa costituisce un patrimo-

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nio civile anche per chi non è massone. Forse la sua condizione migliorerà quando sarà meglio conosciuta nella sua vera identità, grazie alla storiografia. _______________ Bibliografia: G. M. Cazzaniga (a cura di), La Massoneria, Torino, 2005. F. Conti, Storia della massoneria italiana dal Risorgimento al fascismo, Bologna, 2003. J. A. Ferrer Benimeli, Bibliografia de la masoneria, Madrid, 2004, voll.2. C. Francovich, Storia della massoneria in Italia. Dalle origini alla Rivoluzione francese, Firenze, 1974. A. A. Mola, Storia della massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, 1976-2012. Id., Gelli e la P2 tra cronaca e storia, Foggia, 2009 (2^ ed.). L. Pruneti, Annales, La Gran Loggia d’Italia (1908-2012), Roma, 2013. E. Simoni, Bibliografia della massoneria in Italia, Foggia, 1997-2010, voll.2.

G. Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’Unità, Bari, 1981.

P.4: Sigillo della UCLA, Università della California/Los Angeles; p.5 e p.6: Due momenti della Conferenza. In particolare a p.5 da sinistra: Margaret C. Jacob (UCLA), Marie-Cécile Révauger (Un. Bordeaux), Alexandre Mansur-Barata (Un.Ruiz de Fora, Brasile), Aldo Alessandro Mola (Un.Milano), Jessica Harland-Jacobs (Un.Florida), Steven C. Bullock (Politecnico, Worchester, GB), Maria Eugenia Vàzquez-Semadeni (UCLA); p.6: A destra busto di papa Clemente XII; p.7: In alto Raimondo Sangro di San Severo (stampa) e in basso frontespizio del celebre volume di Cesare Beccaria; p.8: In alto estratto antimassonico del 1791 degli Atti del processo dello Stato della Chiesa a Cagliostro e in basso ritratto di Napoleone Bonaparte; p.9: Scenografia dal ‘Flauto Magico’ di Mozart; p.10: in alto lord William Bentinck e in basso Clemens von Metternich; p.11 in alto: F.Confalonieri; p.11 in basso: I Quattro mori, olio su tela, Oriente di Livorno (foto P.Del Freo); G.Mazzini; p.12: G.Mazzini; p.13: G.Garibaldi; p.14: V.Emanuele II; p.15: Papa Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti (beatificato nel 2000); p.16: (da sinistra) Ernesto Nathan e Ettore Ferrari; p.17: Vignetta su Leo Taxil con autografo; p.18: Ritratti di Saverio Fera; p.19: Ritratti (dall’alto) di Benito Mussolini, Arturo Reghini e Julius Evola; p.20: 6 giugno 1946: Il Corriere annuncia la nascita della Repubblica; p.21: Il S.G.C.G.M. ‘62/’87‘ Gianni’ Ghinazzi (fotografia all’Oriente di Livorno).

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La Costituzione per Fiume, predisposta da Alceste De Ambris e curata da Gabriele D’Annunzio quale espressione del pensiero massonico. Antonio Binni

La ‘Carta del Carnaro’ 22


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L’impresa fiumana come manifestazione della via iniziatica “eroica”. Il 12 settembre 1919, alla testa di una colonna di volontari e di alcuni reparti dell’esercito regolare, subito solidali, Gabriele d’Annunzio, in divisa di tenente–colonnello dei Lancieri di Novara, proveniente da Ronchi, occupa Fiume, accolto in un tripudio di folla. Su ordine di Giolitti, il generale Enrico Caviglia, nel dicembre del 1920, manu militari, sfratta Gabriele d’Annunzio, e le sue truppe, dalla città quarnerina. I cinque giorni di lotta fratricida, nell’amore esasperato per la parola del Vate– Soldato, diventano il “Natale di sangue”. In quella avventura – definita da Mussolini una “eroica impresa” – sono stati ravvisati i germi della peste fascista. L’occupazione di Fiume aveva, infatti, dimostrato che la presa del potere con la semplice forza era pur sempre un’impresa possibile. Dal quale verso, la soluzione fiumana finiva per diventare un precedente pericoloso. È, inoltre, indubbio che il fascismo mutuerà proprio da d’Annunzio il grido di esultanza Eia eia Alalà; la sua espressione tipica “me ne frego”; l’uso dell’olio di ricino come becero strumento di punizione e, in termi-

ni più vasti, le stesse tecniche di comunicazione inaugurate dal Vate. Le adunate oceaniche imposte dal fascismo riproducono, infatti, su larga scala, le comunicazioni di massa adottate da d’Annunzio in termini, in verità, assolutamente originali, fondate sulla richiesta di una risposta alle proprie domande retoriche. Mussolini – il “Cesare di segatura”, come, con sovrano disprezzo, lo definirà poi Salvemini – per affermare il proprio personale carisma non mancherà poi neppure di assumere atteggiamenti e gesti che già avevano fatto la fortuna del “poeta soldato”. Lo stesso disegno di marciare su Roma per impadronirsi dello Stato è progetto del Nostro, dissuaso ad attuarlo da Mussolini, soltanto perché questi intendeva essere il condottiero in proprio di quella avventura foriera poi di mali incancellabili. La moderna storiografia ha, tuttavia, abbandonato la tesi che leggeva la vicenda fiumana in termini di “impresa pre fascista”. Dopo il saggio d’Annunzio politico 1918-1938 - Bari, 1978, dedicato all’argomento dall’autorevole storico Renzo De Felice, quella veduta interpretativa è stata, infatti, riconosciuta come oltremodo riduttiva. L’occorso, a ben considerare, è, infatti, l’espressione di una realtà complessa e

composita quale era l’Italia dopo la Prima guerra mondiale: un autentico groviglio di forze fra loro in un insanabile contrasto nella cornice di una ormai irreversibile decadenza dello Stato liberale. Il giudizio storico rimane, comunque, difficile, non solo perché – forse – ancor oggi manca la distanza che, sola, consente di essere oggettivi, ma anche, e soprattutto, perché siamo profondamente convinti della validità dell’insegnamento di un grande Maestro. Benedetto Croce, quando ha scritto che “la Storia è sempre contemporanea”, ha, infatti, inte23


so sostenere – e la tesi ci convince – che ogni generazione e ogni scuola di pensiero si porta, nei giudizi, l’impronta del suo tempo. La Storia, infatti, è ricerca e dibattito senza fine e le sue sentenze non sono mai definitive. Il che lo abbiamo sperimentato anche di recente. In occa-

Storia sione della celebrazione della figura di Garibaldi, nel bicentenario della sua nascita, fortemente voluta dalla nostra Obbedienza, a conferma della costante attualità del giudizio storico, ci siamo, infatti, incontrati – e talora pure scontrati – con forme revisionistiche, non solo dell’Eroe, ma pure dello stesso Risorgimento, alcune oneste, altre, invece, inquinate dal pregiudizio ideologico, quasi tutte, inoltre, incredibilmente reticenti

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sull’operato dei Massoni, valutato, per di più, con malanimo, negli isolati contributi che ne hanno fatto menzione, sempre, peraltro, di scorcio. Per non uscire dal nostro hortus conclusus, preferiamo, pertanto, inquadrare l’impresa compiuta dal “poeta–soldato” in una luce esoterica, nella convinzione profonda che, allorchè si incamminó verso Fiume, in Gabriele d’Annunzio v’era pure la coscienza – piena e totale – di seguire un autentico percorso iniziatico, precisamente, quella “via eroica”, cara, ad esempio, a quella casta militare che fece di Roma la domina di tutto l’universo civile allora conosciuto. Sommessamente, a noi pare che anche quella testè segnalata possa essere utilizzata quale una non inutile chiave ricostruttiva di una vicenda oggettivamente complessa che acquisterà la sua giusta luce.

2.- Sul criterio espositivo prescelto. Dove viene, sia pure sommariamente, definito il concetto di “Costituzione”. Tratteró l’argomento nei termini che mi sono, invero, abitualmente propri: ossia: da giurista e da massone. Da giurista, per studio. Da massone, in quanto appartenente alla razza dei cercatori di verità, intrecciando i due profili, come in un controcanto, al fine di verificare se il tema da svolgere sia fondato – o meno – e, nel caso di risposta positiva, in che misura sia possibile riconoscerne l’esattezza. Prima di scendere in medias res, sono, tuttavia, obbligato a porre una premessa, intesa a delucidare il concetto di Costituzione, a ragione – presumo – che, non tutti siano cultori della dottrina dello Stato. Ogni gruppo sociale, se vuole sopravvivere nel tempo oltre la caducità di quanti lo compongono, puó raggiungere stabilità solo se, oltre a creare una forte struttura, è pure capace di legare fra loro, con un forte vincolo associativo, tutti gli appartenenti alla compagine. Il principio ordinatore e il principio organizzativo valgono poi a imprimere il carattere della giuridicità a ogni consociazione umana. Il fenomeno giuridico è, dunque, connaturato al fenomeno associativo. Il che è espresso dall’antico broccardo: ubi societas, ibi jus. L’atto che comprende i principi di carattere organizzativo e quelli di natura associativa che si risolvono nei diritti – doveri del singolo nei confronti del gruppo e, reciprocamente, nella tutela del gruppo nei confronti dei suoi componenti, tradizionalmente, si denomina Carta costituzionale o, più semplicemente, Costituzione. Poiché l’atto raccoglie e racchiude i principi basilari, sui quali si fonda un determinato ordine statuale positivo, la stessa è pure conosciuta come lex fundamentalis: formula felice in quanto è precisa esplicazione della sua funzione. Estraneo alla prassi inglese, nel diritto continentale il termine è, invece, abituale per designare, per dirla in termini massonici, la pietra angolare dell’ordinamento. In quanto scaturigine del sistema normativo, alle norme costituzionali si attribuisce una posizione preminente rispetto a tutte le altre che compongono l’ordinamento. Per questo, figurativamente, si è scritto che la Costituzione è il tronco dal quale si diramano tutti i rami del diritto positivo. La digressione, come accennato, è necessaria perché, a onta del-


la sua denominazione, la Carta del Carnaro, a tutti gli effetti, è una vera e propria Costituzione, più esattamente ancora, come recita, del resto, il suo stesso sottotitolo, è la Costituzione per Fiume, adottata dal “Popolo della libera città di Fiume” l’8 settembre del 1920. 3.- Sulla struttura della Carta. La Carta si apre con una Premessa, nella quale si dà conto della ragione per la quale il “Popolo della Libera Città di Fiume”, “in nome … dell’inalienabile diritto di autodecisione”, ha deliberato “di darsi una Costituzione”. La ragione è poi colta nell’impossibilità, dovuta alla “altrui prepotenza”, di far parte integrante, nell’immediato, dello Stato italiano, “mediante un esplicito atto d’annessione”. Il testo, vero e proprio, si articola in diciannove (19) capi. Ogni capo è poi suddiviso in singoli articoli per un totale di 47. Il primo di questi capi reca il titolo di Parte generale, che, ai nostri fini, è sicuramente quello di maggior interesse, contenendo i principi generali fondanti e fondativi della Repubblica del Carnaro. La nostra analisi sarà, pertanto, incentrata su questa “Parte”, ulteriormente circoscritta a quelle disposizioni del corpus normativo che paiono utili a conferire sostanza e fondamento alla tesi che si intende prospettare. 4.- Gli autori della Carta. La “Carta del Carnaro” – Costituzione per Fiume – com’è noto – fu “predisposta da Alceste De Ambris e curata da Gabriele d’Annunzio”. La ristrettezza dello spazio a disposizione non permette di soffermarsi sulla figura di De Ambris, sindacalista di incrollabile fede nel proprio credo sovversivo, morto esule in Francia per non divenire cortigiano servizievole del fascismo. Qui mi limiterò, pertanto, a ricordare soltanto che, raggiunto d’Annunzio a Fiume, De Ambris ne diventa suo Capo di Gabinetto e che, in tale veste, diviene un artefice sicuramente non secondario della “Carta del Carnaro”. La matrice di sindacalista autenticamente rivoluzionario del De Ambris emerge, infatti, a chiare note, dalla lettura dell’art. 5 che, testualmente, recita: «La Costituzione garantisce inoltre a tutti i cittadini … il lavoro compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita, l’assistenza in caso di malattia o d’involontaria disoccupazione, la pensione per la vecchiaia», che sono tutte conquiste so-

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ciali oltremodo avanzate, tanto da legittimare il convincimento che lo Stato disegnato su quei principi, non solo nella forma repubblicana, ma anche nei suoi valori fondanti, era ben diverso dal Regno d’Italia, al quale verbis pure ci si voleva annettere. Non puó essere, infatti, un caso il fatto che, nella “Carta”, la parola Stato venga nominata appena quattro (4) volte, a voler rimarcare – si direbbe – l’intenzione di creare un ordinamento sindacale. Né puó essere, infine, senza significato la circostanza che quella dei legionari di Fiume fosse una bandiera rossa con due piccole bande verticali bianca e verde, che altro non è se non un tricolore dominato dal colore rosso! Dai costituzionalisti si è adusi sottolineare la circostanza che ogni Costituzione è opera collettiva in quanto risultante transattiva di concezioni contrastanti. A questa stessa identica sorte non può, dunque, neppure sfuggire la “Carta” in commento, se si ammette, come a noi pare, quanto meno, possibile, che, nella sua formazione, abbiano confluito, pure altre ideologie, compresa quella massonica. Anche la “Carta del Carnaro” può, infatti, considerarsi un compromesso, sia pure non in senso deteriore, cosí come è sempre avvenuto per qualsiasi altra carta costituzionale. Compresa quella tuttora vigente nel nostro Paese. 5.- Dove si individuano ideali massonici tradotti in altrettanti articoli di legge comprensibili ed esatti come assiomi di aritmetica elementare. Esaurito il preambolo, inevitabilmen-

te non breve, è giunto il momento di affrontare il tema specifico costituito dalla verifica della eventuale influenza del pensiero massonico all’interno della “Carta”. Senza, ovviamente, alcuna pretesa di completezza, ci limitiamo a segnalare alcune disposizioni che, a nostro sommesso, ma meditato avviso, paiono espressione della tradizione massonica più pura ed autentica. In quest’ottica, innanzitutto, è imprescindibile il richiamo all’art. 2 della “Parte generale”, laddove viene riconosciuto che, nella Repubblica, l’uguaglianza di tutti i cittadini è “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione”. La Massoneria, da ormai duecento anni, costituisce, infatti, l’esempio vivente di una società che non discrimina, ma unisce nella convinzione profon25


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da che tutti gli uomini, per quanto nati dal caso e dalla pena, sono pur sempre tutti figli dello stesso cielo. Oggi il divieto della discriminazione è valore acquisito anche se in molte plaghe del mondo non riesce, purtroppo, ancora ad affermarsi. Quando, però, la Massoneria ha proclamato il principio dell’uguaglianza, va riconosciuto che quella veduta era autenticamente rivoluzionaria perché calata in una società caratterizzata dal censo, dal maschilismo e pure dalla avversione della Cattedra romana. Un esempio per tutti. Nell’enciclica Quod aliquantum del 1791, Pio VI aveva, infatti, demonizzato l’idea stessa del principio di eguaglianza con l’affermazione: «Quale stoltezza maggiore puó immaginarsi quanto ritenere tutti gli uomini uguali e liberi»! Nell’ottica previlegiata dal mio ointervento si impone, inoltre, il richiamo all’art. 37, nel quale si afferma il principio secondo il quale: «La Repubblica considera come il più alto dei suoi doveri l’istruzione e l’educazione del popolo». La Massoneria considera l’ignoranza come la fonte di ogni male. È, perciò, perfino ovvio che l’istruzione e l’educazione diventino uno dei fini primari di una Costituzione espressione anche del credo massonico che ha influito pure sull’affermazione di principio secondo la quale la “istruzione primaria” deve essere non solo “obbligatoria”, ma pure “gratuita”. 6.- L’art. 4 come atto di fede nella libertà. Vorrei ora soffermarmi sull’art. 4 della 26

“Carta” laddove lo stesso recita: “La Costituzione garantisce a tutti i cittadini l’esercizio delle fondamentali libertà di pensiero, di parola, di stampa, di riunione e di associazione”. Per apprezzare la portata profondamente innovativa di questo dettato normativo, non si puó non ricordare, in primis, che, appena trentadue anni prima, Leone XIII, nella sua enciclica Libertas (1888), aveva sostenuto – cito alla lettera – che «… non è assolutamente lecito invocare, difendere, concedere una ibrida libertà di pensiero, di stampa, di parola … come fossero altrettanti diritti che la natura ha attribuito all’uomo. Infatti, se veramente la natura li avesse concessi, sarebbe lecito ricusare il dominio di Dio, e la libertà umana non potrebbe essere limitata da alcuna legge». Il che marca, appunto, la natura progressista e moderna di una disposizione, il cui commento richiederebbe, in verità, un respiro molto più ampio di quello consentito al mio odierno intervento. Per questo, mi limito a sottolineare che noi, in tutti quei principi, cogliamo, tradotti in un articolo di legge, comprensibile ed esatto come gli assiomi di aritmetica elementare, il senso più autentico e profondo dell’insegnamento massonico e del suo valore fondante e fondativo costituito dal senso profondo e religioso della Libertà, perché, se queste libertà (di pensiero, di parola, di stampa, di riunione) mirano, in sostanza, a favorire l’espansione del singolo nella vita politica della comunità, nel contempo, costituiscono il pieno riconoscimento all’Uomo di quella dignità che fu tanto cara al mio quasi concittadino Pico della Mirandola.

Si obietterà che quei principi, allora come oggi, in quanto scolpiti pure nella Costituzione italiana, sono rimasti vaghi indirizzi programmatici e promesse affidate all’incerto avvenire in quanto non tutte ancora trasformate in concrete garanzie giuridiche. Come ben sappiamo noi Massoni italiani che, ancor oggi, siamo in trepida attesa di una legge sulle associazioni che, rendendo perspicua la disciplina, ci affranchi – finalmente! – dalla “caccia alle streghe”, dalla quale siamo perseguitati … ad ogni stormir di fronda. Sicchè, ancora una volta, voglio ribadire che nessuno potrà mai dubitare della lealtà di chi è forte solo della forza di persuasione del proprio pensiero e del proprio credo. Né potrà mai negarsi a ciascuno di noi il diritto di concorrere, con tutte le conoscenze che detiene, oltre che con tutte le energie delle quali dispone, alla crescita civile della Società, nella quale abitualmente viviamo. Esattamente come hanno fatto i nostri predecessori, grandi e piccoli, tutti amanti del pubblico bene, per questo, preoccupati di scolpire nelle leggi fondamentali dei loro paesi di rispettiva appartenenza i c.d. diritti sociali, nei quali, più che un punto d’arrivo di una rivoluzione culturale, hanno, invece, del tutto correttamente ravvisato un punto di partenza di una evoluzione che consenta all’uomo – cittadino di raggiungere ed esplicare il massimo della sua umanità. 7.- Sulla prevalenza della legge civile su quella religiosa di tutti i culti ammessi. La Massoneria è laica, ma non irreligiosa. Per questo all’art. 4 della “Carta” in commento troviamo sancito il principio che, nella Repubblica, «Tutti i culti sono ammessi», posto che, per definizione, lo Stato deve assicurare pari tutela e dignità a tutte le Chiese e ai rispettivi fedeli senza pretendere di attribuire a un culto, piuttosto che a un altro, la patente di unica e sola “vera religione”. Affronto col che un tema delicato, con la speranza di non essere frainteso. La Chiesa di Roma, ancor oggi, è legata alla dottrina di Tommaso della “armonia di fede e di ragione”: insegnamento che esclude la possibilità del contrasto fra le verità di fede e quelle di ragione, in quanto, le prime, rivelate da Dio, e, le seconde, perché, per sé, evidenti: concetto, con ferma determinazione, a suo tempo, sostenuto pure da Galileo. Donde, in via di corollario logico-attua-


tivo, la necessaria coincidenza fra la legge civile e la legge morale perché, se lo Stato non vuole precipitare nella irrazionalità, non può che recepire la legge morale che, ovviamente, coincide con la religione cristiana. Questa è la “sana”, “corretta” laicità, già affermata da Pio XII e, in questi ultimi tempi, riaffermata, con forza, dal versante cattolico con una logica assolutamente teocratica. La cultura massonica, trasfusa nella laicità, non solo nega la necessità della identificazione fra le due normative, ma, addirittura, tollera la distinzione fra legge morale e legge civile perchè ritiene che la morale sia, invece, una questione privata, un problema che ogni cittadino deve risolvere all’interno della propria coscienza. Da qui, ad esempio, l’intento delle forze laiche, non già di cancellare il carattere moralmente negativo dell’aborto, ma solo di depenalizzarlo. Considerazioni tutte, codeste, che, solo in apparenza, risultano fuori tema. La loro assoluta pertinenza all’argomento trattato risulta, invece, di solare evidenza da quanto statuito nella restante parte della disposizione in commento. Infatti, dopo di avere riconosciuto pari dignità a tutti i culti, la “Carta”, al citato art. 4, scolpisce il principio secondo il quale: «… le opinioni religiose non possono essere invocate per sottrarsi all’adempimento dei doveri prescritti dalla legge», formula introdotta dalla avversativa “ma”, proprio a significare il totale distacco fra la legge morale e la legge civile e, ad un tempo, la supremazia di quest’ultima, in quanto la sola che possa assicurare una convivenza civile pacifica e armoniosa. In questa normativa, anziché ravvisare l’espressione di un inutile anticlericalismo, va, dunque, colto, piuttosto, il seme di una idea progressiva ed anticipatrice, particolarmente preziosa nella odierna società multietnica e multireligiosa. 8.- La proprietà come funzione sociale. Prima di concludere, non posso esimermi dall’illustrare l’art. 6 della “Parte generale”, a ragione che la norma, ivi contenuta, oltre a rivestire un carattere fulcrale nel contesto di quella Costituzione, ha un valore, in assoluto, fondamentale, non solo per la sua originalità, ma anche, e soprattutto, per il suo carattere fortemente progressista. La natura innovativa e marcatamente anticipatrice di quella disposizione che, testualmente, recita: «La Repubblica considera la proprietà come una funzione sociale», può

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essere apprezzata solo mediante un processo di comparazione per motivi facilmente intuibili contenuto in termini del tutto circoscritti. Pur con questi dichiarati limiti, l’indagine sarà, tuttavia, ugualmente proficua ai fini perseguiti. È noto che la proprietà, specie terriera, era, dal profilo economico, il punto di forza della borghesia ottocentesca. Da qui il carattere tendenzialmente illimitato del relativo diritto che, già nello Statuto albertino, aveva, in quei termini di assoluta latitudine, rinvenuto la sua solenne consacrazione. Il carattere (della tendenziale illimitatezza) rinviene, comunque, la sua formulazione più ampia nell’art. 436 del Codice civile italiano del 1865 che, con formula, ricalcata sulla iden-

tica disposizione del codice napoleonico, cosí risuona: «La proprietà è il diritto di godere e disporre della cosa nella maniera più assoluta purchè non se ne faccia un uso vietato dalle leggi e dai regolamenti». Il che equivaleva a sancire la natura eccezionale di qualsivoglia intervento normativo limitativo di quel diritto, per definizione, esteso, in verticale, usque ad sidera e, nel profondo, usque ad inferos. La concezione liberale spinge poi il disfavore alla imposizione alla proprietà di qualsiasi limite, non solo a opera del pubblico potere, ma pure da parte dello stesso proprietario, che non poteva porre limiti e vincoli alla proprietà se non utilizzando i soli schemi previsti dalla legge, per di più, in un nume27


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ro esiguo e predeterminato (c.d. numerus clausus) proprio perché il legislatore aveva riserbato unicamente a sé il diritto di individuare la misura, nella quale poteva essere compressa l’illimitatezza della proprietà. La prospettiva, tuttavia, muta agli inizi del Novecento, non solo perché, minaccioso, risuona l’eco della stessa abolizione della proprietà privata, divenuto principio basilare dell’ordinamento comunista, ma anche, e soprattutto, perché, al capitale, viene contrapposto il lavoro, inteso come il vero centro motore di ogni crescita della società civile. A fronte di nuove esigenze si avverte la necessità di interventi normativi indirizzati in precise, specifiche, direzioni che, pur lasciando fondalmente intatta la struttura del sistema capitalistico, attribuiscono, tuttavia, alla proprietà un carattere profondamente innovativo, un autentico scopo sociale, in quanto trasformano quel diritto, da un bene ad uso egoistico, a strumento economico – sociale di crescita generale. La Carta del Carnaro, statuendo al suo articolo 5, il principio che la proprietà è una «funzione sociale», non solo si muove nell’accennata ottica, ma lo fa, per di più, con una formula cosí felicemente icastica da divenire un autentico modello, ancor oggi, insuperato. Come emerge, con chiarezza, dal confronto del suo testo con quello, ad esempio, dell’art. 153 della Costituzione di Weimar che presenta, invece, questa formula molto meno significativa: «La proprietà porta con sé dei doveri: essa deve essere usata nell’interesse generale». Oltre che per la sua formula particolarmente appropriata, in quanto esplicativa ex se, la disposizione in commento è fondamentale, perché questa normativa rafforza la tendenza, nel tempo divenuta sempre più chiara e consapevole, di impostare la questione sociale in termini costituzionali: cioè considerare il problema del benessere economico dei cittadini come prioritario e prevalente fino al punto da essere preso in considerazione nella lex legum. La proprietà, per citare, ancora una volta, alla lettera, l’art. 5 della “Carta”, non è più «un assoluto diritto»; non è più un «privilegio individuale», ma un diritto che obbliga il suo titolare a valorizzarla e impiegarla in guisa tale da renderla «fruttifera», oltre che a se stesso, anche «a beneficio dell’economia generale». La vigente Costituzione italiana, al secondo comma del suo art. 42, a conferma della insostituibilità della formula


Storia dannunziana, l’ha recepita alla lettera, accogliendo cosí il principio solidaristico sotteso a quella dizione. Col che il cerchio si chiude, non già, però, con una formula di per sé meramente ideologica o predicatoria, come pure qualche studioso ha erroneamente sostenuto, perché quella disposizione – la sottolineatura si impone – è, invece, immediatamente precettiva. Con la conseguenza, ad esempio, che il giudice può operare un controllo sul modo con il quale il diritto di proprietà è esercitato, sanzionando il suo uso antisociale. Dalla disposta funzionalizzazione della proprietà, sul piano attuativo, discendono ulteriori corollari che qui non possono neppure essere accennati. In questa sede, va, invece, rivendicata, con forza e fermezza, la matrice, quanto meno, anche massonica di quella disposizione, essendo proprio dell’insegnamento massonico l’avere cura dell’altro perché l’egoismo non paga a differenza dell’AMORE che è la vera pietra provata, angolare, di solida fattura, sulla quale puó edificarsi una società finalmente giusta. 9.- Considerazioni conclusive. Il sostenere che la “Carta del Carnaro” sia espressione unica del pensiero massonico è tesi sicuramente ardita, se non, addirittura, azzardata. Il propugnare l’assunto secondo il quale la veduta massonica ha impregnato di sé anche quella lex legum è, invece, prospettazione molto più fondata e, comunque, molto più verosimile. Anche se, quella della influenza massonica su quest’atto e in molte altre manifestazioni dello spirito consacrate in testi legislativi, scritti, opere letterarie, spartiti o altre manifestazioni artistiche nel senso più lato della espressione pare, in verità, una problematica di difficile soluzione se non, addirittura, una questione oziosa. Per questo, anziché chiedersi in che misura l’avere abitualmente frequentato la loggia abbia in-

fluenzato il pensiero politico di coloro che hanno scritto la Costituzione francese o americana o la musica di Mozart o l’opera di Goldoni, di Carducci, del mio amato Pascoli, il pensiero e l’azione di Garibaldi, o gli scritti di Gabriele d’Annunzio, che pure sono ricchi di riferimenti al credo e al sentire massonico, a me, sommessamente, pare, invece, molto più rilevante e interessante chiedersi la ragione per la quale questi Uomini eletti, al pari di molti altri, non rammemorati al solo fine di evitare il tedio di un elenco smisurato, abbiano chiesto di divenire massoni. Se mi è consentito, al quesito posto, oso azzardare una risposta. Come tutti gli altri Spiriti magni che hanno indossato i “guanti bianchi”, anche Gabriele d’Annunzio è

entrato in Loggia perché, nella Massoneria, ha rinvenuto un deposito di saggezza e di attenzione all’Uomo che gli erano essenziali, prima ancora che naturalmente consentanei, e, ancor più in specifico, quel culto della libertà, una e indivisibile, intesa non già come un diritto, bensí come un dovere da praticare quotidianamente, da trasfondere nelle leggi, strumento essenziale perché il cammino dei diritti di libertà si identifica col cammino della civiltà: “libertà da difendere”, perché le leggi della tirannia non sono che forma senza anima.

P.22/23: Gabriele d’Annunzio e, in basso, Alceste De Ambris; p.5 e p.24/27: Fotografie e documenti del ‘periodo’ fiumano.

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Il manoscritto di Cooke Maurizio Galafate Orlandi

parte II

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el Manoscritto di Cooke si possono individuare due parti ben distinte che si differenziano sia per l’epoca in cui esse vennero compilate (anche se questa è solo un’ipotesi), che per i loro contenuti. La seconda parte consiste in un libro di Doveri che, come abbiamo visto in precedenza, include una introduzione storica, nove articoli che riguardano l’organizzazione del lavoro, seguiti poi da nove consigli di ordine morale e religioso e infine da alcuni aspetti della vita sociale dei Muratori legata alle loro assemblee. La narrazione è essenziale ma completa, tanto da far ritenere verosimile che il nostro manoscritto sia la rivisitazione e ampliamento di uno o più testi preesistenti che narravano, tra l’altro, come l’introduzione della Muratoria in Inghilterra fosse intimamente connessa con il processo di cristianizzazione, anche se non direttamente dipendente da questo. Infatti, l’intento principale del compilatore del Cooke sembra essere stato soprattutto quello di affermare l’importanza e l’autorità dell’assemblea dei Muratori, enfatizzandone il potere e mettendone in risalto i contenuti socio-politici. In Inghilterra l’avvento del cristianesimo è legata alla figura di Sant’Alban e al Re Athelstano, come parte di quella storia voluta per rafforzare il concetto che il Mestiere/Arte della Muratoria avesse origini nobili. Alcuni dettagli del racconto potrebbero essere stati poi influenzati dagli spostamenti territoriali dei Muratori, mentre l’improvvisa apparizione nel manoscritto in questione della figura del Re francese Carlo II potrebbe essere interpretata come la volontà di mettere in risalto che le Ordinanze venivano applicate anche ai Muratori che lavoravano in Francia. Successivamente, sempre in terra di Francia, le differenti condizioni del lavoro nelle fortificazioni inglesi del XV secolo portarono alla emissione di specifiche Ordinanze con l’intenzione di disciplinare il lavoro dei Muratori, controllare i materiali e verificare l’equipaggiamento. La Fratellanza contribuì a compilare il Cooke e quindi non ci si deve sorprendere se in Inghilterra gli usi dei Muratori venivano applicati anche quando questi si trovavano a lavorare all’estero, su progetti tipo quello descrit-

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to nelle Ordinanze di Edoardo IV per i Muratori di Calais. L’interpretazione forse più vicina alla realtà sull’origine del Cooke è quella che esso sia stato scritto tenendo conto delle Ordinanze emanate dalla Fratellanza degli Scalpellini/Muratori che lavoravano a giornata: quella adottata nella riunione del 1420 a Shoropshire ne è un esempio, come pure le altre che lo vennero successivamente in altre cittadine delle Midlands occidentali. Le Ordinanze in questione erano simili a quelle scritte da chi realizzava sproni nella Londra del 1381 e da altre organizzazioni di lavoratori a giornata. La storia leggendaria può essere vista sia come un tentativo di legittimare l’esistenza e il potere delle assemblee, nonostante la legislazione le vietasse, sia per protestare e sovvertire le emergenti oligarchie all’interno del mestiere (arte) muratorio, stabilendo che lo status di tutti gli Scalpellini/Muratori fosse identico e che lo stesso Mestiere era stato originariamente appannaggio dei nobili. È interessante notare come alcune di queste assemblee di lavoratori venissero tenute in luoghi messi a loro disposizione da enti religiosi, come quelle che avevano sede a Londra nella chiesa di San Bartolomeo. Lo scopo dei nove articoli che seguono era quello di organizzare il lavoro e che, come abbiamo letto nella prima parte di questo breve saggio, sempre secondo il compilatore del Cooke, sarebbero stati

promulgati durante un’assemblea generale all’epoca del Re Athelstano. Il primo articolo stabilisce un principio di equità e di meritocrazia tra tutti i Muratori, affinché ognuno di essi venga ricompensato in funzione del lavoro svolto. Il secondo stabilisce il dovere di fedeltà verso il proprio Signore e la Comunità, dandone informazione ai Maestri che si accingono al lavoro e ponendo sanzioni nel caso che non venisse rispettato. Viene poi definito il rapporto di lavoro tra Maestro e Apprendista, stabilendo che nell’interesse di entrambi e del Mestiere il periodo di apprendimento deve protrarsi per un periodo non inferiore a sette anni. Il quarto articolo serve a impedire che rapporti di sangue possano essere di impedimento al lavoro che l’Apprendista 31


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dovrà svolgere alle dipendenze del suo Maestro. Quindi una norma che tende a evitare che un Apprendista passi dalle dipendenze di un Maestro a un altro, per evitare che l’insegnamento sia frammentario, e in quanto tale non porterebbe alcun giovamento al Signore. Il rendimento nel lavoro e l’onestà sono il fondamento di questo sesto precetto mentre il settimo protegge il regolare svolgimento del lavoro da eventuali turbative per fatti in cui sia coinvolto anche un Maestro. È sempre più evidente che la qualità del lavoro e la sua utilità per il committente venivano tenute in grande considerazione, soprattutto quando nel testo si afferma che tra due muratori, uno che svolge il suo lavoro alla perfezione, mentre l’altro no, il Maestro deve assumere il primo e mandare via il secondo. 32

Siamo così giunti al nono e ultimo articolo che fissa un principio di stabilità e garantisce il posto di lavoro ai Maestri i quali, una volta assunti, potranno e dovranno terminare il lavoro a essi commissionato. Seguono, senza soluzione di continuità, nove punti di una risoluzione presa da vari Signori e Maestri di diverse provincie e in diverse assemblee muratorie. I Nove punti fanno riferimento alla necessità che il Compagno giuri prima di essere accettato ed entrare così a far parte di una squadra di Muratori, stabiliscono che ci debba essere un giusto rapporto tra lavoro eseguito e salario percepito, ricordano che le decisioni, all’interno della Loggia, verranno sempre prese a maggioranza e che queste dovranno essere eseguite. Il testo continua statuendo che non ci dovranno essere pregiudizi sia nei con-

fronti dell’Arte che nei rapporti tra compagni di lavoro e che il giudizio del Maestro è definitivo, è impossibile ignorarlo e a esso tutti si dovranno sottomettere. Questo concetto viene poi rafforzato anche nel caso di eventuali litigi tra Muratori e, subito appresso, viene recepito il dettato del nono comandamento del catechismo cattolico, a dimostrazione di come le logge muratorie, che operavano molto spesso nell’ambito della Chiesa, ne fossero influenzate. Viene infine sottolineata l’importanza della lealtà del Compagno nei confronti del proprio Maestro, soprattutto qualora egli sia stato momentaneamente investito dell’incarico di Sorvegliante, compito che eseguirà nell’interesse del Maestro stesso e del committente dei lavori. Per concludere, il manoscritto parla dell’Amore, quel bene universale che tutti gli uomini dovrebbero possedere in se stessi, e precisamente l’amore che bisogna avere per i propri compagni di lavoro, perché soltanto così e con l’aiuto reciproco potranno essere soddisfatte le aspettative del proprio Signore. A partire dalla riga 901 si parla delle assemblee e dei fatti che avvengono all’interno di esse, quali la ricezione di nuovi compagni, il giudizio e le sanzioni per Maestri o compagni “ribelli” e infine viene detto che tutti dovranno essere leali servitori della loro Arte in tutto il Regno d’Inghilterra. Come abbiamo visto il manoscritto possiede molti elementi che, successivamente, verranno introdotti nei rituali della Massoneria speculativa assumendo un valore simbolico ed esoterico. In questo scritto i lettori troveranno molti elementi da cui l’odierna Libera Muratoria ha preso spunto; da parte mia voglio sottoline-


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arne due. Il primo è il giuramento, quando all’iniziando veniva richiesto di porre la mano destra sopra il “libro”, affinché il suo dire fosse in tal modo sacralizzato. Il secondo ricorda che colui il quale era stato appena iniziato doveva ascoltare i consigli dei suoi compagni, una sorta di istruzione che nelle moderne logge viene svolta dal Secondo Sorvegliante e dai Maestri tutti. Da ultimo notiamo un’affermazione che è di estrema importanza per il massone speculativo. Nelle righe che vanno dalla 621 alla 624, si fa cenno del figlio mino-

re del Re Athelstano, il quale apprese la Muratoria operativa oltre a quella speculativa di cui era già Maestro. In nessun libro o documento avevamo mai letto di Muratoria speculativa e tantomeno di un Maestro dell’arte. Anche se il manoscritto consistesse in queste poche righe, la sua importanza sarebbe già incalcolabile. Siamo giunti al termine e, nelle note, l’editore pone una domanda che dice gli fosse stata rivolta da un “non massone”. La domanda è questa: - “Siamo così sicuri che la Massoneria operativa sia in realtà la Li-

bera Muratoria? Non potrebbe trattarsi invece del disegno creativo realizzato da coloro che oggi chiamiamo architetti?” Matthew Cooke risponde con queste parole: - “Ogni libero muratore risolva questo dubbio leggendo dentro se stesso”, ricordando sempre, aggiungiamo noi, che il Mestiere assurge al rango di Arte nel momento in cui, per mezzo del linguaggio ermetico, comprendiamo che misurare significa fissare dei limiti e dare così corpo a ciò che non ne ha. P.38-41: Oggetti massonici vari provenienti da collez. private.

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La giustizia massonica e la dea Maat Giuseppe Ivan Lantos

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l 31° Grado del Rito Scozzese Antico e Accettato, quello dei Fratelli Grandi Ispettori Inquisitori Commendatori, è il Grado che fonda la sua ragion d’essere sul principio della Giustizia. Nella Premessa del Rituale si legge: “I Liberi Muratori insigniti del 31° Grado si riuniscono in assemblea denominata Sovrano Tribunale; amministrano la Giustizia Muratoria nell’ambito del Rito e custodiscono la purezza della sua Dottrina”. È naturale chiedersi di che natura sia la Giustizia Massonica, dato per certo che essa nulla ha a che fare con la Giustizia profana. Nella Filosofia del diritto essa, o meglio, la sua natura, è fin dalla più remota antichità, oggetto di ricerca e dibattito. Secondo la definizione data dal giurista romano Domizio Ulpiano1 nel Digesto, la Giustizia è principio e virtù morale che consiste nel dare a ciascuno il suo, suum cuique tribuere. La Giustizia è perciò il principio che garantisce la possibilità di instaurare qualsiasi forma di coesistenza sociale e, in quanto tale, coincide con il diritto, ossia con l’insieme di pratiche sociali giuste, capaci di promuovere la coesistenza, garantendo la simmetria tra le parti sociali. Esiste quindi un nesso inscindibile tra Giustizia e diritto: secondo una prospettiva giusnaturalistica, infatti, il diritto è giusto quando capace di dare a ciascuno il suo, garantendo la convivenza tra gli uomini. Ma laddove associamo al termine generico di Giustizia l’attributo di “Massonica” viene fatto di pensare che si tratti di qualche cosa di specifico, di diverso. Qual è allora la peculiarità della Giustizia Massonica? La risposta ci viene fornita dal Rituale del 31° Grado (edizione del 1988): “Così, nel Sovrano Tribunale del 31° Grado, la Giustizia è intesa in senso cosmogonico come Equilibrio e Armonia […] Perché si attuino tale Equilibrio e tale Armonia, ogni cosa deve stare al proprio posto; il che fece dire a Tommaso d’Aquino: ‘Una cosa non è giusta perché Dio lo vuole, ma Dio la vuole perché è giusta’ “. In altri termini, per Tommaso, la Giustizia è la ragione stessa di Dio che governa il mondo. La volontà non determinata dalla ragione è arbitrio e può giustificare la legalità, ma non la Giustizia. L’argomento è un affascinante tema di lavoro per la Camera del 31° Grado, ma si presta anche alla riflessione delle Sorelle e dei Fratelli dei Gradi inferiori che della Giustizia Massonica cominciano ad avere

percezione fin dalla loro iniziazione di Apprendisti. La frase: “La Giustizia è intesa in senso cosmogonico come Equilibrio e Armonia” nasconde significati certamente non facili da decifrare e, con il dovuto rispetto, neppure la teorizzazione tomistica è del tutto esaustiva. La prima parola sulla quale interrogarsi è “cosmogonico”, cioè attinente alla cosmogonia, dal greco κόσμος, mondo, e γονή generazione, nome con il quale s’intende quel complesso di miti e di teorie che ogni popolo ha elaborato nelle fasi successive della sua cultura per rendersi ragione dell’origine dell’universo. Presso la maggior parte dei popoli, quale che sia l’entità o la fisionomia del “creatore”, esso dà vita e ordine all’universo materiale e alla natura nei suoi elementi traendoli dal caos primordiale, quell’ordo ab cao che è il motto del Rito Scozzese Antico e Accettato e si riferisce alla realizzazione di una struttura ordinata, partendo da una situazione caotica preesistente. Per usare una terminologia cabalistica, è la Yetzirah, il terzo dei Quattro Mondi nell’Albero sephirotico, il “Mondo della Formazione”. La questione successiva è: quale sia il corretto collegamento tra la cosmogonia, l’Equilibrio, l’Armonia da cui trae origine la Giustizia che non può essere identificata nel complesso normativo espresso dai diversi Codici secondo un criterio che, nel corso dei millenni, e, nell’evolversi della cultura occidentale, hanno dato luogo a equivoci. I Codici appartengono, infatti, a quel diritto positivo che dovrebbe conformarsi ai canoni del diritto naturale, quello conforme alla natura dell’uomo e quindi intrinsecamente giusto e che trovò la propria consacrazione nel documento più celebre della Rivoluzione francese, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), i cui principi sono stati e sono ampiamente disattesi dalle legislazioni di molti Paesi del mondo che praticano quindi una non-Giustizia che finisce con il tradire i principi di Equilibrio e Armonia. Sfogliando le tante opere che trattano del concetto di Giustizia alla ricerca di una risposta che soddisfacesse la mia curiosità, mi sono imbattuto in un librino, fisicamente esile quanto consistente nel contenuto, Maat – La dea della giustizia dell’Antico Egitto, scritto da Anna Mancini, ricercatrice d’origine italiana, nata in Francia, che ha studiato Filosofia del

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Diritto a Parigi e Filosofia della mente a Londra2. Si è rivelato un testo illuminante. Per comprendere il ruolo di Maat come dea della Giustizia è necessario premettere che gli antichi egizi erano interessati più all’idea di Giustizia che al Diritto, inteso come complesso di norme codificate e scritte. La prova sta nel fatto che “l’Egitto non ha lasciato come Roma un sistema giuridico, ma un concetto di Giustizia molto originale e difficile da comprendere con la nostra moderna mentalità occidentale”3. Gli scritti egizi di letteratura giuridica antica sono infrequenti per non dire inesistenti, benché, della stessa epoca, siano giunti a noi documenti d’altro argomento; i testi giuridici dei quali abbiamo conoscenza appartengono a periodi più recenti, come quello che viene considerato il primo trattato di diritto internazionale, redatto nel 1278 avanti Cristo, tra il sovrano egiziano Ramesse II4 e l’ittita Hattusili III5. A suggello del patto di non belligeranza il faraone sposò la figlia del re ittita; con il matrimonio, la ragazza prese il nome di Maat-Hor-Neferure. Ma torniamo a Maat che talvolta è rappresentata nei dipinti sepolcrali e nelle figurazioni dei papiri come una dea con una piuma bianca sul capo, talaltra semplicemente come una piuma bianca e, ancora, come un piccolo perso36

naggio muliebre seduto sulle cui ginocchia è appoggiata la croce Ankh, il simbolo egizio della vita, e come il cubito6. L’egittologo Jean-Claude Goyon commenta: “La piccola statua e la sua immagine incarnano un concetto, un principio, quello dell’ordine universale da cui derivano tutte le virtù e le nozioni di ordine proprie dell’umanità: verità, giustizia, equilibrio”7. Per comprendere la complessa Weltanschauung dell’antico Egitto dobbiamo lasciare da parte i canoni del razionalismo occidentale che ci fa apparire oscure le nozioni, le parole e i concetti di quel popolo e di quell’epoca. L’archeologo e orientalista olandese Henri Frankfort scrive: “L’Egiziano antico non era intellettuale e mentale, non elaborava teorie logiche e razionali, ma aveva, invece, grande intuizione, un forte senso del concreto e molta immaginazione”8. L’egittologo tedesco Jan Assman afferma: “L’Egitto non ha fatto distinzioni tra teologia e scienza, cosmo e società, religione e Stato”9. Alla luce di questa visione è meno difficile per noi comprendere che Maat non fosse, per gli antichi egiziani, un’astrazione, ma la personificazione di un “ordine” da applicare. La dea era la sintesi dell’ordine cosmico e di quello sociale. Come ricorda Henri Frankfort, Maat rap-

presentava contemporaneamente l’etica, la morale, la giustizia umana e quella divina e cosmica, dimensione che faceva di Maat la regolatrice dell’ordine del mondo10. Un altro elemento che ci aiuta meglio a comprendere le caratteristiche di Maat lo troviamo in quello che è conosciuto come il Libro dei Morti degli antichi Egizi; non si tratta di un libro come s’intende oggi, ma di una raccolta di formule rinvenute nei sarcofagi egiziani, un Rituale funerario come lo definì Jean-François Champollion, che nella versione della Bassa Epoca fu diviso in capitoli. Il Libro dei Morti degli antichi Egizi ci illustra il rito della psicostasia che, attraverso la pesatura del cuore del defunto, ne determinava il destino nell’aldilà. Maat presiedeva sia alla pesatura del cuore, sia al giudizio davanti a un tribunale del quale facevano parte quarantadue divinità, tra le quali Thot e Osiride11 . Diversi autori danno descrizioni differenti della scena: secondo alcuni i riti sono due e distinti, secondo altri si tratterebbe di un rito unico. Ma questa distinzione è per noi ininfluente. Come avveniva la pesatura? Premesso che il cuore era considerato sede della coscienza e del carattere di ogni individuo, l’organo preposto al pensiero e all’azione, quello del defunto, conservato in un vaso cano-


po, veniva posto su uno dei piatti della bilancia divina; sull’altro piatto era collocata una piuma, il geroglifico di Maat. Quale risultato avrebbe determinato la salvezza o la dannazione dell’estinto? Prima di dare risposta a questo interrogativo, e affinché essa sia corretta, bisogna riconsiderare la funzione della bilancia. Nella pratica corrente era ed è utilizzata come strumento per la determinazione del peso a fini prevalentemente commerciali. Ma, secondo il lessico dei simboli che faceva parte del linguaggio sacro degli egizi (e che è anche alla base del linguaggio tradizionale massonico), la bilancia era la rappresentazione dell’equilibrio cosmico, la sua armonia, dal greco ἁρμόζω (compongo, accordo), che sintetizza la bellezza, l’ordine e la misura del macrocosmo, qualità che non possono essere considerate estranee al microcosmo degli iniziati. Se la bilancia perde la sua funzione materiale, non hanno più ragione d’essere la pesatura e il conseguente giudizio. Anna Mancini scrive: “La piuma […] evoca immediatamente l’uccello che può volare dal cielo alla terra e dalla terra al cielo, come la luce del sole. Con la sua legerezza, la piuma simboleggia un’energia immateriale. Con il suo colore bianco evoca la luce del sole. La piuma […] simboleggia un’energia cosmica che, così come l’uccello, circola liberamente sulla terra e nell’aria”12. A questo punto anche il cuore posto sull’altro piatto della bilancia deve perdere i suoi connotati materiali. Infatti, se esso funziona secondo le leggi di Maat, consente il mantenimento dell’equilibrio e dell’armonia dell’essere umano in termini di vitalità e buona salute; la somma di molti cuori che pulsano così determina l’equilibrio e l’armonia della società che sarà pacificata e prospera, il tutto in un circolare moto perpetuo tra il macrocosmo e il microcosmo. Sic stantibus rebus, la pesatura e il suo risultato perdono il loro significato materiale perché la bilancia non potrà mai pendere a favore del cuore ma, per soddisfare Maat, sarà sufficiente e necessario che resti in perfetto equilibrio. “Essa, infatti, non serve a pesare i peccati, ma per evidenziare il nesso tra i due elementi contrapposti sui due piatti: il cuore umano e Maat”13. Se vogliamo essere coerenti con l’assunto che la Giustizia massonica è intesa in senso cosmogonico come Equilibrio e Armonia, la bilancia che è collocata sull’Ara nel

Tempio del 31° Grado dovrebbe avere funzioni simili a quella di Maat e non, come talvolta accade, per determinare il peso dei comportamenti quasi fossero merce. Nel Rituale di chiusura dei lavori dei Fratelli Grandi Ispettori Inquisitori Commendatori si dice: “Abbiamo continuato a sperimentare che la Giustizia è la Verità in azione”. Se vogliamo essere coerenti con questa espressione, i nostri Tribunali dovrebbero assomigliare a quello immaginato dagli antichi egizi, lo scopo del quale non era quello di premiare o di punire, ma quello di ristabilire quell’Equilibrio e quell’Armonia che Maat fa circolare tra il macrocosmo e il microcosmo, tra il Cielo e la Terra, tra chi si presume essersi macchiato di una colpa massonica e la Comunione delle Sorelle e dei Fratelli. ______________ Note: 1 Eneo Domizio Ulpiano, politico e giurista romano (†228 d.C.). Praefectus praetorio, delegato al comando delle coorti pretorie, che ebbero presto anche il mandato di giudicare in sua vece: nel III secolo la loro competenza civile e criminale fu ufficialmente riconosciuta e molto estesa. I praefectum praetorii dovevano decidere vice sacra degli appelli contro le sentenze dei governatori provinciali e le cause degli accusati privilegiati rinviate a Roma. Ulpiano fu uno dei cinque giuristi indicati dalla cosiddetta Legge delle citazioni (426) di Teodosio II e Valentiniano III, come coloro alle cui dottrine dovevano attenersi i giudici nella decisione delle controversie. 2 Anna Mancini, Maat – La dea della giustizia

dell’Antico Egitto, Buenos Books America. 3 Anna Mancini, op. cit. pag. 7. 4 Ramesse II, terzo faraone della XIX dinastia egiziana, regnò dal 1279 al1213 a.C. 5 Hattusili III, sovrano degli Ittiti, regnò tra il 1267 e il 1237 a.C. 6 Cubito, dal latino cubitus, cubito, gomito. Misura di lunghezza in uso presso vari popoli del

Massoneria bacino del Mediterraneo. Gli Egiziani usarono un cubito reale, meh suten, di 525 millimetri. 7 Jean-Claude Goyon, Maat et Pharaon ou le destin de l’Egypte antique, Lion, 1988. 8 Henri Frankfort (Amsterdam 1897-Londra 1954), Ancient Egyptian Religion, an Interpretation, New York, 1948. 9 Jan Assmann (Langelsheim 1938), Maat, l’Egypte pharaonique et l’idée de justice sociale, Paris, 1989. 10 Henri Frankfort, op. cit. 11 Thot è dio lunare, rappresentato talvolta come Ibis (o uomo ibiocefalo), talaltra come babbuino. È venerato come dio della scrittura, delle formule divine e magiche, della giustizia dell’aldilà, dove pesa le anime dei morti nel giudizio. Osiride, secondo la leggenda, era fratello e marito di Iside. Ucciso e smembrato dal fratello Seth, Iside ne ricompose il corpo. Veniva raffigurato in aspetto umano, con flagello e pastorale, eretto o su un trono, col capo coperto da una complicata corona con corna e piume. Signore del regno dei morti, ma anche dio astrale, impersonato nella Luna, in Orione, nel Sole e in epoca tarda anche nel Nilo. 12 Anna Mancini, op.cit. 13 Anna Mancini, op.cit.

P.34/36: La dea Maat; p.37: Papiro proveniente da Luxor raffigurante la ‘psicostasia’.

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La stanza buia Antico Egitto ed iniziazione rituale Patrizia Tasselli

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enorme pietra si mosse silenziosa ruotando sui cardini sapientemente ingrassati. Un leggero tonfo decretò la chiusura dell’unico ingresso alla stanza. Al di là di quella porta i sacerdoti in doppia fila si allontanarono silenziosi, con passo lento e cadenzato, i volti distorti, sagome deformate dalla luce traballante delle fiaccole. La processione attraversò un lungo salone, sorvegliata dalle ombre scure delle immense colonne, poi le due file si divisero e dei sacerdoti non rimase che un leggero alone di luce sempre più debole prima che il buio li ingoiasse. Infine tutto fu notte e silenzio. Nella stanza chiusa Egli non era solo: sulla sua spalla sentiva fremere a tratti le ali di un falco. Era in piedi, rigido nella posizione rituale del Gran Sacerdote che lo aveva atteso e di cui Egli, il Faraone, aveva preso il posto. Chiuse le palpebre e le riaprì varie volte, nel vano tentativo di adattarsi all’oscurità, come nella speranza che una debole scintilla di luce potesse scaturire dai suoi stessi occhi e permettergli di vedere. Il buio era così totale, così denso che gli sembrò di essere immerso in una sostanza tanto solida da non poter respirare. Il silenzio non era assoluto come il buio. Oltre ai fremiti del falco Egli udiva il leggero sibilo dell’aria che entrava e usciva attraverso le sue narici, a intervalli che si facevano via via più frequenti e sempre meno regolari. Ma più che altro sentiva strani rumori dentro la testa, come se il cervello fosse diventato uno stagno pieno di rane gracidanti, o il ricettacolo di milioni di cicale. Il cuore era divenuto una creatura autonoma, imprigionata dentro la cassa toracica contro cui batteva colpi forsennati in cerca di una via d’uscita. Doveva muoversi, recuperare almeno il controllo degli arti; avrebbe potuto aspettare la morte lì, dritto e impietrito in quel punto dell’universo, ma sapeva che non era quello il suo destino. Un urlo disperato uscì dalla sua gola, ma le pareti della stanza non rimandarono eco, non una sola vibrazione turbò il silenzio. “Iside, madre mia crudele, perché mi abbandoni?” Inutile tentare di sfuggire all’inevitabile, tutto doveva avere inizio. Con immenso sforzo mosse con il piede destro un piccolo passo all’indietro. Ecco, l’equili-

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brio era rotto, il tempo e lo spazio fluttuavano molli e il mondo vacillava privo di certezze. Con moto inconscio il piede sinistro si appaiò al destro, e così per sette volte finché i talloni non arrivarono a toccare la base di un gradino. Sentì il freddo del granito. Un brivido di gelo salì dai suoi piedi fino alla base del cranio e quel brivido si trasformò poi in un

crampo che gli attanagliò la gola, poi fu un morso all’inguine mentre le viscere si contraevano verso un punto interno del suo corpo. Gli esercizi fisici e i lunghi digiuni purificatori a cui i Sacerdoti lo avevano sottoposto nei giorni precedenti la Prova impedirono che il suo corpo prendesse il sopravvento e che la miseria della carne divenisse grottesca protagonista. “Mio Maestro, che mi facesti attraversare la porta della Sfinge e mi guidasti lungo i corridoi tortuosi del pozzo della Verità, tu che mi aiutasti a superare le prove della terra, dell’aria, dell’acqua e del fuoco, tu che mi permettesti di essere accolto tra gli Iniziati, Maestro mio. ho bisogno di te!” Ma sapeva di essere solo, Lui, l’Iniziato, sapeva che quella era la prima volta che affrontava la Prova a cui sarebbe stato sottoposto ogni anno, per sempre. E da solo. Come sentiva il desiderio di essere ancora nella rassicurante Casa della Vita, come sembravano leggere le pur severe Prove Fisiche superate con l’aiuto dei Maestri! Anche le terribili Prove Spirituali erano dolci nel ricordo. Nella cripta del Tempio gli era stata offerta una 39


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bevanda dal sapore insolito, dopo di che una processione di Sacerdoti salmodianti lo aveva accompagnato nella “Sala del Risveglio”. Poche bende di lino bianco erano state avvolte intorno al suo corpo, come per una simbolica imbalsamazione, e mentre i Maestri Lettori leggevano le istruzioni dal Libro dei Morti, il Sacerdote Iniziatore gli rivelava le parole magiche che gli sarebbero servite da guida sul grande fiume dell’Oblio. Rapito dal magnetismo del Teurgo e sotto gli effetti della strana bevanda si era docilmente lasciato adagiare dentro un sarcofago. In uno stato di trance profonda, eppure cosciente, era avvenuta la separazione alchemica dell’anima dal corpo. Il suo spirito aveva sperimentato le tenebre del mondo sommerso, Egli era stato immerso nella Corrente delle Acque, Egli era un “Battezzato”, il suo spirito era temprato come il ferro incandescente che il fabbro immerge nell’acqua per fargli assumere la sua forma defini40

tiva e stabile. I Maestri lo avevano assistito durante la prova, aiutando il suo io cosciente a restare vigile e favorendo l’abbandono del suo io più profondo e sconosciuto che si allontanava negli spazi della vita oltre la vita. Tornarono dolci i ricordi. Dopo che i due Sacerdoti Lettori seduti ai lati del sarcofago avevano annunciato che tutte le istruzioni del Libro dei Morti erano state eseguite, il Sacerdote Iniziatore aveva dato il via alla cerimonia del Risveglio e ad un suo cenno fu introdotto il Sacerdote Cantore, colui che tiene a mente i libri di Toth relativi agli inni degli dei e al cerimoniale di corte. Il Cantore si fermò davanti al sarcofago, poi si recò al cospetto dei Sacerdoti Lettori agitando il sistro che teneva in mano. Fu introdotto quindi il Sacerdote Astrologo, colui che tiene a mente i libri di Toth relativi alla disposizione delle stelle fisse, l’ordine del Sole, della Luna e dei pianeti, le loro congiunzioni, il loro sorgere e il loro calare. Eseguì lo stesso cerimonia-

le, ma invece di agitare il sistro mostrò ai Maestri Lettori l’immagine di uno zodiaco agitando nel contempo un ramo di palma, simbolo dell’astrologia. Seguì lo Scriba Sacro, colui che conosce la geografia e la topografia, il percorso del Nilo, la disposizione dei luoghi sacri, nonché le misure e le attrezzature dei templi. Ornato di penne sul capo, mostrò un libro e fece cadere alcune gocce d’inchiostro davanti ai Sacerdoti Lettori. In lenta processione entrarono numerosi i Sacerdoti Portatori di Pane, che dopo aver gettato una spiga di grano in un braciere acceso presero posto ai lati della grande stanza. Per ultimo entrò il Profeta, stringendo al seno l’Idria, il vaso sacro dell’acqua. Il Profeta è il Gran Sacerdote del Tempio, Colui che sa, Colui che vive fuori dal Tempo. Si fermò di fronte al sarcofago, alzò l’Idria sopra la sua testa e con un lento movimento delle mani fece girare il prezioso vaso fino a rovesciarlo. Non una goccia d’acqua cadde in terra, né altra sostanza: il vaso era vuoto. Allo-


ra il Profeta girò intorno al sarcofago, si fermò di fronte ad esso e ripeté il cerimoniale del capovolgimento del sacro vaso: uno scroscio d’acqua risuonò tra le pareti del Tempio. Soddisfatto, il Profeta compì il percorso rituale seguito dagli altri Maestri Sacerdoti finché tutti presero posto intorno al sarcofago formando una Ank. Il Sacerdote Iniziatore pronunziò allora le parole magiche e si compì l’Opera. Egli, con la forza del suo io cosciente mai sopito, si impadronì del suo io profondo vagante nel mondo oltre il mondo, il suo essere sdoppiato si riunì in uno solo e colui che aveva vissuto la morte si sollevò dal sarcofago: Egli era l’Iniziato. Nel buio della stanza dove ora si trovava, solo e terrorizzato, ricordò la luce del sole che lo aveva abbagliato quando, novello Horus, i fianchi fasciati di candido lino e la pelle di leopardo di traverso sulle spalle, i Sacerdoti lo avevano presentato al suo Popolo. Quel ricordo gli dette forza e la solitudine gli si modellò addosso come una corazza. Nemmeno un dio può sottrarsi al suo destino. L’eterno ciclo della morte e della rinascita non poteva essere interrotto, e toccava a Lui, ogni anno e per sempre, propiziare la continuità della vita. All’inizio dell’anno Egli doveva entrare nel sarcofago e divenire Osiride che regna nel mondo dell’ aldilà, per carpirne i misteri e tornare fortificato come Horus, colui che fu generato dalla magia di Iside. Salì all’indietro i sette gradini che sapeva conducevano al sarcofago di granito e, sebbene nel buio più completo, non sbagliò una mossa; nemmeno le bende della simbolica imbalsamazione che gli impedivano l’uso delle braccia e gli rendevano rigidi i ginocchi furono un ostacolo. Il falco lasciò la sua spalla e volò su un trespolo appositamente preparato per lui, e lì rimase senza che si sentisse più nemmeno un fremito di ali. Egli si sdraiò nella bara di marmo e con il solo aiuto della volontà cominciò a recedere verso il suo io più profondo. Il respiro si fece regolare e il cuore si ammansì tranquillo, un piacevole calore partì dall’inguine e salì fino alle tempie. Si sentì sprofondare nel nulla e più cadeva in basso più si sentiva fluttuare leggero in una inarrestabile risalita. Scoprì che il Nulla era fatto di colori, luci

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che vorticavano senza regola, si scontravano, esplodevano e si riformavano più accese che mai. Cominciò a sentirsi di nuovo forma e materia, come se le sue cellule divenute volatili durante la caduta nel Nulla avessero preso di nuovo consistenza. Le candide bende della finta im-

Massoneria balsamazione si erano sciolte e poteva muoversi libero tra dune di sabbia finissima. Si incamminò in direzione di qualcosa che da lontano sembrava un’opera artificiale. Era un enorme libro aperto che il vento sfogliava in modo casuale e disordinato. Esseri mostruosi si arrabattavano per sa-

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lire sul libro. Avevano l’aspetto di glabre scimmie umanoidi che si azzuffavano in una specie di competizione, aggrappandosi alle gambe di chi li precedeva per ricadere insieme e ricominciare. Quelli che riuscivano ad infilarsi tra le pagine del libro strappavano le parole, fatte di un liquido scuro viscoso. Bastava agguantare una sola lettera perché la parola si staccasse dalle pagine e perdesse forma, divenendo una massa filante e appiccicosa che le strane creature si pigiavano in bocca con tutte e due le mani. I mostri cercavano di consumare l’incredibile pasto con tale foga che pochi riuscivano a deglutire il primo boccone e la maggior parte di loro rantolava soffocando, senza mai smettere di spinger-

si quella roba in bocca. Mentre il vento continuava a sfogliare il libro, tra le pagine che si chiudevano e si riaprivano si consumava il dramma di quegli esseri vagamente umani; molti rimanevano schiacciati tra i fogli ormai lordi di sangue e di quella sostanza collosa. Nessuna parola era più leggibile quando una folata di vento più forte delle altre chiuse definitivamente il libro, schiacciando vita e sapere che cominciarono a trasudare dalle pagine in rivoli di liquido vischioso di colore rosso scuro. Sconvolto da quella scena, Egli sentì che il suo corpo perdeva di nuovo consistenza e si abbandonò rassegnato a quella sensazione, pronto ad affrontare quello che sapeva essere un viaggio attraverso l’infinito, senza l’ingombro della materia. Improvvisamente il buio della stanza si riempì di colori che si aggregavano in spirali vorticanti che si muovevano a incredibile velocità, come arcobaleni impazziti. A volte le luci sembravano solidificarsi e assumere forme plastiche, come a volergli spiegare il mistero della materia. E di nuovo si materializzò il gigantesco libro, aperto in un punto preciso, senza il vento che lo sfogliasse. Uomini ben rasati, con i fianchi coperti da un candido gonnellino di lino pieghettato e semplici sandali ai piedi salivano verso le pagine aperte su scale di lucido metallo, mentre donne dalle lunghe capigliature raccolte in trecce si aiutavano l’un l’altra a salire quelle stesse scale, i movimenti leggermente disturbati dalle lunghe tonache bianche. Uomini e donne avevano penna e calamaio e ciascuno scriveva una parola, alcuni più di una, poi scagliavano nel vuoto i loro strumenti di scrittura che si scioglievano nell’aria. Terminato lo strano rituale ognuno di loro perdeva consistenza, diveniva un’ombra trasparente e si dissolveva. Egli percepì un brivido di freddo nascere dal corpo che non possedeva, un gelo proveniente dallo sguardo vuoto di quegli asettici scriba. Una mano invisibile chiuse di nuovo il libro, ma dalle pagine non trasudò nulla. Le spirali di luce ricomparvero e lo risucchiarono in un vortice dove si sentì lacerare, come se tutte le cellule del suo corpo si separassero l’una dall’altra mentre Egli cercava disperatamente di uni-


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formarsi a quelle visioni fantastiche per carpirne il segreto. Improvvisamente si sentì scaraventare fuori dalla spirale e si trovò davanti a una piramide di luce. Attraverso una piccola porta entrò in quella forma a lui familiare. Con grande sorpresa trovò ad attenderlo il Sacerdote Iniziatore che via via che gli si avvicinava assumeva sembianze sempre più simili alle sue, finché Egli non si trovò di fronte a se stesso, ma molto più vecchio. Con un gesto della mano il Sacerdote lo invitò a seguirlo giù per una scala buia ed Egli gli andò dietro adattandosi al suo passo lento. Giunti in fondo alla scala si trovarono in una cripta con al centro un tavolo di legno. Disteso sul tavolo c’era il corpo di un uomo assai vecchio, attorno al quale diafane figure ieratiche eseguivano lente l’antico Rito dell’imbalsamazione. Nel volto di quell’uomo, scarno e con la pelle annerita dai balsami conservanti, Egli riconobbe ancora se stesso. Improvvisamente una delle figure trasparenti prese maggiore consistenza e visibilità, si staccò dal gruppo degli imbalsamatori e si avviò verso una scalinata. Egli lo seguì, seguì un altro se stesso, giovanissimo, com’era quando abitava nel-

la Casa della Vita. Scesa la scala giunsero in una cripta. Nel centro della stanza, stranamente luminosa nonostante fosse priva di aperture, c’era un enorme sarcofago di granito, per accedere al quale dovette salire sette bassi gradini. Collocato in fondo al sarcofago, nudo sul freddo marmo, c’era un neonato. Impietosito, Egli tentò di prendere quel bambino, ma quando fece per afferrarlo il piccolo corpo si dissolse come vapore. Istintivamente Egli si collocò al suo posto. Immediatamente ricomparvero le spirali di luce che come attratte da una forza inarrestabile cominciarono a girare tutte nello stesso verso e nella stessa direzione, fino a diventare un’unica enorme spirale vorticante; il serpente Apopi si era formato e si arrotolava intorno alla propria testa. Tutto veniva inesorabilmente attratto verso il centro di quella spirale cosmica, ogni luce si spegneva nel buco nero della bocca di Apopi ed Egli stesso si sentì risucchiare mentre il suo corpo diventava sempre più compresso e pesante. Ogni resistenza, ogni volontà era annullata. Percepì che il suo corpo compresso sarebbe inevitabilmente esploso insieme a quelle luci spente che si sarebbero riac-

cese. E così fu. L’ingordo Apopi continuò a trangugiare energia finché uno spaventoso conato di vomito squarciò il suo ventre. Uno spaventoso boato si udì, e fu di nuovo l’Universo. Egli giaceva nel sarcofago, pienamente cosciente di sé. Provò a muovere le dita di una mano e queste risposero. Il falco volò nel buio e si arrestò sulla sua spalla sinistra ed Egli con la mano destra gli tolse il cappuccio che gli impediva di vedere. Quando fu certo che anche il falco potesse vedere, solo allora aprì gli occhi, e questi furono feriti da una sottilissima lama di luce che penetrava da una fessura appositamente lasciata tra gli incastri delle pietre. Restò immobile ad aspettare che i Sacerdoti venissero con i vasi pieni d’acqua e di unguenti profumati. Gli sembrava già di sentire i rumori della vita che scorreva insieme al Nilo in un fluire ciclico che niente avrebbe interrotto. L’alba era giunta, il sole si era levato. P.38: Iside (terracotta e smalti); p.39: In alto Ramses in un bassorilievo e sotto la divinità Horus; p.40: Scultura in granito rosso; p.41: geroglifici egizi incisi su intonaco; p.42: ‘Ahnk’ retto da una divinità maschile (rossa); p. 43: Statua colossale di ramses a Il Cairo (foto P.Del Freo).

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Iniziazione Piotr De Peslin Lachert

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cco il testo, lo leggi da sola o lo faccio io?” “Il tuo brano è un testo? Non me lo aspettavo...” “Si tratta di un brano di teatro musicale, la sua notazione è verbale. Non ci sono le note, solo le indicazioni più o meno musicali”. “Leggi Tu, Ti prego”. “Con il mio accento?” “Con il tuo accento”. “Accomodati su questo sgabello … per due pianoforti ne ho quattro, non mi chiedere il perché”. “Leggi, ti prego”. Yann prende i fogli, li mette su un leggio di legno, si concentra. Legge il testo, con voce neutrale ma impostata, come se si fosse trovato sul palcoscenico davanti al pubblico: “Sono entrato nella tua casa, perché hai voluto tu. Sei stato tu a chiedermelo. Hai sentito il desiderio di conoscere la verità. In ogni momento puoi dire non mi interessa più. Me ne andrò.... Non si farà nulla contro la tua volontà. Dal tuo silenzio deduco che la mia presenza ti è gradita. Prima di bussare alla porta della casa tu mi avevi aspettato nel buio, nel buio della tua nascita. Della quale non sei responsabile. Le tue responsabilità hanno inizio con le tue scelte. Non avevi scelto né i tuoi genitori, né il luogo, né la data della tua natività. Adesso mettiti qua, allungato per terra, nella posizione fetale, come fossi appena nato. Chiudi gli occhi. Vedi niente? Senti niente? Svestiti per toccare il tuo ombelico con la mano destra, invece con la mano sinistra tocca la fronte. L’essere parzialmente spogliato simbolizza l’uomo coperto dalla natura. Il tocco delle due mani simboleggia il passaggio dell’energia vitale dal cordone ombelicale alla mente ancora vuota. Ti trovi nelle tenebre. Stai nelle tenebre della nascita. Ti trovi al livello del mare, al livello della genesi del tutto. Perché dopo l’inizio dell’inizio c’era solo l’acqua, il primo elemento della vita. Solo da Te dipende, se vuoi dirigerti adesso verso la terra, verso il cielo e verso la luce che rappresenta il cosmo. Lo faresti con i tuoi sensi e con l’amore. Apri gli occhi ora. Vedi niente? Senti niente? Non vedi e non senti niente. Non

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sei pronto né a vedere né a sentire né a toccare. Non conosci la saggezza. La musica nemmeno. Stai nello stato vegetale, ma vivi. Hai soltanto conquistato la volontà. Essa sarà alla base dei tuoi movimenti. Hai la libertà di chiedermi che me ne vada. Non sono indispensabile nella vita tua. Puoi passare tutto il tempo che ti fu dato a vivere da vegetale. Dal tuo silenzio deduco che la mia presenza ti è gradita. Adesso accendo la prima candela. La debole luce illumina il tuo mondo. Siediti, ti aiuto io. Con questo mio gesto hai ricevuto il dono d’essere l’Ascoltatore. Non puoi parlare ancora, non hai niente da dire, non sai niente, ma puoi ascoltare se ti attrezzi per poterlo fare. Sposta la mano destra dall’ombelico alla bocca chiusa, che toccherai con il pollice, invece con il mignolo tocca l’orecchio destro. Il palmo aperto verso l’alto significa la tua volontà di ricevere l’insegnamento dal cosmo. Metti la mano sinistra sul cuore. Questi gesti simbolizzano la nascita della tua coscienza. Il pollice, il dito il più forte, ti blocca la bocca, ti aiuta a non parlare. Il quinto, il più debole, ti aiuterà a filtrare i 46

suoni del mondo. Non sei ancora pronto a sentire tutto, non saresti in grado di distinguere il bene dal male. La mano sinistra sul cuore rappresenta la tua presa di coscienza che possiede pure i sentimenti. Il cuore è il luogo dove sono uniti l’amore e l’odio, la generosità e la gelosia. Questo gesto ti fa capire che oramai puoi e devi proteggere il cuore dalle influenze nefaste. Senti la musica? Suonano il violino e il violoncello. Il bianco e il nero, il grande e il piccolo, il forte e il debole. Il mondo è battito sui contrasti che si completano. Dal violino nacque il violoncello, il violoncello creò il violino. Sono in permutazione permanente. Non sei in grado né di capire né di apprezzare la musica che essi creano. Per te è brutta e caotica. Ma sei già l’Ascoltatore. Hai fatto il primo passo cosciente. Ora concentrati all’ascolto. Se cominci a distinguere i suoni, se cominci a sentire la differenza tra i suoni prodotti dal violino da quelli prodotti dal violoncello, se senti la differenza tra i suoni acuti e gravi, suoni forti e deboli, togli lentamente le mani dalla bocca, orecchi e occhi. Prosegui. Appoggia le mani a fianco di te. Apri gli

occhi. Sai già vivere sulla terra, il tuo elemento liberamente scelto. Hai superato lo stadio vegetale. Solo da Te dipende, se vuoi dirigerti verso il cielo, verso la luce che rappresenta il cosmo. Lo faresti con i tuoi sensi e con amore. Hai acquistato la Forza. Hai la libertà di chiedermi che me ne vada. Non sono indispensabile nella tua vita. Puoi passare tutto il tempo che ti fu dato ad ascoltare le prime impostazioni della musica. Dal tuo silenzio deduco che la mia presenza ti è gradita. Adesso accendo la seconda candela. La luce più viva illumina il tuo mondo. Alzati e accomodati sulla sedia. Ti aiuto io. Con questo mio gesto hai ricevuto il dono d’essere il Testimone. Puoi parlare già, se trovi qualcuno che volesse sentire le tue parole. Togli le mani dalla bocca, dalle orecchie e dagli occhi. Questo gesto simbolizza le tue capacità di parlare, sentire e osservare. Sai controllare quello che fai. La tua mente può gestire i tuoi sensi. Togli la mano dal cuore. Questo gesto simbolizza la tua apertura verso il mondo dell’amore e della fratellanza. Ama il fratello tuo,


ama la sorella tua, come fossero te stesso. Allontana l’odio rivolto al prossimo tuo, per non finire di odiare te stesso. Ascolta la musica. Non vedi ancora bene i musicisti. Ti sembrano persi nella nebbia. Non è così Testimone. Sei Tu che ti trovi ancora nella nebbia che copre la terra. La trovi brutta questa musica, non sai ancora distinguere la bellezza dalla bruttezza. Ma senti già che i suoni sono organizzati, legati tra di loro. Non capisci perché un tal suono viene dopo un tal altro. Perché appaiono pochi? Perché appaiono numerosi? Perché si sentono adesso il violino e poi il violoncello, che sembrano eseguire lo stesso motivo? Ti sembra che suonino la stessa cosa, ma senti pure che non è così. Distingui la successione dei suoni rapidi e lenti, ma non capisci il perché. Non segui il sistema che gestisce la musica. Non capisci, Testimone, perché non sai utilizzare il cuore e la mente in simbiosi. Ti manca la luce dell’illuminazione. Ma ti trovi già a livello della terra. Sei uscito dall’acqua. Hai fatto il secondo passo. Hai acquistato la Saggezza. Solo da Te dipende, se vuoi dirigerti verso la luce che rappresenta il cosmo. Lo faresti con i tuoi sensi e con l’amore. Hai la libertà di chiedermi che me ne vada. Non sono indispensabile nella tua vita. Puoi passare tutto il tempo che ti fu dato ad ascoltare la musica organizzata, ma che tu consideri brutta. Non sai né amarla, né capirla. Non la sentirai proprio tale qual è. Dal tuo silenzio deduco che la mia presenza ti è gradita. Adesso accendo la terza candela. La luce ancora più viva illumina ora il tuo mondo. Alzati sui piedi. Ora vedi i musicisti, siete allo stesso livello. Potete incrociare gli sguardi, sei diventato Artista. Prendi il violino dalla tua sorella violinista. Tienilo con la mano sinistra. Alza la mano destra con il secondo dito eretto verso il cielo, alza la testa e guarda la tua mano. Chiudi gli occhi, ascolta il tuo fratello violoncellista che suona per Te. Immagina che suoni anche Tu il violino che tieni nella mano. Questo simbolo significa che per alzarsi verso il cosmo devi avere la volontà, l’immaginazione, lo strumento e l’appoggio della terra madre che rappresenta il violoncello. Rimani per lungo tempo immobile. Ora apri gli occhi.

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Adesso rendi il violino alla tua sorella violinista, prendi nella mano sinistra il violoncello del tuo fratello violoncellista, ben appoggia lo strumento sulla terra. Dirigi la mano destra verso la terra con il secondo dito eretto, abbassa la testa e guarda la tua mano. Chiudi gli occhi, ascolta la tua sorella violinista che suona per Te. Immagina che suoni anche Tu il violoncello che tieni nella mano. Questo simbolo significa che per rimanere sulla terra devi avere la volontà, l’immaginazione, lo strumento e sentire la presenza del cosmo che rappresenta il violino. Rimani per lungo tempo immobile. Ora apri gli occhi. Adesso rendi il violoncello al tuo fratello violoncellista. Apri le braccia verso loro due. Avvicinati, mettiti alle loro spalle. Appoggia le tue mani sulle loro nuche, china la testa indietro. Chiudi gli occhi. Adesso ascolta la musica, immaginati che suoni con loro. Formate un trian-

golo perfetto, una trinità divina, siete la terra e il cosmo, sei Artista tra Artisti, sei Fratello tra Fratelli. Conosci la verità del Gran Creatore del mondo. Hai acquistato la Bellezza. Adesso puoi andare e insegnare la parola. Sei l’Uomo”... Yann si asciugò la fronte, si girò verso Adda silenziosa. “Questo è il brano che avevo composto pensando solo a Te”. “Yann...”. “Per il trio Steffada”. “Yann...”. “Non hai niente da suonare, non c’è neanche il pianoforte ... mi dispiace, non ho saputo fare in un altro modo”. Gli occhi di Adda brillavano. Le lacrime? Disse a bassa voce: “Mi hai dato tutto... tutto, Yann ...”.

P.44 e 45: ‘Esecuzione’ e ‘Bianco e Nero’ (foto P.Del Freo); p.46 e 47: ‘Archi’ (foto O. De Magistris).

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Aldo Chiarle, Maestro massone Aldo A. Mola

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A

ldo Chiarle (Savona, 12 giugno 1926-Roma, 30 luglio 2013) è stato e rimarrà un massone memorabile. Combattente nella XVI brigata partigiana nelle formazioni “Garibaldi” (VI Divisione, Langhe), collaboratore dell’“Avanti!”, giornalista appassionato, venne iniziato nel 1945 alla Massoneria Unificata di Domenico Maiocco e Dustano Cancellieri. Anni dopo ne divenne Gran Segretario. Dopo lungo itinerario approdò al Grande Oriente d’Italia, con la sua cifra: libertà e rispetto di tutti gli iniziati, in nome della fratellanza. Socialista umanitario e libertario, antistalinista coerente, democratico senza troppa fiducia nel voto popolare che declina in plebisciti, Chiarle non ebbe mai timore di essere minoranza. Anticlericale all’ennesima potenza, come i suoi amati Giuseppe Garibaldi e Giosue Carducci (temi forti di suoi corposi volumi), coltivò il confronto con i sacerdoti che aprirono il dialogo con i massoni non per “convertirli” ma per “capirli”. Fu il caso di Rosario F.Esposito e di Franco Molinari, le cui figure e opere giacciono sotto troppa polvere, e poi del gesuita Giuseppe Berardi. Aldo fu tra i massoni che capirono la svolta impressa da Giordano Gamberini e da Lino Salvini. Nei difficili Anni Ottanta fu tra quanti criticarono severamente la linea persecutoria imboccata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, specialmente dalla sua presidente, Tina Anselmi: una delle peggiori pagine della Repubblica, un concentrato di fanatismi che continua a sprigionare fumi tossici con le chiacchiere sui nessi tra Massoneria e satanismo, accampate da chi non sa

spiegare, se non tirando in ballo il Diavolo, come mai anche tanti tonsurati violino i dieci comandamenti. Con fervore inversamente proporzionale alla certezza di spazzare via il conformismo e la credulità popolare, in oltre sessantacinque anni di attività pubblicistica Chiarle ha pubblicato un profluvio di volumi, quaderni, opuscoli su Risorgimento, massoneria, letteratura. Come direttore di “Liguria Oggi” combatté la demonizzazione della Libera Muratoria. Alcuni suoi lavori rimangono inediti. Chiarle ha raccolto nel tempo un vasto archivio, una biblioteca doviziosa. Ha seminato il gusto della ricerca nei fratelli delle logge che lo hanno avuto tra le colonne, da “Sabatia” di Savona alla “Lino Salvini” di Firenze. Ne fu Venerabile con Gaetano Tucci Copritore Interno. Da Firenze passò a Roma. Ora starà scambiando motti arguti con Gaetano Fiorentino, l’autore di Diavoli e Frammassoni, Gran Malalingua dell’Universo, a sua volta tetragono negli anni difficili, quando tanti rinnegarono il Grande Architetto prima che il gallo antipiduista cantasse. Anche Chiarle aveva intuito che la “campagna” contro Licio Gelli era la Madre di tutte le guerre contro l’avvento del socialismo liberale. Il suo nome non figurò nell’elenco degl’iscritti alla P2, ma rimase “in odore di piduismo”: sarà il caso, un giorno, di scrivere in un “albo d’onore” i nomi delle tante vittime dell’ottusità di quanti demonizzarono la “Propaganda Massonica”, benché fosse nelle logge ri-

conosciute dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. All’antimassonismo dilagante e alla pavidità di tanti “fratelli”, Chiarle contrappose il ritorno allo spirito di Domenico Maiocco, della Massoneria Unificata, integrale, cioè capace di contenere tutte le pulsioni liberomuratorie. Andava orgoglioso del Giovanni Chiarle, avvocato, che rappresentò il collegio elettorale di Dogliani nelle tre prime legislature del parlamento Subalpino (1849-53): gli anni delle Leggi Siccardi. Quando ne parlava, gli brillavano gli occhi. Chiarle volle essere patrimonio indivisibile della Massoneria italiana. E così auspichiamo sia anche delle Carte da lui affidate agli archivi non perché finiscano dimenticate, ma perché siano aperte agli studiosi. P.48: A.Chiarle fra Carducci e Garibaldi; p.49: A.Chiarle dona alcuni memorabilia alla biblioteca del G.O.I. e, in basso, Chiarle ad un convegno con Anita Garibaldi.

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Massoni...

Francesco Baracca Documenti su massoni in divisa Antonino Zarcone

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rancesco Baracca (Lugo di Romagna (RA) 9 maggio 1888 Nervesa della Battaglia (TV) 19 giugno 1918). Asso dell’aviazione italiana a cui vengono attribuite 34 vittorie aeree. Figlio di Enrico e di Paolina Biancoli. Allievo della Scuola Militare di Modena dal 7 novembre 1907 è nominato sottotenente dell’Arma di Cavalleria il 19 settembre 1909 è assegnato al Reggimento Piemonte Reale Cavalleria (2º) di Roma. Frequentatore del Corso di specializzazione presso della Scuola di Applicazione di Cavalleria di Pinerolo (TO) dal 19 settembre 1909 all’agosto 1911. Comandato al battaglione specialisti del genio dal 15 aprile al 1° luglio 1912 poi al Battaglione Aviatori dal 1° luglio 1912, prima presso la 5ª e poi con la 6ª Squadriglia Partecipa ai corsi della scuola di pilotaggio a Reims in Francia. Consegue il brevetto di pilota il 9 luglio 1912. Promosso tenente il 3 ottobre 1912 con anzianità 19 settembre 1912, rimanendo assegnato al Reggimento Piemonte Reale Cavalleria (2º) di Roma. Trasferito nel Corpo aeronautico militare dal 16 gennaio 1915, nello stesso anno compie

l’addestramento al pilotaggio sul Nieuport N.10 presso l’aeroporto di Le Bourget a Parigi. Chiamato al fronte durante la guerra 1915/18, giunge in territorio dichiarato in stato di guerra il 31 luglio 1915. Il 7 aprile 1916 con un Nieu-

port N.13 abbatte il primo velivolo, un Hansa-Brandenburg C.I austriaco, presso Medeuzza (GO) venendo decorato di Medaglia d’Argento al Valore Militare perché «Nell’occasione d’una incursione aerea nemica, addetto al pilotaggio d’un 51


pericolosa lotta concorreva ad abbatterlo rimanendo ucciso l’ufficiale osservatore e ferito mortalmente il pilota. Monte Stariski, 16 settembre 1916>>, In occasione del suo ottavo abbattimento è decorato con la Croce di Cavaliere dell’Ordine militare di Savoia perché <<pilota di meriti eccezionali, già decorato di tre medaglie al valore, costantemente dedica l’assidua opera sua alla riuscita di brillanti azioni aeree. Il 21 aprile 1917 in fiero ed accanito combattimento, con rara abilità e fermo disprezzo del pericolo, abbatteva un nuovo apparecchio nemico, conseguendo così l’ottava sua vittoria. Cielo Carsico, 26 aprile 1917>>. Il primo maggio 1917, Baracca è trasferito alla neocostituita 91ª Squadriglia, considerata la squadriglia degli “Assi” per la qulità dei piloti che vi prestano servizio Sul nuovo velivolo Baracca dipinge il cavallino nero rampante in onore alla sua Arma di appartenenza. Simbolo poi destinato a diventare un’insegna famosa quando anni dopo Enzo Ferrari chiede

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aeroplano da caccia, con mirabile sprezzo del pericolo, arditamente affrontava un potente aeroplano nemico e, dando prova di alta perizia aviatoria e di grande sangue freddo, ripetutamente lo colpiva col fuoco della propria mitragliatrice fino a causarne la discesa precipitosa nelle nostre linee. Per impedire che gli aviatori nemici distruggessero l’apparecchio appena atterrato, discendeva anch’egli precipitosamente raggiungendo lo scopo e concorrendo alla pronta cattura dei prigionieri. Cielo di Medeuzza, 7 aprile 1916>>. Promosso capitano il 9 luglio 1916 con anzianità 26 giugno 1916 nel Reggimento Piemonte Reale Cavalleria (2º) di Roma pur rimanendo comandato al Battaglione Aviatori. Nell’estate del 1916 partecipa ad una serie di combattimenti aerei in cui provoca la caduta di aeroplani nemici per cui viene decorato di una seconda Medaglia d’argento al valor mi52

litare perché <<Pilota aviatore addetto a una squadriglia da caccia, con sereno sprezzo di ogni pericolo e grande sangue freddo dando prova di molta perizia aviatoria, affrontava potenti aeroplani nemici, concorrendo molto efficacemente, con altro apparecchio da caccia, a determinare la caduta precipitosa di due velivoli avversari: l’uno in territorio nemico fra Bucovina e Ranziano, l’altro entro le nostre linee a Creda, presso Caporetto. Cielo di Gorizia 23 agosto 1916, cielo di Caporetto, 16 settembre 1916>> e di una Medaglia di Bronzo al Valor Militare perché <<Informato con altri aviatori che un aeroplano nemico volteggiava con insistenza sopra Monte Stol e Monte Stariski per regolare il tiro delle proprie batterie montato su un velivolo da caccia arditamente affrontava l’apparecchio avversario che strenuamente si difese con una mitragliatrice e con un fucile a tiro rapido, e dopo una brillante e

alla famiglia di Baracca il permesso di adottare, in suo onore, il simbolo per la nascente scuderia automobilistica. Promosso Maggiore per Merito di Guerra il 15 novembre 1917, con anzianità 6 settembre 1917. Grazie ai suoi nuovi successi è decorato di una terza Medaglia d’Argento al Valor Militare, poi commutata in Medaglia d’Oro al Valore Militare perché <<primo pilota da caccia in Italia, campione indiscusso di abilità e di coraggio, sublime affermazione delle vir-


tù italiane di slancio e audacia, temprato in sessantatre combattimenti, ha già abbattuto trenta velivoli nemici, undici dei quali durante le più recenti operazioni. Negli ultimi scontri, tornò due volte col proprio apparecchio gravemente colpito e danneggiato da proiettili di mitragliatrice. Cielo dell’Isonzo, della Carnia, del Friuli, del Veneto, e degli Altipiani, 25 novembre 1916; 11 febbraio; 22- 25 – 26 ottobre, 6 – 7 – 15 – 23 novembre, 7 dicembre 1917>>. Nominato cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia <<in considerazione di lunghi e buoni servizi>> il 7 aprile 1918. Consegue la sua ultima vittoria il 16 giugno 1918, quando abbatte un Albatros DIII nei pressi di San Biagio di Callalta. Muore in combattimento durante la battaglia del “solstizio” del 1918. Il giorno della morte, 19 giugno 1918, dopo aver compiuto una missione, Baracca rientra al campo di Quinto di Treviso; lo Spad S.XIII con cui aveva compiuto il primo volo della giornata, ha il rivestimento in tela delle ali e della fusoliera danneggiato, perciò egli decolla con il suo aereo di riserva, uno Spad S.VII, per una seconda e tragica missione. Il suo aereo viene abbattuto mentre con altri due aerei della “Squadriglia degli Assi Italiani” è impegnato in un’azione di mitragliamento a volo radente sopra Colle Val dell’Acqua, sul Montello. Il bollettino di guerra austro-ungarico del 3 luglio 1918 attribuisce l’abbattimento al tenente Barrug, con pilota il sergente Kauer, ma la cosa è immediatamente smentita da parte italiana: «In quel giorno l’aviazione austriaca già completamente battuta dalla nostra, era assente dal cielo della battaglia>>. Baracca rimane ucciso perché probabilmente raggiunto da un colpo di fucile sparato da terra, mentre sorvolava le trincee austriache. La salma è ritrovata qualche giorno dopo, il 23 giugno dal capitano Osnago, compagno dell’ultimo volo, che su segnalazione dell’ufficiale Ambrogio Gobbi, raggiunge le pendici del Montello, in località “Busa delle Rane”, con il tenente Ranza ed il giornalista Garinei del “Secolo di Milano”. Accanto ai resti del velivolo, si trova il corpo di Baracca: ustionato in più punti, e con una ferita di pallottola sulla tempia destra. Le ali e la carlinga dell’aereo sono

carbonizzati, il motore e la mitragliatrice infissi nel suolo e il serbatoio forato da due pallottole. I resti del velivolo oggi sono custoditi presso il Museo dell’aeronautica a Vigna di Valle. La bara viene inizialmente trasferita nella dimora abituale di Baracca, Villa Borghesan, e il funerale privato viene celebrato nella Chiesa parrocchiale di San Giorgio, a Quinto di Treviso. Una seconda cerimonia funebre, pubblica, viene svolta il 26 giugno nel cimitero di Quinto di Treviso, vicino all’aeroporto di San Bernardino da cui l’asso era partito per quella che sarebbe stata la sua ultima missione (e dove oggi, presso il sito su cui sorgeva l’aeroporto, si erge una stele composta da un’ala e da una targa ricordo). L’elogio funebre viene pronunciato da Gabriele D’Annunzio Il giorno dopo la salma viene trasportata a Lugo, dove hanno luogo i funerali ufficiali. Sul luogo dell’abbattimento esiste un monumento con una dedica di Gabriele D’Annunzio. A Baracca sono state conferite inoltre le seguenti Onorificenze: Croce di guerra francese con palme, Croce militare britannica (Military Cross), Ufficiale dell’Ordine della Corona del Belgio, Medaglia al valore serba. Il cavallino rampante venne utilizzato anche da Ducati sulle proprie moto, dal 1956/57 al 1960/61. Il marchio è scelto dal celebre progettista della Ducati Fabio Taglioni, anche lui nato a Lugo come Baracca. Circa l’iniziazione massonica di Baracca purtroppo, almeno in Italia non esistono prove documentali. Una ricerca nei libri matricola della Gran Loggia d’Italia e nell’archivio del Grande Oriente d’Italia non ha dato esiti. A Baracca si attribuisce l’appartenenza alla loggia “Dovere e Diritto” di Lugo di Romagna ed al Rito Scozzese Antico ed Accettato, dove raggiunge il grado XVIII nel 1916 quale riconoscimento delle sue vittorie aeree. È probabile che Baracca sia stato iniziato all’estero, in particolare in Francia, a Reims dove nel 1912 frequenta il corso di pilotaggio oppure a Parigi dove nel 1915 frequenta il corso di addestramento sul nuovo velivolo Nieuport N.10. Quest’ultima ipotesi appare più verosimile dato che nel 1915 Baracca inizia ad essere un pilota apprezzato e famoso.

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P.50/51 e 53 in alto: Ritratti di F.Baracca; p.52 in alto: I biplani Nieuport dei tre fouriclasse della ‘Squadriglia degli Assi’: Con la ‘Stella’ Giulio Poli, col ‘Teschio’ Fulco Ruffo di Calabria e con il ‘Cavallino Rampante’ Baracca; p.52 al centro: Una delle vittorie di Baracca costretta a un atterraggio di fortuna; p.52 in basso: Tesserino di Francesco Baracca con foto in uniforme della Cavalleria; p.53: Nervesa della battaglia, il monumento funebre a Baracca.

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L’utopia rosacrociana in Johann Valentin AndreÌ Paolo Aldo Rossi

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n carattere notevole dei lavori sia scientifici sia pseudoscientifici del Seicento scriveva Lynn Thorndike - è la frequenza con la quale ricorrono nei titoli termini come ‘nuovo’ o ‘inaudito’ Con la comparsa di nuove stelle dal 1572 in poi, si cominciò a riconoscere un nuovo cielo, oltre che una nuova terra. Ma l’idea di novità era già presente in altri campi del sapere al di fuori della geografia e dell’astronomia.’1 E difatti Thorndike spende ben 12 pagine di bibliografia ragionata, esclusivamente su libri del tempo, per dimostrare come nel XVII secolo l’uso di aggettivi come “mai viste prima, inaudito, innovativo, nuovo”, compaiano nella maggior parte dei titoli delle opere più importanti di filosofia, di matematica, di fisica, di chimica, di medicina ma anche in lavori dedicati alla progettazione di macchine e addirittura per definire altrimenti le scienze occulte; e ciò divenne tanto comune e 1 Lynn Thorndike, Novità e innovazione nella scienza e nella medicina del Seicento (a cura di Philip P. Wiener e Aaron Noland) in Le radici del pensiero scientifico, Milano, 1971, pagg. 459-473.

abituale da sfociare non solo nel loro uso reiterato, ma anche nello stereotipato e nel monotono. È evidente che al ‘mai visto prima’ si accompagna la sorpresa e lo stupore. Il termine ‘meraviglia’ è uno dei più usati (e abusati) nella letteratura (specificatamente scientifica) del XVII secolo il quale, dal momento in cui si apre, è annunciatore e apportatore di infinite e interminabili novità; sembra aprirsi cioè un’età felice di riforme e di mutamenti. La parola meraviglia si accompagna con l’aggettivazione di “grandissima, rara, infinita, estrema, incomparabile”… ma anche con l’iperbole “stupenda” e, quasi sempre se è al plurale con il determinativo meraviglie “della natura”. D’altra parte cosa potevano fare gli uomini dotti e sapienti dell’epoca i quali dovunque si girassero trovavano sempre del nuovo e dello stupefacente davanti a loro? Quantomeno stilare un “Liber naturae o regula di tutte le arti - consiglia la Fama Fraternitatis - raccogliendo nozioni da tutto ciò che Dio ci ha donato cosí generosamente in questa età” dato che in “teologia, medicina e matematica, la verità

si sta facendo strada”.2 L’opuscolo anonimo, Fama Fraternitatis o Rivelazione della Confraternita del nobilissimo Ordine della Rosa-Croce, stampato a Kassel da Wilhelm Wessel nel 1614, si apriva con queste parole: “Poiché l’unico dio saggio e misericordioso in questi ultimi tempi ha riversato sull’umanità la sua misericordia e bontà con tanta dovizia, da permetterci di conseguire una conoscenza sempre maggiore e perfetta di suo figlio Gesú Cristo e della Natura, possiamo vantarci a buon diritto di vivere in un tempo felice, in cui Egli non solo ha rivelato quella metà del mondo fino ad ora a noi sconosciuta e celata e ci ha fatto conoscere molte meravigliose opere e creature della Natura mai viste prima, ma ha anche fatto sorgere uomini di grande sapienza, che potrebbero in parte rinnovare e condurre a perfezione tutte le arti, ora contaminate e imperfette, cosicché l’uomo possa finalmente comprendere la sua nobiltà e il suo valore e perché sia chiamato mi2 Fama Fraternitatis o Rivelazione della Confraternita del nobilissimo Ordine della Rosa-Croce in Frances Amalia Yates, L’illuminismo dei Rosa-Croce, Appendice, Torino, 1976, p.283.

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crocosmus e quanto la sua conoscenza si estenda nella natura”.3 Nel The Advancement of Learning, pubblicato nel 1605 e dedicato a Giacomo I, Francesco Bacone aveva lamentato le carenze del sapere, sia in ambito letterario che in ambito naturalistico, prospettando e presagendo la possibilità di un mondo in cui finalmente la fratellanza dello studio e dell’esercizio delle arti meccaniche avrebbe rinnovato tutte le attività umane: “il progresso scientifico consiste in una certa misura anche nel prudente governo e nelle sagge istituzioni delle singole università, così si avrebbe un accumulo di sapere, se tutte le università spar3 ibidem

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se per tutta l’Europa fossero fra loro in più stretti rapporti e collegamenti. Eppure esistono tanti ordini e sodalizi i quali, benché sparsi e dispersi in Stati diversi, sentono sempre una comunione che li affratella E come la natura crea la fratellanza in una famiglia, le arti meccaniche trovano la loro comunione nei sodalizi, la unzione divina costituisce la fratellanza tra i re e i vescovi, i voti e le regole introducono la fratellanza negli ordini sacri; così non può mancare la fratellanza nobile e generosa tra uomini della scienza e della luce, giacché Iddio stesso è detto Padre dei lumi”4. 4 F. Bacon, The Advancement of Learning, II, dedica a Giacomo 1, p. 13 (cfr. De augmentis

Come vedremo Johann Valentin Andreae (1586-1654), specialmente nel Le nozze chimiche di Christian Rosencreutz, Anno 1459, usa spesso la dicitura “il padre della Luce”5 in luogo di Dio o Creatore. Nel 1620 verrà pubblicato a Londra, da Francesco Bacone, Lord Cancelliere d’Inghilterra, l’Instauratio magna nel cui frontespizio si vede una nave che a vele spiegate, su un mare tempestoso, sta attraversando le colonne d’Ercole e più sotto la citazione dal Libro di Davide “Multi pertransibunt et augebitur scientia…”, e nel 1623 nella Nuova Atlantide (pubblicata postuma nel 1627) si narra che: “il re emanò il seguente decreto: ogni dodici anni due navi equipaggiate dovevano salpare da questo regno per due diversi viaggi e in ciascuna ci doveva essere una missione di tre Soci, o Fratelli, della casa di Salomone, il cui unico scopo era quello di informarci sugli affari e sulla condizione dei paesi ai quali erano designati e soprattutto sulle scienze, sulle arti, sulle opere e sulle invenzioni di tutto il mondo e inoltre di riportarci libri, strumenti e campioni di ogni tipo. Le navi dovevano ritornare quando avevano sbarcato i fratelli che restavano all’estero fino ad una nuova missione in questo modo, noi istituiamo un commercio non per procacciarci oro, argento o gioielli, né le sete o le spezie o qualsiasi altro vantaggio materiale, ma soltanto la prima creatura di Dio: la Luce; per essere illuminati - voglio dire - sullo sviluppo dì tutti i paesi del mondo.”6 La solidarietà fraterna rende possibile questo viaggio, il quale ha come solo obiettivo l’accrescimento del sapere che è l’unico modo per ottenere il potere sull’universo accessibile e raggiungibile dall’uomo; ovvero il progresso scientifico avvicina sempre più alla realizzazione di quel regnum hominis dove abita e governa la Luce. Bacone fa proprio questo concetto biblico sul quale costruirà tutta scientiarum, la versione latina posteriore), in Opere filosofiche, a cura di Enrico de Mas, Bari, 1965, vol. II, p. 84). 5 Valentin Johann Andreae, Chymische Hochzeit Chrístiani Rosencreutz: Anno 1459, Strassburg, Zetzner, 1616 (trad. it., Le nozze cbimicbe di Christian Rosencreutz, Anno 1459, Roma, 1975 o Milano, 1987). 6 Francesco Bacone, La Nuova Atlantide, Roma, 1998, p. 75.


la sua filosofia della natura, perché Dio, come dice San Giacomo nella Lettera I, 17, viene detto Padre dei lumi e la fratellanza del sapere diverrebbe una fraternità di scienza e di luce. Con queste parole, difatti, egli termina il Novum Organon: “Egli, infatti, per il peccato, cadde dal suo stato di innocenza e dal dominio sulle creature. Entrambe le cose si possono recuperare, almeno in parte, anche in questa vita: la prima, con la religione e la fede; la seconda, con le arti e le scienze”7. La realizzazione di una confraternita della luce sarà quello che cercheranno di fare i due manifesti rosacrociani, la Fama del 1614 e la Confessio del 1615, e cioè la creazione di una fratellanza di uomini dotti di tutta Europa riuniti attorno a una comune religione cristiana e a una solidarietà del sapere ottenuta mediante lo scambio vicendevole di tutte le conoscenze: “…dichiariamo veramente e sinceramente di professar la fede in Cristo - dice la Confessio - di condannare il papa, di essere dediti alla vera filosofia, di condurre una vita cristiana e che ogni giorno esortiamo, preghiamo e invitiamo molti altri, e precisamente coloro ai quali si è manifestata come a noi la luce divina, ad aderire alla nostra Confraternita”8. Come non credere, di conseguenza, a un’umanità finalmente liberata dai mali e dai bisogni? Il segno dell’utopia pare essere quasi il distintivo dell’epoca dove aleggia l’idea che la riforma del mondo deve necessariamente venire, di lì a poco, per opera di un collegio scientifico. E sono molti a pensarla così, prima e dopo l’apparizione dei R.C. Il movimento rosacrociano si manifestò e si evidenziò pubblicamente in tutta Europa nel 1614 con la Fama, si consolidò nel 1615 con la Confessio, si rese stabile nel 1616 con Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz di Johann Valentin Andreae9, 7 Francesco Bacone, Novum Organon, Milano, 2002, p. 531. 8 Confessio Fraternitatis o Confessione dell’encomiabile Confraternita dello stimatissimo Ordine della Rosa-Croce a tutti i dotti d’Europa Croce in Frances Amalia Yates, L’illuminismo dei Rosa-Croce, Appendice, Torino, 1976, p. 303. 9 Valentin Johann Andreae, Chymische Hochzeit Chrístiani Rosencreutz: op. cit Cfr: Johann Valentin Andreae, (Andreas de Valentia), Turbo, sive moleste et frustra per cuncta di-

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ma da questa data incomiciò il suo indebolimento, per quanto moltissimi dotti vagans ingenium, in theatrum productum, Helicone juxta Parnassum, 1616; Verae unionis in Christo Jesu Specimen, s.l. (Norimberga), 1628.; Fama Andreana reflorescens, sive Jacobi Andrrae... vita..., Strassburg, Reppius, 1630. Summa doctrinae christianae trigemina ex Matthiae Hafenrefferi locis communibus contracta, Lüneburg, 1644; Vita ab ipso conscripta, ex autographo primum, a cura di F.H. Rheinwald, Berlin, Schultze, 1849 (per il testo tedesco cfr. Seybold (a cura di), “Selbstbiographie Johann Valentin Andreás, aus dem Manuskript übersetzt”, in Selbstbiographien berümter Männer, vol. II, Winterthur, Steiner, 1799.)

di tutta Europa non solo lessero e reputarono le idee della Confraternita degli Invisibili degne di attenzione, ma ne furono fortemente attratti, a diverse ragioni, ancora per almeno un decennio. Il titolo completo della Fama Fraternitatis è il seguente: “Riforma universale e generale dell’intero universo. Oltre alla Fama Fraternitatis dell’Onorevole Confraternita della Rosa-Croce, dedicata a tutti gli uomini dotti e ai sovrani d’Europa, una breve risposta inviata dal signor Haselmeyer, il quale per questo motivo è stato gettato in prigione dai Gesuiti e incatenato su una galera. Ora data alle 57


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stampe e resa nota a tutti i cuori sinceri. Stampata a Kassel da Wilhelm Wessel, anno 1614”.10 Si tratta di uno scritto diviso in quattro parti, preceduto da un’illustrazione rappresentante un’ancora sulla quale si attorciglia il serpente di Mercurio, contenente: 1) Una epistola al lettore violentemente antigesuitica. 2) Una traduzione del Ragguaglio LXXVII dei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini edito a Venezia nel 1612, ma non citato, per cui questa parte - quasi interamente copiata - viene detta Generale riforma dell’universo. 3) La Fama, una lettera aperta che contiene la vita e la dottrina del mitico Christian Rosencreutz e dei suoi Fratelli, assieme agli ammaestramenti della Confraternita e alle loro istruzioni ai lettori. 10 Fama Fraternitatis op. cit. cfr Paul Arnold, Historie des Rose-Croix, Paris, 1955.

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4) La Risposta di Adam Haselmayer, una specie di breve compendio in chiave apocalittica del catechismo e del credo rosacraciano sulla venuta dello Spirito. Il testo più discusso fu naturalmente la Fama contenente la vita di Christian Rosencreutz e le regole dell’ordine della Rosa-Croce: “Convennero di comune accordo su questi punti: 1) Non avrebbero esercitato altra professione che quella di curare i malati, e ciò gratuitamente. 2) Non avrebbero indossato alcun abito particolare, imposto dalla Confraternita, ma il costume del paese. 3) Ogni anno, nel giorno C, si sarebbero incontrati nella Casa dello Spirito Santo, o avrebbero comunicato la causa della loro assenza. 4) Ogni fratello avrebbe scelto una persona degna che, dopo la sua morte, potesse succedergli. 5) La parola Rosa-Croce sarebbe stata il loro unico suggello e segno distintivo. 6)

La Confraternita sarebbe rimasta segreta per cento anni e la scoperta del sepolcro nel 1604, il segnale della “riforma generale delle cose divine e umane”. Questa opera termina con la dichiarazione che la Confraternita è cristiana nella “forma chiara e più pura, venuta recentemente alla luce, particolarmente in Germania” (ossia evangelica e luterana), e pratica i due sacramenti, battesimo ed eucarestia, ossia segue la liturgia di Augusta; in politica crede nel Romano Impero e nella Quarta Monarchia (il regno di Dio). Alla fine è detto: “ se per ora non abbiamo rivelato i nostri nomi, né quando c’incontriamo, tuttavia verremo senz’altro a sapere l’opinione di tutti, in qualunque lingua sia espressa; e chiunque ci farà pervenire il suo nome potrà conferire con uno di noi a viva voce, o, se vi fosse qualche impedimento, per iscritto.”11 L’invito iniziale a prestare attenzione a uno squillo di tromba ci ricorda l’Iconologia di Cesare Ripa, edita con le figure del Cavalier d’Arpino, a Roma nel 1603, che ci presenta la Fama come: “Donna vestita d’un velo sottile succinto à traverso, raccolto a meza gamba. che mostri di correre leggiermente, haverà due grand’ali, sarà tutta pennata. & per tutto vi saranno tant’occhi, quante penne, & tra. questi vi saranno molte bocche & orecchie, nella destra mano terrà una tromba, così la descrive Vírgilio”12. La Confessio del 1615, anch’essa di autore anonimo, è ricalcata e conformata alla Confessio augustana di Melantone ed è divisa in una serie di argomenti numerati. Il suo titole è: Secretioris philosophiae consideratio brevis a Philipp a Gabella, philosophiae st [studioso?] conscripta, et nunc primum una cum Confessione Fraternitatis R. C. in lucem edita Cassellis, excudebat Guilhelmus Wessellius III.mi Princ. typograpbus. Anno post natum Christum MDCXV e ha sul verso del frontespizio la citazione del Genesi 27: De rore Caeli et pinguedine terrae det tibi Deus. Il che fa pensare a una doppia etimologia: rosa-crux e ros-crux (rosa o rugiada), per cui Michael Maier, che 11 Ibidem. 12 Cesare Ripa, Iconologia … Appresso Lepido Facij, Roma, 1603, cfr Iconologia, a cura di P.Buscaroli, Milano, 1992, pag. 124.


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pubblica nel triennio 1616-18, a Oppeneim, le sue opere rosacrociane13 in una di esse dice: “ usano il segno delle due lettere R.C. in conformità alle prescrizioni del loro ordine ... come un simbolo che ciascuno può interpretare secondo la propria idea. Ma non appena la Confraternita si manifestò con i suoi scritti, subito uno zelante interprete spiegò R.C. con Rosen Creutz. Da allora ci si attenne a questa versione sebbene i Confratelli stessi abbiano affermato in scritti successívi di essere chiamati a torto rosacrociani, poiché le lettere R.C. designano il nome del loro primo fondatore solo simbolicamente.”14 13 Lusus serius quo Hermes sive Mercurius rex mundanorum omnium sub bomine existentium... judicatus et constitutus est, Oppenheim, 1616; Silentium post clamores, hoc est tractatus apologeticus, Frankfurt, 1617; Symbola aureae mensae duodecim nationum, Frankfurt, 1617; Themis aurea, hoc est De Legibus Fraternitatis R.C. tractatus, Frankfurt, Nicolas Hoffman, 1618; Atalanta fugiens, Oppenheim, 1618. 14 Themis aurea, op cit. cap. XVI.

L’opera contiene:1) La Consideratio brevis di Filippo da Gabella, dedicata a Bruno Carolus Uffel, in nove capitoli, seguita da una preghiera. 2) La prefazione alla Confessio. 4) La Confessio Fraternitatis R. C., ad eruditos Europae, in quattordici capitoli che è la continuazione della Fama. La Secretioris philosophiae consideratio brevis si fonda sulla Monas hieroglyphica di John Dee (1527-1608)15 in gran parte tradotta quasi alla lettera. Si tratta dell’opera più nota (1564) del più celebre filosofo ermetico, astrologo, mago, spiritista, ma anche teologo, matematico, geografo ed esperto di arti meccaniche dell’epoca elisabettiana; ossia colui che al meglio rappresentava l’ideale rosacraciano del dotto o del mercante della Luce. E difatti Heirich Khunrath, nel 1609, ad Hannover pubblicherà l’Anfhitheatrum sapietiae aeternae16, un’opera che dal suo ti15 Peter J. French, John Dee The word of Elizabethan Magus, London, 1972. 16 Heirich Khunrath, Anfhitheatrum sapietiae

tolo è “cristiana, cabalistica, magica, fisica, chimica ed ermetica” e riporta tutto il frasario e l’oscura e misteriosa parlata dei prossimi manifesti. La Confessio si apre con una visione apocalittica dove sono promessi, con grandi squilli di tromba, tutti gli arcani e i misteri che solo la Confraternita sa leggere nei segni del tempo come le nuove stelle apparse nel Serpentario e nel Cigno17 (1604 l’anno in cui venne ritrovato il sepolcro di Rosenkreutz), dedicata a tutti gli uomini e non solamente ai dotti e infatti: “ Cosí, anche se noi siamo in grado di arricchire l’universo intero, instillargli sapere e liberarlo da innumerevoli miserie, non ci riveleremo ad anima viva, se aeternae solius verae christiano-cabalisticum, divino-magica, phisico-chymicum, tertriunumcatholicon, Hannover, 1609. 17 Johannes Kepler, Gesammelte Werke, Munchen, ed. M. Caspar, 1937 sgg, De stella nova in pede Serpentarii; De stella incognita Cygni, vol. I, pp. 146 sgg.

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Dio non lo approva; colui che pensa di ottenere beneficio e partecipare delle nostre ricchezze e del nostro sapere, senza e contro la volontà di Dio, perderà la sua vita nel cercarci e ricercarci anziché trovarci e raggiungere l’ambita felicità della Confraternita della Rosa-Croce”18. Nel 1616 Johann Valentin Andreae pubblicò Le nozze chimiche di Christian Rosenkèuz che definì come ludibrium, termine che molti lessero come scherzo o facezia. Se i termini ludus, jeu, play, gioco ..., fossero assunti entro una dimensione 18 Confessio Fraternitatis, op cit., p. 304.

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semanticamente più ampia dell’univoco termine che sta per burla, divertimento o passatempo, e il loro ambito di significato si estendesse dal teatro medievale19 e ai giochi di guerra dove due contendenti sono spiegati in ordine di battaglia, potremmo capire meglio anche il ludibrium del serissimo J. Valentin Andeae. Egli era il nipote di Jacob, detto il Lutero del Württemberg, il negoziatore nel 1577 del concordato fra le città protestanti, e 19 Cfr. i vari Ludus de Nativitate, de Antichristo ..., il Jeu d’Adam, de Saint Nicholas etc... del teatro medievale.

figlio di Johann, un pastore interessato alle scienze occulte. Il giovane J. Valentin si interessò in gioventù alla letteratura teatrale (il termine ludus lo conosceva bene), all’astronomia matematica (il suo insegnante è Maestlin, il maestro di Keplero), all’ottica e alla filosofia. Nel 1604 egli sostiene nella sua Vita ab ipso conscripta di avere già composto una prima versione de Le nozze chimiche sotto forma di un’invenzione teatrale, una cosa di poco conto e quindi non un ludus, ma un ludibrium. Nel 1607-8 viene coinvolto in due scandali: uno, cui non c’entra per niente, di carattere licenzioso, l’altro di tipo ideologico e morale che lo fecero allontanare dalla università di Tubinga e lo obbligarono a girare per l’Europa: Strasburgo, Parigi, Losanna, Ginevra dove conobbe e apprezzò il calvinismo e dalla sua autobiografia sappiamo che allora ebbe la chiamata per la sua missione: juvare res christiana20. Tornò nel Württemberg nel 1614 dove diventò pastore a Vaihingen e si sposò. Fu proprio durante il biennio 1614-1616 che partecipò, ma non da solo, all’avventura dei Rosa-Croce e di cui fu il principale ideatore: “Era il problema del cristianesimo che mi stava a cuore e che io tentavo di risolvere con tutti i mezzi; e siccome non potevo farlo per la via maestra, tentai di farlo mediante sotterfugi e pagliacciate, per niente mosso, come è parso a certuni, da intenti beffardi, ma ricorrendo a mezzi molto usati da persone pie, nel senso che con delle facezie e un’accattivante malizia perseguivo uno scopo serio e inculcavo [nel lettore] l’amore per il cristianesimo.”21 Però, già nel 1616, si accorse che questa non era la strada più adatta e quindi attaccò la Confraternita dichiarandola una farsa, una buffonata, una ridicolaggine, ma ormai tutta Europa era convinta del contrario. Alcuni, come il chimico Andreas Libau (Libavius)22 o il filosofo Tom20 Vita ab ipso conscripta, ex autographo primum, a cura di F.H. Rheinwald, Berlin, 1849. 21 Seybold (a cura di), “Selbstbiographie Johann Valentin Andreás, aus dem Manuskript übersetzt”, in Selbstbiographien berübmter Männer, vol. II, Winterthur, 1799. 22 Andreas Libau, (Libavius), Analysis confessionis fraternitatis de Rosea Cruce, Frankfurt, 1615. Appendix necessaria syntagmatis arcanorum chymicorum... V. Amonitio de regulis no-


maso Campanella23, si scagliano contro i due manifesti fra 1615 e il 1620, ma ciò che ci fa pensare è che fu proprio Johann Valentin Andreae a diventare il più spietato dei nemici del ludibrium curiosorum (come lo chiama nel Menippus, 1615)24 assieme agli amici del cenacolo di Tubinga: Christoph Bezold, Tobias Adami, Wilhelm Wense, Comenio … Nella Mythologia christiana, Strassburg, 1619 parla di un personaggio incognito che ha dato origine a questa finzione ingegnosa fra i sapienti e nello stesso anno, nella Turris Babel, scrive che di Confratelli della R.C egli crede che non ne esistano25. È per questa ragione che non sono d’accordo con Francis Amalia Yates quando afferma: “Il movimento dei Rosa-Croce crollò quando crollò il movimento del Palatinato”26. La battaglia della Montagna Bianca, dell’8 novembre del 1620, rappresenta il crollo di Federico V e il punto più alto della potenza asburgica, ma se al contrario avesse vinto il principe palatino - usando un contraffattuale - allora sarebbe stato il successo in Europa dei riformati (ovviamente). È chiaro che per quanto riguarda i Rosa-Croce sarebbe stato possibile interpretarli politicamente anche come movimento pro Principe Palatino, però visto che già fra il 1615 e il 1620 vengono pubblicate molte opere di studiosi tedeschi, accusati di essere oltretutto gli autori dei manifesti, fortemente dissenzienti con questi e, per di più, Johann Valentin Andreae nel vae rotae seu harmonicae sphaerae Fratrum de Societate Roseae Crucis juxta famae editae indicem, Frankfurt, 1615. 23 Tommaso Campanella, Von der Spanischen Monarchy, 1623, Anhang (ma composta in italiano fra il 1600 e il 1620): “Nel momento in cui questo fantasma fu lanciato in Europa, nonostante la Fama e la Confessio testimonino chiaramente in più punti che si tratta solo del gioco senza importanza di uno spirito ozioso ... in ogni paese perfino uomini molto sapienti e devotissimi si sono lasciati ingannare al punto di offrire i loro servigi e il loro impegno, talvolta sottoscrivendo con il loro nome”, p. 48. 24 Johann Valentin Andreae, Menippus, sive Dialogorum satyricorum centuria inanitatum nostratium speculum, Helicone juxta Parnassum, 1617. 25 Johann Valentin Andreae, Turris Babel, sive judicíorum de Fraternitate Rosaeae Crucis chaos, Strassburg, Zetzner 1619. 26 Op. cit., p. 220.

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1617-1618 pubblica le sue opere più fortemente critiche e fonda la vera “Societas christiana” paragonata al ludibrium della Confraternita dei R.C.27, questo non è possibile senza forzare la storia. Nella Christianopolis del 1619, un’opera importantissima fra quelle del filone “utopia” (e sta fra le contemporanee: La Città del Sole di Campanella, la Nuova Atlantide di Bacone e la Nova Solyma di Samuel Gott ) si legge: “Una certa Confraternita (a parer mio, si tratta di uno scherzo, ma secondo i teologi è una questione seria ... ) promise ... le cose piú grandi ed insolite, proprio quelle cose che gli uomini generalmente desiderano; diede anche la straordinaria speranza di emendare la corruzione dell’attuale stato di cose e ... l’imitazione degli atti di Cristo. Quale confusione tra gli uomini abbia fatto seguito a questa notizia, quale conflitto fra i dotti, quale agitazione, quale scalpore e scompiglio di impostori e truffatori, è inutile descrivere ...”28. 27 Invitatio ad Fraternitatem Christi, Strassburg, Zetzner, 1617 e 1629 (prima parte), 1618 e 1628 (seconda parte); Mythologia christiana, Strassburg, 1619; Reipublicae Chiistianopolìtanae descriptio, Strassburg, Zetzner, 1619; Turris Babel, sive judicíorum de Fraternitate Rosaeae Crucis chaos, Strassburg, Zetzner 1619: Civis Christianus, sive Peregrini quondam errantis restitutiones, Strassburg, Zetzner, 1619. 28 F. E. Held, Christianopolis, An Ideal State of the Seventeentb Century, Oxford 1916.

Certo che molti sapienti ci credettero e fecero in modo di mettersi in contatto con i fratelli invisibili. Ma la formazione delle “Unioni o Società Cristiane” prima della elezione di Ferdinando di Stiria a re di Boemia e a Imperatore del Sacro Romano Impero (ossia anteriormente allo scoppio della guerra dei Trenta Anni) sposta tutto a livello di mistica cristiana, toglie ogni freccia al summenzionato arco che vuole che i Rosa-Croce fossero un movimento politico. Nel triennio dal 1617-161929 Robert Fludd scrive un trattato apologetico e un altro teologico-politico in difesa dei Rosa-Croce, oltre che la storia metafisica, fisica e tecnica dei due cosmi, ossia la sua opera maggiore, e Michael Maier nel 1618 editerà, con l’Atalanta fugiens, un breve trattato e un’ apologia sui RosaCroce30. Essi sono due fra gli uomini col29 Fludd, Robert, Tractatus apologeticus integritatem societatis de Rosea Cruce defendens, Leiden, 1617, Tractatus theologo-philosophicus in libros tres distributus quorum I. de vita; Il. de morte; III. de resurrectione... sapientiae veteris fragmenta collectae .fratrbusque a Cruce Rosea dictis dedicata, Oppenheim, 1617 e Utriusque cosmi, majoris et minoris, metaphysica, physica atque technica historia, Oppenheirn, 1617-1621. 30 Maier, Michael, Lusus serius quo Hermes sive Mercurius rex mundanorum omnium sub bomine existentium... judicatus et constitutus est, Oppenheim, 1616. Silentium post clamores, hoc est tractatus apologeticus, Frankfurt, 1617. Michael, Symbola aureae mensae duodecim nationum, Frankfurt, 1617. Themis aurea, hoc est De

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ti dell’epoca che, benché negassero di appartenere alla Confraternita, la difesero e cercarono con ogni mezzo di entrarne a far parte, ma ad essi capitò come a tutti gli altri (cioè a tutti coloro che cercarono di mettersi in contatto con la R.C.): non riuscirono perché o non esisteva alcuna Fraternità, o forse erano così celati, nascosti, sottratti alla vista anzi invisibili, che ogni sforzo di trovarli fu invano. Nella biografia di Cartesio31 si leggono le seguenti vicende da cui se ne potrebbe ricavare un romanzo avvincente e suggestivo, ma, è ovvio, assolutamente privo di validità o verità storica. Egli fu introdotto Legibus Fraternitatis R.C. tractatus, Frankfurt, Nicolas Hoffman, 1618. 31 Adrien Baillet, La vie de M. Des Cartes, Hortemels, Paris, 1691. Cfr. René Descartes (Cartesio), Oeuvres complètes, edizione a cura di Charles Adam e Paul Tannery, Paris, 1891-1912.

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fra i Rosa-Croce nel 1620 dal matematico Johann Fullhaber (1580-1635) e in seguito fu accettato nella R.C. con il nome di Renato Cartesio (ma lui ha sempre firmato con Renè des Cartes); alla fine del XVII secolo egli non è per nulla defunto, ma vivrà ancora molti secoli e, avendo deciso di ritirarsi in solitudine presso i Lapponi, iniziati nelle scienze magiche, si consacrò alla direzione della Confraternita Rosa-Croce”32. Le uniche notizie 32 Daniel Huet, Nouveaux mémoires pour servir à l’Histoire du cartèsianisme, Paris, 1692 cfr. Adrien Baillet op. cit . 452-453: “L’abate Picot era così convinto che egli possedesse il segreto della longevità che avrebbe giurato che ... salvo una causa esterna e violenta sarebbe vissuto cinquecento anni, possedendo l’arte di vivere per molti secoli”. Cfr Lettera a Huyghens, in Correspondence of Descartes and Constantyn Huyghens, Oxford 1926, p. 63 e R. Descartes, op. cit., vol. I, p. 507: “ mi sembra evidente che

certe sono le seguenti: il ventiquattrenne Descartes nel 1618 si reca in Olanda, si arruola nell’esercito del principe Maurizio di Nassau e conosce il grande matematico Isac Beeckman; nel 1619 va in Germania assoldato fra le truppe del duca di Baviera, ma del tutto indifferente alla politica: “Sentì sorgere dentro di sé l’impeto di un’emulazione per cui fu tanto più toccato da quei Rosa-Croce, poiché ne aveva appreso l’esistenza nel suo momento di maggiore travaglio rispetto agli strumenti, che si devono adottare nella ricerca della verità”. Nell’inverno del 1619 li cercò, ma “poiché ignorava la regola che prescriveva di celare la loro identità davanti al mondo tutte le sue pene e la sua curiosità furono inutili, e non riuscì a trovare un sol uomo che dichiarasse di appartenere a quella confraternita o che almeno lo facesse supporre”. E quindi, come sappiamo, passò poi l’inverno a riscaldarsi accanto a una stufa, immerso in profonde meditazioni sfociate nel sogno del 10 novembre. Nel 1620: “Si sentì in dovere di contattare qualcuno di questi nuovi sapienti per poterli conoscere personalmente e discutere con loro” e difatti viene in contatto con Johann Fullhaber33 con il quale parlerà solo di geometria. Nel 1623 quando a Parigi vennero affissi dei volantini che riportavano “Noi, deputati del Collegio principale dei fratelli della Rosa-Croce, stiamo facendo soggiorno visibile e invisibile in questa città per grazia dell’Altissimo, a cui si rivolgono i cuori dei giusti. Riveliamo e insegniamo senza libri né segni come parlare le lingue dei paesi dove vogliamo essere, e come trarre gli uomini dall’errore e dalla morte,”34 Immediatamente partì la caccia alle streghe e uscì un libello anonimo dal titolo Gli orrendi patti stretti fra Satana e i presunti Invisibili che iniziava con: “Noi, deputati del Collegio di Rosa-Crose evitassimo soltanto alcuni degli errori che di solito si commettono nel condurre una normale esistenza, potremmo già riuscire a raggiungere una longevità molto maggiore e più felice di qunto non accada oggi”. 33 Adrien Baillet, op. cit., pp. 67-107. 34 Gabriel Naudé, Instruction à la France sur la vérité de l’histoire des Frères de la Roze Croix, Paris, 1623, p. 27.


ce, annunciamo a tutti coloro che vorranno entrare nella nostra Società e Congregazione, che saranno istruiti nella perfetta conoscenza dell’Altissimo, nel cui nome quest’oggi ci riuniremo, e li renderemo come noi da visibili invisibili e da invisibili visibili, e saranno trasportati in tutti i paesi stranieri in cui vorranno andare. Ma avvertiamo il lettore desideroso di acquisire tali meravigliosi poteri, che noi conosciamo i suoi pensieri, che se desidera vederci per sola curiosità, non riuscirà mai a comunicare con noi; ma se vuole veramente essere iscritto sul registro della nostra confraternita, noi che possiamo giudicare i suoi pensieri, gli mostreremo la veracità delle nostre promesse, a tal punto che non indicheremo il luogo della nostra dimora, poiché i pensieri uniti alla volontà sincera del lettore potranno svelarci a lui e lui a noi”35. Quando Cartesio arrivò a Parigi proprio in quell’anno: “ da alcuni giorni si parlava a Parigi dei Fratelli della Rosa-Croce, che aveva cercato invano in Germania durante l’inverno del 1619 e cominciava a circolare la voce che egli fosse affiliato alla Confraternita. Descartes fu tanto piú sorpreso da questa notizia in quanto ciò non si accordava con il suo carattere, né con la tendenza, sempre manifestata, a considerare i Rosa-Croce impostori e visionari. A Parigi erano chiamati gli Invisibili - <e quindi>- Descartes avrebbe potuto avere conseguenze incresciose sulla sua reputazione, se si fosse nascosto o fosse vissuto appartato in città, come era stato solito fare durante i suoi viaggi. Ma egli confuse coloro che volevano valersi di questa coincidenza per dare fondamento alla loro calunnia. Si mostrò dovunque a tutti e soprattutto ai suoi amici, a cui non occorreva altro argomento per persuadersi che egli non era membro della Confraternita dei Rosa-Croce o Invisibili; e si valse dello stesso argomento la loro invisibilità - per spiegare ai curiosi come mai non fosse riuscito a trovane neanche uno in Germania”36. E ne aveva ben donde. Nel 1624, il gesuita padre François Garasse così tuonava in modo inappellabile sui Rosa-Croce:

“Tutte queste affermazioni, alcune enigmatiche, altre temerarie, alcune eretiche, altre sospette di stregoneria, ci fanno supporre che la sedicente Confraternita non sia così antica come vuole far credere, che anzi sia una giovane ramificazione del Luteranesimo, contaminato per opera di Satana da empirismo e magia, al fine di ingannare più facilmente gli animi volubili e curiosi.”37 Da quel momento il ludibrio si trasfor-

35 Effroyables pactions faites entre le Diable ei les prétendus Invisibles, Paris, 1623, p. 16. 36 Adrien Baillet, op.cit., pp. 106-8.

37 François Garasse, La doctrine curieuse des beaux esprits de ce temps ou prétendus tels, Paris, 1624, pp. 83-91.

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merà in burla, insulto o peggio ancora eresia. Tutto finì nel secolo successivo nella costituzione di società segrete e confessioni massoniche che durano ancora oggi e si rifanno ai R.C, reperendo (leggi inventando) un considerevole e cospicuo numero di documenti. “Nella storia - mi si faccia citare Karl Marx - ciò che per la prima volta compare sotto forma di tragedia, la seconda volta ricompare sotto forma di farsa”. P.54/62: Frontespizi di vari testi citati nell’articolo; p.63: Ritratto di René des Cartes, olio su tela, XVII sec.

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Giordano Bruno

Un pensatore del Rinascimento? Antonio Binni

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Le considerazioni, che seguono, vogliono costituire il quadro di riferimento generale, seppure necessariamente non esaustivo, nel quale, come altrettante pietre preziose, si inseriranno gli interventi successivi al mio, aventi, invece, tutti, a oggetto, temi specifici. Pur nel rispetto di queste mie intenzioni, in questa praefatio mi sforzerò di tentare di fornire una risposta – da qui il punto interrogativo posto nel titolo – alla domanda se Bruno possa essere considerato il primo dei pensatori moderni o, se, all’opposto, debba, invece, essere stimato come l’ultimo dei pensatori rinascimentali, per avere, nella sua opera, polarizzato e portato poi fino ai suoi estremi confini l’esperienza intellettuale del Rinascimento. Quesito, codesto, per certo, rilevante, considerato che la domanda costituisce uno dei problemi centrali della tematica nolana, sui quali la critica è, ancor oggi, divisa. La mia risposta non sarà totalmente diretta, avendo preferito fare risaltare il mio pensiero in controluce. 2.- Con il termine Rinascimento, cronologicamente, si intende, com’è noto, quel periodo storico che occupa pienamente il ‘400 e il ‘500, per giungere all’epilogo ai primi decenni del ‘600 con la figura di Campanella. Com’è del pari a tutti noto, si trattò di un grandioso fenomeno di rigenerazione spirituale, mediante il ritorno alla classicità, guardata, tuttavia, con gli occhi nuovi della Storia: un ritorno inteso come scoperta e, soprattutto, come revivescenza dell’antico, assunto a paradigma valido in assoluto, in quanto autentico, e, perció, insuperabile. Questo guardare al passato nasconde, in verità, una sorta di ambiguità perché è, quanto meno, singolare una cultura che si propone come innovatrice in nome di un ritorno all’antico! Tanto più che il ritorno è volto a una cultura remota, quale è quella greca e romana, opposta a quella medievale, vista come decadente in quanto allontanatasi dai modelli assoluti gerarchicamente superiori! Anche se va poi posto nel debito risalto il fatto che il passato viene sentito come presente. Il che riscatta la segnalata aporia. Al centro di questo fenomeno, autenti-

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faticando profittai, soffrendo feci esperienza, vivendo esule imparai... Giordano Bruno camente epocale, sta l’orgogliosa rivendicazione del ruolo dell’uomo nel cosmo all’insegna delle infinite possibilità della sua mente. Più che una rivoluzione, il Rinascimento fu allora una rivelazione in quanto mise in luce la presa di coscienza della potenzialità umana. L’uomo non è più qualcosa; non ha più una sua forma; non ha più una sua collocazione nella scala degli esseri. L’uomo è ciò che si fa liberamente. Da questo punto di vista il Rinascimen-

to è il più macroscopico esempio di un mutamento intellettuale che determina un mutamento reale. In quanto tale, è la più secca smentita della Storia all’assioma marxiano secondo il quale l’essere precede la coscienza. Quello del Rinascimento è un vento nuovo di inusitate proporzioni proprio perché investe l’uomo e tutti i suoi problemi. Nessuna manifestazione umana gli è, perciò, estranea. Il moto di rivolta investe tutti i campi, dispiegandosi in ambiti fino ad allora inesplorati, al punto da coinvolgere le stesse forme di organizzazione di vita degli uomini e degli Stati. Nasce così la pedagogia del cittadino nuovo nel progetto di una diversa condizione di vita. In sintesi, con Machiavelli (1469-1527), Guicciardini (1483-1540), Tommaso Moro (1478-1535) e Bodin (1529-1596), avviene la fondazione della moderna scienza politica. L’arte dei pittori e degli architetti raggiunge l’apice. Il rapporto fra uomini e cose viene esaltato nello schema matematico e simbolico della prospettiva. Il Vasari, nel proemio delle Vite (1550), può rendere esplicito il senso del termine da lui usato rinascita fino ad allora latente. Il Rinascimento non fu, perà, solo tempo di artisti. L’epoca annovera anche scienziati, primo fra tutti Copernico. Il periodo non registra grandi invenzioni. È, però, in quest’epoca che nasce la stampa, destinata a rivoluzionare la comunicazione fra gli uomini. Il ritorno agli antichi investe soprattutto lo studio dei testi greci e latini recuperati nel loro significato autentico attraver65


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so indagini filologiche rigorose, ossia, attraverso un tipo di studio che si tradurrà poi in un metodo seguito in qualsiasi altro campo del sapere. In filosofia, per avvicinarci al tema che ci riguarda, si registra un «ritorno» al «divino» Platone in contrapposizione alla «bestia» Aristotele, perché Platone, con i suoi dialoghi, è più possibilista, più vicino all’uomo e ai suoi problemi, soprattutto più in chiave con un modo di pensare che rifiutava ormai definitivamente le antiche sicurezze. La preferenza a Platone – come è stato autorevolmente scritto – significò, al postutto, spazzare via l’oppressivo mondo aristotelico, chiuso, gerarchico e finito. In questo fervente clima culturale, verosimilmente irripetibile, in un giorno imprecisato del mese di gennaio o di febbraio dell’anno del Signore 1548, da Giovanni Bruno – gentiluomo e uomo d’armi – e da Fraulissa (o Fraulisa) Savolino – appartenente a una famiglia di piccoli proprietari terrieri – a Nola, ai piedi del monte Cicala, sotto un cielo «benigno», nasce Filippo. Che, nel 1563, per conservarlo poi per sempre, assumerà il nome di Giordano, vestendo «l’abito di San Domenico», accolto nel grande convento domenicano di Napoli, nel quale, com’è noto, è sepolto Tommaso d’Aquino. 3.- In questo fecondo contesto ideologico si inserisce pienamente il pensiero filosofico di Bruno, in verità non agevole da cogliere in tutta la sua complessità perché, nella sua filosofia, confluiscono sterminate letture e numerose altre filosofie, arabe comprese. Né la stessa tradizione cabalistica gli è estranea. Da qui la natura sincretica di un pensiero che rimane, peró, originale. A causa della cennata complessità sono poi state proposte diversissime esegesi della sua filosofia. Pur nella limitatezza dello spazio a disposizione, vorrei, tuttavia, ugualmente indicare – almeno – il percorso seguito da Bruno nella fondazione della sua «nolana filosofia» che, in uno schema ascendente ben preciso, frutto di un programma coerente e predeterminato, si snoda attraverso tre fasi: dalla «filosofia della natura» si passa alla «filosofia morale» per approdare, infine, alla «filosofia contemplativa».

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Per potere, sia pure schematicamente soltanto, ricostruire questo iter, occorre prendere le mosse da una constatazione. Anche per Bruno – che in cià è figlio del suo tempo – l’aristotelismo rappresenta un sapere chiuso e immobile, un sistema rigido da abbandonare in quanto incapace di aprirsi alla molteplicità e alla mutazione. La critica ad Aristotele investe il rapporto fra forma e materia, tra atto e potenza visto da Aristotele in termini antagonistici, ridotto, invece, da Bruno all’unità sul rilievo esemplificativo che il pezzo di legno, da cui l’artista ricava la statua, rimane pur sempre legno, sia pure con una forma diversa. Sicchè la materia in potenza (legno) e la materia in atto (statua) restano fra loro assolutamente identiche. Questa materia, che include ogni forma possibile, apre poi la strada alla filosofia

della natura perché “materia” e “forma” si ritrovano indistintamente congiunte nell’uomo, nella Natura, che «est Deus in rebus». In fondo, si tratta di un ritorno all’antica religione che vede Dio nella natura. Col che Bruno si conferma figlio del suo tempo, in polemica aperta, però, con il Cristianesimo. Con questo ritorno all’antico, Bruno opera, infatti, un ritorno al rapporto che esisteva nel mondo classico tra l’uomo e la natura, spezzato e occultato, appunto, dal Cristianesimo. Nel che si risolve, poi, il senso nuovo attribuito all’antico che è il segno caratterizzante del Rinascimento! In questa contemplazione della Natura, in questo sforzo di cogliere l’invisibile nel visibile, l’unità nella molteplicità, consiste poi la massima espressione della filosofia, che diventa, cosí, una filosofia 67


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essenzialmente liberatrice perché la vita filosofica autentica, che è solo quella guidata dall’amore per la verità e per la sapienza, finisce, perfino, per superare «il cieco spavento della morte». Il passaggio dalla «filosofia della natura» alla «filosofia della contemplazione» passa attraverso l’intermedio costituito dalla «filosofia morale» che, come si vedrà a breve, è tema strettamente legato alle vicende delle guerre di religione. Sicchè, sarà qui sufficiente ricordare che l’uscita dalle tenebre causate dal fanatismo religioso può essere provocata solo da una profonda riforma etica in ossequio a un immenso bisogno di rinnovamento spirituale, avvertito in una vasta cerchia di intellettuali. Se ora ci domandiamo “quanto di Platone” è dato cogliere nel pensiero di Bruno, 68

dobbiamo rispondere che l’insegnamento platonico, sia pure filtrato attraverso Plotino e il c.d. Dionigi l’Aeropagita, costituisce l’asse portante della filosofia del Nostro. La stessa teoria bruniana della conoscenza è, infatti, ricalcata su quella platonica, com’è comprovato dal richiamo alla celebre immagine della caverna, alla quale Bruno si richiama espressamente per far comprendere il punto di partenza dal quale occorre muovere per iniziare un processo gnoseologio. Dove il rinvio, e il conseguente debito, avviene alla lettera. Come è confermato da queste parole del Nolano, che mi piace rammemorare alla lettera, proprio perché danno il segno di una precisa dipendenza del Nostro, peraltro, condivisa e vissuta: «perché veggiamo non gli effetti vera-

mente, e le vere specie de le cose, o la sustanza de le idee, ma le ombre, i vestigii e simulacri de quelle, come color che son dentro l’antro et hanno da natività le spalli volte da l’entrata della luce, e la faccia opposta al fondo: dove non vedono quel che è veramente, ma le ombre de ció che fuor de l’antro sustanzialmente si trova». Il contemplare – che è il punto d’arrivo della filosofia bruniana – è l’unità infinita del reale. Il che comporta un “eroico furore”, ossia, quella follia propria di colui che, con doti naturali ed esercizio, è capace di abbracciare il tutto: avventura estrema, percorso raro, possibile a pochi soltanto postulando la capacità eccezionale di perdersi per conquistarsi. Che è poi un liberarsi dalle catene della condizione umana, dai vincoli della finitu-


dine, per immergersi, appunto, nell’universo infinito. Anche questi sono, perà, tutti temi platonici che si rinvengono nel Simposio, dove la figura del filosofo viene appunto proposta come il ricercatore della Verità, che consuma la propria esistenza nel rifiuto di ogni conoscenza parziale pur nella consapevolezza della propria finitezza. La stessa “ars memoriae” che Bruno sviluppa in termini cosí ampi e suggestivi non è altro che il mezzo per quella rimembranza nella quale rinasce la conoscenza della Verità intesa come l’unità sottesa alla confusa pluralità delle cose. Col che, ancora una volta, Bruno si dimostra buon allievo di Platone! Sono sempre i Dialoghi platonici a divenire i modelli dei sei dialoghi che Bruno, in rapida successione, pubblica a Londra fra il 1584 e il 1585, tutti germinanti da Cene. Il che, ancora una volta, riporta il pensiero a Platone e al suo Convito! Il ricorso a questo topos letterario vuole essere poi un rimando alla vita quotidiana pensante, cosí come lo era stato il paradigma al quale Bruno si è ispirato! Anche nel seguire la lingua! Come Platone, che ha scritto nella sua lingua, cosí anche Bruno scrive nella propria! Dove, però, la scelta del volgare è scelta polemica e politica insieme! Polemica, contro la cultura pedantesca di Oxford e Cambrigde. Politica, perché l’uso del volgare permette di promuovere la circolazione del sapere nelle nuove classi emergenti. Dove, però, Bruno – cosí almeno a me sembra – è fedele più che mai a Platone è, in particolare, nella descrizione di se stesso, quando nella Commedia Candelaio – anch’essa scritta in volgare e pubblicata a Parigi nel 1582 – si dipinge come un ridicolo Sileno. Qui, infatti, è perfino palese la lezione di Alcibiade su Socrate tramandataci da Platone. Qui si coglie soprattutto l’ammonimento che non ci si deve fermare alle apparenze, perché, per vedere e capire, bisogna oltrepassare la dura scorza delle cose! Sono sufficienti già questi pochi cenni per riconoscere a Bruno un posto di primo piano nella storia del pensiero filosofico, non solo italiano. Per quanto possa apparire incredibile, Bruno, a mio giudizio, è stato, però, an-

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cora molto di più! E, per comprenderlo, occorre far capo al momento storico nel quale il Nolano compie la sua erratica vicenda umana, “zimbello della fortuna”, “scarso di beni”, “premuto dall’odio della folla”. 4.- L’Europa, nella quale vive Bruno, è lo scenario di scontri religiosi di inaudita violenza conseguenti alla divisione della res pubblica cristiana per effetto della riforma luterana. L’Europa è un autentico fiume di sangue. In tutto il continente europeo si toccano abissi di sopraffazione e crudeltà fino ad allora sconosciuti. Cattolici e protestanti si scontrano fra loro nell’odio reciproco più radicale, perché chi ha una fede diversa, prima ancora di essere considerato un nemico, è stimato un insulto al proprio credo. Lo spirito è quello delle opposte crociate. È in questo contesto che il 24 agosto 1572 matura in Francia la strage di S. Bartolomeo, nella quale vengono uccisi tremila ugonotti: un massacro che riscuote il plauso di Gregorio XIII che, per festeggiare l’evento, fa coniare una medaglia

commemorativa in concomitanza della emanazione di una Bolla per un giubileo generale di ringraziamenti. La lotta fra cattolici e protestanti non è meno cruenta in Germania. In Italia, cupo, su Staterelli fra loro divisi, regna il Papato, la cui Inquisizione non ha avuto grandi difficoltà a estirpare il protestantismo, perché, in Italia, era una pianta gracile. La Spagna, unificata la Penisola iberica con l’annessione del Portogallo, si afferma come la massima potenza europea. Pure perché, dallo stesso anno in cui nasce Bruno, il Regno di Napoli fa parte della sua Corona, all’epoca ben salda nelle mani di Carlo V, incoronato a Bologna da Clemente VII Imperatore del Sacro romano Impero e Re d’Italia. Animata da spirito espansionistico, la cattolicissima Spagna finisce per scontrarsi con gli interessi della protestante Inghilterra, che incominciava ad affacciarsi come potenza di rilievo. Lo scontro avviene nei Paesi Bassi, dove la Spagna interviene nel tentativo di sedare una ribellione protestante e pure nella lontana America dove l’Inghilterra 69


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danneggia, spesso gravemente, i traffici degli Spagnoli con una diffusa pirateria. È, infatti, dalla costa pacifica dell’America Spagnola che, con il suo bottino, ritorna Sir Francis Drake! Lo scontro culmina, poi, nel 1588 quando Filippo II invia contro l’Inghilterra la sua “Armata”, che si rivelerà tutt’altro che “invincibile”, perché sbaragliata dagli agili vascelli inglesi nel mare del nord. In questo clima fratricida tutto è lecito. La strage, la tortura, il saccheggio, l’incendio, le violenze sono pratiche quotidiane, al pari del tradimento e dell’assassinio politico divenuto - come ha scritto uno storico inglese - un «qualcosa di banale». Tutto questo perché non si era abbandonata la folle idea di restaurare l’unità dei Cristiani con la repressione e con la guerra. Mentre protestanti e cattolici si sgozzano fra loro in una lotta che ignora la tregua e 70

la pietà, ad est la povera Europa è premuta dai Turchi. Il Mediterraneo, persa la centralità del suo ruolo in favore delle nuove rotte che, partendo dal nord, aprono, a Inghilterra e Olanda, occasioni di straordinario sviluppo, finisce cosí per diventare anch’esso un motivo di contesa, superata con il sangue sparso nella battaglia di Lepanto (1571). Questo – sia pur sommario – quadro di riferimento fa giungere fino a noi l’eco di un dolore senza fine perché, in tutta la sua Storia, non vi sarà mai più un’Europa cosí divisa, insanguinata ed assediata. 5.- A fronte di uno scontro cosí vasto e totale, foriero di cosí tanto sangue, dettato dal fanatismo più cieco e radicale, che non ha risparmiato, né altari, né leggi, né giustizia, che ha trasformato l’Europa in un luogo senza pietà; in questo clima avvelenato dall’odio che ha spinto

gli uomini nel baratro della feritas, Bruno avverte la necessità di trovare una soluzione irenica che superi ogni contrasto religioso. Per conseguire questo fine, Bruno opera in una duplice direzione. La prima di ordine intellettuale, la seconda di ordine pratico. Per fondare una pace duratura, occorreva, innanzitutto, sul piano del pensiero, trovare un’ancora di salvezza che superasse le divisioni religiose in atto. Da qui, in primis, l’affermazione che la religione, con il suo religare, è stata creata per favorire la convivenza degli uomini e non anche, invece, per onorare gli dei, che, essendo già «gloriosissimi in sè», non hanno affatto bisogno del culto degli uomini. Assunto che riecheggia il pensiero del Machiavelli che, nel Principe, e soprattutto nei Discorsi, afferma che il culto è intimamente legato alla vita civile. Da qui, in secundis, la severa critica alle religioni istituzionali, fonti delle persecuzioni che insanguinarono l’Europa. Contro il protestantesimo – particolarmente nello Spaccio della bestia trionfante – Bruno esalta l’intelligenza e l’opera umana, quella “mano” strumento di trasformazione del mondo, attraverso la quale l’Uomo può rendersi partecipe dell’opera della natura, contraddicendo col che la tesi protestante della salvezza attraverso la sola fede, duramente criticata perché la dottrina della iustitia sola fide non incoraggia certamente gli uomini a intraprendere la durissima strada del riscatto dalla feritas. Donde l’affermazione che solo il duro lavoro può conquistare la civiltà. Adamo ed Eva, assieme agli uomini primitivi dell’età dell’oro, nell’ottica del Nolano, diventano il simbolo di una humanitas immobile, censurabile perché non vi puó essere virtù laddove gli esseri umani vivono nell’inerzia! Cosicchè, il lavoro e la fatica, lungi dal costituire una punizione divina, sono, all’opposto, l’unica soluzione per essere giusti! Senza “sudore” non c’è possibilità di riscattarsi dalla condizione di imbestiamento! Contro il Cattolicesimo – e segnatamente contro il cristianesimo paolino – l’attacco di Bruno è ancora più profondo e radicale, perché viene messo in discussione il più tradizionale patrimonio dogmatico delle chiese cristiane. Nell’uni-


verso mentale di Bruno non v’è, infatti, posto, né per la Trinità, né per l’Incarnazione, né per l’Eucarestia, né per la verginità della Madonna, né per la perpetuità dell’Inferno. Cristo non è Dio e a buon diritto fu impiccato! Stante la cosí dimostrata insufficienza delle religioni storiche a conseguire lo scopo, a parer di Bruno, la pace religiosa universale deve essere rinvenuta su una base diversa che prescinda dalle stesse e, comunque, le superi. Questo fondamento viene ravvisato da Bruno in una «religione naturale», che non infrange lo jus gentium, in quanto si fonda sull’«amore», che, per essere «divino», è, per antonomasia, l’elemento unificante, e della «confusa pluralità delle cose», e degli uomini. In questa visione, centrale diviene il concetto di tolleranza, intesa come convinto rispetto della religione altrui pure dal profilo del culto: paradigma intellettuale di quell’Editto di Beaulieu emanato in Francia nel 1576 da Enrico III che, nonostante l’atmosfera avvelenata che ancora si respirava in quella terra, riconosceva a ciascuno il diritto di professare la religione che più «si addice alla propria anima». Il “precedente” di questa «religione naturale», incentrata sull’amore inteso come vincolo universale «che concilia i contrari e unifica il molteplice nell’uno» - che, perciò, assicura la pace e, con essa, il superamento della «notte atra e fosca» viene poi riscoperto nella «religione egizia» tramandata nel Corpus hermeticum che, al pari dei suoi contemporanei, Bruno, sia pure errando, fa risalire alla più remota antichità, anziché al periodo fra il II e il III Secolo a.c., com’è, invece, vero. Qui non è poi possibile fare che un semplice cenno a questo complesso di testi, attorno al 1460, da un monaco portati dalla Macedonia a Firenze, dove furono consegnati a Cosimo che ne pretese l’immediata traduzione da Ficino, costretto, perciò, ad abbandonare quella dei testi di Platone che, all’epoca, aveva in corso! Qui va piuttosto sottolineato che questi testi divennero cosí importanti nel mondo rinascimentale da creare quella corrente di pensiero che va, appunto, sotto la denominazione di “ermetismo”, che divenne poi fondamentale a tal segno che il sacerdote egizio di grande sapienza che di quei testi – invece attribuibili

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alla mano di diversi autori sconosciuti – si credeva l’unico estensore - Ermete tre volte grande - ancora oggi riposa sicuro nel duomo di Siena. Bruno da questo verso è realmente figlio del suo tempo perché, com’è ormai dato acquisito, l’ermetismo è fondamentale per comprendere non solo il pensiero di Bruno, ma tutto il Rinascimento. Verrebbe, dunque, da concludere nel senso che, in Bruno, si condensa l’esperienza del platonismo che attraversa tutto il Rinascimento. E nulla più. È, invece, proprio a questo punto che la figura del Nolano si staglia con caratteri di potente originalità!

6.- Secondo Bruno, non basta predicare la religione dell’amore universale e la tolleranza che ne consegue. Secondo Bruno, occorre fondare le regole perché la pace ritorni negli uomini e negli Stati. La soluzione operativa è rinvenuta da Bruno nella magia, intesa come conoscenza, e delle leggi della natura, e del loro possibile impiego per incidere nel reale. La magia - severamente condannata dalla Chiesa - fondata su regole certe e basi solide – diventa, allora, lo strumento indispensabile per realizzare quell’opera di riconciliazione fra le opposte fazioni che deve restituire la pace all’Europa. In quanto «mago», Bruno rivendica per sé il diritto di farsi guida della nuova religione «de la mente», fondatore di uno Stato concreto, in questo anticipando il mago benefico Prospero reso immortale da Shakespeare. Di questa riforma, nel pensiero, che la sorregge, religiosa e filosofica, magicamente attuata, Bruno si farà banditore appassionato fino a trasformare il proprio sogno in un movimento politico avente come proprio fine l’instaurazione della pace religiosa in Europa attraverso l’assoggettamento del mondo a una sola 71


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religione. La sua paeregrinatio in Europa, dopo l’incontro con il moderato Enrico III di Francia, prima in Inghilterra alla corte di Elisabetta, poi negli stati tedeschi e in Boemia, infine in Svizzera e a Venezia, si spiega con questa ansia di riforma universale. Forse il suo stesso ritorno in Italia, che, per essere avvenuto senza garanzie, di fatto, è equivalso a gettarsi nelle fauci del 72

leone, è dipeso da questo progetto politico da attuarsi all’ombra dell’azione di Enrico Navarra, ma in virtù delle proprie capacità di mago e, perció, di «vincolatore» degli animi. Il progetto è impresa ardua. Tale sarebbe per chiunque, ma non per il «mago» Bruno, convinto delle sue facoltà fino al punto di essere certo della sua capacità di assoggettare lo stesso Pontefice al suo

disegno! Col che, fra i tanti volti assunti – filosofo, grande Iniziato alla tradizione ermetica, geniale cultore dell’arte della memoria – l’immagine di Bruno come «mago» sembra, dunque, imporsi rispetto a tutte le altre. Anche se a nulla sono poi valse quelle arti magiche, perché quell’ansia di umana liberazione è rimasta, purtroppo, tale! Anche se il sogno messianico non è poi


stato spento dal rogo di piazza Campo de’ Fiori! A tacer d’ogni altro, rimane, infatti, il pensiero che, nell’unità, concilia e riassume gli opposti; oltre al pensiero, il pensiero che si è fatto vita, slancio pratico e realizzativo, azione pure collettiva (i c.d. “Giordanisti”), in estrema sintesi, attività generosa di un sapere che, lungi dal porsi come potere dell’uomo sull’uomo, è, all’opposto, servizio all’uomo in un previo riconoscimento dei suoi autentici bisogni. 7.- Si è detto e ripetuto che Bruno anticipa in modo sorprendente certe posizioni di Spinoza e dei Romantici tedeschi, primo fra tutti Schelling. L’ebbrezza di Dio e dell’infinito, propria di questi filosofi, è già presente in molte pagine di Bruno. Lo stesso Hegel, nella creazione della sua “dialettica”, è debitore anche di Bruno! Bruno è uno strenuo sostenitore dei grandi temi dei giorni nostri, quali la tolleranza, l’unità dei saperi, il relativismo, il dialogo. Questo non autorizza, però, a fare di Bruno un pensatore moderno. A noi, sommessamente, sembra piuttosto doveroso affermare che l’opera di Bruno segna il vertice del Rinascimento inteso come stagione irripetibile del pensiero occidentale. A questa conclusione siamo, poi, indotti pure da un’ulteriore riflessione. Memore del De rerum natura di Lucrezio, Bruno, con una delle sue visioni più ardite, introduce la concezione di un universo infinito, popolato di mondi innumerevoli che, come altrettanti animali, vagano perennemente in movimento. Con questa concezione Bruno ha definitivamente infranto il chiuso mondo tolemaico medievale. Di fronte a questo universo infinito non poteva che rimanere smarrita e sbigottita la mente dei teologi inquisitori, compresa quella del cardinale Bellarmino, il più dotto e autorevole membro del Tribunale, nelle sue opere esegetiche impegnato a stabilire se Cristo, nella sua Ascensione, si fosse fermato sotto o sopra la sfera corporea dell’ultimo cielo, ove doveva rimanere con il suo corpo, insieme ai Beati, in un definito spazio fisico! Per questo, particolarmente nell’Ottocento, si è voluto attribuire a Bruno una

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patente di modernità presentandolo come un precursore del moderno sapere scientifico. Il giudizio va, però, sicuramente corretto, come ormai riconosce la critica più accreditata e, comunque, più convincente. Bruno perviene ad affermare l’idea della infinità dell’universo sulla base di argomenti squisitamente filosofici. Se Dio è una causa infinita, in quanto tale, deve necessariamente avere un effetto infinito. Altrimenti si cadrebbe nella contraddizione di porre un limite alla sua potenza creatrice. I mondi, che popolano l’universo, che si muovono attraverso lo spazio come grandi animali - altra immagine mutuata da Platone! - derivano a Bruno dalla propria concezione vitalistica della materia. A Bruno, in altri termini, sfugge

completamente il linguaggio matematico che è, invece, l’unico idoneo a ricostruire le leggi meccaniche che regolano l’universo. A questo proposito occorre, anzi, dire di più! Bruno, nella Cena de le Ceneri, tesse alti elogi di Copernico. Gli obietta, tuttavia, che l’idea di un universo infinito, senza centro, senza limiti, non puà conciliarsi con le esigenze della “raggione calculatoria” perché i calcoli non possono dar conto di entità, per definizione, incommensurabili. Bruno, insomma, rimprovera a Copernico di essere stato solo un matematico! Rivendicando, col che, la supremazia della sua filosofia, posto che «altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura»! In una visione filosofica del problema 73


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sono bandite misure, proporzioni e tutto ció che è quantità, che costituiscono, invece, il regno di quella matematica – “stolta” e “vana” – che Bruno svaluta come pedantesca applicazione e, in ogni caso, come un limite che preclude il raggiungimento della verità più profonda. Fra Bruno, da un lato, e Galileo, Bacone, Newton e Keplero, dall’altro lato, la differenza sta tutta qui: per Bruno il diagramma copernicano è una sigla ermetica ancora da penetrare per carpirne il mistero; per gli altri, invece, quel diagramma è un diagramma genuinamente matematico. È, dunque, indubbio che Bruno sia estraneo allo spirito scientifico moderno. Anzi. È proprio la sua visione vitalistica e magica che gli preclude la possibilità di anticipare le scoperte del Seicento che nascono su basi del tutto differenti! Eppure, ancor oggi, Bruno è profondamente amato dagli scienziati! A tacer d’altro, a confermarlo valga il richiamo al lapidario annuncio che il 17 febbraio dell’anno 2000 apparve sulle pagine Carnet di “Le Monde”, senza firma, a cura di un gruppo di scienziati che si sono fatti carico della spesa di questa costosa iniziativa nel testo che, qui, di seguito, trascrivo: “Quattro secoli fa, il 17 febbraio 1600, a Roma, Giordano Bruno moriva sul rogo, condannato dall’Inquisizione. Aveva proclamato l’universo infinito, la molteplicità dei mondi, la vita cosmica”. Questa predilizione per Bruno da parte anche degli scienziati di oggi deriva sicuramente da molti fattori! L’idea di un universo infinito, senza cen74

tro, popolato da una pluralità di mondi, perennemente in movimento, non può, sicuramente, lasciare indifferente lo scienziato moderno, al quale, in quella concezione, pare, addirittura, di intravedere un’anticipazione della teoria della relatività di Einstein! Ma l’amore che gli scienziati moderni portano a Bruno, a mio giudizio, deriva, soprattutto, dalla rivendicazione – in Bruno ostinata e coerente – della libertà di giudizio, che ha segnato la nascita della scienza moderna, della quale occorre recuperare lo spirito, particolarmente nelle istituzioni scientifiche universitarie di oggi, purtroppo intellettualmente asfittiche e povere di mezzi, ma, soprattutto, di caratteri indipendenti! 8.- Il mito di Giordano Bruno riporta fatalmente all’Uomo, del quale non si hanno immagini sicure. Lo si sa soltanto di capelli neri, di occhi penetranti, scuro in volto, non troppo alto. Notazione, quest’ultima, che ci proviene da George Abbot, futuro Arcivescovo di Canterbury, che, irridendo l’«omiciattolo italiano», che aveva spacciato per sue idee di Marsilio Ficino, lo sberleffa col rilievo che il Nostro aveva «un nome certo più lungo del suo corpo»! Molto di più si sa, invece, del suo carattere collerico, impulsivo, incallito bestemmiatore, impenitente donnaiolo, assistito da una pervicace ostinazione posta al servizio di un’intelligenza superiore. Scrittore dallo stile scintillante, colorito, dal lessico colto, ma pure popolare, spes-

so osceno con i suoi richiami a Priapo, alla “piva” e alla “fava”, apertamente burlesco con quel suo mettere in ridere non solo le “corna”, è spirito libero, ribelle sovvertitore di ogni disciplina superstiziosamente imposta e supinamente accettata. Mai cortigiano, per quanto frequentatore di corti e di regnanti. Capace di subire la dura legge della necessità del compromesso, mai, però, fino al punto di mettere in discussione i nuclei portanti della sua filosofia. Feroce polemista, lascia dietro di sé solo nemici e avversari. Specie nel mondo accademico, oggetto preferito dei suoi strali, spesso pure più che irriguardosi! I teologi di Oxford, ai suoi occhi, non sono, infatti, che poveri pulcini «entro la stoppa», che argomentano con «inciviltà e discortesia», autentici “porci” incommensurabilmente lontani dal “napolitano” “umano” e “paziente”! Pensatore profondo e suggestivo, opera al di fuori delle istituzioni. Nel tempo classico delle accademie - l’Accademia platonica fiorentina nasce nel 1462 sotto la direzione di Marsilio Ficino - il suo titolo di gloria è di essere: «Academico di nulla Academia». Con una delle sue tante contraddizioni, per tutta la vita, aspirerà a una cattedra universitaria, rimanendo perennemente sdegnato per i mancati riconoscimenti accademici dal suo ego ipertrofico avvertiti come profonde ingiustizie! Da qui la polemica – in chiave beffarda e dissacratoria – nei confronti dell’accademismo, del conformismo, della pedanteria! Tumultuosamente ha attraversato lo scontro politico e le intemperie culturali del tempo nel quale è vissuto, lasciando un’orma profonda nel secolo. Ed oltre. Per entrare poi definitivamente nella leggenda come Empedocle. Come Socrate. Anche per quel rogo. Che non ha risparmiato neppure i suoi libri! Anche se la Storia è stata poi più forte degli Inquisitori! Perché si possono ridurre in cenere uomini e libri, ma non impedire che il pensiero continui a circolare quando la parola di verità è sorretta pure dalla fede e dalla passione! Se la grandezza di un filosofo si misura, non già sul cumulo delle conoscenze teoriche, del quale dispone, ma sul prezzo personale che ha dovuto pagare per


potere esprimere ció che ha liberamente pensato, Bruno ha sicuramente diritto di parola, ancor oggi, in questo nostro mondo appiattito dal conformismo, perché, quel prezzo, Bruno lo ha sicuramente pagato! Perché, a prescindere dalla valutazione che si voglia dare della vicenda umana di Bruno, il rogo resta! 9.- Rendendo omaggio al grande «novatore» del Rinascimento, dalla vita errabonda, noi abbiamo voluto onorare l’Uomo che, con un umanesimo civile, ha costruito l’alba di un giorno più vasto, perché, postosi al servizio della Verità, ha sottratto il giudizio etico alla morale religiosa, per precipitarlo in una dimensione furiosamente laica. Celebrando lo spirito inquieto, noi abbiamo voluto gratificare chi ci ha insegnato che “tutte cose preziose son poste nel difficile” e che, senza fatica e sudore, non è possibile raggiungere «il polo sublime della Verità»: lezioni che, sebbene sorprendentemente ancora attuali, oggi sono, tuttavia, sistematicamente neglette. In Bruno le parole e le azioni parlano lo stesso linguaggio perché la parola si fa vita e la vita si fa parola. Reverenti ci inchiniamo a questa coerenza che ci insegna che vivere la conoscenza e scrivere la conoscenza equivale a vivere la propria vita. Anche se tutto questo crea poi “travaglio”, incomprensione, disapprovazione, persecuzione! Ammirati guardiamo all’animo sensibile e generoso di chi – per primo – ha elevato una ferma protesta contro la conquista delle Americhe mascherata da scoperta: lucido lettore del vero volto dei conquistadores: autentico profeta della sorte iniqua riserbata a quelle popolazioni, alla loro cultura, alla loro lingua, alla loro religione! Parole forti a tutela del diritto di quei popoli a vivere in pace, secondo le loro leggi e i loro costumi! Sentenza inappellabile contro quegli uomini che, da presunti marinai, animati dal desiderio di conoscenza, mossi unicamente dalla auri sacra fames, si erano trasformati in vili pirati assetati di ricchezza! Onorando il Nolano, noi abbiamo voluto soprattutto onorare chi ha avuto il coraggio di dire NO fino al punto di morire «martire e volentieri» per difendere la «libertà dello Spirito, fonte di ogni cono-

Massoneria

scenza» e la «tolleranza» che sono i due poli che costituiscono il più autentico testamento spirituale di Bruno: un edificante messaggio di speranza che, ancor oggi, riscalda i cuori generosi! Ai suoi allievi di Francoforte, Bruno, in procinto di partire per Venezia, dove l’avrebbe poi atteso il suo tragico destino, raccomandò di: «fare continua testimonianza di conoscenza e tolleranza». L’auspicio è che questo fecondo insegna-

mento di amore disinteressato verso il Sapere e l’Uomo non vada mai perduto. La speranza è che pure noi ne si sia degni. Sempre e comunque. P.64, 65 e 67: Il monumento a G.Bruno di Ettore Ferrari a Roma; p.66: Testa di Filosofo, periodo ellenistico; p.68: La scuola di Atene, stampa del XVII sec; p.69: Papa Gregorio XIII, Basilica di San Pietro, Roma; p.70: Il corsaro inglese Francis Drake; p.71: Ermete e Minerva, affresco e, in basso, Ermete Trismegisto, tarsia marmorea, Siena; p.72: Mikołaj Kopernik (Nicola Copernico); p.73: Johannes Kepler (Giovanni Keplero); p.74 e 75: Pietrasanta, monumento a Giordano Bruno (foto di P.Del Freo).

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Mariano d’Ayala Lo storico dei martiri trucidati dal Borbone Antonella Orefice

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on fu un biografo delle grandi individualità, non si concentrò su una o poche emblematiche figure; lo storico Mariano d’Ayala (Fig.1) si mosse alla ricerca di una miriade di protagonisti egualmente eroi nelle diverse e drammatiche stagioni della lotta risorgimentale italiana, trovando per ciascuno di essi frammenti da consacrare alla memoria dei posteri. Uomo politico e storico del Risorgimento italiano, nacque a Messina il 14 giugno del 1808 da Raimondo, di antica famiglia spagnola, e Concetta Ragusi. Rimasto orfano quando aveva poco più di nove anni, la madre, vivendo in penuria economica, pensò bene di assicurargli un futuro avviandolo alla carriera delle armi. Così nel 1819 fu immatricolato presso la scuola militare di Napoli Nunziatella. Vi rimase sette anni completando gli studi con brillante profitto. Ottenne il grado di sergente, poi sergente maggiore e alfiere di artiglieria. Nel 1834 fu promosso a tenente colonnello e fu chiamato dal generale Carlo Filangieri in qualità di segretario della Direzione Generale dei Corpi Facoltativi. Il 26 settembre 1840 sposò Giulia Costa, una fanciulla che, più della bellezza fisica, aveva l’aureola della libertà, essendo orfana del destituito generale dell’esercito Gaetano Costa, fatto prigioniero politico nel castello di Sant’Elmo dal 1821 al ‘26 per aver preferito la miseria piuttosto che piegarsi al despota Borbone. Nonostante i sacrifici dettati dalla vita militare e dalle difficoltà economiche, il matrimonio tra Mariano e Giulia fu felice e nacquero quattro figli. Poi seguirono anni di avversità. La causa scatenante fu una pubblicazione del 1843, Una sua gita al Pizzo, in cui descrisse gli ultimi momenti del re Gioacchino Murat. L’opera irritò Ferdinando II di Borbone che gli tolse la cattedra e lo destinò alle Ferriere. Risentito per tale decisione il d’Ayala si ritirò dall’esercito, dandosi all’insegnamento privato e alle ricerche storiche, proseguite con passione per tutta la vita e da cui fiorirono numerose pubblicazioni. Proclamata la Costituzione l’8 febbraio del 1848, lotta politica a cui da liberale riformista partecipò con grande vigore, fu nominato intendente della provincia dell’Aquila, ufficio che esercitò fino al 24 giugno dello stesso anno. Poi si trasferì in Toscana,


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onde evitare l’arresto per non aver voluto appoggiare la reazione borbonica seguita ai moti del 1848. Assunse l’ufficio di Ministro di Guerra con il nuovo Ministero Costituzionale Guerrazzi Montanelli del Gran Duca di Toscana. Seguirono altri anni di stenti e di esilio. Nel 1852 approdò in Piemonte dove fondò la Rivista Militare e continuò a vivere insegnando e scrivendo anche per altri giornali politici. Nel 1855 fu nominato direttore della Biblioteca del Duca di Genova. Cinque anni dopo fu chiamato a Firenze a seguito della nomina a professore di arte militare presso l’Istituto Superiore di Perfezionamento. Tornò a Napoli non appena fu concesso agli esuli il rimpatrio, operandosi con fervore per l’Unità nazionale. Il 7 settembre del 1860, per universale acclamazione, fu eletto Comandante della Guardia Nazionale, a cui rimase affidata la città di Napoli. Da lì assunse la carica di Deputato, Senatore, Generale, Consigliere Comunale, Assessore e Vicesindaco e lavorò sempre per il pubblico bene. (Fig.2) Si spense il 26 marzo del 1877. Il Municipio di Napoli a memoria di tanto benemerito cittadino titolò la Via Santa Teresella a Chiaia, a Napoli, dove il d’Ayala aveva abitato, Via Mariano d’Ayala e gli fu eretto nel 1878 un monumento funebre nel cimitero di Poggioreale, nel recinto degli Uomini illustri, monumento che oggi versa in uno stato di pietosa incuria (Figg. 3 - 4). Mariano d’Ayala fu un uomo da molti definito eccentrico, qualità intesa pari alla forza del carattere, in proporzione al genio, al vigore intellettuale e al coraggio

morale. Modesto e scevro da vanità, non ha lasciato alcun ricordo delle sue azioni, neppure copia nei suoi scritti, perché non guardò mai alla personale gloria, ma furono tutte mosse da un appassionato amore per il pubblico bene.1 La sua anima era tormentata da un ideale terribile, che in questa vita è il supplizio più grande di tutti gli spiriti eletti. Essi non soffrono nel vedere le ricchezze, le grandezze e gli onori degli altri, ma nel vederli in coloro in cui non si trova né il sapere, né la virtù. Nel fondo di queste anime elette si agita il sentimento dell’onesto e del bene. Esse sono le più infelici della terra perché, soffrendo interiormente, attendono da una rivoluzione, da una riforma, da un nuovo governo, quella giustizia assoluta che il mondo non può dare e non darà mai. Seguendo non poche analogie con il pen1 Michelangelo d’Ayala, Memorie di Mariano d’Ayala e del suo tempo, Torino, 1886, pp.VIVII.

siero del filosofo britannico Herbert Spencer2, secondo il quale l’educazione doveva essere un processo di realizzazione individuale, per Mariano d’Ayala il gran fine dell’educazione è la libertà, ragione per cui lasciò presto i suoi figli arbitri delle proprie azioni, reputando che quando più presto il fanciullo si abitua a farsi una legge da se stesso, tanto più sollecitamente diverrà uomo. Il fanciullo che si mostra geloso della propria indipendenza imparerà presto a rispettarla negli altri e diverrà un uomo ribelle alle tirannie politiche e sociali. Fu un uomo eccentrico, volendo anche definire con questo aggettivo un uomo che pensa col proprio cervello e opera come pensa, senza badare a quel che fanno e dicono gli altri. Fu un poeta, nel perseguire senza posa alti ideali, tenendo alto il cuore, ma ferma la mente nel misura2 H. Spencer, Education intellectual, moral end physical, New York, 1891.

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re la realtà delle cose. Un poeta che rifuggì da ogni astrattezza, da ogni sentimento che non fosse azione. Le sue idee erano sempre reali, sebbene a volte potessero non essere vere per il presente, ma per il futuro. Così che l’ideale dell’Unità, degli eserciti nazionali e dell’educazione civile divennero fatti concreti, dopo che furono chiamati sogni di infermo o pazzie. Insorgendo contro ogni ingiustizia, rivelando ogni turpitudine, rivendicando ogni diritto, Mariano d’Ayala compì il suo dovere di uomo dabbene, senza guardare se fosse opera vana o meno. Gli bastò la coscienza di aver fatto la sua parte. Lasciatemi alle mie illusioni – diceva agli amici che cercavano di distoglierlo dai suoi pensieri – preferisco le nuvole alla mota. Mi si lasci almeno la libertà di lacerarmi dentro nell’animo, e andarmene a letto alle dieci, maledicendo, ma seguendo sempre la virtù.3 Rifuggiva da frequenti discorsi intorno

alla vita, impregnati di bassezze umane. Lo stesso sentimento lo guidò sempre e soprattutto nel raccogliere le memorie dei martiri della libertà. Nell’ideale del dovere d’Ayala aveva fatta la sua religione; egli non pregava, pensava, e il suo pensiero era opera e il fine dell’opera era il bene comune. Pensiero, opera e fine facevano la sua religione, la quale è antica quanto l’uomo, universale come la coscienza. Ribelle a ogni tirannia, fu avverso al cattolicesimo, nemico feroce di ogni avanzamento nelle scienze e nella libertà, che aveva accompagnato sempre l’impoverimento materiale e morale e la schiavitù politica. La chiesa aveva comandato di amare Tiberio e Nerone, Ezzelino III e Filippo II, Carlo IX e Ferdinando di Borbone, tutti cristianissimi e cattolici perfetti, tutti ministri di un Dio fatto a immagine e similitudine dell’uomo crudele, falso e bugiardo. Per tale ragione Mariano d’Ayala volse l’anima alla redenzione della Patria, non potendo separare l’odio dalla tirannide, dal disprezzo di una religione che negava il Dio della libertà e della giustizia. La memoria dei benemeriti sarà il paradiso meritato, e l’oblio de’ tristi e della gente che non fu mai viva sarà il paradiso perduto.4 Seguendo il filo rosso di Vincenzo Cuoco e Francesco Lomonaco per ritrovare le origini del Risorgimento, egli gettò un ponte tra la vicenda illuministico-repubblicana del 1799 nel Regno di Napoli e il più complessivo processo di rovesciamento dell’ordine politico della Restaurazio-

3 Michelangelo d’Ayala, Memorie… cit. p. 633.

4 Michelangelo d’Ayala, Memorie… cit. p. 656.

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ne, che ebbe origine subito dopo il 1815. Associando la lotta antiborbonica al complessivo processo risorgimentale, il d’Ayala individuava a Napoli alcuni tra i luoghi originari dell’Unitarismo. Certo, da uomo del suo tempo, considerata l’esperienza fallimentare della Repubblica del ‘99, vedeva nella casa Savoia gli antagonisti dei Borbone, coloro che avrebbero unificato e salvato l’Italia, garantendo al Sud una sana politica liberale. La Repubblica divideva, secondo il nostro, e solo una monarchia costituzionale avrebbe potuto unire e risollevare le sorti del paese. Ci credeva il d’Ayala, tanto da sostenerne politicamente e militarmente la causa e riceverne, alla fine, una grossa delusione per tutti i risvolti negativi che comportò l’Unificazione del paese sotto la monarchia sabauda, conseguenze che avrebbero dato vita alla tanto attuale e discussa “questione meridionale”. Sarebbero dovuti trascorrere i duecento anni profetizzati dal Cuoco per comprendere quanto gli eroi della Repubblica Napoletana del 1799 fossero stati, invece, lungimiranti, superando gli ideali monarchici del Risorgimento, guardando a un’Italia, oltre che libera e unificata, Repubblicana e paese della Comunità Europea. Ci sarebbero voluti due secoli ancora per realizzare pienamente un sogno che allora costò la vita di tanti giudicati rei di Stato solo per aver tentato di gettarne le basi. Mariano d’Ayala, impegnato nella scena politica, visse da protagonista tutte le fasi del Risorgimento Italiano, subendo prigioni ed esilio. Combattè e scrisse per la libertà italiana, iniziando dal celebrare i primissimi giustiziati del 1794 (Tommaso Amato, Emanuele De Deo, Vincenzo Galiani e Vincenzo Vitaliani), proseguendo con Mario Pagano, Vincenzo Russo, Domenico Cirillo, Ettore Carafa, Eleonora de Fonseca Pimentel e gli altri martiri del ’99, fino a quelli della sua generazione (tra cui Carlo Pisacane che era stato suo allievo alla Nunziatella). Nei suoi scritti celebrò il filone più radicale del liberalismo italiano, filone che aveva tratto origine e ispirazione dalla cultura illuminista, libertaria e cosmopolita e dalla Rivoluzione francese. Il “dare la vita per la Patria” o “per la Libertà” – che è concetto più preciso – costituì per lui il gesto supremo, il culmine dell’altruismo, la forma più alta dell’azio-


ne politica. Affermare che il 1799 napoletano era stato il primo esempio di una “rivoluzione attiva” in Italia (come scrisse Lomonaco) e non già una “rivoluzione passiva” (come invece sull’onda emotiva scrisse Cuoco), significava modificare radicalmente la prospettiva storica ed evidenziare che era già stato possibile, nel passato recente, trovare in Italia le energie politiche e ideali per attivare un moto spontaneo, popolare e nazionale, di liberazione e unificazione. In Vite deg’Italiani benemeriti della libertà e della Patria,5 opera postuma pubblicata dai figli, furono assemblate tutte le notizie biografiche da lui raccolte in oltre trent’anni di faticose e meticolose ricerche storiche, per le quali non mancò di denunciare la lacunosità dei documenti, insistendo presso i Comuni affinché istituissero archivi, albi, ponessero lapidi e raccogliessero cimeli per ricordare i patrioti morti combattendo o giustiziati per mano del carnefice. A Mariano d’Ayala dobbiamo le due lapidi apposte sul palazzo San Giacomo, sede del Municipio di Napoli, che commemorano i martiri della libertà italiana. (Figg. 5 – 6 – 7) A muoverlo fu certamente il desiderio di tramandare ai posteri vicende politiche e storiche di cui già nel 1871 era cominciato il decadimento. È indubbio che la Repubblica Napoletana del 1799 fu la cellula originaria delle sue idealità politiche. Le sue ultime memorie, rimaste inedite, Cronaca della Repubblica Napoletana del 1799, scritta nel febbraio del 1847, e l’altra su Le nobili donne del 1799, testimoniano come d’Ayala conservò vivi, fino alla fine dei suoi giorni, l’interesse e la curiosità per quella prima vicenda della sua patria napoletana. Mi trovo meglio tra i morti che con i vivi – ripetè spesso, e quando riusciva a trovare un autografo, un documento su Pagano, Cirillo, o su qualsiasi altro martire del 1799, per lui era un giorno di festa; tornava a casa lieto, sorridente, dimentico delle delusioni accumulate in tanti anni di carriera politico-militare.6 Dopo aver trascorso anni e anni cercando al grande archivio (oggi Archivio di Stato di Napoli), o negli archivi municipali dei

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5 M. d’Ayala, Vite degli italiani benemeriti

Comuni vicini, interrogando luoghi, palazzi, i vecchi dei paesi, alla ricerca di ricordi, tombe, cimeli di famiglia, nel suo ultimo febbraio compilò la Cronaca della Repubblica Napoletana del 1799, mettendo in ordine tutto il materiale raccolto. Fu il suo ultimo costante pensiero, come farebbe una persona che sa di dover andare via per sempre e quasi un’intima voce gli dicesse: fra pochi giorni sarai morto.7 E il 26 marzo se ne andò all’alba, stroncato da una polmonite. Morì con un sorriso sulle labbra, ultima immagine tramandataci di lui dal figlio Michelangelo, con un sorriso che lo aveva sempre contraddistinto pur nelle lotte spietate e le esigenze più impellenti della vita, un sorriso che lo aveva reso vincitore sempre e che nemmeno la morte riuscì a scomporgli. Forse era il sorriso di un’anima che, dopo un’intera esistenza trascorsa tra peripezie e tormenti, affrontava con serenità il suo bardo, consapevole di aver compiuto con amore e dedizione instan-

6 Michelangelo d’Ayala, Memorie… cit. p. 572.

7 Michelangelo d’Ayala, Memorie… cit. p. 597.

della libertà e della Patria, Napoli, 1999.

cabile la sua più alta missione: consegnare alla memoria storica i martiri della libertà. Forsan et haec olim meminisse juvabit (E forse un giorno gioverà ricordare tutto questo): furono le parole di congedo alla vita pronunciate da Eleonora de Fonseca Pimentel il 20 agosto 1799, prima di avviarsi al patibolo e Mariano d’Ayala, dopo gli esuli, è stato tra i primi ricercatori dell’Ottocento a ricordare Eleonora e con lei tutti gli altri giustiziati per mano dei Borbone, squarciando la damnatio memoriae da loro inflitta allo scopo di distruggere anche il ricordo dei sei gloriosi mesi della Repubblica Napoletana. Un lavoro, quello del d’Ayala, prezioso e impagabile a cui ogni ricercatore di verità e giustizia non può che esserne umilmente grato.

P.76: Napoli, olio su tela, XVIII sec; p.77: Ritratto di Mariano d’Ayala e documento d’epoca recante il suo nome; p.78: Napoli, tomba del d’Ayala; p.79: Lapidi all’ingresso del Municipio di Napoli (vd. testo).

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Secoli d’oro o secoli di ferro: quale Rinascimento? Ida Li Vigni

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ell’immaginario comune i secoli XV e XVI, almeno per l’Italia, appaiono come una parentesi felice, un’età prospera e opulenta che abbraccia indiscriminatamente tutta la società del tempo. Un errore di valutazione che, al pari di quello che taccia il Medioevo di essere un’età buia e immobilistica, scaturisce dall’aver buona parte della storiografia ottocentesca (e non solo) assunto come verità storica le compiaciute dichiarazioni degli umanisti convinti di aver restaurato la mitica “età dell’oro”, fugando le tenebre di un’età oscura che avrebbe occultato e soffocato la luce degli antichi. Ed è così che nasce il mito, difficile da scalfire, della nascita ex novo di una cultura radicalmente “altra” da quella che l’aveva preceduta, ovvero del sorgere trionfale della luce dalle tenebre, del sapere dalle ceneri dell’ignoranza, della civiltà dalla infelice barbarie. Come è stato giusta­mente osservato da Paolo Aldo Rossi: “ ... diventa difficile scrivere la storia del Rinascimento senza ridisegnare completamente le linee di supporto della cultura ivi espressa, senza tentare di far nuova luce sull’effettivo clima cultu­rale di un’epoca che quando viene scandita su di una matrice mo­novalente (in questo caso la luce che squarcia le supposte tenebre medievali) si lascia fraintendere. ...” In altre parole: senza negare l’indiscutibile straordinaria fioritura artistica e culturale umanistico-rinascimentale, bisogna prendere atto e dare ragione del fatto che i secoli XV e XVI furono il palcoscenico in cui la decadenza politica e le miserie materiali spesso si nascosero dietro la maschera delle nuove aperture della mente e dello spirito, dando corpo ora all’idea di un’epoca di profonda crisi ma rivolta alla renovatio, ora al sogno di aver conquistato e forgiato il massimo apogeo della civiltà occidentale. Una dicotomia per altro vissuta dagli uomini che furono gli attori di quell’epoca e che si divisero in due fazioni: i fautori della rinascenza e della renovatio (Petrarca, Valla, Pico, Ficino, per fare i nomi più scontati) e i testimoni della crisi (da Jean Froissart, pressoché unico nel denunciare i drammi dei miserabili, ai “riformatori” Wycliff e Hus), i teorici della nascita di una nuova civitas terrena (dal Salutati all’Alberti) guidata dalla ragione e dal persegui-

...delle idee

mento del bene comune (progetto che presto però assume le forme dell’utopia visto che alla storia non si può sfuggire) e i disincantati filosofi della politica che riconducono le leggi del potere e del vivere civile alla luce del principio inconfutabile che l’uomo è malvagio di sua natura e che sempre sarà “lupo per l’uomo”. Di fatto, se si guarda alla realtà sociale ed economica dell’età umanistico-rinascimentale non si può non riconoscere che ci si trova in un contesto meno attivo e dinamico rispetto all’Italia del XIII secolo e della prima metà del secolo successivo, un’età dell’oro caratterizzata dall’energica e vivacissima esperienza comunale sia sotto l’aspetto economico che sotto quello politico cui posero fine,

mettendo in crisi il sistema della mercatura e l’ascesa politica della borghesia, la Peste Nera che nel 1348 spopolò un terzo della popolazione europea avviando un endemico impoverimento generale, e la progressiva avanzata dei Turchi nel bacino mediterraneo, che colpì i mercati delle spezie e ridusse i traffici. Dalla metà del Trecento, per oltre un secolo, dunque in pieno periodo umanistico, i soldi e le merci non girano più come duecento anni prima e i settori commerciali e manifatturieri in Italia e in Europa si ritrovano arenati in una congiuntura di sostanziale improduttività e paralisi. Un altro fattore destabilizzante per il dinamismo economico comunale fu la comparsa della signoria, istituzione po81


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litica chiave e caratteristica dell’epoca rinascimentale, spesso celebrata nei libri di storia come la principale artefice della straordinaria fioritura delle arti ma in realtà estranea alla mentalità imprenditoriale, tanto che la sua apparente stabilità finisce con il frenare la circolazione dei capitali e il loro continuo rinvestimento. Nelle grandi città rinascimentali le nuove meraviglie architettoniche sono finanziate con grandi e ricchi appalti edilizi finanziati da capitali che non si riesce o si vuole investire in altro modo, mentre il resto del denaro viene utilizzato per le numerose committenze artistiche, il mantenimento delle corti e il desiderio 82

da parte della nuova nobiltà di circondarsi di arte. Un’economia che nel lungo tempo risulta statica e drenata rispetto a quella della fiorente età comunale, come statico torna ad essere il sistema sociale: non più il dinamismo sociale e le istanze ‘pro-liberali’ dei Comuni ma l’immobilismo e la perdita dei nuovi diritti e dei nuovi poteri che la borghesia era riuscita con fatica a conquistare. Senza contare che l’affermarsi di un’economia agricola fondata sul latifondo e sulla monocultura si ritorce contro i piccoli contadini e mezzadri, aumentando a dismisura la povertà nelle campagne e instaurando quel ‘paese della fame’ che almeno anco-

ra per più di due secoli sarà il terrore dei pochi benestanti delle città e del contado. È evidente dunque come il XV secolo e il Rinascimento nascondano profonde ambiguità dietro la facciata apparente di tanto splendore e ricchezza; aspetti negativi che fanno da sfondo a un’evoluzione esclusivamente di tipo artistico e culturale che non ha nessuna ripercussione su una società che di fatto non vede sicuramente migliorate le sue aspettative e qualità di vita rispetto ai precedenti secoli medievali. Anzi, tutt’altro. Ulteriore elemento non totalmente positivo: il Rinascimento è un fenomeno strettamente elitario che si sviluppa nel-


la sua quasi interezza a livello di corte; corte (e con essa la cultura) che si stacca dalla dimensione cittadina e accentua la dimensione elitaria della partecipazione alla vita artistica; mentre al contrario, nel Duecento e per buona parte del Trecento, i centri culturali erano quasi esclusivamente le università. E si erano aperti alle nuove classi emergenti. Certo, non si può certo negare il ruolo giocato dalla prima generazione di Umanisti nel progettare una nuova visione del mondo che avrebbe dovuto restituire all’uomo una forte autonomia spirituale, culturale, filosofica, storica e scientifica; una visione che avrebbe dovuto tradursi in una sorta di movimento di liberazione volto a ripristinare il ruolo di attore principale ricoperto dall’uomo nella natura e nel mondo. La spinta nasce dal fatto che gli uomini del primo Umanesimo vivono un periodo di crisi dei valori e delle istituzioni: il Papato e l’Impero sono in declino, il Feudalesimo va lentamente estinguendosi, come l’economia rurale nei confronti della nascente economia urbana, e la borghesia inizia la sua ascesa negli stati signorili italiani, prevalendo sul ceto nobiliare, che perde la sua importanza. Di contro a questo scenario gli Umanisti (e per primi Petrarca, Boccaccio, Salutati) rivendicano per l’uomo un nuovo posto nel mondo e quindi accettano la crisi dei valori ritenendo di poter costruire una realtà migliore. Il nuovo uomo è un uomo che vive nella natura e nella storia e quindi come essere naturale ha dei bisogni che devono essere soddisfatti e come essere storico deve essere agente delle trasformazioni politiche e deve agire all’interno della civitas. Nascono da ciò due esigenze, una a carattere storico, che mette l’uomo nella giusta relazione col suo passato (qualcosa che viene prima e a cui guardare, ma non da cui farsi imprigionare), e una a carattere filologico, che ha come obiettivo quello di ricostruire la sapienza antica nel giusto modo. Un altro dei cardini umanistici è il nuovo ruolo della religione e della tolleranza religiosa. Gli Umanisti sono convinti che le confessioni religiose sono diverse solo strutturalmente ma non nella natura, poiché tutte inevitabilmente tornano a un principio cosmico, a un’unità spirituale che è la ri-

...delle idee

cerca della Verità. In quest’ottica l’uomo diventa depositario della fiducia di Dio che lo ha posto come protagonista del Suo Regno e si pone altresì in un rapporto diverso con la natura. Per essere più precisi: l’uomo è un essere intermedio, un essere in cammino, ovvero si colloca nel mezzo dell’universo, è copula del mondo e da questa posizione può tanto regredire, volgendosi verso le proprie componenti bestiali, animalesche, rimanere ottuso e schiavo dei meccanismi istintuali, quanto volgersi verso l’alto, alimentare la scintilla divina ch’è in lui fino a farla divampare. L’uomo quindi non è un essere dato, ma è faber fortunae suae, artefice del proprio destino. In questo sta la sua grandezza, la sua dignità: egli stabilisce da se stesso la propria posizione nel cosmo. Inoltre l’uomo è un essere perfettibile: come amplia di continuo l’ambito della propria libertà nei confronti della natura esterna a sé, superando gli ostacoli che questa pone alla sua affermazione, cosí di continuo si confronta con gli ostacoli che all’espansione di ciò che è propriamente umano nascono nel mondo umano stesso. La piena realizzazione di sé, la piena libertà, non viene mai raggiunta dall’uo-

mo, ma egli sempre di nuovo si pone in cammino verso la sempre piú compiuta realizzazione del suo mondo. Questa nuova visione del mondo e dell’uomo però non riuscì a modificare nell’immediato la realtà del tempo e nel giro di pochi decenni emersero le ambiguità e le contraddizione effettuali che il grande sogno umanista aveva tentato di dissolvere. Così accanto ai miti dell’uomo genio assoluto e nuovo Demiurgo si affiancano gli spettri del Male e del grande Avversario e gli strumenti che dovevano servire a garantire il trionfo di un rinnovato razionalismo vengono utilizzati in altra direzione: a dar corpo alle sofferenze del corpo e agli smarrimenti dello spirito. Il fatto è che il mondo rinascimentale ha perduto il proprio centro, sicchè gli uomini si sentono in balia di forze oscure e malvage che li trascinano verso l’abisso; alla luce della ragione si sostituisce allora la presenza del Male che sembra attestarsi saldamente sulla terra, tanto che il regno degli uomini si trasforma in un universo corrotto e caotico che nulla ha a che invidiare con quello degli Inferi. Assediati dall’esterno e dall’interno, ossessionati da un’angoscia profonda 83


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che di volta in volta si incarna in nemici sfuggenti e insidiosi, gli intellettuali del Rinascimento scoprono con orrore che l’Avversario è ormai in loro, che (come proclama Thomas Nasche) “l’uomo è un demonio per l’uomo” e che la società umana è un mondo alla rovescia dove ormai regnano l’egoismo e la legge del più forte. Di fronte a tale drammatica rivelazione c’è chi si rifugia nella sua torre d’avorio a teorizzare d’armonia e di bellezza e c’è chi si affianca agli uomini della Chiesa per combattere i servitori di Satana, ma c’è anche qualcuno che ne trae una cinica quanto realistica lezione di politica che lo spinge ad analizzare con spietata lucidità le leggi del potere e del vivere civile alla luce del principio inconfutabile che l’uomo è malvagio di sua natura e che sempre sarà “lupo per l’uomo”. Questo qualcuno fu in primis Niccolò Machiavelli, il quale non si limitò a insistere sulla necessità di fondare l’azione politica sul dato evidente che gli uomini sono egoisti e malvagi (portando evidentemente a compimento una riflessione che affonda le sue radici nel primo Umanesimo), ma si preoccupò anche di portare sulla scena lo spettacolo desolante di 84

una società in cui, volenti o nolenti, è necessario farsi “volpe e leone” per sopravvivere e in cui anche il diavolo è costretto a battere in una assai poco dignitosa ritirata pur di sfuggire all’avidità e all’astuzia umana. Certo, artisti, filosofi, architetti, musicisti e letterati continuavano nella loro opera di “abbellimento” della civitas, ma di fatto quella vagheggiata civitas si esauriva nel chiuso delle corti e delle dimore patrizie e tutto rimaneva ristretto a una piccola percentuale dei suoi abitanti. Il resto degli uomini ne erano non solo esclusi, ma anche privati della pietas della civitas Dei del Medievo. Né va sottaciuto un altro paradosso: la scoperta di nuovi mondi, la caduta del tabu del naturale nell’immediato invece di favorire un’autentica renovatio della città dell’uomo, spingono in direzione opposta, generando intolleranza e paura delle possibili trasformazioni. Per quei moti mai rettilinei e progressivi che tracciano le vie della storia delle idee gli strumenti (la filologia e la ragione) con cui gli umanisti si illudevano di poter demiurgicamente trasformare il mondo e l’uomo finiscono con il cristallizzarsi nel principio del canone, un prin-

cipio che viene applicato rigidamente a tutte le forme praticate e note del sapere al fine di fissare la realtà in una struttura armonica e univoca. Una siffatta forma mentis non poteva naturalmente lasciare spazio al­cuno al disarmonico e all’irrazionale, dal momento che l’irruzione improvvisa del diverso provoca una perdita di senso e di conseguenza minaccia di nullificare la realtà stessa. A ben ve­dere, i letterati e gli intellettuali dell’età umanistico-rinascimentale nascondono dietro la loro ossessiva ricerca della Bellezza e dell’Armonia un identico timore destinato a trasformarsi, sotto il peso di una tradizione religiosa dominata dall’antinomia Bene-Male, in un incubo: la rottura dell’armonia provocata dalla com­parsa del diverso, del non riconducibile a regole o canoni. Quando la rottura si verifica, viene spontaneo di identificare (e quindi di fissare in termini logici) l’elemento disarmonico utiliz­zando un patrimonio immaginale che la cultura religiosa aveva già fissato nel corso del Medio Evo attraverso la focalizzazione di due simboli “realtà” del Caos: il Diavolo e la Strega. Posti dinnanzi a paure per così dire ancestrali che venivano a sommarsi con le paure storicizzabili del tempo, oscillanti fra un sapere che tutto ri­conduceva a canone “costruttivo” e l’incertezza cognitiva, molti lette­rati del XV e XVI secolo finiscono col presentare ai nostri occhi un comune stato schizofrenico, uno sdoppiamento lacerante, non solo culturale ma altresì interiore, fra erudizione classica e visce­rali credenze superstiziose, fra ratio e disordine intellettuale. E se il timore scaturisce da identiche radici emotive e culturali, identico è il modo di reagire facendo ricorso alle strutture cognitive già note. In altri termini: per esorcizzare il diverso e il disarmonico li si riduce, attraverso rigorosi processi logici, alle dimensioni ras­sicuranti (perché conoscibili) di un nuovo canone. E poco importa che questo gioco dell’intelletto, dove la logica si riduce a mera coerenza formale, venga impiegato non per dare ragione dell’esistente, ma per provare la realtà del sovrannaturale e per conferire un’identità concreta a quanto sfug­ge a ogni regola definitoria. Quando l’angoscia ha il sopravvento e vengo-


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no meno le certezze spirituali o metafisiche, quando il mondo appare come un qualcosa che sfugge a qualsiasi forma di controllo e la conoscenza vede allargarsi i suoi confini senza che sia possibile arrivare a una qualsivoglia verità, allora l’uomo per non farsi strascinare dal fiume dell’incertezza deve erigere nuove difese: rinchiudersi nella celebrazione del Bello e dell’Armonia assoluti e parallelamente individuare ed eliminare quanti, palesemente estranei ai canoni di Bellezza, Armonia e Perfezione, fanno irrompere il caos, il disordine, il brutto. Bisogna dunque finalmente riconoscere che i “secoli d’oro” della Rinascenza, con il loro continuo sovrapporsi e susseguirsi di guerre, carestie, persecuzioni ed epidemie, furono anche i tempi negati alla

speranza, i tempi in cui l’armonia mundis me­dievale e il “tabù del naturale” incominciavano a vacillare sotto l’incalzante comparsa del disarmonico e del “naturale”. Chiusi nella loro torre eburnea di élite culturale, gli intellettuali del tempo si smarrirono di fronte al crollo delle tradizionali cer­tezze cognitive e cercarono nei relitti di una cultura che ormai non dava più ragione del contingente gli strumenti indispensabili per un ritorno all’ordine. Ecco perché la loro voce non si levò in di­ fesa dei diritti di quella ragione che pure essi andavano cele­brando come suprema virtù del sapiente: il loro bisogno interiore di sicurezza e di pace li spingeva a dare una realtà fisica alle incer­tezze individuali e collettive, a cercare un capro

espiatorio per dare un senso alla propria impotenza. Per riprendere ancora quanto detto da Paolo Aldo Rossi: “La peste, le carestie, le guerre, le rivolte non furono i soli flagelli che costantemente ricadevano sulle torme di miserabili che dovevano percorrere gli itinerari della paura, ma stavano per sorgere i tempi dell’intolleranza, della persecuzione, della repressione e dell’eclisse della ragione ossia gli intinerari negati alla speranza. In questa prospettiva l’oro degli artisti, dei filosofi e dei letterati si presenta, sul piano della storia sociale, come una patina che ricopre la nascente Età del Ferro.” P.80/85: Armature rinascimentali provenienti da diverse collezioni private.

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Fede e Libero pensiero ‘A Francois Salfi Napolitain, ses derniers voeux ont étè, pour la libertè de sa patrie’ Gerardina Laudato

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rancesco Saverio Salfi, filosofo, educatore, letterato, matematico, uomo libero e patriota passò all’Oriente Eterno il 2 settembre 1832. La lapide che proteggeva le sue spoglie, nel cimitero di Père Lachaise a Parigi, recava l’epigrafe: A Francois Salfi Napolitain/ses derniers voeux ont étè/pour la libertè de sa patrie. Esule, con tanti altri che non dismettevano l’aspirazione ad un’Italia libera, una e repubblicana, faceva parte di un comitato le cui intelligenze operavano per l’insurrezione e il conseguimento della loro visione politica. Nello stesso comitato operava il suo antico compagno di lotta, Filippo Buonarroti, con cui era in rapporti già dal 1796. Ne fa fede una lettera scritta il 3 maggio di quell’anno, inviata «aux citoyens Celentani, Selvaggi, Buonarroti et à tous les amis de la libertè francaise et italienne» testimone della profonda delusione che l’armistizio di Cherasco aveva generato negli animi dei molti fuorusciti che avevano riposto in Napoleone le speranze di realizzazione del loro disegno libertario. Nelle vesti di presidente della Giunta liberatrice Salfi fu il primo firmatario del Proclama al popolo italiano dalle Alpi all’Etna del 1831, vero e proprio inno alla unità ed alla repubblica. Ne cito alcuni brani esemplari: «non può esistere libertà senza indipendenza, né indipendenza senza forza, né forza senza unità. Adopriamoci dunque affinché l’Italia sia al più presto indipendente, una e libera». L’appello conclusivo «cadano i tiranni, s’infrangano le corone e sulle ruine loro sorga la repubblica italiana una e indivisibile dalle Alpi al mare» esplode con la medesima urgenza appassionata che ritroviamo negli accenti delle sue tragedie o col fervore di spirito libero che costituisce la trama dei suoi scritti giornalistici e dei suoi lavori antropologici e sociali pervasi dal fervore di un ideale tutto giocato sulla realizzazione del progresso del genere umano mediante l’educazione degli individui e le giuste legislazioni. Dieci anni prima, nel 1821, dall’esilio parigino aveva dato alle stampe il volume L’Italie au dixneuvième siècle, ou de la nécessité d’accorder, en Italie, le pouvoir avec la liberté. Al di là dell’importanza che questo scritto ricopre per la innovativa proposta rispetto ad una costituzione federativa degli Stati dell’Italia geografica sul modello

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della federazione germanica. La realizzazione di una fattiva libertà costituzionale può essere fondata solo sull’indipendenza politica «…de’ Principi e de’ loro Stati e dell’Italia intera…» sostiene Salfi che individua nello strumento della confederazione di tutti i Principi la soluzione più adeguata «…Non vi è altro mezzo di dare a questa nazione un carattere d’insieme, d’unità e di vita politica…» egli scrive spingendosi anche oltre nella sua visione. La sua riflessione sull’asseto politico d’Italia si proietta in una dimensione europea anticipando temi e problemi che saranno oggetto di successive valutazioni e sviluppi teorici. L’opera si conclude ribadendo ancora, con forza, il disegno morale primo e più urgente dell’autore: la felicità dei popoli. Che può essere perseguita avendo il possesso della libertà che è autonomia di pensiero; virtù capace di assumere decisioni legislative utili al miglioramento del bene dei popoli. Nella legge sull’abolizione dei diritti feudali, emanata sulle ultime battute dello splendido sogno della Repubblica Partenopea e recante anche la firma di Francesco Saverio Salfi, è ribadito che «niun cittadino può essere astretto a far quello che la Legge non prescrive».

E, qualche mese prima, nelle Istruzioni generali del Governo provvisorio, di cui Salfi fu membro eccellente, è chiarito che «… la libertà consiste in ciò, che ogni cittadino possa fare ciò che non gli è vietato dalla legge, e che non nuoccia ad altro». Inseguì per tutta la vita due grandi sogni: la realizzazione dell’Italia libera da oppressioni, una e repubblicana, la libertà di pensiero che conferisce all’uomo la potenza delle scelte, l’efficacia delle azioni e l’empatia con l’altro nel principio inalienabile dell’uguaglianza dei diritti. «Risorga - scrive in un suo articolo per il periodico milanese Il termometro politico della Lombardia - la forza fisica, morale e politica ch’essa ha da più secoli infelicemente perduta». E, ancora, in un appello del maggio 1797 pubblicato sul Giornale de’ patrioti d’Italia: «Oh patria, o nome che un cittadino non proferisce senza emozione, ma che non ha alcun significato sui labbri de’ popoli incurvati sotto il giogo de’ tiranni… - e prosegue più avanti - dentro la vostra fortunata penisola non esistono altre divisioni che quelle che vi hanno seminato la tirannia straniera da una parte e la superstizione papale dall’altra…». Una lunga vita, quella di Franco Salfi, 87


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come volle farsi chiamare dopo la fuoruscita dall’Italia, forse per dare maggior forza alla valenza di uomo libero che lo connotava. Una vita alimentata al fuoco di una fede condivisa con gli intelletti di tanti, italiani e stranieri che ripulirono, col turbine delle idealità illuministe, raziocinanti e progressive, i cieli dall’oscurità delle nebbie dei fanatismi e dei despotismi. Una vita che prende le mosse attingendo alla sorgente di menti vivaci ed entusiaste, di giovani intellettuali cosentini allievi di Genovesi i quali, tornati a Cosenza, trasferiscono il brivido delle nuove idealità nel cenacolo eccellente dell’Accademia de’ Pescatori Cratilidi, nelle menti e nei cuori di giovani come il Salfi. L’intera Calabria nutre nel suo seno giovani innamorati dell’idea di libertà intellettuale che fa assaporare in pieno il senso di partecipazione alla costruzione di una so88

cietà affrancata da oscurantismi e terrori irrazionali, governata da leggi che tutelino, come è detto nel preambolo della legge del Governo provvisorio sull’abolizione dei diritti feudali «…la sicurezza che hanno gli individui di godere de’ loro diritti e di tutti gli altri beni». Molti di costoro daranno vita alla Repubblica Partenopea del ‘99. Esperienza prima sul territorio italiano dello spirito illuminista e giacobino, maturata nei cuori e vagheggiata negli intelletti di uomini educati alla lezione culturale e morale di elettissimi Maestri. Una esperienza che, pur esaurita nell’arco di cinque mesi, varrà come cuneo destinato a svellere un sistema di potere clericale e civile e come fondamento solido per gettare i muri portanti per la formazione di una nazione unita e consapevole dei suoi diritti civili ed umani. Chi scrive si è soffermata molto a riflettere

su un aspetto che ritiene debba essere osservato con rispetto per meglio comprendere le sorgenti di forza cui attinsero tanti protagonisti di quel momento storico. La capacità, cioè di mantenere costante e solida una catena spirituale di aspirazioni e intenti capace di non intaccare mai la realizzazione di un progetto comune benché molti cadessero falciati dalla violenza delle reazioni del potere di cui contrastavano l’egoismo e l’ottusità. Un veloce sguardo su alcuni scorci della società come si configura, in particolare nel regno di Napoli, a cavallo tra la seconda metà del ‘700 e i primi decenni dell’800, ci servirà per meglio entrare nel carattere e nel pensiero di Francesco Saverio Salfi e coglierne al meglio l’essenza. Ci soffermeremo perciò, un poco, ad osservare gli eventi che disegnano la scena in cui si muovono uomini e idee gettando un particolare fascio di luce sulla sua prima patria: il regno di Napoli o delle due Sicilie che dir si voglia. Inizieremo citando brani contenuti in una lettera scritta, sul finire del ‘700, da Johann Gottfried Herder, allievo prediletto di Kant ed amico di Goethe. «La libertà di pensiero – afferma il filosofo – illumina e predilige il popolo di Napoli più che altro luogo d’Italia - e continua affermando che nei diversi luoghi di questo grande regno - si erano prodotte opere eccellenti sulla filosofia dell’umanità e sull’economia dei popoli». E già cento anni prima di Herder, il francese padre Germain in visita a Napoli nel 1685, notava, in una lettera, riportata nel saggio di Mabillon-Montfaucon Correspondance inédite avec l’Italie, che gli spiriti più belli del regno di Napoli erano i più accurati ed attenti ricercatori delle opere di Cartesio che studiavano per comprenderne appieno il pensiero. Sono state citate affermazioni di due uomini distanti nel tempo e diversi per nazionalità e sentimenti, al fine di dare l’avvio all’esame di una problematica e dei molteplici aspetti che sostanziarono pensiero ed azione politica di intellettuali, come il Salfi, cui va imputato il merito di aver segnato una rottura con il passato. Un passato fatto di rassegnazione e di cieca obbedienza da superarsi in forza di un atteggiamento della mente che assuma l’affermarsi della ragione come criterio di giudizio e di orientamento in tutti i cam-


pi della vita dell’uomo. Solamente a queste condizioni sarà possibile consentire ai molti di approdare ad una società civile libera da qualsiasi tirannia, cosciente dei suoi diritti, da acquisire e difendere per il tramite della retta amministrazione della giustizia e dell’educazione, della pratica delle scienze e della responsabile cura dei territori. Gregorio Mattei, calabrese, martire sui patiboli del ’99, affermò che «I giacobini di Napoli furono i primi che dettero il grido all’Italia sonnacchiosa. Quando altri appena ardiva pensare, quando pareva ancora dubbia la sorte della Francia medesima essi, giovani, inesperti, privi di mezzi ma pieni d’entusiasmo per la libertà, d’odio per la tirannia, tentarono un’impresa difficile, vasta, perigliosa, che, se non fosse andata a vuoto, gli avrebbe resi immortali e felice l’Italia». Quegli uomini, fra cui annoveriamo l’abate Francesco Saverio Salfi, erano figli di una cultura assimilata attraverso la pratica quotidiana con il pensiero di filosofi, che, dovunque in Europa, da Erasmo in avanti, attraverso Galilei e Gassendi, Campanella e Cartesio, Telesio e Locke, Shaftesbury e Diderot, Montesquieu ed Helvetius, avevano posto le pietre miliari dello spirito laico. E perciò del libero esercizio del pensiero capace di affermare, quando ne esistano le cause, il dissenso religioso e sociale, capace, altresì, di innescare il dibattito sulla tolleranza, di generare le feconde utopie che innescano le riforme della società, la rifondazione del sapere, l’organizzazione della ricerca, l’affermarsi del giusnaturalismo e dell’autonomia della morale e del diritto. Si connotavano, in sintesi, per una cultura che Benedetto Croce, definisce «accordo di mente e d’ animo, circolo vivo di pensiero e di volontà, e religione: non quella religione dell’ ”antico errore”, l’errore della trascendenza, né quel torbido sentimentalismo mistico, che ora si procura rinnovare nella melensa religioneria dei giorni nostri con le sue vanitose esibizioni di falso fervore (contro cui non lascerò mai fuggir occasione di manifestare disprezzo e disgusto, e che quasi mi fa oggi aborrire lo stesso sacro nome di “religione”) ma la religione come unità dello spirito umano, e sanità e vigoria di tutte le sue forze. E di questa religione Napoli assai allora difettava, nonostante le sue chiese, i suoi monasteri, le sue

pratiche di penitenza, che mostravano la loro inanità nelle loro incapacità a diventare principio di rinnovamento civile, e in quello stesso piegarsi e accomodarsi alle condizioni presenti, e puntellarle e mantenerle immote. Una nuova religione civile non poteva formarsi se non con un nuovo moto di pensiero, segno e strumento insieme di un elevamento degli animi»1. La cultura del reame napoletano in età illuminista è quella che metabolizza le esperienze di pensiero internazionali ma che, nel medesimo tempo, produce intelletti potentissimi nel cui codice genetico è andata maturandosi l’eredità di giganti della speculazione come Giordano Bruno, Campanella e Telesio, di matematici e medici come Leonardo di Capua e Tommaso Cornelio, allievo quest’ultimo di quel Marco Aurelio Severino, seguace di Tommaso Campanella, sodale di Torricelli e merite-

vole di aver introdotto a Napoli le opere di Cartesio, Hobbes e Gassendi, di giureconsulti come Francesco D’Andrea, Gaetano Argento e l’Aulisio, e letterati come il Valletta fondatore della cattedra di greco. I giacobini napoletani erano il portato della vigorosa tradizione anticurialista che

...delle idee prendeva le mosse, fin dal medioevo, da Pier delle Vigne, alla corte di Federico II di Svevia, per arrivare alla visione laica e giusnaturalistica di Pietro Giannone, ispiratore di uomini come Intieri e Genovesi, a loro volta fonti nobilissime e limpide di un sistema di pensiero illuminato che avrebbe guidato i moti dell’anima, la produzione culturale e di azione politica di figure come Pagano, Cirillo, Pasquale Baffi, Caracciolo e Filangieri, e Salfi e Spiriti e, an-

1 B.Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari, 1966 p.142

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cora, Domenico Bisceglia e Raffaelli, Pimentel Fonseca e Poerio e Logoteta. Innumerevoli spiriti colti, nobili e borghesi, che diedero vita alla rivoluzione del ‘99 e, in gran parte, sacrificarono la loro esistenza sul patibolo in nome dei diritti umani e della libertà. La Istoria civile del Regno di Napoli dello scomunicato Giannone, data alla luce nel 1723, contiene, infatti, un importante punto di forza; la tesi fondamentale che gli intellettuali riformatori come Salfi fecero propria: la dimostrazione storica delle usurpazioni del clero e del papato ai danni del potere civile del regno di Napoli. Che era già stata fatta propria dal fiorentino Bernardo Tanucci, meritevolissimo ministro prima di quel Carlo di Borbone, Signore di Napoli e futuro Carlo III di Spagna, e poi di suo figlio Ferdinando IV. Al Tanucci, cattolico osservante, ma lucido ed onesto amministratore va ascritto il merito di aver promosso e adottato una 90

serie di iniziative politiche, non ultima l’espulsione dei gesuiti dal regno (1767), tese ad arginare lo strapotere e le numerose immunità del clero fra cui le pressanti e continue richieste di esenzione dalle tasse. Ci piace ricordare il giudizio formulato dallo storico Venturi che, a tale riguardo, definì la politica del Tanucci un “giannonismo senza Giannone” . Per comprendere la straordinaria qualità dell’opera di Pietro Giannone basti citare alcuni episodi. Costantino Grimaldi ne segnalava il valore all’abate Lodovico Muratori con queste parole: «Taglia a tonno qualunque genere di persone e preciso gli ecclesiastici - Il Muratori confermava - di libri siffatti non se ne vede in Italia. Doveva egli prevedere tutto quello che gli è poi avvenuto. Ma questa povera verità, oh quanto è mal veduta da molti!». Libri di una tale profondità erano rari anche all’estero. Gli Inglesi se ne accaparrarono immediatamente un gran numero

di copie nell’edizione originale (cosa che aumentò le ire dell’inquisizione). Dalla Francia Voltaire ne parlerà in modo entusiastico e Montesquieu scriverà lamentando che ci sarebbe voluto anche per la Francia un’opera come quella Une histoire civile du royaume de France comme Giannone a fait l’Histoire civile du royaume de Naples. A Padova gli offriranno la cattedra di giurisprudenza, ma l’inquisizione aveva compreso che «per purgare l’umanità da un seme che potrebbe un dì germogliare in una universale infezione, sarebbe stata cosa utilissima prenderlo e processarlo». D’altronde il Settembrini, nel commentare, nelle sue Lezioni di storia della letteratura italiana, la scomunica e le successive persecuzioni di cui Pietro Giannone fu fatto oggetto, senza che queste avessero nessuna motivazione di ordine teologico, scriveva: «se negavi Dio il prete alzava le spalle e diceva che Dio ti avrebbe punito; se negavi il potere temporale, ti chiamava ateo, non ti perdonava mai e se poteva ti bruciava vivo». I giuristi napoletani erano, per la gran parte, a detta di Metastasio, un’ardente falange antivaticana, e più che consapevoli del fatto che il loro collega difendeva i diritti civili contro i soprusi del clero che possedeva i due terzi delle terre del regno e godeva di una infinità di privilegi inalienabili che legavano le mani allo Stato e lo immiserivano con le loro ingerenze e le continue usurpazioni. La lezione del Giannone costituì una semente privilegiata da spargere nelle menti di uomini della tempra morale e intellettuale di un Genovesi. In una delle sue lettere dirette ad un giovane signore che abitava in provincia egli scrive: «Stimo che i giovani letterati ed amanti della loro patria, niuna cosa debbano tralasciare per animare la gente bassa all’agricoltura e alle arti. Potrebbero in molte maniere ciò fare, prima con istudiare esattamente queste cose e comunicare i più utili precetti agl’ignoranti; secondo, con far anch’essi delle osservazioni per migliorare le derrate, l’agricoltura, le arti; terzo, con tradurre qualche utile libro o comporne essi dei brevi e facili; quarto con procurare che la gente bassa sapesse leggere e scrivere ed un poco d’abbaco, cosa che potrebbe recare infinita utilità a tutti i mestieri». In un’altra delle sue lettere si riferisce al suo maestro l’Intieri, che sembra incarnare le


aspirazioni e le visioni Illuministiche, definendolo: «l’amico del genere umano», «anima bella e grande, ed esemplare di tutti coloro che non sono dimentichi di essere della famiglia degli uomini» la cui azione non è mai immemore della necessità di operare per dare corpo e sostanza al «…nome della pubblica felicità». Sull’onda di questi moti dell’intelletto e dell’anima la lezione di Genovesi giunge in Calabria, contrastando le pesantezze retoriche di una pedante cultura pregna di retoriche, soffocata dai dogmatismi di impronta scolastica in uso nelle scuole gesuitiche. Trova un ambiente favorevole, come dicevamo all’inizio di questa comunicazione, nel cenacolo vivace dell’Accademia dei Pescatori Cratilidi fondata a Cosenza nel 1756. Diventa ossigeno di libero pensiero, arma ben temprata da rinnovata fede, scevra da superstizioni e paure, da esaltazioni emotive incontrollate e fanatismi, tessuta da trame di virtù attiva e rispetto per il genere umano. Arma di una battaglia morale attraverso la guida di intelletti versati nella pratica della filosofia, delle scienze, dell’economia, del valore di Pietro Clausi, Domenico Cordopatri, Domenico Antonio Gully, capaci di cambiare ordinamenti, strutture, mentalità. In alcuni versi di sapore foscoliano proprio il Salfi ripercorre con la memoria l’ambiente culturale di impronta clericale che paralizzava certi contesti formativi della sua città prima della ventata portata dai nuovi maestri. Veggio le scuole, ove illuser la incauta mia gioventù di volgo ignaro, i detti e il rigor d’un pedante, o di un rabbioso filosofo l’orgoglio e la follia e parmi che il frastuon dentro ancor vi oda di quelle voci, dal destin dannate a stordir sempre, ad instruir mai. Nei territori della Napoli illuminista, gli intellettuali respirano la vivacità culturale del caustico e brillante Ferdinando Galiani che si inserisce anche nel dibattito sul nuovo corso delle teorie economiche con il trattato Della moneta, pubblicato nel 1750, nel quale muove critiche severe al sistema mercantilistico. Si imbevono delle ragioni più specifiche dell’Illuminismo seguendo le lezioni di scienze economiche e leggendo i lavori del Genovesi, educatore e maestro, cui grazie all’Intieri, nel 1754, fu assegnata la prima cattedra europea di economia politica.

Si entusiasmano alla lettura dell’opera del giovane Gaetano Filangieri, attivissimo seguace ed emulo di Montesquieu, la monumentale Scienza della Legislazione, ove si afferma risolutamente la necessità di una profonda riforma degli Stati, alla quale debbono cooperare leggi eque e un’educazione adeguata. E condividono il pensiero di Francesco Mario Pagano che, nei suoi Saggi politici, tenta di conciliare storia umana e natura, dichiarandole regolate dalle medesime leggi. Riscaldano i loro moti di fede e religiosità alla luce di parole, come queste che vi leggo, scritte dal Genovesi nelle Lettere familiari «Se la virtù è amare il prossimo, adoro l’Evangelo, la cui sostanza non è altro che amore. Quanto è dolce questa parola amore! E quanto ne sarebbe la nostra vita felice se non regnasse che egli solo». Si fanno promotori del cambiamento che, come scrive Domenico Grimaldi nel suo Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra del 1770, per essere realizzato «abbisogna di una generale fermentazione, di uno spirito di attività, d’emulazione, di gloria e d’interesse, che, con fervorosa celerità animasse tutta la nazione, e le mettesse in un aspetto, che le occupazioni principali per essa fossero l’agricoltura e l’industria, e che in queste scienze, principalmente riconoscesse il suo vero interesse e la sorgente inesausta d’ogni bene e ricchezza». Grimaldi conclude il suo saggio affidandolo, pur nella impietosa denuncia delle cause dei mali sociali, alle ali della speranza e del desiderio: «Io, per me, desidererei che, colla pubblicazione di questo libro, la passione della gloria e dell’utile ragionevole si rissentisse un poco più nell’animo di que’ baroni, di que’ vescovi, di que’ monaci e frati che occupano quasi l’intiera provincia; perciocché in quanto a’ particolari che colà abitano, sono così inerti, così timidi, così schiavi de’ loro pregiudizi che, se, per vincere la miseria, dovessero dare un solo passo fuori dell’ordinario, io sono sicuro che nol farebbero mai». Ecco delineato lo scacchiere su cui si muoveranno le menti, le aspirazioni, i sogni di individui che riscaldano la propria essenza al calor bianco del libero pensiero che non nega la fede anzi le fedi. La fede in un artefice divino potentissimo ed intelligentissimo, come diceva Vol-

taire, la fede nella pratica della tolleranza religiosa, come sosteneva il protestante Bayle, che trova il suo fondamento nell’obbligo di ciascuno di seguire unicamente il giudizio della propria coscienza, la fede in un progresso generato dalla ragione, che dà ordine e disciplina al mondo e la fede

...delle idee nell’esercizio del dubbio e dell’ironia come dicevano Shaftesbury e gli enciclopedisti, e ancora, la fede nell’educazione dei popoli, unica forza capace di svellere le antiche catene di schiavitù intellettuale e di miseria del corpo e dell’anima nella splendida visione del giovane Filangieri o della pasionaria Eleonora de Fonseca Pimentel, membro del governo rivoluzionario, autrice dell’Inno alla libertà cantato nelle strade e nelle contrade del regno e fondatrice il 14 piovoso (2 febbraio) di un grande giornale politico economico Il Monitore Napoletano dalle cui colonne conduce una lotta per rendere consapevole e partecipe il popolo ancora schiavo della miseria dovuta all’immobilismo secolare, dell’ignoranza e della soggezione che da essa si genera. Consentitemi di soffermarmi un attimo su questa straordinaria donna. Eleonora si rende perfettamente conto che al popolo affamato non bastano né le lodi, né i gradi di colonnello. Propone una radicale riforma agraria, uno scorporo ante litteram, la distribuzione delle terre ai poveri che, solo così, concretamente, si renderanno conto del significato del vocabolo

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repubblica che per loro resta sempre e solo una parola, senza agganci concreti con il loro mondo e con le loro speranze. «Una gran linea di demarcazione disgiunge noi dal rimanente del popolo – scrive in un editoriale – perché non si ha con esso un linguaggio comune. Se bene si rimonti alla cagione dei nostri ultimi mali, si vedranno essi derivati particolarmente da questa separazione e tuttavia la plebe diffida dei patrioti perché non li intende». Ecco l’ideale dell’educazione, forse solo lasciata allo stato di teoria, che bisognava perseguire con prassi tempestive modulate secondo un disegno che non ebbe applicazione immediata e non poteva, d’altronde, averlo considerati i tempi brevi di vita della repubblica partenopea soffocata dalla ottusità delle masse sanfediste tanto ben manovrate dal Ruffo e da Maria Carolina d’Austria fomentatrice ostinata, anche contro il parere dello stesso cardinale Ruffo, dei patiboli della vendetta. Tale forma 92

di fede, appena descritta, usata come generatrice di morte e distruttrice dei fondamenti della dignità umana, è quella rinnegata e contrastata dalle idealità illuministe e giacobine. Codesto modo di intendere religione e fede è respinto con forza da ciascuno spirito che, allora come oggi, ispira il proprio essere al libero pensiero. Ma, fatte le necessarie, anche se troppo generiche, premesse utili ad inquadrare il contesto, soffermiamoci, sull’onda degli eventi storici, ad osservare, attraverso la visitazione di alcune delle opere del Salfi, gli aspetti relativi al tema centrale di questa relazione. Tutte le idee citate nel corso di questa riflessione, l’abbattimento delle superstizioni generatrici del sonno della ragione, la dimensione dell’educazione utile a rinnovare ed agire per il miglioramento della società, il perseguimento dei diritti e della libertà attraverso la pratica della tolleranza, la lotta contro ogni forma di di-

spotismo e di teocrazia, sono patrimonio che Salfi trasfonde nella visione politica e sociale non solo attraverso la partecipazione diretta agli eventi che segnano la storia non solo di Napoli ma anche del resto d’Italia e di Francia. La sua produzione letteraria, giornalistica e politica è vastissima. Il teatro drammatico, pregno di alfieriana passione, è veicolo educativo ai valori altissimi di libertà e di idealità patriottiche. I pamphlets ed i saggi sono concepiti come provocazione atta a svellere sedimentati strumenti di gestione e controllo delle menti più fragili, proprio perché ignoranti e succubi del potere clericale o civile, uso a far leva su irragionevoli terrori e superstizioni, a scatenare passioni ed istinti di masse inneggianti alla loro stessa schiavitù. Il primo periodo vissuto a Napoli serve a Salfi per intrecciare, sorreggere e rafforzare la sua visione morale e sociale nel sodalizio con nobilissimi spiriti che avevano trovato, nei valori massonici, il lievito per costituirsi come centri elaboratori di un pensiero progressista, umanitario, razionalista, atto a rigettare ogni forma di assolutismo e trasformare la società mediante un impegno concreto per restituire a ciascun uomo i suoi diritti naturali. Ai fini della tematica assegnata mi permetto di sottoporre ad una comune riflessione un lavoro che mi pare esemplare, non solo per il fatto che contiene molteplici spunti presenti in tanta parte dei suoi lavori e del suo pensiero, ma anche perché rende perfettamente espliciti la sua concezione di fede e di libero pensiero. Si tratta di un pamphlet pubblicato dal nostro in occasione dell’abolizione della ormai secolare usanza di omaggio al papa, della chinea. Adottata dal 1263, ai tempi di Carlo d’Angiò fortemente sostenuto dal papa Urbano IV. Costui promosse ogni azione politica e bellica per fargli acquisire il trono di Sicilia e di Napoli in danno dell’infelice Manfredi di Hohenstaufen e del povero Corradino, vittima di una sorte maligna, e in cambio di un versamento annuale di tremila o diecimila once d’oro nel caso avesse voluto il dominio della sola Sicilia o anche di Napoli. Regnante papa Pio VI, l’anno 1776, proprio per l’azione politica del Tanucci, venne abolito l’antico uso della Chinea. Ogni anno l’antico vassallaggio nei confronti del papato di Roma si rinnovava con l’invio a Roma di un magnifico cavallo bianco di una razza alleva-


ta nel territorio di Bisignano dall’andatura elegante ed armoniosa. Il cavallo, riccamente bardato, recava il censo di 7000 ducati d’oro di Camera. Il re Ferdinando IV, quell’anno, si limitò ad inviare privatamente al papa la somma sorvolando sulla pompa della cerimonia solenne. Il gesto, per l’implicita serie di valenze politiche e diplomatiche, non poteva sortire altro effetto che un rigetto ed una serie di proteste che, dopo il ritiro del Tanucci, indussero Ferdinando a ritornare sui suoi passi riconfermando l’atto di vassallaggio che continuò fino al 1788, quando in occasione della festività di San Pietro e Paolo, destinata alla reiterazione dell’omaggio, il re si limitò ad inviare il solo censo. Pio VI protestò con una solenne allocuzione pronunciata il 28 giugno. Questo evento fornì il destro a Francesco Saverio Salfi per la pubblicazione di un pamphlet contenente l’allocuzione di un cardinale al papa, ovvero il discorso sulla chinea pretesa da Roma e la conseguente risposta del papa all’allocuzione del cardinale N.N.. Ovviamente il cardinale misterioso e provocatore non è altri che il Salfi stesso il quale coglie l’occasione per affermare la posizione, sua per prima, ma anche di tutti coloro che rigettavano le pretese di un despotismo, che, con una “negoziazione infelice”, offendeva un sovrano ed il suo popolo. Il cardinale misterioso ripercorre gli eventi, le trame, le artate menzogne, le “investiture”, il controllo psicologico di monarchi e di popoli attraverso i falsi e le appropriazioni che la chiesa di Cristo ha gestito nei secoli per promuovere e mantenere un potere temporale ben lontano dal messaggio evangelico ed ormai alle sue ultime battute. Ricorda al papa i violenti ostracismi esercitati ostinatamente verso qualsiasi forma di filosofia o di scienza che potessero contrastare ignoranza e superstizione in forza delle quali è stato agevole sostenere quel potere. «No, non sono più quei tempi, SS.Padre - fa dire al Cardinale N.N. - in cui l’ ignoranza, la superstizione, le guerre civili, le rapine e cose simili, congiuravano opportunamente a fondare, ampliare e perpetuare la vostra formidabile onnipotenza - e più avanti continua - sono riconosciute le carte apocrife foggiate in quei secoli per noi fortunati dal cortigiano curialista e dal divoto falsario: e

che, perduto il loro incantesimo, ora giacciono, peso inutile, nel Vaticano, e monumento ignominioso per la Corte di Roma. Sono riconosciute le investiture per le quali abbiamo voluto far credere di aver tante volte donato quello che non possedevamo, né potevamo giammai possedere]…[investiture che altro non erano che semplici e ghiribizzose cerimonie introdotte dalla pietà, dall’imbecillità tollerate e dalla scaltrezza nostra trafficate e sostenute». Non si tratta solo della cerimonia della chinea. L’accusa è rivolta a strategie politiche che Roma ha posto in essere andando ottusamente contro lo spirito dei tempi ricavandone, peraltro, solo sconfortanti fallimenti. Il Salfi, nel corso dell’allocuzione, ha già fatto riferimento alla serie di smacchi che Pio VI aveva già subìto negli scontri avvenuti con l’imperatore d’Austria. Riassumo in breve. Dal 1780 il giuseppinismo aveva trionfato andando ben oltre le prime riforme che

erano state attuate ancora durante il regno di Maria Teresa. L’imperatore sottopose la pubblicazione dei decreti del papa e dei vescovi al suo placet e fece assumere da parte dello Stato l’amministrazione della Chiesa sopprimendo conventi e seminari. Pio VI protestò, ma il ministro di Giusep-

...delle idee pe, il Kaunitz, rispose che le disposizioni imperiali non intaccavano i dogmi di fede, erano solo affari interni allo Stato e accusò il papa di gratuita ingerenza. Analoga politica adottò il fratello di Giuseppe, Pietro Leopoldo II, granduca di Toscana, spingendosi addirittura a vagheggiare una Chiesa nazionale. Si estendeva a macchia d’olio un dispregio dei diritti della Chiesa di Roma che sembrava profilare anche un abbattimento del suo stesso primato nel mondo cattolico. Il viaggio, cui Salfi fa riferimento nel cor-

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so dell’allocuzione, è quello che Pio VI intraprese alla volta di Vienna nel 1782, sperando di correre ai ripari. Fu accolto con grandi onori ma se ne tornò a Roma senza avere ottenuto nulla. Fu una vera Canossa a rovescio, come gli rinfacciò Pasquino facendogli trovare sull’inginocchiatoio uno dei suoi feroci commenti: «Ciò che Gregorio VII, il più grande dei pontefici aveva stabilito, Pio VI, l’ultimo dei preti, l’ha distrutto». Il Belli ricorda, con l’ironia di sempre, l’evento in un sonetto: Vorze annà a Vienna a gastigà la boria D’un re che camminava troppo presto. Arrivò, ce parlò, je disse tutto; e quann’ebbe finito, er re todesco dice che j’arispose asciutto asciutto: Pio Sesto mio, vatte a ffà fotte, e damme… Allora er papa che conobbe er fresco Ritornò co la coda tra le gamme. 94

A maggior ragione la critica e l’esortazione salfiana, acquistano forza nell’ottica di una visione consapevole delle dinamiche di pensiero e delle circostanze che si andavano generando nella coscienza della visione giusnaturalistica e dei diritti umani già peraltro affermatisi nel nuovo mondo con la rivoluzione americana. Il tono di saggio rimprovero e di esortazione a cambiare registro ed a conformarsi allo spirito dei tempi continua lungo tutta l’allocuzione ed è invito costante all’adozione di princìpi non solo consoni all’insegnamento evangelico, ma consapevoli dei diritti dei Sovrani e dei popoli. «La Corte di Roma non si è sostenuta, né si sostiene che laddove si fa poggiare sulla forza della religione. Riconcetriamoci dunque in essa, come al nostro più pronto asilo, richiamando la povertà e la umilia-

zione più edificante degli Apostoli». Il cardinale beneventano ignoto conclude con le seguenti parole: «In ogni caso io credo aver pienamente adempito gli offici della mia incorrotta fede, usando quella libertà, che è figlia del vero zelo…». Come dicevamo il pamphlet contiene anche la risposta del papa all’allocuzione del cardinale N.N. e, ovviamente, è sempre il Salfi che si trasferisce, questa volta, nelle vesti del pontefice. I ragionamenti sono sembrati il riflesso di una eco. Una memoria di parole, di articolate tesi e giudizi, impressa a fuoco nella mente dell’adolescente esposta al rigore delle impalcature logiche e saldamente strutturate delle lezioni nel corso dei suoi studi presso i gesuiti. Il tono è tutto giocato su un cinismo irridente che, sotto motivazioni bonariamente nutrite di scetticismo, ha la velleità di voler riportare alla mente e convincere attingendo forza alle sedimentate arti e strategie del condizionamento psicologico, del raffinato gioco del convincimento attraverso le trappole della fede strumento di potere, fonte di dominio che si puntella sulle superstizioni attingendo agli oscuri terrori che agitano le menti di fronte all’ignoto e rendono allucinate le sensazioni. Per intenderci pensiamo un momento alle meravigliose acqueforti che Goya, proprio in quegli anni, produceva los Caprichos col loro corredo orrido di esseri deformi e terrifici. Sentiamo la voce del Salfi nelle vesti del papa: «Il vostro linguaggio è stato anche un tempo quello di alcuni Santi censori dell’ambizione dei nostri predecessori, ma le invettive non han mai prodotto delle rivoluzioni» ammonisce il romano pontefice che ribadisce il suo obbligo di mantenere, aumentare e perpetuare l’eredità temporale e materiale a lui trasmessa che è anche tattica e strategia fatta di raffinati espedienti utili «al nostro terreno ingrandimento» non ultimi «un’indefessa pazienza in aspettare le congiunture più propizie, ed una vigilante destrezza per profittarne». Si meraviglia, il papa, che il Cardinale abbia obliato i presupposti che rendono lecite le azioni necessarie per mantenere intatta quell’eredità «forse perché il torrente delle massime trionfanti al di là del Garigliano vi ha trascinato, o perché un eccesso di buona fede filosofica vi ha fatto credere già disperata la nostra causa. Quel che voi credete funesti presagi per le nostre intrapre-


se, sono a nostro giudizio, vani fantasmi. Noi siamo in possesso di ben indagare l’indole de’ Principi e di ben proporzionare i mezzi per guadagnarli - e continua - Ne sian pruove le investiture date da’ nostri Antecessori, di quel che loro non apparteneva, facendo lor vassalli i Sovrani, in tempi in cui certamente il Pontefice non era Sovrano in nessun luogo, né meno in Roma». E rimprovera benevolmente il Cardinale preda dell’oblio e di filosofie errate ribadendo «A torto vi date a credere che queste arti della nostra politica siano ormai dileguate come un prestigio da’ Lumi troppo universalmente diffusi]…[Noi non ci stancheremo di adoprare le antiche armi; diffonderem le promesse, profitteremo delle passioni degli uomini, e se occorre, fin de’ fenomeni della natura]...[sfideremo la resistenza di animi ingenui che la dolce natìa beneficenza rende avversi alle negative ostinate, che il desiderio della tranquillità potrà spingere ad abbracciar il più pacifico partito». C’è in queste parole tutta l’amara constatazione, tutto il dolore per un cinismo che priva la fede vera, quella dell’amore e della charitas del messaggio cristiano, di ogni possibilità di essere attuata dal monarca temporale della chiesa cattolica. E c’è anche tutto l’impianto di pensiero, tutta la filosofia che governa la vita di Salfi suo malgrado testimone a carico del proprio tempo. Non a caso ritroviamo spunti che riportano alla memoria quel suo saggio scritto in occasione del devastante terremoto del 1783 ove imputa a cause oggettive il disastro, rigettando i terrorismi psicologici disseminati dal clero pronto a caldeggiare l’idea di punizione divina che, addirittura, sarebbe caduta anche sull’abbazia di San Bruno, a causa del comportamento dei frati. Sembra, ad un certo punto, che il nostro intuisca, avverta, il terribile presagio dell’esperienza, ancora da venire, del fallimento della repubblica del ’99 il cui crollo fu determinato dalla propaganda sanfedista del Ruffo più che dalle truppe borboniche sorrette dal fanatismo di schiere di contadini inneggianti alla “sagrosanta fede” e bramosi di bottino. Il popolo che sostiene la propria inconsapevole condanna è simile alle mostruose figure umane che affollano il dipinto Nous

...delle idee

voulons Barabba di Daumier o alle raccapriccianti maschere della folla che circonda il purissimo Cristo del sacrificio e dell’amore dell’Entrata di Cristo a Bruxelles di Ensor. È massa selvaggia e brutale perché inconsapevole. Magma difforme che travolge e distrugge perché orfano della ragione che è guida e disciplina di ogni sapere e orientamento nella scelta della fede. È anche il popolo ingenuo, arruffone, passionale che, nei giorni del crollo della repubblica del ’99, aveva eletto a suo protettore sant’Antonio degradando San Gennaro a ruolo subalterno per punirlo dei supposti sentimenti repubblicani come racconta un dipinto, conservato nel museo di San Martino che raffigura l’entrata a Napoli delle truppe della “santa fede” di Ruffo su cui si staglia, alquanto boriosa, la figura del Santo eletto, ad horas, nuovo comandante delle truppe borboniche. Il povero san Gennaro doveva reputarsi connivente con

il nemico avendo osato fare il suo famoso miracolo in presenza dei rappresentanti dello Championnet e dichiarato, perciò, giacobino. Concludo ponendo l’accento sulla laicità, così come è stata concepita da Salfi e da coloro che si sono battuti e si battono a difesa del libero pensiero . Essa è la gemma della libertà, pietra preziosa da condividere con tutti gli esseri umani, la possibilità offerta all’uomo di accedere alla spiritualità e al divino. È un bene comune che continuamente si rinnova e si arricchisce con il meglio tratto da ciascuno di noi ed è la grande vittoria dell’uomo, la liberazione dalla prigione dei suoi stessi istinti. La laicità è amore ed è ragione, una filosofia proposta ed un modello sociale suggerito per cancellare l’odio ed ogni forma di esclusione. P.86: Il cimitero di Père Lachaise a Parigi; p.87: Francesco Salfi, stampa; p.88: Gottfried Herder, olio su tela; p.89: Pietro Giannone, stampa; p.90: Ritratto del Metastasio, olio su tela; p.91: L’abate Antonio Genovesi; p:92: Gaetano Filangieri, stampa; p.93: Papa Pio VI, olio su tela; p94 e 95: F. de Goya, los Caprichos.

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Simbolismo

J.R.R. Tolkien Giuliano Boaretto

I

l semiologo Umbero Eco (La ricerca della lingua perfetta, Bari, pag. 9) esclude dalla sua ricerca – “con rammaricato sollievo”- le lingue romanzesche poetiche “e cioè le lingue fittizie, ideate a fini satirici e poetici o le lingue di popolazioni fantastiche, come in Tolkien” considerandole “solo spezzoni di un linguaggio che presuppongono una lingua di cui però né lessico né sintassi vengono dati per esteso”. V’è quindi una distinzione tra lingua e linguaggio che dobbiamo subito chiarire. La lingua è un modello comunicativo relazionato a tempi e luoghi, in continua evoluzione. Il linguaggio è una matrice creativa della realtà dove la descrizione ha 96

funzione performativa e conformativa. Il linguaggio è dunque, una ursprache, una meta lingua da cui deriva il parlato o lo scritto. Vi è nel linguaggio una deriva della filosofia perennis, una luce fioca ma abbagliante che fa dell’uomo un co-creatore di universi conoscibili. Come dice Heidegger “il linguaggio è la casa dell’essere”; l’essere ha la struttura che il linguaggio gli dà, esprime l’entelechia dell’essere non l’essere in sé, che esiste nella sua forma perché il linguaggio lo ha strutturato a sua immagine e somiglianza. Quindi, con buona pace del grande semiologo, il linguaggio di Tolkien, pur essendo privo di sintassi e di lessico espliciti, ha la funzione di scoprire nuove connes-

sioni del reale, nuovi rapporti strutturali, non crea il mondo ma gli dà un ordine etico, accenna e non esprime, è uno sfumare dello spirito nella forma o, per usare il linguaggio dell’hobbit, della forma nell’anima. Come sappiamo Tolkien era maestro di lingua anglosassone e di letteratura inglese e usa per descrivere un mondo parallelo, ma non diverso da quello studiato e insegnato all’università, i simboli di un passato costruito con i detriti del futuro. Dal punto di vista strettamente linguistico gli strumenti matriciali sono le rune, la poesia, i nomi dati ai luoghi e ai personaggi. Non sono certo un archeologo del linguaggio, ma mi pare che l’uso delle rune sia classicamente simbolico. Anche quan-


Simbolismo

do il significato viene scoperto, in situazioni che definiremo magiche e in modo inaspettato, le rune sono significanti di N significati, ma non dicono e non negano, alludono a una soluzione che l’hobbit deve interpretare da solo. Evidentemente il linguaggio, che è etica applicata, risente delle origini cristiane (non solo cattoliche) della cultura di Tolkien convertitosi dal protestantesimo al cattolicesimo del suo tutore e protettore. Gli anni della grande guerra e del dopoguerra sono stati propizi all’espandersi della cultura “papista” in Inghilterra. Pensiamo al massimo poeta dell’epoca T.S.Eliott, per fare un nome e forse ad Auden, che tuttavia ruppe ben presto con ogni religione divenendo marxista, di quel marxismo inglese così critico di ogni avventura rivoluzionaria, più vicino a Marx che ai bolscevichi (il Marx dei Manoscritti e non il Lenin di Materialismo ed Empiriocriticismo). Il cristianesimo è ricco di simboli iconici e le rune, “danno a pensare” (direbbe Paul Ricoeur), sono alimento del pensiero, perché l’occhio ascolta l’immagine che è soffio e brezza. L’altro elemento simbolico del linguaggio è la poesia; senza ascoltare le critiche dei poeti contemporanei a Tolkien, credo che basti leggere le numerose poesie che cospargono il Ring (Il Signore degli Anelli) per comprendere la modestia poetica del nostro autore. Non conosco l’inglese quanto basta, ma quando leggo le traduzione di Eliott e di Auden mi accorgo che … siamo in un’altra storia. Un’altra storia appunto, perché Tolkien usa il linguaggio poetico come simbolo per accennare alle strutture di un mondo di cui suggerisce le forme, più che descriverle. La

poesia con la sua antica musicalità, meglio percepibile in lingua, fa sì che la parola, il suono, facciano anima, siano ciò che resta di una metafisica del passato che il presente ricorda modificandolo, per conformare il futuro. La lingua non ha una sintassi esplicita perché la tradizione è pur sempre tradire, ma è anche far rifiorire una realtà che il presente rinnega ed è meglio tradere (trasportare) che rinnegare. Certo Tolkien non può usare il linguaggio poetico di Eliott così intimista o di Auden così idealista perché il moderno decostruisce mentre l’antico, soprattutto nella memoria evangelica, vuole ricostruire un passato bucolico-elegiaco, senza sapere che la memoria è tradimento. Parliamo al fine dei nomi propri o dei luoghi. Spesso il traduttore non ha voluto tradurre il nome di certi personaggi o di certi luoghi, perché nella realtà fantasticata i nomi hanno un forte potere evocativo del reale, sono strumenti magici nel senso ‘tolkieniano’ della magia che è quello di un potere antico che ritorna, di un destino che diviene “casa dell’essere” o meglio dasein. Mi sono sforzato di fornire qualche strumento euristico, talora del tutto personale, che possa essere utile al lavoro dei Giovani Massoni, perché il linguaggio di Tolkien è, come il linguaggio massonico, una paideia, un linguaggio artificiale in progressivo perfezionamento, funzionale alla costruzione di un’umanità libera, fraterna ed eguale. Cerchiamo di non tradire questo linguaggio. P.96/97 in senso orario: J.R.R.Tolkien (1892-1973); Karl Heinrich Marx (1818-1883); Vladimir Il’ic Ul’janov [Lenin] (1870-1924); Thomas Stearns Eliot (1888-1965); Wystan Hugh Auden (19071973); Martin Heidegger (1889-1976).

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Un incontro fra le nuvole Luigi Pruneti

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ome ogni sera, nell’aria tiepida del vespro, i cipressi e i lecci della collina si tingevano di porpora e d’oro per salutare il declinare del giorno, mentre le rondini garrivano sfrecciando basse sui tetti delle case e sulle chiome tremule degli alberi. Ero in giardino, disteso comodamente sulla sdraio, a godermi quell’attimo di serenità, quando all’improvviso l’incanto fu interrotto da un bubbolio lon-

tano: suoni cupi, protratti, ovattati dalla distanza. Volsi lo sguardo a Nord Ovest e vidi una muraglia di nuvole; sembrava una pennellata di nero nell’azzurro del cielo. Un temporale era in arrivo e la cosa mi rallegrò perché amo particolarmente i rovesci estivi, specie quando di notte attendo il sonno in compagnia di un libro e quella sera pareva proprio propizia alle mie attese. E fu così. Per qualche ora il fronte avanzò lentamente, facendo

sentire sempre di più i tamburi dei tuoni, i flauti del vento e il coro degli alberi tormentati. Poi, quando ero già coricato, la tempesta si scatenò, balestrando sulla terra la sua rabbiosa violenza. Tutto quel trambusto mi conciliò il sonno, ma chi si addormenta durante una tempesta può essere vittima dei grandilini o altri folletti dell’aria che, approfittando di una finestra aperta, ghermiscono il malcapitato di turno per trascinarlo nel

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regno delle nuvole. Fu quello che mi accadde. All’improvviso mi ritrovai a volare fra i cumuli nembi, sferzato dalla pioggia mentre le saette illuminavano i volti ghignanti dei rapitori: esseri minuscoli dal corpo di vapore e dagli occhi di fuoco. I demonietti mi trascinarono fino alla cima delle nubi, poi ridendo a crepapelle, all’unisono, con un ultimo sforzo, mi proiettarono in alto, dove tutto era calma e silenzio, nella luce diafana della luna, enorme sopra di me. Volteggiai per un periodo di tempo che non riesco a quantificare; poi, quando ero ormai lontano dall’ammasso temporalesco, notai una strana nuvola, di un bianco serico. Non so se per mia volontà o perché spinto da un refolo di ven100

to mi mossi verso quel banco di vapore e con somma meraviglia mi accorsi che era abitato; fra i batuffoli bianchi, infatti, si notavano delle inequivocabili figure umane. Fu allora che preso da irresistibile curiosità mi misi a sgambettare come Pinocchio nella rete del Pescatore Verde e alla fine raggiunsi la strana compagnia. “Giovane Pruneti – mi disse un vecchio dalla fluente barba bianca – unisciti a noi, riceviamo così poche visite ultimamente”. “Giovane?! – rispose un altro – Cosa dici? Ha su per giù gli anni che avevo io quando raggiunsi questa dimensione”. Chi aveva parlato era un uomo asciutto, leggermente ricurvo, vestito con un caffetano bianco. Le vesti erano di fog-

gia orientale e tuttavia il volto, caratterizzato da un paio di baffetti ben curati, e l’accento decisamente francese indicavano un’origine europea. Lo guardai meglio e lo riconobbi. L’emozione fu tale che esclamai balbettando: “Maestro!”. “Maestro tradito …”, rispose costui con un’apparente aria di sufficienza. “Tradito da chi?”, gli chiesi sconcertato. “Da te”, replicò allora René Guénon, perché proprio di lui si trattava. Quindi, guardandosi le mani ben curate riprese: “Credi forse che qua fra le nuvole non giunga il vostro blaterare? Ho letto alcuni scritti di tal Luigi Pruneti, dove mi si taccia di dogmatismo, di temerarietà associativa, di affermazioni discutibili”. “Maestro – replicai con imbarazzo – era una critica benevola, legata soprattutto al supposto esoterismo dell’opera dantesca. Ho divorato i tuoi libri, grazie a te ho appreso e compreso; sei stato il mio filo di Arianna nel labirinto delle segrete cose”. A quelle parole il Francese mi guardò dall’alto in basso e soggiunse: “Il labirinto delle segrete cose è un dedalo impervio, molti entrano, ben pochi, però, riescono a raggiungerne il centro”. S’interruppe per un attimo, quindi sospirò e riprese a parlare: “Entrarvi è cosa facile; a differenza di quanto si dica, gli ingressi sono larghissimi e i custodi controllano più le vesti della persona. Un’occhiatina alle scarpe, alla giacca, eventualmente a qualche attestato e poi dentro … c’è posto per tutti! Una volta introdotti, alcuni procedono sicuri e dopo i primi passi, sentendosi provetti argonauti, pensano già d’aver individuato la meta. Altri, invece, i più motivati ed accorti, non avendo guide, sono afferrati dal dubbio e in molti casi rinunciano al viaggio”. “Mi sembra – commentai – una visione pessimistica e un po’ restrittiva; inoltre, quali sarebbero le doti per diventare un buon argonauta?” Mi fissò intensamente poi sentenziò: “Non è facile da dirsi. L’Ulisse nell’oceano della tradizione, il cercatore del Graal, necessita di una predisposizione d’animo imprescindibile dall’umiltà. Colui che batte le vie della conoscenza deve considerarsi un artigiano, il suo compito è quello di comporre un mosaico, partendo da una vaga idea del progetto. Il lavoro è gravoso: deve in primis tracciare il disegno e quindi cercare le tessere una per una, infine dispor-


le in modo ordinato e graduale; se sbaglia nel posizionarne una sola, dovrà ricominciare da capo. Pazienza e prudenza sono le sue doti principali. Il sapere non si possiede ma si costruisce piano piano, ascoltando, apprendendo, verificando, integrando. La verità non si comunica ma si avvicina, senza mai coglierla. Ricordi la metafora del saggio che, sollecitato dai discepoli, tramandò loro la chiave del vero? Egli prima di esalare l’ultimo respiro sussurrò: “Om barun pach”. Gli allievi si misero allora a studiare le oscure parole, pensando che fossero il segreto dell’universo. Illusi, sciocchi!!! Il maestro aveva emesso tre suoni privi di senso, perché la verità è inesprimibile. Chi invece morde il freno e presume di terminare l’opera in quattro e quattr’otto ha fallito prima di iniziare; egli è il falso iniziato, il clandestino sulla rotta per la Colchide. Mai deve venir meno l’esempio di Socrate, nell’Apologia, quando l’Oracolo di Delfi, interrogato da Cherefonte rispose “Nessuno è più sapiente di Socrate”. Il Filosofo considerò il responso un enigma; solo dopo aver meditato comprese: “L’uomo più sapiente è Socrate perché riconosce che il proprio sapere non vale niente … egli sa di non sapere”. Invece, spesso, nel labirinto si presume e basta ed è inammissibile che chi aspiri all’esoterismo ignori l’essoterismo, o meglio ignori tutto e consideri l’ignoranza sapere. Le conoscenze profane sono indispensabili anche se non sufficienti. L’esoterista non è un mistico, ma un ricercatore che sa andare oltre, sollevare il velame, comprendere il sottile. Invece, vi è lo zotico, il narcisista, il saltimbanco, l’aspirante mago Zurlì che si atteggiano a depositari di grandi arcani, di segreti e poteri. Sono ciarlatani pittoreschi, spesso anche pericolosi perché squalificano ciò a cui credono o dicono di appartenere. Questi soggetti sono sempre esistiti, ma nel tuo mondo si sono moltiplicati a dismisura. Sono i banalizzatori della tradizione che riducono a una parodia; le loro falangi aumentano perché sono il prodotto di una società maxmediale e globalizzante, improntata al riduttivismo dei saperi, all’omologazione del pensiero e a una cultura di accatto, impastata di slogan e di frasi preconfezionate, rubacchiate in qualche angolo della rete”. Era proprio il Guénon

de Le Voile d’Isis e di Etudes Traditinnelles; mezzo secolo di storia e il trasloco di dimensione non avevano mutato di una virgola il suo approccio agli uomini e ai problemi. Rimasi per un attimo in silenzio, poi chiesi di nuovo: “Sono questi i soggetti che oscurano il labirinto che poi in realtà è un bel giardino?”. “No – rispose – ve ne sono altri che potrebbero essere definiti i profanatori “freddi”. Sono coloro che considerano ritualità e tradizione, metodologia e specifico esoterico con fastidio. A ben considerarli sono quelli che vorrebbero trasformare la Tradizione in club esclusivi, ammantati da briciole di beneficienza e da sputi di cultura, club finalizzati a una mera vita di relazione che implichi possibilità di benefici personali, di affari, intrallazzi, conoscenze interessate. Di solito, non mascherano nemmeno la loro ignoranza abissale e tendono a circondarsi di netturbini del sapere, figuri pronti a vendersi a chiunque, pur di sublimare le loro frustrazioni in orizzonti di successo, di qualsiasi successo. Vi sono, infine, i figli del Grande nulla. Il ‘Grande nulla’ è l’autoreferenziale che si cimenta in parate, incensazioni, melodrammatiche rievocazioni di presunte glorie passate, sfoggio di gradi, titoli, orpelli; il vento della storia è vorace e se li porta via in un balletto e di loro non rimane traccia perché sono il superfluo che il tempo dissolve, come l’onda cancella impietosa le impronte che il piede imprime sulla battigia”. A quel punto intervenne l’anziano dalla barba bianca, che poco prima mi aveva definito giovane: “Hai ragione René – disse con aria corrucciata – Io ho vissuto oscuri momenti di anti-tradizione. La massoneria francese, impeciata di positivismo, aveva avvilito il simbolismo, bandito la ritualità, cacciato la spiritualità; tutto era ridotto a discussioni di livello socio – politico, … con grande fatica riaccesi la fiaccola iniziatica”. Con un sorrisino beffardo il pensatore di Blois si rivolse al vegliardo dicendo: “Oswald, Oswald non fare come il coccodrillo, che prima divora e poi si pente per quello che ha trangugiato. Tu facevi parte di siffatta ciurma. Sì, è vero, scrivevi opere pregevoli sulla Massoneria, i Tarocchi, l’Arte reale, ma quando eri Venerabile - e lo sei stato a lungo - dirigevi

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tornate sul salario dei ferrovieri, i diritti sociali e politici degli indigeni nelle colonie, la riforma della leva militare. Argomenti tradizionali, non c’è che dire”. L’anziano si adontò e rosso in volto replicò: “Che dici! Sono stato amico e corrispondente di illuminati come Gérard Encausse, Josephin Péladan, Stanislas de Guaita. Sui miei libri si sono formate 102

generazioni e generazioni di uomini che cercavano la Via”. “Calma – esclamò a quel punto una terza figura dagli imponenti mustacchi bianchi - Calma amici. Abbiamo assistito a un graduale processo di materializzazione. L’uomo si è allontanato dalla dimensione dello spirito, sprofondando nella palude dell’edonismo. Egli è diventato

un consumatore passivo, costretto dal desiderio di effimero a vivere in uno stato di veglia. Il coma dell’anima è poi diventato asfissia dell’intelletto e ora egli è un pupazzo, privo di consapevolezza e senza consapevolezza vi è solo nulla: nulla dentro, nulla intorno”. A quel punto intervenni di nuovo, domandando: “Scusate illustri maestri, ma se questa è la situazione, come dobbiamo comportarci per evitare di precipitare nell’abisso della materia? Vi è un briciolo di speranza o dobbiamo arrenderci all’avvento del Kali-Yuga?” “Arrendersi mai – disse Oswald Wirth – la luce alla fine avrà la meglio sulle tenebre ed è necessario lottare con coraggio e abnegazione. Il mondo delle ombre si diffonde in modo subdolo, sotterraneo, la sua essenza è il vuoto e al vuoto conduce. Guarda con sospetto chi eccelle perché sa che non potrebbe reggerne il confronto, deprime il merito, nega l’evidenza, forte del principio che anche la bugia più sfrontata, se ripetuta, acquista veste di verità. Agisce sulle debolezze umane usando la lusinga, l’aspettativa, la promessa fasulla. Ricordate Matteo?


Massoneria

Il diavolo condusse il Cristo sulla vetta di una montagna e gli mostrò tutti i regni del mondo, quindi promise: “Tutto questo cose io ti darò, se prostrandoti mi adorerai”. Per combattere il falso occorre l’acciaio della verità: “manifestare ea quae sunt sicunt sunt”. L’uomo con i grandi baffi, che penso fosse Georges Ivanovič Gurdjieff, sollevò il colbacco di astrakan per grattarsi la testa e commentò: “Non scomodiamo i Vangeli, il nostro prototipo di soggetto contro-iniziatico più che a Satana assomiglia all’omino di burro di Pinocchio, “tenero e untuoso, con un visino di melarosa, una bocchina che ride sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella di un gatto che si raccomanda alla padrona di casa”. Inoltre, egli non promette i regni del mondo ma il paese dei balocchi: un paese dove non vi sono scuole, né libri e dove tutti sono maestri solo perché lo abitano”. Gli omini di burro agiscono in ogni campo vendendo sistemi sicuri per fare fortuna, numeri per le lotterie, talismani portentosi, panacee e sogni. Alcune volte assumono posizione guida e in tal caso causano disastri. Basti pensa-

re all’Argentina: nel 1999 aveva un prodotto interno lordo elevato e una bilancia commerciale in attivo, pochi anni dopo era sul lastrico e alla miseria. La crescita implica sempre lavoro, fatica e capacità di apprendere dagli errori che inevitabilmente si compiono. I ‘Campi dei miracoli’ esistono solo per i gonzi. Per combattere gli imbonitori bisogna avere il coraggio di sbugiardarli, testimoniare con ottimismo la verità e anteporre alle parole i fatti”. Appena Gurdjieff cessò di parlare, Guénon soggiunse: “Condivido quanto avete affermato, miei sapienti coinquilini; mi permetto, tuttavia, di raccomandare anche la coesione. È vero: molti sono i portatori di tirso e pochi i baccanti, ma se quest’ultimi si riconosceranno, dimenticheranno il poco o il niente che li divide e si uniranno, le forze dissolventi non avranno la meglio. Conservare la Tradizione e tramandarla è il primo dovere di un iniziato; se questo avverrà, il Regno della quantità sarà come un temporale d’agosto: tuoni, fulmini e violenti piovaschi, poi però il sole tornerà a splendere e l’aria sarà più tersa di prima perché la pioggia avrà portato via la polvere

che vi stagnava …”. Mi ritrovai disteso sul letto, dalla finestra entrava un chiarore argentato … mi alzai, andai a guardare, il temporale era cessato, in alto la luna splendente sembrava sorridere alle stelle di nuovo padrone del cielo. Stavo ammirando quello spettacolo quando sentii alle mie spalle la vocina sottile e frusciante del mio amico topo: “Quante volte – sussurrò – ti ho consigliato cibi leggeri per la cena e tu, invece, duro come il marmo, insisti con la carbonara. La prossima volta volerai su Marte in compagnia di Voltaire, Pollicino e Ezechiele Lupo”. P.98/99: Camminata fra le nuvole, collez. priv; p.100: Il Cairo, la tomba di René Guenon; p.101: Ritratti a varie età di Guenon; p.102 in alto: Tarocchi; p.102 in basso: Ritratti fotografici di Oswald Wirth; p.103: Danzatore Sufi e a destra due ritratti di Georges Ivanovic Gurdjieff.

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Filoso–a

1988: Missione su Marte Paolo Maggi

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uesta volta noi di WikiLeaks abbiamo fatto il colpo grosso. Proprio quando pensavano di averci eliminati definitivamente, con una rocambolesca operazione, siamo riusciti a infilarci in un riservatissimo archivio della Presidenza degli Stati Uniti d’America e a tirarne fuori un bel po’ di roba. Certo, la maggior parte dei documenti, cosiddetti segreti, è davvero roba da buttare: le solite scappatelle extraconiugali di presidenti e ministri, i soliti alti funzionari gay, i soliti e noiosissimi pettegolezzi sui capi di stato e di governo esteri. E così via. Ma in mezzo a tutto questo ciarpame c’è il pesce grosso: la missione supersegreta su Marte negli anni ’80 dello scorso secolo. Dunque quello che si era sempre vociferato era proprio vero: gli astronauti americani sono effettivamente arrivati su Marte prima che fosse dichiarata la fine delle missioni spaziali. Il file è immenso e contiene migliaia e migliaia di pagine di dati, le caratteristiche della navicella spaziale, la cronologia della missione, le rilevazioni compiute. Ma andiamo al sodo. Quello che pubblicheremo è contenuto nelle registrazioni dei colloqui fra i tre astronauti. Mentre un pilota è sulla navetta orbitante, gli altri due, sulla superficie del Pianeta Rosso, sono in esplorazione a bordo di un piccolo mezzo motorizzato. Le due postazioni comunicano tra loro. Postazione al suolo: “Stiamo percorrendo una piccola valle chiusa tra delle colline piuttosto basse. Ecco, ora stiamo uscendo su una spianata sabbiosa. Sembra il fondo prosciugato di un lago. Hei, Neil, facciamo qualche altro prelievo poi, per oggi, basta. Ne ho abbastanza. Ma … Accidenti! Guarda là…” “Oh cavolo…” Si sente uno stridere di pneumatici. Postazione orbitante: “Dannazione, ragazzi cosa, sta succedendo? Tutto ok?” Postazione al suolo: “Si Buzz, ma qui abbiamo visto qualcosa … o qualcuno.” Postazione orbitante: “Neil, Michael, riuscite a darmi l’immagine? Fate presto però” Postazione al suolo: “Telecamera attivata. Riesci a vedere anche tu?” Postazione orbitante: “Buon dio! Un essere vivente, un marziano! Anzi … sembra … no, è proprio un uomo!” Spezzoni di filmato. È molto mosso e sfo-

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Sul pianeta della filosofia tutti i continenti sono da un pezzo scoperti! Io sfoglio gli antichi saggi e vi ritrovo i miei pensieri più moderni! Il primo cerchio A. Solzenitsyn

cato. Inquadra quello che appare come un uomo di pelle chiara. È accovacciato sulla sabbia. Sembra molto, molto vecchio. Ha una lunga barba bianca e ha indosso una tunica. Non appare per nulla spaventato dall’arrivo dei visitatori. Anzi. Per alcuni fotogrammi sembra intento a scrivere qualcosa sulla sabbia con una bacchetta. Tentativo di inquadrare la sabbia. Si intravedono figure geometriche, numeri e lettere incise dal vecchio. Difficile dire con esattezza, ma sembrano lettere greche. Il vecchio alza lo sguardo. Sorride. La telecamera gli gira attorno. L’uomo sembra divertito. Nuova inquadratura sui disegni. Sembrano proprio immagini geometriche. Un’equazione. Il filmato si interrompe. Continua la registrazione delle voci. Postazione al suolo: “Buzz, sembra disarmato e innocuo. Tentiamo di comunicare con lui.” 105


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Postazione orbitante: “Prudenza, ragazzi, io sono morto di paura qui…” Si sovrappone una voce più lontana. Inizialmente parole poco comprensibili. Poi: “ma forse mi capite meglio se parlo così.” “Lei parla la nostra lingua? Ma da dove viene?” “Esattamente da dove venite voi. Ma sono arrivato molto, molto tempo fa.” “E come diavolo ha fatto?” “Hei, Neil, secondo me è un russo!” “Non sono russo. Sono greco.” Le tre voci degli astronauti più o meno contemporaneamente: “Greco???” “È una storia lunga. E molto antica. Lasciamola perdere perché per voi sarebbe 106

un po’ complicata da capire.” “Si, credo anch’io. E, a questo punto, credo anche di sapere lei chi è. Pitagora, vero?” “Per servirvi. Era molto tempo che vi aspettavo. Sinceramente pensavo che sareste arrivati prima.” “Ha ragione mister Pitagora, temo che per molti secoli siamo stati distratti da più futili faccende.” “Basta scherzare, ragazzi. Questa è roba seria. Qui bisogna far riunire subito l’unità di crisi, avvertire Reagan…” “No, Neil, aspettiamo a dare l’allarme. Non ce n’è alcun bisogno. Sapevamo da molto tempo che nell’antichità avevano

intuito leggi della fisica con incredibile anticipo. Qualcuno di voi ha letto Il Tao della fisica di Fritjof Capra? A partire dal 600 avanti Cristo si è avuto uno straordinario fiorire di studi religiosi, filosofici e scientifici. Per motivi non chiari, questo è accaduto contemporaneamente in ogni parte del mondo e, come dice anche Jaspers, contemporaneamente in Oriente come in Occidente si è giunti in molti campi dello scibile alle stesse conclusioni. Nei secoli successivi la scienza, soprattutto la fisica e l’astronomia, hanno spesso solo confermato di volta in volta quello che era stato intuito già nell’antichità. Certo però, era


difficile pensare che si potesse giungere fino a questo punto…” “No, aspetta un po’, Buzz. Troviamo su Marte un vecchio greco svitato, vestito con un lenzuolo e tu ti metti a parlare di filosofia come se tutto questo fosse normale!” “Scusate se mi intrometto nei vostri discorsi, signori, ma è proprio come dice il vostro amico. Le cose sono più semplici di quanto voi potreste credere. Basta ragionare nel modo giusto. E un tempo qualcuno ci è riuscito, molto prima degli altri. Tutto qui.” La voce che arriva è quella di una persona alterata: “No caro mio, non ci siamo proprio capiti. Io voglio sapere dove sono i calcoli, le formule … voglio vedere la navetta, le sue strumentazioni, tutto il dannato armamentario che vi ha fatto arrivare fin qui!” La voce di Pitagora è calmissima: “E ammesso che io le facessi vedere tutto quello che chiede, lei o qualcun altro dei suoi contemporanei, pensa davvero di essere in grado di interpretarlo? Io posso darle qualche formula, anche se forse non di quelle che intende lei.” “Hey, allora forse non sono stato abbastanza chiaro, non sono arrivato dalla Terra sin qui su Marte per farmi prendere in giro da lei. Allora, ripeto lentamente e per l’ultima volta. Poi agirò in nome degli Stati Uniti d’America: come è arrivato sin qui?” “Piantala Michael, non hai capito che cosa ci ha detto. È tutta una questione di ragionare nel modo giusto. E forse il tipo di ragionamento a cui si riferisce è qualcosa a cui, da molti secoli, non siamo più abituati e che potremmo anche non capire.” “Certo, miei gentili e giovani amici, è proprio così. Voi da moltissimo tempo avete dimenticato cosa sia l’intelligenza complessiva delle cose.” “E sarebbe?” “E sarebbe quel tipo di ragionamento che praticava la scienza e la cultura dell’antichità: noi non tagliavamo il capello in mille sottili fettine, come fate voi. Non parcellizzavamo il sapere. Noi cercavamo un’unica grande risposta per ogni domanda, sia che coinvolgesse l’infinitamente grande, che l’infinitamente piccolo. Sia quello che accade dentro il nostro corpo che fuori da esso. Sia sul pianeta Terra che sul più lontano asteroide in

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viaggio verso l’infinito. Perché l’universo è un grande unico corpo vivente e pulsante, fatto della medesima materia, che costituisce il vostro corpo, come le stelle, i fiori, gli animali e le rocce. E le grandi leggi che lo regolano non possono non essere le stesse tanto in alto quanto in basso. Insomma, quello a cui mi sto riferendo sono le grandi cosmogonie che noi studiosi dell’antichità generavamo. E così, studiando un fiore a Crotone, ci poteva capitare di capire cosa accadeva su Marte. Ma anche molto più lontano.” “E ora invece?” “E ora voi avete spezzettato il sapere in milioni, miliardi di particelle, così che non sapete nulla di cosa sa lo studioso della porta accanto. Come pensate mai di poter volare alto? Forse comprenderete qualcosa della briciola di sapere che vi è stata affidata. Ma non potrete più aspirare a comprendere il tutto. E nemmeno ad avvicinarvi al tutto.” “Un momento, un momento. Senta signor Pitagora, se lei intende trattarci come tre ragazzini ignoranti, sappia per sua norma e regola che noi siamo tre ingegneri laureati con il massimo dei voti nelle più prestigiose università statunitensi…” “E anche specializzati. Ingegneria aerospaziale immagino. Vero signor Michael? Perdonatemi se vi ho dato questa impressione, ma non intendevo minimamente porre in dubbio la vostra competenza scientifica. Cercherò di spiegarmi meglio. Voi certamente sapete assai meglio di me cosa sono i pixel. Ebbene, se noi ingrandiamo sempre più un’immagine, per poterla analizzare meglio, ci troviamo a vedere un numero infinito di quadratini, o

rettangoli, di colore diverso. Conosceremo in dettaglio ogni singolo pixel. Ma ci sfuggirà senz’altro l’immagine che i pixel compongono. La scienza negli ultimi quattrocento anni ha fatto esattamente questo: si è concentrata sempre più sul dettaglio, facendosi sfuggire il grande quadro d’insieme. L’universo è un’immensa scacchiera. Se voliamo basso non vedremo altro che quadrati bianchi e neri. Ma se saliamo in alto, allora sì che cominciano a vedersi, sempre più chiaramente, i grandi disegni che quei quadratini compongono. Alcuni di noi, nell’antichità, hanno semplicemente fatto questo.” “Ragazzi, sentite il mio consiglio, salutiamo e torniamocene a casa.” “Sì, Buzz, mi sembra la cosa migliore da fare.” “Arrivederci mister Pitagora.” “Ciao ragazzi. E cercate di capire, se potete.” Fine della registrazione. “Pazzesco…” “Hei, Julian, cosa vuoi farne di questa roba?” “Cancella tutto.” “Ma stai scherzando?” “No che non scherzo. Chi vuoi che ci prenda sul serio se diffondiamo questo documento? Penseranno tutti che sia una bufala. Così noi ci facciamo la figura dei grandissimi bugiardi e non ci crederà più nessuno, qualsiasi cosa diciamo.” “Mi sa che hai proprio ragione, Julian.” Delete. P.104, 105 e 106: Marte (foto courtesy of NASA); p.105 in basso: Aleksandr Isaevic Solženicyn (1918-2008); p.107: Manoscritto di geometria su papiro, IV sec a.C.

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Memorie

Ciao Hugo

Una risposta su mille domande Claudio Nobbio

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C

iao Hugo, come passa il tempo. Da una diecina di anni provo a scriverti. Questa sera ho preso il vaporetto 13 da Sant’Erasmo a Fondamenta Nuove. Ho tirato fuori dalla tasca alcuni fogli stropicciati di pubblicità, ma bianchi da un lato e provo a prendere la matita quasi consunta. Vedremo se sarà la volta buona. A quest’ora il sole rotola sull’orizzonte. Dicono Venezia sia unica, ma questo tramonto attraverso l’acqua ha qualcosa di infinito. Carrà? mi viene da pensare. Case di cartone galleggianti su questa laguna di acque basse. Alcuni pescatori di schie camminano in immersione per chilometri coi loro stivali di gomma alti con l’acqua al ginocchio. Forse è destino che le città d’arte siano circondate da paesaggi della natura più belli di quanta arte possa avere accumulato l’uomo dentro di esse. Firenze ad esempio. Tu ti perdi per la città di pietra e d’Arno e ti sembra ed è una delle meraviglie del mondo, ma poi prendi per le strade del Chianti, te le fai tutte fino a San Gimignano, Monteriggioni, Colle Val d’Elsa, Siena e ti rendi conto di cosa la natura sa offrirti. Filari di cipressi, vigneti dalle verdi foglie, uliveti dalle foglie d’argento. E chiese e campanili e casolari ricoperti di edera. Oggi era la festa del mosto, in questo inizio di ottobre. È dolce il vino rosso ancor più di quello bianco. Sulla brace arrostiscono salsicce. Mi ricordo quando Luciano ti portò in Svizzera tre chili di luganega e la faceste fuori in una sola serata. Che mangiatore ottimista e bevitore resistente. Te lo dico ora: non ho mai creduto che tu fossi andato in Svizzera solo per sfuggire alla crazy crowd che invade Venezia per ogni calle, campo, portico e sottoportico, ponti, campielli, per non parlare di ristoranti, bacari, cicchetterie. Secondo me volevi essere in un luogo dove fossi meno conosciuto e dove quando andavi al bar non ti chiedessero sempre un disegno del culo delle donne di Corto Maltese. Ed anche perché in Svizzera si accontentano di tasse del 20% invece che del 50% che praticano da noi. Chissà. L’esilio a volte è dorato, a volte malinconico. Ricordi Goldoni che a sessant’anni riparò a Parigi non tornandone più e da allora si è sempre lamentato della lontananza dalla

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sua amata città? Questo tramonto a pochi chilometri da San Giovanni e Paolo e dal Canal Grande sembra creato apposta da qualche scenografo cinese. Della Biennale di teatro o meglio delle Belle Arti. Vuoi mettere con la pur imponente presenza dei palazzi e ponti su Canal Grande? Il cuore e la mente mi si sciolgono in questa visione. Il sole che rotola, rosso, per tutto il percorso, e va a nascondersi, striato di qualche nuvolaglia, dietro le case basse e colorate dei pescatori o di qualche fortunato turista. C’è silenzio e pace e calma e una specie di indifferenza per chi profana questa bellezza a bordo di vecchi vaporetti dell’ACTV. Ma tu lo sai, perchè Malamocco dove tu abitavi non è da meno. Forse te ne sei andato per troppa insopportabile bellezza. A me succede con la musica. Ci sono pezzi che non posso sopportare per il senso di spleen che mi provocano e profondo piacere, troppo profondo. Una volta a Praga ho chiesto a un musicista di tromba corta e ai suoi compagni di strumenti a fiato, che suonavano in un caffè di fronte alla torre dell’orologio, mentre ordinavo un gulasch fatto come si deve, quanto volevano per smettere una mezz’ora di suonare. Suonavano talmente bene musiche di Gershwin e mi aspettavo che da un momento all’altro attaccassero Moonlight Serenade, o Cry me a river, oppure Summertime. A volte anche la bellezza risulta insopportabile. Lo sanno i visitatori dell’Accademia di Firenze dove alcuni alla vista del David cadono in trance svenuti. È una sindrome provocata dalla bellezza. Possibile che un uomo di forte spirito come te si sia sentito affondare dalla bellezza impareggiabile di questi tuoi luoghi di una vita? Mistero. Provo a chiamare Patrizia per saperne di più ma è domenica e non è reperibile al cellulare. Caro Hugo vorrei farti mille domande ma sono sicuro che non mi daresti mai risposte. Facevi come gli ebrei, a domanda risponderesti con altra domanda. La tua curiosità di sapere prima che di comunicare e la tua chitarra su cui anni fa pizzicavi le

corde argentine. Vorrei chiederti cosa dicevi quando bussasti alla Loggia Hermes, G.L.d.I. all’Oriente di Venezia, o quando a Nizza fosti ricevuto Maestro Segreto e quale domanda interiore ti spingeva ad approfondire i segni misteriosi della tradizione delle antiche confraternite dei costruttori di cattedrali, a partire dal tempio di Salomone. Avresti opposto altre ulteriori domande e come sempre mi avresti lasciato senza risposte. Come passa il tempo, eravamo seduti al caffè di un hotel veneziano. Ti chiesi se il caffè dell’albergo avrebbe potuto avere il nome di Corto, ma tu mi rispondesti che un marinaio come Corto non poteva dare il suo nome a un bar. Forse a un bistrot o una taverna dell’angiporto di Genova, dove hai passato del tempo a disegnare marinai e navi e gente che parte. A proposito di Genova, anche Hemingway ci andò per qualche giorno partendo dal Gritti di Venezia. La sera l’autista lo portò in uno di quei bistrot frequentati dai Corto Maltese di tutto il mondo. Una ragazza appoggiata al bancone e seduta su una botte della birra gli tenne compagnia e lo aiutò a ingolfarsi di alcool. Ma Ernest era stato previdente. Aveva detto all’autista Piergiovanni: quando chiudono questo locale portami a Santa Margherita dove abbiamo prenotato una delle stanze all’hotel Miramare e così il pilota di motoscafi di Canal Grande, trasformatosi in autista di Limousine, lo portò sano e salvo all’hotel in quell’albergo ligure dalla cui finestra si vedeva il sole che cominciava a srotolarsi all’orizzonte. A Genova a Caricamento e ora al Porto Antico, dopo che Renzo Piano lo ha reso accessibile, si vedono bastimenti sempre pronti a partire. Difficile vederli arrivare. Ma a che ora tornano i bastimenti, a che ora attraccano? Non ne ho mai visti attraccare, solo partire, forse perché quando partono suonano le sirene per avvisare o salutare, ma quando arrivano non avvisano nessuno, salvo la capitaneria per trovare posto. Caro Hugo, ora che avresti tutto il tempo di rispondere, colloquiare, ti rifugi ancora nei tuoi disegni, nell’invenzione di viaggi dei tuoi marinaio, viaggi di libertà, in paesi in cui non esistono caste socia-


li, dove tutti sono uguali, dove vige una grande tolleranza e dove la parola di passo è: Libertà. Metterò i panni del tuo marinaio questa sera per andare a parlare di musica con Misato Mochizuki, sul tema Etheric Blueprint, insieme a Peter Boehm, Florian Bogner, Corinne Schweizer, Markus Urban. Ma Olga Neuwirth con il suo progetto di Construction in Space e con i suoi accoliti che conosco ormai uno per uno, Eva Furrer, Olivier Vivares, Gerald Preinfalk, Hannes Haider, Stefan Asbury, Vera Fischer, Markus Deuter, Bernhard Zachhuber, Reinhold Brunner, Lorelei Bowling, Christoph Alder, Ander Nickvist, Nyal Keatley, Ed Jones, Daniel Riegler, Hubert Steiner, Lucas Schiske, Bjorn Wilker, Annette Bik, Marino Formenti, Sophie Schafleitner, Andrew Jezek, Benedict Leitner, Andreas Lindenbaum e Uli Fussenegger, non mi darà molto tempo. Mi chiederà a un certo punto di mettere i caschi arcobaleno e prepararsi al decollo per la dimensione musica. Come vedi anch’io mi faccio qualche viaggio nell’inconosciuto come facevi tu con la mente e non solo seguendo le rotte del marinaio; con quanta invidia non so. Un giorno la giornalista francese ti chiese: ma Corto è stato iniziato in qualche Loggia del mondo, in quei templi che appaiono in particolare nella Favola di Venezia, ma anche di quando in altri fumetti. Tu rispondesti: Corto è un marinaio libero e certo non sarebbe venuto a dirlo a me come non sarebbe andato a dirlo ad altri se fosse stato iniziato. Per entrare nella Libera Muratoria bisogna essere liberi e di buoni costumi e mi pare che questo egli fosse. Poi bisogna che qualcuno ti indichi la prima porta dove bussare. Poi dovrai bussare per altre porte, sette, prima di fare piena luce sui misteri del mondo. Ma senza premura, senza scalpore e con molta applicazione, nel tuo silenzio interiore. Ognuno ha la luce dentro di sé. Bisogna solo sapere come riuscire a trovarla. Questa risposta sicuramente me la daresti. Una risposta su mille domande.

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P.10/111: Vedute di Venezia (part.), Giovanni Antonio Canal, detto ‘il Canaletto’ (1697-1768).

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Notre-Dame de Paris, tra materia e luce La via  ermetica del portale centrale e dei rosoni Jean Marc Schivo

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fig.1a

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E

sistono innumerevoli descrizioni di questa cattedrale, magnificente espressione di trionfo collettivo, delle sue proporzioni, del suo contributo alla storia della società, della letteratura, dell’ingegneria e della ricerca, descrizioni puntuali di storici, letterati, architetti e alchimisti di ogni suo dettaglio, della sua complessità e dei suoi messaggi da quelli più evidenti a quelli più nascosti. Ma come per ogni grande monumento appartenente al patrimonio universale costruito sulle linee di forza del nostro pianeta, rileggerne passivamente le meraviglie non esclude l’analisi e la comprensione del suo messaggio profondo. Come nei nostri templi, il messaggio è contenuto nell’azione che l’adepto deve compiere illuminata da simboli, siano essi parola, scrittura, disegno, vuoto, aria, luce, che guidano verso la rimozione interna della pietra innescando così il processo della trasformazione. Non sarà fatta quindi una sistematica descrizione di questa

complessa opera, quanto piuttosto si cercherà di indicare un possibile cammino che il “Cercatore di luce” potrà seguire qui come in altri luoghi se lo ritiene opportuno. È un cammino che dall’esterno, dalla facciata e dal portale principale, ci proietta verso la penombra del vuoto interno regolato dalle immateriali proporzioni universali, verso la luce densa dei rosoni, luce quasi palpabile, luce di guarigione, creata con la maestria delle fusioni alchemiche dei suoi costruttori, che dal basso e dall’alto ci guida indicandoci la strada. (fig.1a/b). Molto tempo prima, anno 1832: “Senza dubbio è ancor oggi un maestoso e sublime edifico, la chiesa di NotreDame di Parigi. E innanzitutto, per non citare che pochi esempi fondamentali, ci sono, a colpo sicuro, poche pagine architettoniche più belle di quella facciata, dove, l’uno dopo l’altro insieme, i tre portali strombati a ogiva, la fascia scolpita e traforata delle ventotto nicchie regali, l’immenso rosone centrale affiancato dalle due finestre laterali come il prete dal

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diacono e dal sottodiacono, l’alta e fragile galleria di arcate trilobate che regge una pesante piattaforma sulle esili colonnette, infine le due massicce torri, parti armoniose di un tutto magnifico, sovrapposte in cinque piani colossali, offrono ai nostri occhi, in folla ma senza confusione, i loro molteplici dettagli … opera colossale di un uomo e di un popolo, ... prodotto prodigioso del concorso di tutte forze di un’epoca, su ogni pietra su cui si vede fiorire in mille modi la fantasia del manovale disciplinata dal genio dell’artista, sorta di creazione umana, in una parola, potente e feconda come la creazione divina a cui sembra aver sottratto il duplice carat113


fig.2

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tere: varietà, eternità.” [...] “Ogni lato, ogni pietra di questo venerabile monumento è una pagina non solo della storia nazionale, ma anche della storia della scienza dell’arte. Così, per non indicare qui che i dettagli fondamentali ... non ci sono solo gli ermetici a trovare nei simboli del grande portale un compendio bastevole della loro scienza, di cui la chiesa di Saint Jacques de la Boucherie era un geroglifico tanto completo. Così l’abbazia romanica, la chiesa filosofale, l’arte gotica, l’arte sassone, il pesante pilastro tondo che ricorda Gregorio VII, il simbolismo ermetico con cui Nicolas Flamel preludeva a Lutero, l’unità papale, lo scisma, Saint Germain des Prés, tutto è fuso, combinato, amalgamato in Notre-Dame.” (Victor Hugo, NotreDame de Paris). Meglio di un architetto, il grande scrittore ridava con queste parole la giusta dimensione a questo pregevole spazio, dinami-

co vocabolario dell’umanità, lasciando intravvedere come lo spessore della sua pelle sia l’espressione non solo della perfezione verso la trasformazione e l’ascesi, ma, di fatto, la voce di Parigi, del suo popolo e delle sue speranze, e dove, nelle pieghe della sua materia, anche il più disincantato appartenente a questa società poteva, e può ancora, trovare un dialogo con una dimensione capace di ridargli la speranza ormai perduta, senza pretendere null’altro che un atteggiamento sincero (fig.2). Intreccio ed equilibrio di proporzioni geometriche orizzontali e verticali, l’imponente facciata si presenta così al suo interlocutore, un elemento di connessione tra l’uomo e il divino le cui linee materiche di contorno ne esaltano il messaggio. Pochi elementi emergenti nel disegno delineano l’immagine pensata per imprimere nell’immaginario collettivo un ricordo semplice, chiaro e capace di esaltare il senso di forza, protezione e speranza che la cattedrale vuole rappresentare. Lo sguardo punta verso il centro dove il rosone, inscritto nella struttura quadrata, ne esalta la purezza geometrica. Se il compasso è lo strumento di costruzione della geometria luminosa dello spazio simbolico illimitato, il quadrato che ne circoscrive la forma, costruito con la squadra, ne rappresenta il limite. Ma se questa esaltazione del divino traspare in tutta la facciata enfatizzata dal rosone è soprattutto nel suo portale centrale sottostante (fig.3), dove le sculture sacre abbracciano il visitatore, nell’arco costruito in una pietra bianca che sapientemente incarna lo sguardo dei profeti, del Cristo e degli angeli, che avviene il passaggio a un mondo interno fatto di una luce differente che dall’alto e con i colori delle sue vetrate guida ognuno verso nuove risposte. Un altro elemento, forse meno evidente, ma ancora più profondo nei contenuti, guida ad altezza d’uomo lo sguardo di chi cerca un’altra spiegazione al messaggio di universalità che la cattedrale vuole esprimere. È singolare che proprio la base di questo libro di pietra sia costituita nella parte centrale da una fascia materica incisa da 33 medaglioni: sette rappresentanti le arti liberali, posti alla base dell’immagine del Cristo, e 28 di portata alchemica posti lateralmente al portale centrale creando un dialogo alternativo a quello sovrastante.


Questo ingente patrimonio formale si basa su quello che è da sempre l’elemento principale di unione tra tutti i suoi elementi: la geometria del “numero d’oro” e le sue divine proporzioni, linguaggio iniziatico su cui si fonda il vero percorso che il visitatore può intraprendere. Allineata sotto il rosone centrale e sotto il Cristo, alla base di tutto il sistema costruttivo, l’Alchimia o la Saggezza (fig. 4), seduta su un trono, elemento di congiunzione tra terra e cielo, la cui stabilità e verticalità è accentuata dalla scala Philosophorum a nove gradini, lancia il suo monito a chi deve intraprendere il nuovo cammino fatto di prove ermetiche e di trasformazioni. I due libri, l’uno aperto e l’altro chiuso, affermano che la vera conoscenza non può che risultare dal lavoro intimo fatto su se stessi. Il Cristo, con il suo libro chiuso, ribadisce ulteriormente questo concetto invitando il profano a ricreare la sua parola e non semplicemente a ripeterla o rileggerla. Per chi ha scelto la strada del Gabinetto di riflessione il richiamo agli insegnamenti massonici in questo limitato spazio è molto forte. Ai lati della scala ermetica Astrologia e Medicina ne rafforzano il significato mentre la Grammatica e la Musica (fig. 5), sul lato destro, si alternano alla Geometria e alla Retorica (fig. 6) poste sul lato sinistro. Risulta evidente come lo studio delle Sette Arti Liberali sia fondamentale nella trasformazione dell’individuo che vuole apprestarsi al raggiungimento della Maestria ieri come oggi e alla comprensione del messaggio inciso nei medaglioni, ma sia anche necessario per affrontare la costruzione di tutto il complesso architettonico della cattedrale, definirne le proporzioni, distribuirne i pesi, i vuoti; infine, per renderla linguaggio, luogo di guarigione, partitura musicale, evento cosmico. Le Sette Arti Liberali, strada e strumento del Compagno, ma anche del Maestro, sette espressioni di un unico linguaggio universale, rappresentano quindi il pilastro centrale di tutto l’organismo e della sua costruzione. Spazio di una religiosità differente, Notre Dame è medicina, luogo di cura e trasformazione della materia individuale, astrologia costruita su dinamiche universali, geometria nella sua forma proporzionata, linguaggio e musica nella sua capacità di contenere e trasformare la parola da vibrazione in

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Alchimia

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medicina sottile. Questo il senso del pilastro, questo lo spazio che oggi dovrebbe poterci avvolgere non solo in questa cattedrale, ma in tutta la città (fig. 7/8). Da sinistra verso destra, in una lettura alternata, i 33 medaglioni svelano progressivamente dall’esterno verso l’interno parte del loro messaggio. Solo parte poiché solo chi intraprende la via alchemica può forse sperare di comprenderne l’immensa portata. La sua lettura ci costringe a una al116

ternanza visiva non facile e che si restringe per fasi successive fino al varco interno, ma soprattutto ci impegna a cercare in altri luoghi la risposta ai nostri quesiti per ritornare successivamente trasformati e sempre più partecipi di quella sinfonia cosmica che caratterizza la cattedrale cercando nuovamente di cogliere il significato della fase successiva. La complessità di questo lungo racconto di pietra ci obbliga qui ad accennarne solo alcuni aspetti ini-

ziali con lo scopo di creare interesse e continuità nella sua complessa comprensione fatta di tempo, pesi, rinunce e sincerità da parte di chi vuole intraprendere la Strada. La lettura inizia da sinistra verso destra. Le immagini di GIOBBE - ABRAMO scandiscono la prima tappa di questo lungo viaggio. Il sistema allegorico ci rimanda ai metalli da lasciare fuori dal tempio, al sacrificio talvolta supremo, alla rinuncia verso tutto quello che ci lega verso il mondo statico del superfluo. Sotto l’ALBERO e la FONTANA rappresentano gli elementi vitali su cui dobbiamo porre le basi della ricerca individuale così come avviene nel gabinetto di riflessione. Non siamo di fronte a una semplice sorgente, ma a una vera fonte della giovinezza di cui comprenderne l’essenza significherà acquisire una differente interpretazione dei meccanismi universali. L’ATHANOR, guida e luce nel difficile percorso iniziatico di trasformazione, esige una costante protezione contro ogni forma di aggressione. Strumento materico e spirituale al contempo raffor-


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za a ogni tappa la sua duplice funzione di continuo percorso nello scrutare all’interno di se stessi. “Visita interiora terrae rectificando invenies occultum lapidem”, il processo dell’introspezione è avviato. A rafforzare questa analisi, che consiste nella riorganizzazione interna delle motivazioni coscienti e intuitive spesso offuscate dall’ignoranza e dalle illusioni, troviamo in questi medaglioni nuove indicazioni: il CORVO, l’ATHANOR e la PIETRA. La simbologia del Corvo che rappresenta l’inizio del percorso nell’oscurità riprende forza con la consapevolezza di quello che sarà necessario trovare. La pietra, finalmente isolata dall’adepto, viene contemplata e proiettata verso il futuro mentre l’Athanor, strumento di trasformazione, resta fortemente ancorato a lui. LA DISTILLAZIONE RIPETUTA, nessuna impresa che rimetta in discussione nel tempo i propri valori è facile. In ogni fase, soprattutto all’inizio, si rischia di essere disorientati per la falsa sicurezza acquisita e per le troppo evidenti e facili prospettive offerte che intaccano i prin-

cipi dell’unità che si cerca di raggiungere. Questo è il senso del cavallo che disarciona il suo cavaliere poco concentrato sul suo percorso. È proprio in questa fase che le ripetute distillazioni e decantazioni allontanano l’Adepto dai falsi itinerari. La materia da trasformare non è che lo strumento occasionale, la trasformazione avviene solo nel profondo dove le false motivazioni, le paure millenarie, le ambi-

zioni si dissolvono alla luce di nuovi elementi di cui si è finalmente compresa la vera funzione. L’Ingresso nel Santuario l’introspezione, la distillazione, la decantazione delle paure portano verso un desiderio di armonia da tutelare e diffondere, diventa la porta da varcare per continuare l’opera. In successione: IL MERCURIO FILOSOFALE - LA CONGIUNZIONE ZOLFO + MERCURIO - IL VECCHIO E IL RE 117


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l’origine e la Pietra rappresentano le finalità da raggiungere. L’impegno è di saper comprendere i valori giuda dell’energia e quelli del mercurio e dello zolfo perché possa cominciare la rinascita iniziatica in cui lo spirito divenga elemento predominante. Il mercurio filosofico dalle ampie virtù terapeutiche avrà così raggiunto il suo compito. Il vecchio saggio viene ora in soccorso al re la cui saggezza e forza ritrovano un nuovo vigore nel dialogo evolutivo con la natura. L’adepto è finalmente in viaggio e lo specchio che tiene nella mano destra per confrontarsi nei momenti di estrema necessità, sperando di intravvedere in esso il mercurio filosofale, è l’unico strumento che non potrà mai tradirlo, mentre la pietra occulta rappresenta la finalità del Viaggio. LA SALAMANDRA – I MATERIALI DELLA DISSOLUZIONE, l’allegoria del118

la salamandra, simbolo della resurrezione capace di resistere al fuoco, diventa il compagno necessario per questa continua trasformazione. È col fuoco che l’adepto deve potersi purificare scoprendo la maestria della sua manipolazione e della rigenerazione della natura tramite quest’ultimo nella fase che nel linguaggio alchemico prende il nome di calcinazione o dissoluzione della materia. CONOSCENZA DEI PESI – LOTTA CON LE DUE NATURE, per assecondare questa ripetuta fase di dissoluzione della materia l’Iniziato dovrà poterne valutare la portata e i rapporti dei valori a essa attribuiti, dei pesi non più materici e combatterli ai fini di ottimizzare la congiunzione dello zolfo con il mercurio. Così come occorre saper posizionare in maniera corretta la squadra con il compasso, la lotta tra le due nature è la lotta dell’Ap-

prendista, del Compagno e del Maestro per raggiungere una nuova geometria mentale, un nuovo equilibrio capace di sopportare nuovi carichi e nuove sollecitazioni. LA PREPARAZIONE DEL SOLVENTE UNIVERSALE - L’UNIONE DEL FISSO CON IL VOLATILE, le immagini allegoriche della Volpe e del Gallo, simbolo del risveglio, inscritte nei medaglioni, simboleggiano la trasformazione che transita attraverso l’introspezione tramite la vigilanza, la perseveranza e l’intelligenza per acquisire una metodologia e prendere coscienza dei meccanismi sottili che regolano l’avvicendarsi delle varie fasi di trasformazione. IL REGIME DI SATURNO - LA REGINA E MERCURIO, a questo risveglio si contrappongono le forze contrarie che spesso portano a un’errata valutazione delle nostre paure, con il pericolo di tornare indietro sui propri passi e non espandere la costruzione di questo nuovo tempio. Interviene così l’aiuto simbolico della regine della natura nel senso più ampio del termine per consentire una nuova apertura, imprigionando e dissolvendo l’ego, per offrire all’adepto un nuovo modo di concepire la visione del mondo. Il processo alchemico a questo punto è innescato. EVOLUZIONE DEI COLORI NELLA GRANDE OPERA – LO ZOLFO, il corpo simbolizzato nell’immagine del toro, forza ancestrale non da contrastare, ma da controllare e indirizzare, trasformato in zolfo filosofale, rappresenta il passaggio dalla forza brutale alla maestria, alla spiritualità, una fase che, una volta raggiunta, consente di separare il sottile dal manifesto, dove l’allegoria dei colori ci porta dal nero al bianco e al rosso, dal buio alla luce. “Ma poiché la natura, secondo il vecchio proverbio: “Natura non facit saltus”, non fa nulla bruscamente, ci sono molti altri colori intermediari che appaiono tra questi tre principali ... ma l’artista non li considera perché sono superficiali e passeggeri essi recano solo il messaggio della continuità e della progressione delle mutazioni interne” (Fulcanelli, Il segreto delle cattedrali). Sta all’Adepto non perdersi in questo mondo effimero usando i colori dominanti per collocarli in un giusto processo di trasformazione. Il RIBOLLIRE - LA FERMENTAZIONE, stabilizzare nell’individuo il processo


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di trascendenza continua a cui attingere per dialogare con la natura e assecondarne gli effetti non risulta opera semplice. Come i medaglioni, indicano lo sforzo in questa fase è considerevole. Rivoluzione interna, opera dolorosa di rimozione di ogni attaccamento, ricostruzione a questo punto dell’opera di un nuovo scheletro strutturale costruito su energie differenti ancora più sottili e vicine alle regole universali più difficili da comprendere, ma 120

più immediate e dirette nella loro applicabilità ad una materia sempre più evidente e priva di veli e colori ingannevoli. Questi due momenti rappresentano in sintesi una lenta distillazione che stimola un nuovo modo di indirizzare l’energia e la maestria verso una visione universale. I QUATTRO ELEMENTI E LE DUE NATURE - IL CORPO FISSO, forniscono la chiave di risposta a questa ultima fase in questi quattro elementi, in questi

quattro viaggi, premessa alla formazione del viaggio iniziatico. Qui i nostri desideri vengono rettificati, trasformati all’insegna del fuoco filosofale. Il cavaliere ne rappresenta l’ultima immagine. La sua verticalità e lo scudo con inciso il leone ne rappresentano la riconquistata reale presenza, l’opera portata a termine e rivolta a nuove costruzioni. La sua postura immobile, eretta nella sua maestria, diventa immagine del nuovo tempio interiore a servizio del grande architetto dell’universo. IL SOGGETTO DEI SAGGI – L’ALBERO SOLARE, se l’opera si é compiuta la verifica non sta nell’oro o nel tempo trascorso per calcolarne i pesi e le quantità da trasformare, ma in ciò che lo specchio indica. L’Albero della vita vibrante di luce, unico artefice di un dialogo individuale e obbiettivo, privo di qualsiasi illusione, capace di rilanciare la sfida per un nuovo percorso, sarà ricco di nuovi frutti da offrire e trasformare e a cui uomini inconsapevoli potranno nuovamente attingere. La riscoperta del senso della vita si può intravvedere in questo codice dai contenuti unici che, da un lato, offre la rivelazione della pienezza dell’alchemico e, dall’altro, la progressione del Rito Scozzese Antico e Accettato e dei suoi gradi che, al di la delle allegorie e della storicità, contengono in maniera velata un passaggio verso la trasformazione alchemica. Se tutto il processo è finalizzato alla dissolvenza e all’eliminazione delle impurità sicuramente questa scrittura di pietra ne indica la strada. “Con abbondante fioritura della sua decorazione, con la varietà dei soggetti e delle scene che l’adornano la cattedrale si presenta come un’enciclopedia di tutto il sapere medioevale, perfettamente completa, talvolta ingenua, talvolta nobile, ma sempre vivente” (Fulcanelli, Il segreto delle cattedrali) oggi ancor più di prima poiché attende nuovi visitatori che prima di intravvedere la luce del suo spazio interno siano capaci di ridare nuovi valori alla pietra e ai suoi molteplici materiali. Ma questo linguaggio della guarigione che passa attraverso un lento processo di trasformazione esige una strada fatta di semplicità poiché: “La Natura non apre a tutti, indistintamente, la porta del santuario. Nessuno può pretendere di possedere il Gran Segreto se non accorda la propria esisten-


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za al diapason delle ricerche intraprese. Non è sufficiente essere studioso, attivo e perseverante, se manca un solido principio, che sia una base concreta, se l’entusiasmo smodato accusa la ragione, se l’orgoglio tiranneggia il giudizio, se l’avidità si accresce alla fulva luce d’un astro d’oro. La scienza misteriosa ha bisogno di molta equità, di esattezza, di perspicacia nell’osservazione dei fatti, d’uno spirito sano, logico e ponderato, d’un immagine viva ma senza esaltazione, d’un cuore ardente e puro, Inoltre, essa esige la più grande semplicità e l’assoluta indifferenza nei confronti delle teorie, dei sistemi, delle ipotesi che generalmente sono ammessi senza dimostrazione, facendo fede sui libri o sulla reputazione dei loro autori. Essa vuole che i suoi aspiranti imparino a pensare di più con il proprio cervello e meno con quello degli altri. Essa pretende, infine, ch’essi chiedano la verità dei suoi principii, la conoscenza della sua dottrina e la pratica dei suoi lavori alla Natura, nostra madre comune.” (Fulcanelli, Il segreto delle cattedrali).

Senz’altro i costruttori delle cattedrali sapevano come catturare lo sguardo di chi entrava in contatto con il loro linguaggio, sia che fosse rivolto verso il basso, come avvenuto finora, sia verso l’alto come avviene a chi ha varcato la soglia d’ingresso e si appresta a contemplare questo immenso spazio. Le cinque navate che definiscono la struttura a croce latina della chiesa sembrano costruite per esaltare il dialogo luminoso che nelle differenti ore del giorno plasma il suo spazio centrale. Qui la luce giunge solo dall’alto e il fedele avanza verso il centro della navata principale guidato da questi raggi che scandiscono durante l’anno i ritmi delle stagioni. Solo così lo sguardo potrà dirigersi verso il centro della chiesa e coglierne il significato. Se le longilinee vetrate inserite tra le linee di forza della struttura esterna della cattedrale definiscono ogni volta una ritmica pausa di riflessione luminosa nella sua struttura portante innescando un rapporto di dualismo materia - luce, corpo - spirito a cui la cattedrale tende, sono invece i roso-

ni che scandiscono la dimensione e l’ampiezza del grande vuoto centrale costituendone l’elemento dominante. Questi tre elementi inseriti lungo il transetto lato nord e sud e sulla facciata principale lato ovest, circoscritti in una struttura quadrata, esprimono con la loro circolarità il senso dell’infinito e la loro contrapposizione simbolica al ruolo della materia. Tracciati dalla sapienza del compasso e inseriti con la squadra nel gioco delle divine proporzioni, questi tre elementi imprimono un ritmo differente a tutto l’organismo spaziale rafforzando la centralità di un messaggio che può essere scoperto solo al suo interno. (fig.9) Questi tre perni, dal cui centro si diramano 24 raggi, rilanciano il valore universale di questa opera scritta: messaggio Cosmogonico, Ruota della vita per i Tibetani, Dharmachakra, Ruota Fiammeggiante per i neoplatonici, schema della Città Cosmica, etc., nelle differenti culture costituiscono le basi di un’urbanistica divina, dello spazio temporalizzato verso cui l’uomo tende, indicandogli la strada da segui121


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re e guidandolo con gli schemi cosmici delle sue figure verso un lavoro individuale da svolgere in sintonia con le virtù e i ritmi delle stagioni. Unica per dimensioni tra tutte quelle realizzate in Francia (diametro 9.60 m), la vetrata del rosone ovest interpreta questa duplice strada da seguire e rappresenta un programma iconografico completo sia teologico che profano, espressione di un entusiasmante inno alla natura. La Vergine Maria al centro del perno tiene in braccio il figlio della creazione e nella mano opposta un giglio. Il Figlio regge il simbolo del mondo. Attorno a questo medaglione centrale si collocano i messaggi radiali: 12 figure rappresentanti le dodici tribù d’Israele e, a seguire, nella parte superiore i vizi e le virtù dell’uomo e in quella inferiore i dodici segni zodiacali e il lavoro stagionalmente a essi legato. 56 medaglioni di una mappa che ripropone in linguaggio trasparente parte dei temi dei medaglioni sottostanti. Dualismo, raffronto continuo, dialogo inevitabile tra divino e materia animano queste immagini. 84 pannelli consacrati al Vecchio Testamento, posti nei transetti lato sud e lato Nord, distribuiti in quattro settori, 12 nel primo, 24 nel secondo, 12 quadrilobati nel terzo e 24 trilobati nel quarto completano l’insieme dei rosoni. La lettura dei rosoni, guidata dai colori che ne strutturano il messaggio, non può che essere individuale per aprire nuove porte di comprensione dell’Opera 122

(fig.10). “Le problème consistait à disposer des compartiments de pierre de manière à laisser, pour les panneaux des vitraux, des espaces à peu prés égaux … l’architecte prétendit donner à son réseau de pierre à la fois plus de solidité et plus de légèreté. En conséquence il divisa le cercle en vingt-quatre parties pour la zone extérieure et douze partie pour la zone intérieure … Si le cercle est compris dans un carré dans une sorte de cadre enclavé entre les contreforts latéraux, la partie ajourée, le châssis vitré, se termine par la cintre de la rose elle-même. Cependant dés 1240, des maitres avaient jugé à propos d’ajouter non seulement les coinçons intérieurs, mais aussi les coinçons supérieurs des roses. (EugèneEmmanuel Viollet-le-Duc, Dictionnaire raisonné de l’architecture française). In questo ardito processo costruttivo, le vetrate non rappresentano certamente soltanto un sistema decorativo, ma anche un profondo valore alchemico. “In seguito a questa disposizione (orientamento della cattedrale), uno dei tre rosoni che ornano il transetto e il grande portico non è mai illuminato dal sole: è il rosone settentrionale che s’irradia nella faccia del transetto sinistro. Il secondo fiammeggia al sole di mezzogiorno: è il rosone aperto alla estremità del transetto destro. L’ultimo si illumina ai raggi colorati del sole che tramonta: è il grande rosone del portale, di gran lunga è più grande, per estensione e per bellezza, dei suoi fratelli laterali. In questo modo … si succedono i colori

dell’Opera, secondo un processo circolare che va dalle tenebre, rappresentate dall’assenza e dal color nero, alla perfezione del colore rosso, passando per il bianco, considerato come una media tra il nero e il rosso. Nel medioevo il rosone centrale si chiamava Rota, la ruota. Ora, la ruota è il geroglifico alchemico del tempo necessario alla cottura del materiale filosofale e, in seguito rappresentò la cottura stessa. La rosa rappresenta quindi, da sola, la durata del fuoco e della sua azione. Per questa ragione i decoratori medioevali hanno cercato di tradurre, nei loro rosoni, i movimenti della materia eccitata dal fuoco elementare. Alcuni rosoni, emblema dell’amalgama, hanno un senso particolare che sottolinea ancora di più le proprietà di questa sostanza che il creatore ha firmato di mano sua. Questo magico sigillo rivela all’artista che la strada eseguita è quella giusta e che la mistura filosofale è stata preparata canonicamente”. (Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali). Gli alchimisti sapevano fabbricare il vetro (fig.11) seguendo particolari procedure di decantazione e distillazione dei materiali. Il metallo diventava vetro impregnato di sostanze finemente trattate. Quindi la luce, non più solamente colorata, subisce continuamente nel passaggio attraverso lo spessore della vetrata una modificazione della sua lunghezza d’onda. La polvere metallica funziona tecnicamente come una serie infinita di piccoli specchi rifrangenti in modo da trasformare la vibrazione luminosa che viene così ampliata e rafforzata dalla purezza di un trattamento prodotto dalla maestria. Ciò che riceviamo dal passaggio della luce filtrato e potenziato dai colori delle vetrate è quindi un’energia trattata dagli effetti dei metalli sapientemente purificati per far giungere fino a noi la giusta sonorità di cui la luce esterna è il vero artefice. Con questa tecnica le vetrate raggiungono caratteristiche particolari. Il rosso e il blu, colori dominanti, così come gli altri dello spettro luminoso completano la scala cromatica infondendo alle figure una dinamicità e un potere di trasformazione che agisce su chi si sottopone alla loro guida. La scala del colore è anche scala musicale in cui i sette metalli impiegati dagli alchimisti per realizzare il codice luminoso simboleggiano i sette gradini del cammino iniziatico:


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1. superare le paure per aprirsi verso nuovi orizzonti, metallo associato argento, colore violetto, nota musicale Do. 2. ascoltare le leggi del mondo e non solo, metallo associato mercurio, colore arancio, nota musicale Re. 3. imparare a dialogare con gli altri per meglio capire se stessi, metallo associato rame, colore verde, nota musicale Mi. 4. ricercare l’illuminazione combattendo l’orgoglio e la vanità al fine di ritrovare se stessi, metallo associato oro, colore giallo, nota musicale Fa. 5. controllare la violenza e la collera, imparare a non soccombere al caos, metallo associato ferro, colore rosso, nota musicale Sol. 6. saper incamerare l’energia senza soccombere al potere, metallo associato peltro, colore blu, nota La. 7. riunire ciò che non è collegato in un unico linguaggio, metallo associato piombo, colore nero, nota Si. “Quel Maestro … tuttavia chino su un ampio manoscritto ornato di pitture bizzarre (fig. 12a/b, 13 e 14), sembrava tormentato da un’idea che veniva senza posa a intromettersi nelle sue meditazioni…” Sì, lo dice Manu e Zoroastro lo insegna” escalmava …, il sole nasce dal fuoco, la luna dal sole. Il fuoco è l’anima del grande

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tutto. I suoi atomi elementari si diffondono e piovono incessantemente sul mondo in correnti infinite. Nei punti in cui queste correnti si intersecano in cielo, producono luce, nei loro punti di intersezione sulla terra producono oro - Luce, Oro, la stessa identica cosa. Fuoco allo stato concreto. La differenza tra visibile tangibile, tra fluido e solido di una stessa sostanza, tra vapore acqueo e ghiaccio, niente di più - Non sono sogni codesti – è la legge generale della natura.

Ma come fare travasare nella scienza il segreto di questa legge naturale? Come! Questa luce che mi inonda la mano è oro! Questi stessi identici atomi dilatati secondo una certa legge, e che si tratta solo di condensare e secondo un’altra legge! Come fare?” (Victor Hugo, Notre - Dame de Paris). Per la descrizione delle illustrazioni vd. testo dell’articolo; le foto alle pagg. 114, 115, 116, 117, 121 sono di J.M.Schivo; le foto alle pagg. 112, 118, 122, 123 sono di P. Del Freo.

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Il mistero dei giorni della settimana Avete ancora la capacitĂ di meravigliarvi? Fiorenzo Sogni e Maria Sofia Perrella

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in da piccoli siamo stati abituati a riconoscere i giorni della settimana come: lunedì, martedì, mercoledì, giovedì..., ma ci siamo mai chiesti perché si chiamano così, e perché sono disposti in quella determinata sequenza, e non, per esempio, mercoledì, lunedì, giovedì, martedì...? Poiché noi siamo delle persone che non si accontentano dei luoghi comuni e cerchiamo sempre di indagare, di andare “oltre” alle apparenze e ai condizionamenti, proviamo a scoprire perché i nomi della settimana si chiamano in tal modo e soprattutto perché sono disposti in quell’ordine. Per farlo, dobbiamo innanzi tutto sollecitare la nostra capacità di meravigliarci, come meglio spieghiamo nel paragrafo seguente. La capacità di meravigliarsi Nell’uomo c’è una qualità che nel tempo si è ridotta e deteriorata, a tal punto che tende addirittura a scomparire. Parliamo della capacità di meravigliarsi, di provare stupore di fronte a cose nuove, straordinarie. È un sentimento di straordinaria importanza per la conoscenza di noi stessi, perché chi prova un senso di meraviglia riconosce di non sapere. Per converso, chi non prova più alcuna meraviglia, ritiene di aver conosciuto tutto e di non avere più bisogno di indagare, scoprire, apprendere e quindi stupirsi, e da questo ne deriva che gli è preclusa qualsiasi possibilità di procedere nel viaggio alla conoscenza della propria Verità. La capacità di meravigliarsi (in greco thaumazein) è all’origine della filosofia e, secondo Aristotele e Platone, è lo stupore provato di fronte alla bellezza e all’ordine della natura dall’uomo che, soddisfatte le immediate necessità materiali, inizia a interrogarsi sulla sua esistenza e sul suo rapporto col mondo. Ci si può chiedere come sia possibile che questa straordinaria capacità, tipica dell’uomo che ricerca, tenda sempre più a ridursi; la risposta si può trovare nel mondo consumistico nel quale viviamo, dove i messaggi martellanti dei mezzi di comunicazione (a tutti i livelli, anche subliminali) hanno anestetizzato il nostro sentire, costringendoci continuamente a una suspension of disbelief, ovvero a una sospensione dell’incredulità,

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grazie alla quale le cose più improbabili non ci turbano più di tanto, privandoci del senso straordinario della meraviglia. Ma se nella vita di tutti i giorni l’ottundimento della meraviglia può essere una forma comoda per accettare la finzione dei programmi televisivi o cinematografici, oppure un atteggiamento di difesa, necessario per non vivere sempre in condizioni di emergenza dei sensi, nella nostra personale e intima esistenza questo degrado della meraviglia si può rivelare estremamente dannoso. È perciò urgente cercare di riappropriarci della nostra capacità di meravigliarci, aprendo il nostro cuore e la nostra mente ai misteri che ci circondano, provando innanzi tutto di individuarli, perché si sottraggono al nostro sguardo a causa di pesanti strati di convenzioni, abitudini e insegnamenti dogmatici. Una volta individuati questi misteri, proviamo a comprenderli, sempre con la capacità e il desiderio di provare meraviglia, andando a scoprire con pazienza e passione per la vita le motivazioni che hanno spinto chi ci ha preceduto a celare sotto forma di allegorie, miti e apparenze banali, la magia del pensiero antico, che è molto più profonda e illuminata di quan-

to si possa credere. Ricerca senza meraviglia Proviamo ad analizzare l’etimologia dei nomi della settimana con il primo riferimento che ci viene in mente e cioè la derivazione dai personaggi della mitologia romana: - Lunedì (dì della Luna) significa giorno della Luna, senza meglio specificare di quale Luna si tratti; infatti, nella tradizione mitologica la Luna, grazie alla mutevolezza del suo aspetto che la rende unica fra tutti gli astri, è stata associata a tre distinte divinità, corrispondenti ciascuna a tre sue diverse manifestazioni: la Luna piena (Diana), la Luna nuova (Ecate) e la Luna crescente (Artemide), metafore rispettivamente della vita, della morte e della rinascita, rappresentando così l’eterno ciclo della vita. Il Lunedì in Europa e in America latina è il primo giorno della settimana (secondo la Norma ISO 8601 del 15 giugno 1988, che è uno standard internazionale per la rappresentazione di date e orari), mentre negli Stati Uniti, in Canada, in Giappone, in Brasile, in Portogallo e per la Chiesa Cattolica è il secondo, poiché considerano la Domenica come primo giorno della settimana. 125


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- Martedì significa giorno di Marte (il dio della guerra, della violenza e di tutto ciò che implica potenza e ferocia). - Mercoledì corrisponde a Mercurio (dio dell’eloquenza e del commercio, era considerato anche il messaggero degli dei). - Giovedì a Giove (dio supremo di tutti gli dei). - Venerdì a Venere (la dea dell’amore e della bellezza). - Sabato: questo nome non sembra avere riferimenti con la mitologia romana e dobbiamo quindi pensare che sia di diversa origine. Indagando, scopriamo così che il nome di questo giorno in inglese è Saturday, cioè dal latino Saturn dies e dall’apocope dell’inglese Saturn’s day, con evidente riferimento al dio Saturno (dio dell’agricoltura, e quindi di prosperità e benessere). Con l’avvento del Cristianesimo, il nome di Saturno fu sostituito con quello del sabbath ebraico, perché i primi cristiani erano di origine ebraica e onoravano questo giorno come dedicato al riposo, che perciò era considerato l’ultimo della settimana; nel Sinodo di Laodicea (360 d.C.) invece i Cristiani proibirono di celebrare il sabato, preferendolo alla Domenica. - Domenica: anche questo nome non appare a prima vista legato alla mitologia, perché il suo significato deriva da dies dominicus, cioè “giorno del Signore”, introdotto dai Cristiani in sostituzione del giorno dedicato al Sol invictus collegato alla religione di Mithra e Apollo. Proseguendo sulla strada della mitolo126

gia, si osserva che numerosi popoli hanno attinto a piene mani ai personaggi mitologici nel momento di assegnare un nome ai giorni della settimana. Per esempio, nella cultura anglosassone Martedì corrisponde a Tuesday, da Tyr (dio della guerra e del coraggio), Mercoledì, Thursday, da Thor (Thor’s day dio della forza e delle tempeste), Giovedì, Wednesday, da Odino (Wodan’s day - dio supremo della guerra e della magia), Venerdì, Friday, da Frigg (Frigg’s day - dea della fecondità e dell’amore). Come si può vedere, nei nomi dei giorni della settimana c’è molta attinenza con i personaggi della mitologia greco-romana ... ma se invece il collegamento originario fosse un altro? Lo scopriremo nel prossimo paragrafo1. Scopriamo la meraviglia nei giorni della settimana Proviamo ora a ricercare nei tempi più antichi l’origine dei nomi della settima1 Un’eccezione ai nomi dati ai giorni della settimana è costituita dal Portogallo, dove i riferimenti a divinità mitologiche sono stati sostituiti da un sistema numerale derivato dalla tradizione ebraico-araba, per cui, iniziando dalla Domenica, che è chiamata “o Domingo”, il lunedì è “a segunda-feira”, il martedì è “a terçafeira”, e così via. Lo stesso per la Grecia, che, iniziando dalla Domenica (kyriakí), nomina il lunedì come secondo giorno (dheftéra), il martedì come terzo giorno (tríti), il mercoledì come quarto (tetárti) ecc, e per Israele, dove la Domenica è chiamata “Yom rishon” (primo giorno), il lunedì “Yom sheni” (secondo giorno), il martedì “Yom shlishi” (terzo giorno), il mercoledì “Yom Revi’i” (quarto giorno), ecc.

na e scopriamo (meraviglia!) che risalgono alla civiltà caldea (caldeo significa “conoscitore delle stelle”), che aveva collegato i sette luminari celesti (gli astri erranti del cielo conosciuti nell’antichità e secondo la sequenza originale: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno) alle particolari virtù del numero sette e, quindi, ai giorni della settimana. Per creare la settimana di sette giorni (che, come sappiamo, non ha relazione con i fenomeni della natura, ma è semplicemente una convenzione), gli astronomi antichi avevano attribuito a ognuno dei sette “pianeti sacri” allora conosciuti (pianeti governatori) un’ora del giorno, facendo dipendere la loro influenza dal periodo siderale della Luna, che si avvicina ai 28 giorni (media tra durata minima e massima, mentre presso alcune civiltà fu adottato il periodo di 27 giorni); questo periodo, suddiviso in quattro parti, corrisponde ai sette giorni della settimana. È dunque possibile che i nomi dei giorni della settimana derivino dai sette pianeti astrologici e non dai personaggi mitologici? Per comprendere meglio questo collegamento, approfondiamo il pensiero e le scoperte degli antichi popoli della Mesopotamia. I popoli antichi avevano una concezione geocentrica (tradizione aristotelico-tolemaica), cioè ponevano la Terra, sferica e immobile, al centro dell’Universo; attorno a essa ruotava il cielo delle stelle fisse (sfera limite o esterna), mentre tra la Ter-


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ra e le stelle si svolgeva il moto dei pianeti “erranti”, dal greco planetes, che significa, appunto, errante o vagabondo. Questi ultimi comprendevano tutti i corpi celesti in apparente movimento rispetto alla Terra, e quindi anche il Sole e la Luna oltre a Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno, mentre gli altri pianeti del sistema solare oggi conosciuti (Urano, Nettuno, Plutone, Haumea, Makemake ed Eris, anche se questi ultimi quattro, compreso Plutone, non sarebbero dei veri e propri pianeti) non erano stati scoperti perché non visibili a occhio nudo. Come classificazione dei sette “pianeti sacri”, gli antichi usarono la durata della loro (apparente) rivoluzione attorno alla Terra, stabilita considerando le loro orbite perfettamente circolari e non ellittiche, cosa che comportò l’adozione di alcuni elementi correttivi (come gli epicicli, o circonferenze di raggio relativamente piccolo, sulle quali si supponeva si muovessero i pianeti percorrendo il molto più grande perimetro circolare attorno alla Terra) per spiegare il moto retrogrado dei pianeti in alcuni periodi dell’anno. I “pianeti”, considerati in ordine crescente di tempo di rivoluzione, furono così classificati: Luna (circa 28 g), Mercurio, (circa 88 g), Venere (circa 225 g), Sole (circa 365 g), Marte (circa 687 g), Giove (circa 4.333 g), Saturno (circa 10.760 g). La sequenza in base al tempo di rivoluzione appariva pertanto così: Luna/ Mercurio/Venere/Sole/Marte/Giove/Saturno. Sequenza non corrispondente, come si vede, a quella attuale dei gior-

ni della settimana; allora, da dove deriva quest’ultima? Infatti, i giorni nella sequenza attuale sono i seguenti: Lunedì, corrispondente alla Luna. Martedì, corrispondente a Marte. Mercoledì, corrispondente a Mercurio. Giovedì, corrispondente a Giove. Venerdì, corrispondente a Venere. Sabato, corrispondente a Saturno. Domenica, corrispondente al Sole. Successivamente ai Caldei, anche i Babilonesi, i Cinesi, gli Indiani e molti altri popoli adottarono la stessa sequenza dei giorni riferiti ai sette luminari, come possiamo anche vedere dalla traslitterazione dal sanscrito: Somavara (giorno della Luna). Mangalvara (giorno di Marte). Budhavara (giorno di Mercurio). Guruvara (giorno di Giove). Shukravara (giorno di Venere). Shanivara (giorno di Saturno). Ravivara (giorno del Sole). La cosa strana è che, apparentemente, tutte le antiche culture, tanto la cinese come la indù, incluso quella del Medio Oriente e l’egiziana, hanno adottato la stessa sequenza settimanale, ciò che costituisce di per sé un enigma: come è possibile che la stessa sequenza settimanale sia stata scelta contemporaneamente da popoli così distanti tra loro? E come si è giunti alla sequenza attuale, così diversa da quella originale che abbiamo visto sopra? Come risalire alla sequenza attuale dei giorni della settimana? Ispirandoci a un antico e fantasioso di-

segno di Basilio Valentino che riguarda il famoso acronimo vitriol, il cui significato per esteso è “Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem” (l’invito a ricercare all’interno di sé la Verità nascosta), abbiamo individuato un metodo geometrico per l’attuale sequenza dei giorni della settimana, che consiste nel disporre sulla circonferenza di un cerchio i sette “pianeti sacri”. Schema per individuare la sequenza dei giorni della settimana Il sistema consiste nel tracciare un cerchio sulla cui circonferenza si dispongono i sette “pianeti sacri” nell’ordine originale in base al loro periodo di rivoluzione: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno. Successivamen-

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te, si appoggia una matita sulla posizione della Luna e, senza distaccarla, si congiunge questo punto con quello opposto di Marte. Da questo, si traccia una linea con la parte opposta del cerchio, corrispondente a Mercurio, e così via, sino a completare un percorso che forma, con i vertici di una stella a sette punte, la sequenza attuale dei giorni della settimana. 128

Domande senza risposta Riteniamo che il sistema geometrico descritto, anche se porta all’attuale sequenza dei giorni della settimana, sia comunque artificioso e non molto associabile alla scienza degli antichi; rimane perciò insoluto il motivo per cui è stata adottata questa sequenza, invece di quella originale derivante dal periodo di rivoluzione dei pianeti. Non possiamo comunque non tenere in considerazione altre teorie che rimettono un po’ in gioco tutte le nostre conoscenze storiche, come le sconvolgenti ricerche dello scienziato russo Immanuel Velikovsky, che nel 1950 pubblicò un libro dal titolo Mondi in collisione2. 2 Dobbiamo ricordare per l’Italia come Velikovsky sia stato valutato positivamente sia dal grande matematico statistico Bruno de Finetti, che dallo storico della scienza Federico Di Trocchio, che gli ha dedicato un ampio capito-

Nella sua opera, contestata dalla scienza ufficiale, egli tratteggiava un passato apocalittico, anteriore di circa 1500 anni dall’avvento di Cristo, descritto come mito o come eventi religiosi dalle popolazioni, nel quale erano avvenuti fenomeni terrificanti, come le dieci piaghe d’Egitto descritte dalla Bibbia, la traversata a piedi del Mar Rosso, Giosuè che lo, pp 53-95. del suo libro Il Genio Incompreso. A Princeton Velikovsky ristabilì contatti amichevoli e frequenti con Einstein, con lunghe ore di discussione su temi astronomici e storici. La storia dei suoi rapporti con Einstein è contenuta in uno dei libri ancora non pubblicati (Before the Day Breaks), disponibile nel citato sito internet. Il volume Ages in Chaos uscì nel 1952, primo di una serie di opere a carattere storico, cui seguirono Oedipus and Akhnaton (1960), Peoples of the Sea (1977) e Ramses II and his Time (1977). Ancora non ufficialmente pubblicati ma disponibili nel sito internet creato da Jan Sammer sono i volumi The Assyrian conquest e The dark ages of Greece.


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fermò il sole per due giorni ecc. Secondo Velikovsky, dal pianeta Giove si sarebbe staccata un’enorme massa di materia che avrebbe formato una cometa dall’orbita molto allungata, che periodicamente (circa ogni 52 anni) si sarebbe avvicinata alla Terra, causando terremoti, inondazioni, tempeste elettromagnetiche e drastiche modificazioni del clima. Questi eventi, vissuti nello stesso periodo in altre parti della Terra, e quindi con risultati differenti secondo gli emisferi interessati, come i due giorni di buio dei Maya e altri avvenimenti citati nella storia mitica degli Indiani dell’America del Nord, dei Cinesi, dei Polinesiani, ecc., avrebbero portato alla creazione evemeristica delle leggende e delle religioni più antiche. Nel 747 a.C., sempre secondo lo scienziato, la gigantesca cometa si sarebbe av-

vicinata eccessivamente al pianeta Marte, sino al punto di urtarlo, facendolo uscire dalla sua orbita e trasformandosi a sua volta in pianeta, che altro non sarebbe stato se non quello che oggi conosciamo col nome di Venere, l’astro più lucente del firmamento, il più giovane e anche il più insolito, perché la sua rotazione su se stesso è in senso orario, contrariamente agli altri pianeti che ruotano in senso antiorario. Nonostante Venere in tempi più vicini a noi appaia come il pianeta più luminoso (Pitagora lo chiamava Sol alter, il secondo Sole), l’Autore aveva scoperto che i popoli più antichi, come i Babilonesi e gli Indù, avevano basato la loro primigenia astronomia religiosa su soli quattro pianeti (Giove, Marte, Saturno e Mercurio) e questo, secondo Velikovsky, era avvenuto perché il pianeta Venere in tempi remoti non si era ancora

formato, ma sussisteva solo sotto forma di cometa. Se fossero corrette le teorie dello studioso russo, che era tutt’altro che uno sprovveduto, avendo studiato presso le università di Edimburgo, Mosca, Berlino, Zurigo e Vienna, e che aveva sottoposto le sue teorie a Einstein, sul cui comodino si trovò, alla sua morte, proprio il libro Mondi in collisione, allora sarebbe anche possibile che la disposizione dei pianeti nel sistema solare fosse differente da quella canonica e precisamente: Sole, Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere, Saturno, proprio come l’attuale sequenza dei giorni della settimana ... ma forse è solo una bella e terrificante favola. P.124: Meteorite; p.125: Luna; p.126/127: I sette pianeti con i segni dello Zodiaco, 1539 - Hans Sebald Beham, (1500-1550); p.128: in alto: A.Cellarius, Planispherium Ptolemaicum; p.128: in basso: vd. testo. p.129: Sistemi planetari a confronto in un volume francese, sec. XVIII.

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parte II

Extraterrestri, Angeli e Tradizione esoterica Roberto Pinotti

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I

l mistero degli angeli Quale significato dobbiamo quindi dare alla Gran Guerra del Cielo contro “… coloro che si fanno padroni delle stelle del Cielo ed alzano le loro mani contro l’Altissimo, che (ora) calpestano il suolo della Terra ed abitano sopra di essa...” (Libro di Enoch 46,7)? Che cosa si cela, in realtà, dietro la leggenda biblica della ribellione e della caduta degli Angeli? Se lo esaminiamo alla luce della rivelazione cristiana, il Libro di Enoch acquista ulteriore validità, in quanto al suo contenuto si riferisce anche il Nuovo Testamento. Parecchi teologi, infatti, ritengono oggi che proprio a proposito dell’unione degli Angeli con le donne della Terra S.Paolo abbia scritto: “...L’uomo no, non deve coprir di velo la testa, essendo immagine e gloria di Dio; e la donna è gloria dell’uomo... Per questo deve la donna aver sulla testa il segno della sua dipendenza, per via degli Angeli…” (Prima Lettera ai Corinti 11, 7-10). È vero che i Concili Lateranense IV e Vaticano I hanno consacrato con la loro autorità la sentenza generale della Chiesa che vorrebbe gli Angeli esseri perfettamente spirituali; ma è anche vero che la questione non è stata mai definita in termini dogmatici, sebbene negare la spiritualità degli Angeli sarebbe «proposizione temeraria». Nulla, dunque, impedisce al credente di considerare gli Angeli simili agli esseri umani. «… Non dimenticare l’ospitalità,» ci dice infatti S. Paolo «poiché per via di essa alcuni ospitarono, senza saperlo, degli Angeli...» (Lettera agli Ebrei 13,2). D’altronde, le Sacre Scritture ci hanno sempre raffigurato questi inviati del Cielo come uomini. L’ebraismo e il cristianesimo, dunque, ci hanno tramandato la credenza nella esistenza e nella vigilante presenza di questa misteriosa razza celeste, biologicamente simile all’uomo ma del tutto estranea al pianeta sul quale viviamo. Ed oggi un sempre maggior numero di sconcertanti indizi sembra provare, oltre ogni ragionevole dubbio, le tradizioni bibliche. Viaggi e visite Extraterrestri? A questo proposito, anzi, riteniamo quanto mai interessante riportare qui alcuni versetti tratti dai Libri Segreti di

Enoch, una raccolta di testi pseudoepigrafì attribuiti al patriarca del Genesi, quasi certamente risalenti ai primi secoli dell’Era Volgare, e di cui ci è pervenuta solo una traduzione in slavo antico dell’originale. Il brano in questione si riferisce all’assunzione in Cielo di Enoch. “... Allora gli Angeli mi chiamarono, mi presero sulle loro ali e ini sollevarono ai primo cielo. Essi mi posero al di sopra delle nubi; io vidi l’aria, l’etere ancor più alto. E mi portarono nel primo cielo, e mi indicarono un mare vastissimo, più grande del mare della Terra…” (Cap. 3). Forse un astronauta dei giorni nostri descriverebbe con parole sostanzialmente diverse la sconfinata distesa azzurrina che si estende a perdita d’occhio al di sot-

to di un osservatore posto ad una quota orbitale? Ne dubitiamo. “... Mi fecero vedere i Capitani e i Capi degli Ordini delle Stelle. Mi indicarono duecento Angeli che hanno autorità sulle stelle e sui servizi del Cielo; essi volano

Esoterismo con le loro ali e vanno intorno ai pianeti…” (Cap. 4). Vi è forse bisogno di qualche commento a queste parole? Va comunque rilevato che, nella sua originale versione copta, il Libro di Enoch (Cap. 69) accenna in un dettaglio che ci sembra presenti grande importanza. Menzionando gli Angeli Caduti, infatti, egli cita

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anche “Yequn, colui che indusse in errore tutti i figli degli Angeli Santi, li fece scendere sulla Terra e li fece errare a causa delle figlie degli uomini…”. Dunque i 200 Vegliami che procrearono i Nephilim con le donne della Terra erano i «figli degli Angeli Santi», a loro volta; in altri termini, gli Angeli e gli Arcangeli generavano dei figli. Altro che puri spiriti! Non solo. Nel testo si fa anche un’affermazione sconcertante: viene infatti citato anche il nome di Gadriel, «colui che mostrò tutti i colpi mortali ai figli degli uomini, fece errare Eva e mostrò mezzi di morte ai figli degli uomini...». Lo stesso mito della «caduta» dell’uomo sembra dunque legato all’intervento degli stessi Custodi angelici posti da Dio a tutela 132

dell’umanità, e in termini espliciti. Gli Angeli, d’altro canto (non i Ribelli, ma i Custodi che non avevano trasgredito la loro consegna), hanno un ruolo determinante nell’affrancamento degli Ebrei dalla schiavitù in Egitto e nella creazione di Israele. Sono loro, infatti, che causano le piaghe per vincere la volontà del Faraone, guidano Mosè e i suoi fuori dall’Egitto e “aprono” le acque del Mar Rosso. Infine, abbiamo la supposta Teofania sul Monte Sinai. L’Angelo del Signore, descritto come qualcosa che di giorno appare come “una colonna di nube” e di notte come “una colonna di fuoco”, scende dal cielo in cima al “Gebel Musa”, il Monte di Mosè. Il testo dell’«Esodo» è preciso e dettagliato: «Ed il Signore li

precedeva, segnando la strada, di giorno in una colonna di nubi, e di notte in una colonna di fuoco, per essere loro di guida nel viaggio…» leggiamo in Esodo 13,21. Sembra la minuziosa descrizione di un grande “oggetto volante non identificato” di oggi, e in particolare quella degli enormi velivoli-madre tubolari o sigariformi lunghi centinaia di metri (i cosiddetti “sigari volanti”) da cui ad altissima quota di dipartono (per poi rientrarvi in seguito) gli UFO discoidali di piccole dimensioni (i “dischi volanti”) aventi da sempre evidenti finalità ricognitive. Astronavi del passato? Che cos’era, se non si tratta di un semplice mito, l’oggetto che aveva di giorno l’apparenza di una colonna (= cilindro) di nubi e nottetempo quella di una colonna di fuoco, quello stesso oggetto che dopo il passaggio del Mar Rosso scenderà sul Sinai («…tutto il Sinai fumava, perché il Signore vi era disceso in mezzo al fuoco…») per consentire a Mosè di ricevere le Tavole della Legge? Bisogna onestamente convenire che al pari della descrizione del “carro di fuoco” celeste che rapisce Elia e di quanto narrato nel Libro del profeta Ezechiele di fronte al quale si manifesta la discesa dal Cielo del “Carro di Dio” (la Shekhina, precisamente descritta come una ruota all’interno di un’altra ruota “piena d’occhi tutt’intorno” che tanto ricordano degli oblò e dominata di una volta o cupola, da cui discendono quattro angelici viventi aventi aspetto d’uomo che danno poi la rivelazione al profeta), le parole che leggiamo in Esodo 19, 18 potrebbero effettivamente evocare in noi, oggi, anche l’immagine specifica dell’atterraggio di un’astronave come espressamente affermato dall’Ing. Josef Blumrich della NASA. E che dire dei tre estremamente fisici Visitatori Angelici (Jahvè e altri due) che si intrattengono concretamente con Abramo mangiando e bevendo al suo desco? O degli Angeli inviati al pio patriarca Lot per farlo andar via da Sodoma, condannata con Gomorra e le altre tre città della Pentapoli del Mar Morto alla distruzione per le loro nefandezze? Sono loro che accecano i sodomiti che avrebbero voluto sopraffarli e violentarli e poi fanno cadere dal cielo “zolfo e fuoco” sull’intera regione. E sono sempre gli Angeli che per difendere Israele annientano material-


mente l’esercito assiro di 185.000 uomini (2 Re 19, 35 e segg.). Altro che “entità spirituali”… Oggi un autore quale Mauro Biglino (già autorevole operatore per le Edizioni Paoline), riprendendo a livello di dotto approfondimento linguistico quanto suggerito già nel 1966 dal sottoscritto nei suoi articoli e in seguito dai best-sellers di Erich Von Daeniken prima e di Zecharia Sitchin poi, da competente traduttore dell’ebraico veterotestamentario ci dice che da una attenta analisi del Pentateuco risulterebbe che Jahvè (che nulla avrebbe a che fare col paterno Dio di Cristo) non era in effetti una divinità (e meno che mai creatrice), e che il gruppo umano antenato di Israele costituiva una sorta di “esperimento” biologico sviluppato da entità tecnologiche non originarie di questa Terra che a lui facevano capo. Senza soddisfacenti risultati, il “Popolo Eletto” sarebbe stato dapprima orientato verso il monoteismo e sarebbe stato quindi destinatario della Legge, ricevendo altresì tutela e difesa nei confronti dei suoi nemici grazie all’intervento di tecnologie avanzate: da quell’angelico “dispositivo polivalente” che era la perduta Arca dell’Alleanza (potente apparato elettrico e ricetrasmittente, micidiale arma a ultrasuoni emettente altresì radiazioni letali, apparato dispensatore di “manna” nutritiva, etc.) al “Pettorale del Giudizio” contenente l’Urim e il Thummim, equivalente di un telefono cellulare collegante il Gran Sacerdote israelita e Jahvè… Alieni sovrumani, dunque, e non entità divine. Ma cosa ci dice al riguardo l’antropologia? Vediamo. Fin dall’antichità “il nostro pianeta è stato visitalo da organismi extraterrestri?” E quanto, senza mezzi termini, si è chiesto negli USA nel suo libro The Divine Animal il preside della Facoltà di Antropologia della Drew University di Madison, il prof. Roger W. Wescott. Come egli rileva testualmente, «non vi sono certamente prove indubbie di ciò. Ma non vi è, ovviamente, alcuna prova che lo escluda. E vi sono frammenti ricorrenti di prove alquanto ambigue secondo cui visitatori intelligenti si sarebbero periodicamente manifestati. Uno di essi è il motivo persistente dell’uomo uccello nell’arte preistorica: uomini con teste di uccello appaiono nelle pitture e nei bassorilie-

vi dell’Europa paleolitica, dell’Oceania neolitica, del Perù dell’Età del Bronzo. E le tradizioni storiche giudaiche, cristiane ed islamiche, naturalmente, hanno rappresentato da tempo immemorabile i messaggeri divini, o Angeli con ali di uccello. Mentre queste raffigurazioni» sostiene Wescott «possono limitarsi ad indicare niente di più di un culto dell’uomo comparabile a quelli africani del gatto e quelli asiatici dell’orso, esse potrebbero denotare un grossolano tentativo iconografico di tramandare il fatto che creature simili all’uomo sono periodicamente apparse dal cielo, presumibilmente in veicoli che, dal momento che gli uomini primitivi non potevano darsene una spiegazione, erano considerati “uccelli”. Una interpretazione analoga

può essere riferita a creature leggendarie come Oannes, il pesce ragionevole che i Sumeri sostenevano essere emerso dall’oceano per istruire sui fondamenti della civiltà l’uomo selvaggio. In tal caso, il pesce potrebbe avere rappresentato non gli istruttori, ma il veicolo che li

Esoterismo trasportava: concettualmente, un mezzo plurifunzionale di un tipo che fosse chiamato ‘uccello’ in volo e ‘pesce’ in acqua. «Alcune narrazioni bibliche» è il parere dell’antropologo americano «sono state anche più esplicite circa tali presunte visite. Nel solo libro della Genesi vi sono tre riferimenti ad eventi che sono stati interpretati da alcuni scienziati, come

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l’astronomo franco-americano Jacques Vallée, come attribuibili a esseri o mezzi celesti diversi da Dio in persona. Il primo di essi è la storia di Enoch, padre di Matusalemme (secondo la tradizione araba inventore della scrittura). In Genesi 5, 24 leggiamo che “Enoch disparve, perché Dio lo prese seco”. Sebbene queste poche

Esoterismo parole sembrino oscure, l’apocrifo Libro di Enoch amplia considerevolmente tale succinta visione, riferendo l’assunzione di Enoch in cielo su di un mezzo angelico e lo meraviglie colà osservate. In Genesi 6, 2 ci viene detto che, dopo che gli uomini si erano moltiplicati sulla Terra (in conseguenza forse della rivoluzione dovuta all’introduzione dell’agricoltura), i Figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle, ed essi presero per mogli quelle che si scelsero fra tutte». Questo passaggio starebbe ad indicare che le donne terrestri e maschi extraterrestri avrebbero, quanto meno, fraternizzato. Infine in Genesi 28, 12 Giacobbe, figlio di Isacco, vide «una scala appoggiala sulla terra. la cui cima toccava il cielo: ed ecco gli Angeli di Dio. che salivano

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e scendevano per la scala». Tale passaggio potrebbe interpretarsi come riferito o alla rampa di un mezzo spaziale, ovvero al collegamento a catena di una stazione interplanetaria (di un tipo proposto per il programma lunare americano sulla rivista Science). Per quanto concerne i libri più tardi del Vecchio Testamento, l’intero primo capitolo di Ezechiele è dedicato alla descrizione di splendenti ruote aeree giunte sulla Terra unitamente a “creature viventi” aventi “aspetto d’uomo...”. L’uomo, animale domestico? «Sebbene» afferma Wescott «tutte le narrazioni bibliche riferiscano, comprensibilmente, ad una spiegazione di ordine soprannaturale gli eventi in esse descritti, ciò che esse inevitabilmente e naturalmente evocano è la carica emotiva indotta dai dischi volanti e dagli UFO in genere. Nei termini probabilistici dell’accostamento alla questione ufologica sopra enunciato, sarei comunque portato a congetturare», è l’opinione di Wescott, «che i dischi volanti da un lato non si ricolleghino ad allucinazioni, e dall’altro non si identifichino con organismi viventi, bensì siano ciò che la maggior parte degli “ufologi” sembra oggi portata a ritenere, e cioè prodotti inorganici rea-

li controllati da esseri intelligenti extraterrestri. Poiché non riterrei plausibile la coincidenza che esseri di un pianeta extraterrestre raggiungibile abbiano sviluppato una civiltà nel corso dello stesso millennio o anche nello stesso periodo geologico che ha visto sorgere la nostra, azzarderei inoltre l’ipotesi che chi controlla i dischi (che da ora chiamerei i dischiani) abbia visitato il nostro pianeta anteriormente alla comparsa delle specie superiori e degli stessi ominidi. «La mia opinione» scrive Wescott «è che i dischiani si siano comportati nei confronti dei nostri antenati ominidi (ovvero scimmieschi) un po’ come il biologo cattolico S. George Mivart suppone che Dio abbia agito nei confronti dei primati del Neocene: attendendo cioè che i nostri progenitori pre-umani sviluppassero una massa encefalica sufficientemente voluminosa da consentire un apprendimento ragionevolmente complesso per quanto riguarda la tecnologia ed altre discipline, e quindi istruendoli per quanto possibile. Secondo me» continua l’antropologo americano «tale ipotesi consente di risolvere un problema che ha sempre fatto discutere gli antropologi, e cioè perché mai l’uomo manifesta tante caratteristiche fisiche e comportamentali proprie di un animale domestico. La relativa mancanza di pelo, la differenziazione di colore della pelle, la dentatura debole in mascelle sempre meno pronunciate, il temperamento ipersensibile sono tratti che ricordano nettamente quelli sviluppati da cani, maiali, cavalli e altri mammiferi da noi addomesticati. La tendenza più recente degli antropologi è oggi quella di ammettere che l’uomo è un animale addomesticato, sostenendo peraltro che a differenza degli altri, si tratterebbe di una creatura che si è auto-addomesticata. Senonché, dal momento che non è mai stato chiarito come una qualche specie sia riuscita ad auto-addomesticarsi, tale ipotesi ha costituito un ostacolo insormontabile nella teoria dell’evoluzione umana. Ma se supponiamo che l’uomo sia stato fin dall’inizio addomesticato dai dischiani in maniera non molto diversa da quella in cui il cane è poi stato addomesticato dall’uomo, il paradosso insito nello stesso concetto di auto-addomesticamento viene eliminato. In ogni


caso» sottolinea Wescott «resta ancora da stabilire quando l’addomesticamento dell’uomo ha avuto luogo. Può essere cominciato fin dall’epoca degli Australopitechi, gli uomini -scimmia dell’Africa, circa un milione di anni fa…». E poi? «Personalmente» ipotizza Wescott «ritengo che i dischiani siano vissuti fra gli uomini, come maestri e guide, fino al Periodo Neolitico, circa 10.000 anni fa, quando la padronanza delle tecniche dell’agricoltura permise ai nostri antenati di sviluppare la loro ricchezza e il loro numero, e con ciò anche degli schemi comportamentali che i loro istruttori extraterrestri non avevano contemplato né previsto: accaparramento, schiavismo e guerra. A questo punto, presumo, i dischiani si ritirarono, mantenendo delle basi in quei posti dove avrebbero avuto la minima probabilità di essere incontrati ed anche visti dai loro devianti protetti; e cioè nelle profondità marine. Queste due supposizioni» precisa Wescott «non sono solo plausibili da un punto di vista intrinseco. ma aiutano anche a spiegare la diffusione di miti e leggende persistenti, che sarebbero altrimenti incomprensibili. La principale è quella che si ritrova presso quasi tutti i popoli, e cioè la leggenda riferita ad un periodo preistorico (noto ad esempio come la Età dell’Oro per i Greci e la Età del Sogno per gli aborigeni australiani), in cui gli Dei camminavano sulla Terra istruendo l’umanità; un rapporto terminato quando gli uomini cominciarono a manifestare più tendenze distruttive di quante gli Dei potessero tollerare... Da allora» conclude Wescott «riterrei che i dischiani abbiano visitato la Terra solo come esploratori e osservatori, e mai più come colonizzatori e guide. Le descrizioni di creature estremamente simili all’uomo segnalate più volte in prossimità degli odierni UFO osservati al suolo si spiegano, se reali, solo con i membri di piccoli gruppi umani che i dischiani portarono certo con loro, ritirandosi. E poiché gli esseri umani appartenenti a tali gruppi non mostravano differenze genetico-somatiche significative rispetto ai normali terrestri, è mia opinione che alcuni di loro siano stati periodicamente inviati sulla superficie terrestre allo scopo di infiltrarsi fra tribù e regni in conflitto, nello sforzo di conquistare queste nazioni a

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sistemi di vita più illuminati e meno distruttivi». In questa ottica, che il preside della Facoltà di Antropologia della Drew University ha presentalo fin dal 1969 nel suo testo antropologico The Divine Animal (L’animale di Dio), dedicato ad «una esplorazione delle potenzialità dell’Uomo», trovano logica collocazione molti eventi anomali della nostra storia, e financo, forse, certuni personaggi manifestanti poteri e capacità di carattere sovrumano. In definitiva, comunque, per il prof. Wescott l’Homo Sapiens si è dimostrato, nel lungo periodo, un cattivo allievo. E come tale, dopo che agli Istruttori Celesti e ai primi Re Divini ebbero a subentrare monarchi e capipopolo sempre meno illuminati (dall’Egitto all’India, dalle antiche culture mediorientali alla Cina, dal mondo proto-italico ed ellenico a quello precolombiano), sarebbe stato inevitabilmente abbandonato infine al suo destino senza interferenze dirette se non limitate ad un periodico monitoraggio della sua attività sul pianeta. L’umanità abbandonata al suo destino Accanto a quello di altre popolazioni an-

tiche (anch’esse variamente guidate nel tempo, come sottolinea la Bibbia, da altri “Angeli della Nazioni”), al riguardo può ritenersi emblematico il comportamento di Israele, un popolo «addomesticato» dal “dio” Jahvè e dai suoi Angeli, che ha manifestato atteggiamenti sistematicamente «devianti», fino al momento in cui i Messaggeri del Cielo, 37 anni dopo la crocifissione e (come Enoch e altrove lo stesso fondatore di Roma e figlio di Marte Romolo) l’assunzione in cielo (confermata dagli Angeli agli Apostoli) di quel Yeshua-bar-Joseph (Giosuè figlio di Giuseppe) a noi più noto come Gesù Cristo, avrebbero deciso di abbandonare a se stessa la nazione ebraica. In effetti le varie manifestazioni angeliche tipiche della Bibbia terminarono storicamente, a livello di massa, con quanto descrive lo storico ebreo Giuseppe Flavio (un colto e valoroso difensore di Gerusalemme preso prigioniero e, come il letterario Ben Hur di Wallace, poi adottato dai Flavi vincitori che gli permisero di finire i suoi giorni a Roma redigendo in greco il monumentale Le Antichità Giudaiche e La Guerra Giudaica): « Ciò avvenne quan135


do sulla città (Gerusalemme) ristette un astro somigliante ad una spada, una cometa che durò per un anno...». È il 70 d. C., l’anno della caduta di Gerusalemme, assediata dalle legioni romane di Tito. E «prima del calar del sole, si videro in tutta la regione, sospesi in aria, carri e falan-

Esoterismo gi armate che irrompevano attraverso le nubi e circondavano la città... I sacerdoti del tempio interno affermarono che, dapprima, avevano avvertito una scossa e dopo ciò una voce collettiva: Noi ce ne partiamo da qua!...” (La Guerra Giudaica, 6, 5). Gli “Dei” se ne andavano, e con loro la loro protezione. Il Protettorato Divino sulla Palestina era finito. In ogni caso a parte la natura della figura di Cristo, che per la Chiesa è per dogma il “Figlio di Dio” - vale la pena di ricordare che la teologia cattolica non può necessariamente dirsi contraria all’ipotesi secondo la quale gli Angeli biblici sarebbero stati, in realtà, una razza extraterrestre posta a tutela dell’evoluzione umana in una dimensione ben materiale. La vita extraterrestre è infatti dichiaratamente accettata (fin dall’epoca del cardinale Nicola Cusano) dalla teologia della Chiesa di Roma, in quanto non può essere posto limite alla onnipotenza creatrice di Dio. Inoltre il credente è libero di ritenere gli Angeli puri spiriti ovvero esseri corporei a suo piacimento. In realtà in Israele li ritenevano ben corporei, visto quanto riferisce lo stesso storico ebreo Giuseppe Flavio sulla falsariga del Genesi, duemila anni fa: «Molti Angeli di Dio, permischiatisi colle donne, superbi figli ne generarono... ». E così pure «… di costoro si narra che osassero far ciò che da’ Greci si scrive aver fatto i Giganti..,» (Antichità Giudaiche, 3, 1). L’uomo, specie terrestre o cosmica? Se qualcuno voleva una conferma ai testi pseudoepigrafi «enochiani» (Libro di Enoch, Libri dei Segreti di Enoch, Libro dei Giubilei ecc. ), eccolo dunque servito per bocca di uno storico che, come tutti i suoi contemporanei, aveva ricevuto la tradizione viva di tale evento nella memoria storica per proprio popolo. Tutto questo, comunque, fa sorgere allora un ultimo, sconcertante interrogativo: l’Uo136

mo è una specie terreste o cosmica? Il fatto che donne terrestri si siano dimostrate a suo tempo biologicamente compatibili per un’unione sessuale feconda con esseri non terrestri, allora ammantati dall’alone mitico della divinità e che oggi vediamo invece in una prospettiva diversa e più concreta, infatti, non autorizza solo a pensare necessariamente che sulla Terra vi siano tuttora uomini con sangue extraterrestre nelle proprie vene (il popolo di Israele è indubbiamente stato uno dei più esposti a tali rapporti di esogamia con gli Angeli): ma anche a ipotizzare, in virtù di tale affinità, o meglio identità biologica, che la stessa razza umana provenga in realtà, all’origine, da altri mondi, e non sia affatto un pedissequo prodotto locale dell’evoluzione terrestre, frutto di una evoluzione da specie animali inferiori. Cosa che è esclusa da sempre, notoriamente, sia dalla Religione che dalla Tradizione, in effetti. E forse a ben donde. Le recenti opere del sumerologo Zecharia Sitchin autorizzano quanto meno a ipotizzare oggi che esseri extraterrestri (gli Anunnaki, versione sumera degli Angeli) abbiano potuto geneticamente modificare forme di vita terrestri per renderle compatibili col loro dna e produrre una nuova specie autoctona a loro immagine: l’Homo Sapiens. Ovvero, il nostro antenato che gli antropologi dicono oggi frutto di una casuale, misteriosa e fortunosa mutazione. Solo che notoriamente “Natura non facit saltus”. Per cui, probabilmente, l’Adamo Terrestre è solo uno specchio dell’Adamo Celeste. Alieni, esoterismo e massoneria Comunque, se alla luce di quanto passato in rassegna si volesse guardare poi alla predicazione di Cristo in Israele (con alla base il concetto inedito dell’amore fraterno) poco prima della fine di ogni apparente rapporto funzionale fra gli Angeli ed il “popolo Eletto” come al punto di maggiore rilevanza di un possibile esperimento bio-antropologico iniziato con Abramo e proseguito con Mosè da entità non di questo mondo per elevare i terrestri da una cultura della violenza e della sopraffazione verso un modello di società ispirato a principi di pace, solidarietà, libertà, uguaglianza e fraternità (propri degli ideali massonici), e rigettante il metodo della violenza e dello

sfruttamento dell’uomo sull’uomo introdotto nondimeno dagli Angeli Caduti (collettivamente impersonati dalla figura di Satana, non a caso proprio definito dalla Sacra Scrittura “principe di questo mondo”), potremmo allora anche trovare un senso ad una sibillina affermazione riferita da Christian Jacques in un suo popolare saggio divulgativo sulla Massoneria: ”…Nel 1823 un fratello massone di nome Olivier affermava testualmente che: ‘La nostra istituzione già esisteva in diversi sistemi solari, prima della creazione del globo terrestre’…”. Nel 1823 non si parlava certo di alieni e di UFO in visita alla Terra, e ancor meno di un loro possibile intervento bio-genetico ed antropologico sulla specie umana, e dunque l’affermazione è a dir poco sconcertante. Sempre che non si consideri la possibilità che i principi universali che informano la Libera Muratoria potrebbero essere stati ispirati da intelligenze sovrumane. Chi? Gli onnipresenti “Superiori Sconosciuti” della Tradizione Esoterica cui fa autorevolmente cenno René Guenon? Forse. O forse, piuttosto, quelle stesse intelligenze cosmiche che oggi intravediamo dietro allo sconcertante problema degli UFO? _______________ Bibliografia: Allegro, J.M, I rotoli del Mar Morto, Firenze 1958. Apocrifi dell’Antico Testamento, 2 voll., Torino 1986. Biglino, Mauro, Il libro che cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia, Torino 2010. Biglino, Mauro, Il Dio alieno della Bibbia, Torino 2011. Biglino, Mauro, Non c’è creazione nella Bibbia, Torino 2012. Blondet, M., e Pinotti R., Intelligenze extraterrestri, Milano 1988. Bonsirven, P. (a cura di), La Bibbia apocrifa, Milano 1962. Burrows, Millar, Prima di Cristo, Milano 1957. Daeniken, Erich Von, Gli extraterrestri torneranno, Milano 1969. Daeniken, Erich Von, Noi extraterrestri, Milano 1970. Daeniken, Erich Von, Il seme dell’universo, Milano 1972. Flavio, Giuseppe, Delle Antichità Giudaiche tradotto dal greco e illustrate dall’Abate Francesco Angiolini Piacentino, Milano 1821, tomo I, cap. III, I. Gaster, T.H, (a cura di) The Dead Sea scriptures in English translation, New York 1964. Jacq, Christian, La Massoneria, Milano 1978.


Esoterismo

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Pinotti, Roberto, Angeli, dei, astronavi: Extraterrestri nel passato, Milano 1990. Pinotti, Roberto, UFO, visitatori da altrove, Milano 1990. Pinotti. Roberto, UFO: scacchiere Italia, Milano 1992. Pinotti, Roberto, UFO: contatto cosmico, Roma 1991. Pinotti, Roberto, Dei dallo spazio, Roma 2004. Ricciotti, G., La Bibbia e le scoperte moderne, Firenze 1958. Sitchin, Zecharia, Il dodicesimo pianeta, Roma

1983. Sitchin, Zecharia, La via dell’immortalità , Milano 1986. The lost books of the Bible and the forgotten books of Eden, New York 1963. Wescott, Roger, The Divine Animal, New York 1969.

P.130/137: La caduta degli angeli ribelli (inetro e particolari), olio su tela di Sebastiano Ricci (1659-1734).

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parte II Massoneria

Diario di bordo: Washington massonica La “House of the Temple” di Washington: un Tempio laico celebrante l’Uomo e il Grande Architetto dell’Universo. Lidia Parentelli

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ello scorso numero di Officinae ho segnalato come un recente evento congressuale che ha coinvolto mio marito e fratello Roberto nella capitale degli USA ci abbia consentito di compiere un percorso iniziatico alla scoperta della Washington massonica. Com’è noto, i Fratelli americani pianificarono infatti il centro della Capitale Federale in modo tale che rappresentasse visivamente, tramite l’architettura e l’urbanistica, quel modello di città massonica ideale tale da poter esprimere compiutamente i valori liberomuratori e illuministici nei quali i Padri Fondatori della Costituzione degli Stati Uniti credevano profondamente. Non penso in effetti che esista un’altra città in cui la simbologia massonica sia palesata così apertamente, quasi a costituire un Tempio a cielo aperto. Il cosiddetto Mall che collega la Casa Bianca e il Campidoglio con il gigantesco Obelisco di Washington costituisce un asse da Oriente a Occidente che nei viali laterali (da Massachusetts Avenue a Pennsylvania Avenue) è costellato da edifici con numerose sculture monumentali di vario significato mitologico e simbolico. Dislocati in altre strade vi sono altresì palazzi caratterizzati da un susseguirsi di abbinamenti di squadre e compassi posti sotto davanzali e cornicioni, a chiara indicazione di essere stati a suo tempo sedi di logge. Ma a Washington l’edificio più importante sotto il profilo massonico è indubbiamente la “House of the Temple” o “Casa del Tempio”, dove ci siamo recati con un fratello americano che ci ha gentilmente fatto da guida. La zona è molto bella e tranquilla: ricca di verde pubblico, villette con giardino e viali alberati, è caratterizzata da edifici importanti (diverse ambasciate) e così pure da istituzioni particolari, dalla suggestiva Chiesa di Emanuel Swedenborg (1688-1772), il noto scienziato, naturalista e filosofo svedese poi divenuto un esoterista mistico e visionario che parlava con gli Angeli e l’autore di opere quali gli Arcana Coelestia e la Vera Christiana Religio, fino alla ben più attuale, inquietante e chiacchierata Chiesa di Scientology. La “House of the Temple” si trova fra la 15ma e la 16ma Strada NW (l’indirizzo esatto è il 1733 della 16ma Strada NW) in prossimità del Dupont Circle ed è la sede del Supremo Consiglio del 33° e ultimo grado del Rito Scozzese Antico e Accettato

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della Massoneria (Giurisdizione Meridionale) degli USA. La dizione esatta e completa del Supremo Consiglio in questione recita formalmente: “Supremo Consiglio (Consiglio Madre Mondiale) del Commendatore dei Cavalieri Ispettori Generali della Casa del Tempio di Salomone del 33° grado del Rito Scozzese Antico e Accetta140

to della Libera Massoneria della Giurisdizione Meridionale degli Stati Uniti d’America”. Il 31 maggio 1911, a 110 anni di distanza dalla fondazione di tale Supremo Consiglio, il Gran Commendatore James D. Richardson pose la prima pietra dell’edificio con una cerimonia massonica analoga a

quella che vide la posa della pietra angolare del Campidoglio da parte di George Washington. Progettato da John Russell Pope, che ha “firmato” come pochi l’architettura della Capitale Federale degli USA, la “Casa del Tempio” è un magnifico e imponente complesso architettonico costruito sul modello del Mausoleo di Alicarnasso, la famosa tomba di Mausolo notoriamente indicata come una delle Sette Meraviglie del Mondo Antico (352 a.C. circa). In linea con la simbologia propria del Rito Scozzese Antico e Accettato, esso presenta 33 colonne esterne alte 33 piedi e ricorda la struttura del Palazzo dell’Archivio Nazionale di Washington. Al di sopra del bel portone in bronzo caratterizzato da battiporta leonini di magnifica fattura si legge: La massoneria costruisce i suoi templi nei cuori degli uomini e fra le nazioni. L’aquila bicipite, principale simbolo del Rito Scozzese, domina da tutti gli angoli superiori dell’edificio. La corona rappresenta il 33° grado del Rito. All’esterno, di fronte alla facciata, abbiamo una bella e solenne coppia di statue in marmo raffiguranti la Sfinge della Saggezza, mentre un grande busto di George Washington è collocato nel Giardino Nord dell’edificio del Supremo Consiglio. All’interno l’imponente atrio marmoreo della “House of the Temple” richiama gli edifici pompeiani, con colonne doriche, marmi preziosi e anche l’uso di granito e alabastro. Ma più che a Pompei sembra di entrare nel Palazzo Imperiale dei Cesari. I soffitti a cassettone sono in legno di quercia. Troviamo altresì decorazioni di ispirazione greca e fregi in bronzo di delicata fattura. Il lampadario mostra il volto della Medusa. Fra i fregi in bronzo spicca in particolare quello rappresentante una candela che illumina l’oscurità e con il motto latino “Lux inens nos agit” (La luce interiore ci guida).


Massoneria Ai piedi della Grande Scalinata abbiamo una statua in pietra nera di stile egizio di splendida fattura con iscrizioni geroglifiche che recitano l’una Alla gloria di dio, e l’altra Dedicato all’insegnamento della sapienza per gli uomini desiderosi di costruire una forte nazione. Altrove campeggiano vari motivi ornamentali dalle valenze simboliche, dalla stella fiammeggiante all’aquila bicipite simbolo del Rito Scozzese, col suo motto latino “Deus meumque jus” (Dio è il mio diritto). Risalendo la Grande Scalinata troviamo un imponente busto del Fratello Albert Pike, sul quale domina l’iscrizione Quanto abbiamo fatto per noi stessi muore con noi – quanto abbiamo fatto per gli altri e per il mondo è e resta immortale – Albert Pike. Generale confederato, intellettuale, avvocato, scrittore e dal 1859 Sovrano Gran Commendatore della Massoneria americana, Pike morì a Washington nel 1891 all’età di 81 anni e fu seppellito contro la sua volontà all’Oak Hill Cemetery, malgrado le sue istruzioni di essere cremato. Nel 1944 i suoi resti furono infine traslati alla “House of the Temple”. Personaggio controverso e talvolta contraddittorio ma di enorme carisma, autore di testi massonici di grande importanza (dal monumentale Morals and Dogma sui 33 gradi della Massoneria e i loro aspetti simbolico-esoterici ai numerosi opuscoli incitanti alla battaglia contro il cattolicesimo romano ed il papato, portando avanti gli ideali della rivoluzione francese in Europa e nel mondo), la sua statua nei giardini di Judiciary Square è tuttora presente e onorata a Washington a dispetto di chi (specie fra fondamentalisti protestanti e cattolici più intransigenti) lo ha criticato e tuttora lo critica a vario titolo (specie per certi suoi presunti legami col Ku Klux Klan e per una sua pretesa visione “luciferina” dell’esoterismo). Con i suoi, la “Hou-

se of the Temple” ospita anche i resti mortali di John Henry Cowles, Sovrano Gran Commendatore dal 1921 al 1952, il cui busto troneggia lungo la Grande Scalinata di fronte a quello di Pike. La grande Scalinata porta quindi fra lampade bronzee alla Camera del Tempio. Tale ambiente è caratterizzato dal seggio marmoreo del Fratello Guardiano su cui è iscritto il motto: Conosci te stesso. All’interno, fra i tanti simboli presenti (a cominciare dai tre triangoli equilateri intrecciati che producono quello della stella nove punte per finire con l’Hanukkiah, il candelabro a nove bracci), in lettere bronzee su marmo scuro campeggia la scritta: dalle tenebre esterne dell’ignoranza e attra141


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verso le ombre della nostra vita terrena si apre il bel sentiero dell’iniziazione che porta alla luce dell’ara sacra. E sul pavimento e ai quattro lati dell’ara in marmo nero si può leggere: dalla luce della parola divina, il logos, viene la saggezza nella vita e il fine dell’iniziazione Sull’Ara sono disposti ben quattro Libri Sacri dell’umanità: la Bhagavad Gita indù, la Torah ebraica, la Sacra Bibbia cristiana 142

e il Corano islamico. È su tale Bibbia cristiana che hanno finora giurato i presidenti degli USA. Un curioso dettaglio: il materiale dell’arredamento interno viene dalla Russia, è in legno di noce e proviene a bella posta da alberi in parte bruciati in conseguenza della caduta di un meteorite. Sulla porta a Oriente del Tempio leggiamo infine, in un inglese ieratico e solenne: la morte non separerà coloro che hanno vissuto

nella virtù– è questo il legame mistico che rende tutti gli uomini fratelli. Cromaticamente suggestivi il fregio della Fenice animata e la vetrata delle “Colonne della Carità”: 33 raggi di luce che si irradiano dal simbolo dell’aquila. Il tutto, nella sua bellezza e solennità, proietta il visitatore in una dimensione si serenità e di libertà interiore, pur nel terreno tendere al Grande Architetto dell’Universo, la cui impalpabile presenza si avverte in tutta la complessità e simbologia della “House of the Temple”. Un Tempio laico all’Uomo e al G.A.D.U, dunque, che ogni visitatore può vivere in completa libertà. La Casa del Tempio racchiude infine fra le


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sue mura la più vecchia Biblioteca Pubblica del Distretto di Columbia. Si tratta della “Robert Burns Library” (aperta dal lunedì a venerdì dalle 8.00 alle 15.30), una sconfinata raccolta di volumi, non solo riferiti alla libera Muratoria, che ospita al contempo in chiave museale una esposizione di oggettistica varia di grande interesse culturale, storico e artistico. Si va dai ritratti di grandi massoni americani del passato (dai tanti inquilini della Casa Bianca ai militari USA fino agli astronauti) a targhe commemorative, da preziosi documenti storici e bibliografici originali a strumenti rituali massonici d’epoca. È tutto fuorchè un caso il fatto che la “House of the Temple” sia stata utilizzata ultimamente come teatro di posa per la rendition cinematografica del famoso romanzo di Dan Brown Il simbolo perduto. Infine, una curiosità, segnalata perfino da Wikipedia. A parte tale recente trasposizione filmica de Il simbolo perduto, già nei primissimi anni Cinquanta la “House of the Temple” è stata usata come sfondo per un insolito set cinematografico. Intendia-

mo riferirci ad un bel film di fantascienza (di cui è poi stato recentemente realizzato un buon remake) che ha segnato la storia del cinema quale The day the earth stood still di Robert Wise (1951). Pellicola in bianco e nero, uscita in Italia col titolo Ultimatum alla terra, si è trattato di un film realista e profondamente pacifista, che nella tolleranza esaltava manco a dirlo i valori di libertà, uguaglianza e fratellanza, tutti massonici. Il protagonista (l’attore Michael Rennie) era l’“Uomo Astrale” Klaatu, sbarcato con un disco volante extraterrestre a Washington per impartire ad un mondo sull’orlo di una nuova Guerra Mondiale una lezione di buon senso. Lo farà nonostante tutto, anche dopo che i militari americani, braccandolo per tutta Washington, lo uccideranno. Incredibilmente riportato in vita (almeno momentaneamente) dal suo possente “guardiano” robotico Gort, l’alieno lancerà un ultimo appello al mondo e, novello angelo tecnologico, farà poi ritorno fra i suoi simili nelle profondità dello spazio. Singolare ed estremamente significativo il fatto che que-

sto extraterrestre dai poteri sovrumani, pur incredibilmente resuscitato dalla sua scienza avanzatissima, con umiltà si inchini comunque, nel film, all’“Onnipotente” che regola tutto e tutti nell’universo. E così pure singolare a dir poco il fatto che nel film si ritrovi anche la “House of the Temple”. Per essere precisi, in effetti l’edificio fa da sfondo al vano tentativo di un poliziotto motociclista rimasto in panne di riavviare la sua moto. Ma non c’è niente da fare. Infatti nel film, per un’ora, nell’interesse della pace mondiale gli alieni bloccano sulla Terra a scopo dimostrativo il funzionamento di qualsiasi dispositivo elettrico. E la “Casa del Tempio” sta a guardare silenziosa. Ma forse non a caso. P.138: Una delle sfingi a guardia dell’ingresso della ‘House of the Temple’; p.139: Recto e verso della targa commemorativa del Supremo Consiglio A\A\S\R\ dell’inaugurazione dell’edificio; p.140 in alto: Cartolina commemorativa, ca. 1916; p.140 in basso: Riproduzione del Mausoleo di Alicarnasso, stampa XIX sec; p.141: L’Aquila bicipite e il Delta sopra al portale nella facciata dell’edificio; p.142: Le ‘Pillars of Charity’ fra i busti di Pike e Cowles; p.143: Disegno originale dal progetto della ‘House of the Temple’; (le foto a pagg. 140 [in alto a destra], 141 [in alto a sinistra e in basso], 142 [in basso] sono di R.Pinotti; la foto di pag.138 è di P.Del Freo).

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Il Caban, l’Eskimo e... il Loden Giuseppe Cirillo

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osa può mai accomunare tre capi di vestiario così diversi? Forse, da comuni capi d’abbigliamento possono diventare simboli di uno stile di vita, di un modo di presentarsi o addirittura di un’area di pensiero. Circa mezzo secolo fa i giovani sentirono l’esigenza di staccarsi da tutto quelle che erano le imposizioni di una società che sentivano opprimente e fatta solo di divieti. Cominciava il tempo (che oggi persiste) in cui bisognava uscire dall’anonimato per … farsi notare. E allora era d’obbligo seguire dei modelli di … anticonformismo e trasgressione. Ma perché seguire proprio quei modelli, definiti dai benpensanti ‘negativi’? Questo potranno spiegarcelo gli analisti di costume e mode. La causa di questa ribellione? Forse tutti si stavano accorgendo che a un decennio dalla fine della Seconda guerra mondiale nessuna delle 144

promesse dei vincitori si era avverata. Il ‘mai più guerre’ di Yalta era stato disatteso dagli stessi firmatari e nel mondo resistevano ingiustizie, prevaricazioni e guerre. Era anche il tempo in cui il Vecchio Continente stava definitivamente perdendo la leadership planetaria a vantaggio degli USA e del Nuovo continente. In Europa, poi, crollavano gli imperi coloniali e anche gli stati vittoriosi della guerra si ritrovavano più poveri e con un ruolo da reinventarsi. Gli USA avevano sì liberato l’Europa, ma, a modo loro avevano gettato la basi di un’altra invasione, un’invasione pacifica, ma non meno inesorabile. Ora erano loro nel bene o nel male il modello da seguire. Le innovazioni tecnologiche, le avanguardie culturali, le mode, gli stili di vita, l’alimentazione, tutto veniva da Oltreoceano. Non si sentivano più frasi di vecchi film come: “bello quel cappellino, viene da Parigi?”,

ma “È americano”. Ma questo mondo così strutturato si divise in due blocchi non comunicanti fra loro; anzi, ostili e tutti presi dalla presuntuosa giustezza del loro essere e dalla voglia di farlo condividere ad altri popoli. La paura di una nuova guerra, unita al terrore nucleare che aveva chiuso l’ultima, portò il sospetto verso ogni variazione dalla conformità. Era il maccartismo che precipitò gli USA in un periodo di chiusura totale e moralismo peggiore del periodo vittoriano inglese. Fu proprio in questi anni che i giovani cominciarono ad assumere atteggiamenti ‘non conformi’ al trend. Oltreoceano si sviluppò il fenomeno dei ‘teddy boys’. La mia generazione ne aveva sentito parlare da bambini osservandoli come i compagni più grandi. La loro rivolta la manifestavano col vestirsi in blue jeans, t-shirt bianca e giubbotto di pelle e con l’assumere


atteggiamenti da bullo manifestandosi con bravate. Furono un po’ sdoganati da Fonzie di Happy days e Grease che rappresentarono il loro volto buono. Si rifacevano ai divi belli e dannati di quegli anni- Marlon Brando, James Dean e Steve Mc Queen -, o ai timidi inizi del rock con quegli artisti che in Italia erano chiamati ‘urlatori’. I ‘teddy boys’ andavano a rappresentare l’elemento di rottura della tipica società americana degli anni 50’ molto abbottonata, rigida e ipocrita. I ‘teddy boys’ erano solo un’avanguardia di quanto sarebbe accaduto solo qualche anno dopo. Questa volta, però, tutto accadde in Europa e in particolare in Gran Bretagna (di nuovo in una società tradizionalista per eccellenza) che, dopo aver vinto una guerra, assisteva al lento declino della società coloniale che aveva caratterizzato i due secoli successivi a Napoleone. Solo pochi anni ed ecco nuovi eroi e già si delineava una divisione in tribù, gruppi, appartenenza che partendo dalle preferenze di gruppi musicali si trasferiva in uno stato esistenziale e di travestimento che diveniva poi uniforme. Erano i primi anni 60’ e la Gran Bretagna dettava legge e Carnaby street era il riferimento. Mi rivedo tanto come il protagonista, giovane mod, di Quadrophenia quando andava a Londra a misurarsi dal sarto il vestito che avrebbe indossato a Brighton al consueto raduno del finesettimana che sarebbe finito a botte con i rivali ‘rockers’. Mi sentivo tanto lui anche se il mio sarto era un anonimo sarto di provincia italiana che non si raccapezzava del motivo per cui sotto un vestito gessato grigioverde volevo metterci una improbabile fodera rosso fuoco … Quello dei rockers e mods fu un fenomeno che rimase inglese, anzi londinese, nei suoi aspetti più eclatanti. Diverso fu invece il periodo che concluse gli anni Sessanta. In questo caso l’avversione al conformismo assunse toni politici e il mascheramento indicava più che mai ‘appartenenza’. E allora ecco l’Eskimo per definizione: giaccone con cappuccio bordato di pelo staccabile, in modo da adattarsi anche a periodi climatici meno rigidi, che porta il nome degli abitanti del circolo polare artico. Da indumento degli Eschimesi a simbolo (insieme a una sciarpa rossa e alle Clarcks ai piedi) di proletariato, di lotte sociali. Inevitabilmente ecco

spuntare il Caban, definito invece come un giaccone sportivo, in panno e di colore blu, per via delle sue origini militari di marina. Il Caban è caratterizzato dagli ampi baveri, dal doppiopetto, spesso da bottoni piuttosto grandi e tasche verticali. Benché sia apparso originariamente all’inizio del XVIII secolo, il suo design è rimasto praticamente invariato nel corso degli anni. Il Caban, parte dell’uniforme della Marina, ebbe la sua stagione di gloria da quando Hugo Pratt lo fece indossare a Corto Maltese e divenne simbolo del personaggio. Il Caban (rigidamente usato in vendita nei negozi di vecchie uniformi) e gli occhiali Ray Ban modello ‘Aviator’ con gli stivaletti a punta divennero la divisa per altri giovani e dei loro ideali. Comprai il mio Caban in un negozietto di divise usate a Bologna e ci feci tutto il periodo universitario (opss … ho fatto outing). A questo punto lo scenario c’era e gli attori anche: Rockers vs Mods, Eskimo vs Caban. E si scrisse lungamente sul disagio e sulla rivolta dei giovani. Ma le cose andarono veramente così? O manca qualcosa? Ed è qui che entra in scena il Loden. La parola loden può essere fatta derivare da lodo, che in un arcaico tedesco si tra-

duceva in “balla di lana”, oppure ancora può essere tradotto in “tessuto grezzo”. Tessuto di aspetto caldo e morbido è molto resistente e duraturo, viene follato (infeltrito) per renderlo impermeabile e molto garzato per ottenere un lato peloso; per queste sue caratteristiche è un

Costume panno. Utilizzato per confezionare cappotti e mantelli. Grazie alla sua impermeabilità e alla sua traspirabilità il Loden è talora chiamato “il Gore-Tex medievale”. Fin dal Medioevo il panno di Loden era prodotto dai contadini delle Dolomiti e del Tirolo che filavano e tessevano nei loro masi, il colore era grigiastro come la lana grezza delle loro pecore (pecora tirolese). Si può far ricondurre l’origine del Loden sino all’XI secolo, dove si hanno tracce del suo utilizzo. Divenne un tessuto di moda quando la fabbrica di Loden Mëssmer (che produce nel suo stabilimento di Brunico sin dal 1894) confezionò un mantello bianco per l’imperatore Francesco Giuseppe, così da panno di contadini, con l’aggiunta di lana merinos, divenne tessuto per abiti da caccia e montagna per la nobiltà austroungari-

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Costume

ca. Da grigio il suo colore divenne bianco, rosso, nero e da ultimo verde foresta (una sfumatura scura e poco brillante), quello più diffuso attualmente. Chi vestiva il Loden? Altri giovani che però non occupavano le cronache ma che non sono passati nel dimenticatoio. Non facevano chiasso, loro, ed erano trascurati dalle news. Non facevano notizia, ma … erano la maggioranza. L’abito che indossavano era simbolo di pacatezza, tradizione, fermezza, lavoro e conoscenza come i montanari medievali del Tirolo. Le news hanno sempre additato questa come la ‘zona grigia’ o la ‘maggioranza silenziosa’ ed è stata trattata quasi con disprezzo anche dagli storici. Già della guerra civile italiana (1943/45) si è scritto tanto di fascisti e partigiani, ma della maggioranza della popolazione, che non sarebbe stata più fascista, ma che non voleva diventare comunista, nulla o quasi. Ed è questa parte anonima che ha subito in modo peggiore i disastri della guerra. 146

Così come vent’anni dopo i ragazzi che vestivano Loden, che puntavano a laurearsi in tempo, a cui non interessava che la guerra in Vietnam o Marcuse bloccassero le lezioni. Quelli che ironicamente erano definiti ‘bravi e coscienziosi ragazzi’, loro, restavano tutti anonimi. Allora forse l’umanità non è proprio divisa in ‘buoni’ e ‘cattivi’. Mi vengono in mente alcune scene del film Indipendence day: il regista, forse senza volerlo, ha descritto come reagisce l’umanità in presenza dell’alieno (tema molto attuale). Nel film l’umanità si divide in tre gruppi: la maggioranza (Loden), vista la ragionevole impossibilità di lotta … fugge. Poi ci sono quelli del ‘Vincere o morire’, quelli dell’onore (Caban) che, novelli Rambo, danno battaglia, ma, impensieriscono solo lievemente gli invasori e i loro caccia da combattimento sembrano noiose zanzare facilmente distrutte dai raggi atomici alieni. E poi c’è il gruppo Eskimo che improvvisa al suono di musica new age parties di benve-

nuto (pensando già all’integrazione fra le razze) sulle terrazze dei grattacieli con grandi striscioni di ‘Welcome’… l’alieno li disintegra senza pensarci. Quale resta il messaggio? Beh, la fine che hanno fatto questi simboli. Dell’Eskimo si sono perse le tracce, al Caban è andato peggio, da indumento militare è diventato quello che mai avrebbe voluto, un ‘classico’ borghese con le tasche a toppa (!) … alla fine ne rimane solo uno. Sopravvive alla grande solo il Loden, sempre uguale dal secolo XIX, mai fuori moda, se vogliamo poco appariscente, ma duraturo e sempre attuale e che mai come in questi tempi vive la gloria nell’ennesimo rispolvero. PS: ogni riferimento a personaggi politici italiani di questi anni è … puramente casuale. P.140: Marlon Brando (1924-2004), James Dean (19311955) e Steve McQueen (1930-1980); p.145: La copertina del doppio LP ‘Quadrophenia’, The Who, 1973; p.146: Una scena del film ‘Independence day’ del 1996.


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on l’introduzione da parte di Gutemberg fra il 1439 e il 1450 dei caratteri mobili, la produzione libraria ebbe un notevole sviluppo e parallelamente al perfezionamento dell’arte tipografica e conseguentemente all’aumento delle copie esistenti di un libro, con l’impossibilità di distinguere l’una dall’altra le diverse copie di questo, sotto la spinta del desiderio di personalizzare i propri libri, è nato l’Ex Libris. Abitualmente i cartellini riportavano impresso in xilografia il blasone nobiliare del proprietario, generalmente assieme all’impresa della casata, ossia il motto nobiliare della famiglia. I libri, infatti, erano privilegio dei nobili e dei conventi. “Le dizioni Ex Libris…, Ex foliis…, Dai libri di…, Ex bibliotheca… comparvero frequentemente accanto al nome del bibliofilo solo dopo la metà del Settecento”1, portatore di notevoli mutamenti sociali che permisero al libro di essere accessibile anche a professionisti, studiosi e ricchi mercanti; alla xilografia si affiancò l’incisione in rame e allo stemma e all’impresa nobiliare negli Ex Libris si sostituirono motti e soggetti iconografici ad personam. Alla fine del Settecento nacque la litografia, o incisione su pietra, che permetteva di stampare un numero altissimo di esemplari, tagliando così i costi. Nell’Ottocento la nascita della fotoincisione decretò poi quasi la fine dei procedimenti d’incisione tradizionale, fino a quando sulla fine del secolo Telemaco Signorini e Giovanni Fattori riportarono “la calcografia italiana alla sua iniziale espressione di arte creativa”2. Nel secolo scorso con il movimento artistico dell’Art Noveau nacque il recupero della raffinata tecnica 1 A. Disertori A.M. Necchi Disertori, Ex Libris, Milano 2013, p. 2. 2 idem, p. 3.

Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire. Marguerite Yourcenar della xilografia e grazie al fratello Gabriele d’Annunzio che desiderava riportare alla dignità rinascimentale la tecnica xilografica e alla sua collaborazione con il famoso artista Adolfo De Carolis anche l’Ex Libris conobbe nuovamente un periodo fortunato, anche se rimase sconosciuto al grosso pubblico. Gino Sabbatini fondò a Bologna nel 1921 l’Associazione Italiana Amatori e Collezio-

nisti di Ex Libris e altre la seguiranno, con vita generalmente breve, tranne la Bianco e Nero ed Ex Libris nata a Como nel 1946 che è tuttora vivente, presieduta da Pier Luigi Gerosa. Tradizione elitaria e signorile dei collezionisti di Ex Libris era il ricorso ai rivoli dei doni, rifuggendo come volgare la commercializzazione delle proprie “insegne”, ma la seconda metà del secolo scorso che ha portato in Europa un progresso sociale ed economico senza uguali, ha favorito una crescita culturale che ha coinvolto anche l’arte. Perciò è stata conseguente la ricerca da parte dei collezionisti e degli amatori dell’“oggetto libro” di un’espressione artistica unica e raffinata in un momento nel quale le arti grafiche hanno affiancato a quelle tradizionali tecniche quali l’incisione su linoleum o su plastica, l’eliografia, l’offset ecc. che hanno reso l’Ex Libris economicamente accessibile a tutti e questo fiorente sviluppo ha favorito la commercializzazione che ha potuto farci assistere alla sostituzione d’uso dell’Ex Libris da contrassegno a oggetto da collezione. Questo Ex Libris di Antonio Binni, acquaforte 9x13 cm numerata e firmata dell’artista bolognese Claudio Morcelli (pag. seguente), raffigura una serie di arcate costruite non da pietre, ma da libri, alludendo al progetto di vita del fratello: dai libri una esistenza che sia una Cattedrale dello spirito nata dal lavoro e dallo studio, impegno del corpo e della mente per elevare se stessi. Sullo sfondo il semplice oculo della cattedrale rappresenta il Sole, a simboleggiare vieppiù che il libro è un simbolo di luce; ogni volume dovrebbe essere infatti una scheggia di luce che illumina la mente e la moltiplicazione di queste schegge dovrebbe trasformare noi stessi in cattedrali di luce. A volte però i libri sono negativi, lune nere, e la presenza del Sole, dono gratuito del Grande Architetto dell’Universo, 147


Non lo intendiamo in senso negativo, ma in quello positivo e propositivo di una grande Opera che deve proseguire nei secoli, così come è da secoli che si mantiene. Ecco perché non possiamo fermarci ad una soddisfatta contemplazione del lavoro fatto, all’ammirazione sterile delle sue forme maestose, ma piuttosto dobbiamo riprendere in mano i progetti originari, riaprire l’antichissimo cantiere, richiamare gli operai “dalla ricreazione al lavoro”…3 La Cattedrale è dunque un corpo vivente di “pietre che parlano”. I Maestri apprendevano fin dall’inizio le leggi dell’armonia. Attraverso l’iniziazione

accedevano allo stato interiore necessario a comprendere questi valori armonici. In seguito il mestiere appreso negli anni permetteva loro di manifestare nella pietra il proprio percorso spirituale tramite simboli che velavano, ma non nascondevano, la via da seguire. Le Cattedrali sono dunque delle bussole, dei punti di riferimento nella foresta dei simboli che parlano chiaramente solo a chi è riuscito a rettificare il proprio modo di ragionare e di pensare, decifrando così il libro sacro che incarnano. È lo stesso cammino che deve compiere il massone per vivere i simboli presenti nel Tempio. Del resto la radice del termine Tempio deriva dall’indoeuropeo tem, che significa “separare” “dividere” secondo ordine e intelligenza e il templum indicava il settore del cielo che l’àugure romano delimitava per osservare sia i fenomeni naturali sia i passaggi degli uccelli4. Interessante in questo Ex Libris la scelta di rappresentare la costruzione con degli archi a tutto sesto anziché con quelli ogivali caratterizzanti la Cattedrale gotica, generalmente immaginata come l’evoluzione del pensiero dei tagliatori di pietre. Si vuole profondamente alludere alla tradizione in quanto l’arco a tutto sesto (e sesto è l’antico nome del compasso) o semicircolare, contraddistinto da una volta a semicerchio, è un elemento caratterizzante l’architettura romanica e viene utilizzato sia con funzione estetica, sia per separare le navate degli edifici religiosi. Una serie di archi scandisce un movimento sereno e lineare, racchiuso entro solide masse di libri che emanano una sensazione di fermezza e stabilità. Nell’arte romanica era spiccata la tendenza alla narrazione vivace e animata degli episodi biblici e questo repertorio rappresentativo era la somma del pensiero e della sapienza medievali. Un percorso culturale, questo, derivato dai libri che solo pochi erano in grado di decifrare e comprendere e che erano quindi trasformati in figure dalle quali anche i semplici popolani potessero trarre insegnamento. Il ricorso ai simboli è rivestito di concretezza; la chiesa romanica

3 P. Lucarelli, Scritti alchemici e massonici, Sesto S. Giovanni (Milano) 2012, p. 354.

4 M. Battistini, Simboli nell’arte, Milano 2003, p. 157.

Ex Libris

regalo di vita e d’amore per tutte le creature, vuol significare che il fratello ha attentamente scelto e selezionato le sue letture, non permettendo a opere vuote o negative di inquinare la sua anima. La Cattedrale ha la sua base sulla terra e s’innalza verso il cielo, simbolo vivente dell’unità della creazione del Grande Architetto dell’Universo, così come il Libero Muratore ha i piedi sul pavimento a scacchi della Loggia, ma alzando gli occhi vede il cielo stellato, simbolo che il Tempio è aperto all’Infinito. L’iniziato costruisce in terra la sua Cattedrale affinché il mondo in basso sia corrispondente con quello in alto. Come scriveva un grande alchimista del nostro tempo, Paolo Lucarelli: “…la nostra Cattedrale è incompiuta. 148


scandita da ampie campate coperta con volte a crociera e archi trasversali riaffermava nell’interno la purezza della religione, con la massa dei muri alleggerita dalla moltiplicazione degli archi, ma nel suo Ex Libris il fratello Antonio Binni utilizza il simbolo in maniera originale, affermando con la sostituzione del libro alla pietra lo slancio armonioso ed equilibrato, la consistenza, la fermezza e l’integrità del suo spirito reso solido da una cultura profonda e severa, misurata con il sesto nell’apertura del Maestro. Particolarmente rilevante è la scelta di rappresentare i volumi sia dal lato del dorso sia quello del taglio, intendendo con questo che il libro visto dal dorso è chiuso per conservare il suo segreto, mentre visto di taglio è aperto, per permettere di afferrare a colui che lo scruta il proprio contenuto5. Ricordando che nella concezione ermetica vige l’assioma che “ciò che sta in basso è come ciò che sta in alto”, alla pietra, cosa minerale e come tale manifestazione infima del Principio Spirituale, corrisponde simmetricamente un’altissima entità spirituale. Come afferma Steiner6, le entità spirituali minerali “ …sprizzano di gioia quando, per esempio, in una cava la pietra viene scheggiata; è come un raggio di luce spirituale”. Tanto più la pietra-libro gioirà quando sarà levigata a costruire un Tempio del sapere, non volto all’orgoglio dell’uomo, ma a disposizione dell’Obbedienza e dell’umanità tutta. La Conoscenza ci mette in grado di scegliere l’alternativa giusta e conveniente fra la scelta massonica di Fratellanza e quella profana egoistica, fra lo scegliere il mondo delle cause o quello degli effetti, cioè, secondo il suo significato iniziatico, scegliere il Bene, che è quello che aiuta l’Uomo a progredire dal mondo degli effetti a quello delle cause, rispetto al Male che è ciò che vi si oppone. Il lavoro muratorio, ovverossia l’elevare Templi alla Virtù, è uno dei mezzi per progredire in tal senso, elevandoci alla visione delle cose essenziali, primordiali, alle leggi eterne, e facendoci aprire al mondo delle cause. Ci riferiamo for5 J. Chevalier A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Milano 1986, II v., p. 25. 6 R. Steiner, Minerale, vegetale, umano (in Antroposofia, n. 4-6, aprile- giugno 1973, pp. 3343).

Ex Libris

se all’opera dei Maestri Comacini, perché la loro Gilda …non ereditò soltanto la tradizione edilizia romana dei Collegia, ma anche le sue conoscenze segrete; è stato ampliamente dimostrato l’impulso dato dai Comacini alla creazione di Logge in tutta Europa […]. Molti eminenti Fratelli, Maestri delle Gilde, erano uomini di vasta e raffinata cultura che conoscevano gran parte del significato nascosto dei riti e delle cerimonie tramandate; non mancavano anche coloro che possedevano conoscenze analoghe a quelle che oggi appartengono agli alti gradi, alcuni segni di questi ultimi, infatti, furono occasionalmente ritrovati negli edifici eretti da questi costruttori7… Come dice Antonio Binni stesso: Occorre incentivare l’amore per lo studio e le ricerche da parte dei Fratelli. Ogni Fratello deve, infatti avvertire l’orgoglio di acquisire una propria formazione culturale, utile, oltre che a sé, alla comunità massonica, in un raggio sempre più vasto, a mano a mano che si sviluppa la sua crescita spirituale e si ampliano le sue frequentazioni. […] Queste conoscenze dovrebbero, infine, innervarsi su di una solida cultura generale, alimentata dalla curiosità verso materie formative, quali la filosofia; il fenomeno religioso; la scienza; la numerologia; l’astrologia; ecc.; ricordando che tutto è utile ai fini della propria crescita spirituale: sicché nulla di ciò che è umano può essere escluso dall’attenzione e dallo studio di ciascuno.8 Un’opera accostabile per il

suo simbolismo alla precedente è uno degli Ex Libris realizzati nel 1948 per Giuseppe Biondi da Tranquillo Marangoni, donato assieme a molti altri alla Biblioteca della Gran Loggia dal fratello udinese Graziano Cuberli, poliedrico artista ed exlibrista lui stesso. Tranquillo Marangoni (Pozzolo del Friuli, 1912Ronco Scrivia, 1992), avendo dovuto iniziare a lavorare fin da giovanissimo, nel 1939 è assunto come disegnatore edile e arredatore presso i cantieri navali di Monfalcone che lascerà solo nel 1962. A trent’anni da autodidatta inizia a incidere il legno e la sua prima opera nel 1942 è un Ex Libris eseguito in treno tra Monfalcone e Udine con un bulino ricavato da uno spezzone di lima. Durante la II Guerra Mondiale ha inciso moltissimi timbri per le brigate partigiane riproducendo anche timbri di comandi ed uffici tedeschi, utilizzati per comporre lasciapassare per i partigiani e per i militari italiani provenienti dal fronte orientale. Dopo la liberazione partecipa per la prima volta a una mostra d’arte. Un anno dopo (1946) per la prima volta viene premiata una sua xilografia alla mostra “Premio Dama Bianca” a Gorizia. Dal 1966 si dedica completamente all’incisione e all’insegnamento fino al 1981. Numerose le attività artistiche nelle quali ha operato: affresco, graffito, mosaico, xilografia, tessitura dell’arazzo, stampa delle stoffe, illustrazione del libro, decorazione del vetro. Per le poste

7 C. W. Leadbeater, La Massoneria e gli antichi misteri, Roma 2008, p. 166. 8 A. Binni, Lettera aperta ai FFrr. e SSrr. della

Gran Loggia d’Italia in occasione delle elezioni del Sovr. Gr. Comm. Gr. Maestro, Dicembre 2013, Bologna 2013, pp. 16-17.

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italiane ha realizzato venti francobolli, è stato presente a numerose biennali di Venezia (nel ‘52, ’54, ‘56) e quadriennali di Roma, membro corrispondente della Reale Accademia Albertina del Belgio, membro onorario della Royal Society of Painter Etchers and Engra-

Ex Libris vers di Londra, presidente della Sezione Italiana della Società Internazionale Xilon e dell’Associazione Incisori Veneti9. Ha realizzato 1497 opere xilografiche fra le quali si contano 183 Ex Libris. Il foglio realizzato per Giuseppe Biondi è una xilografia che raffigura un uomo nell’atto di compiere come Atlante lo sforzo supremo di sorreggere una volta celeste a forma di squadra, a sua volta costruita con due libri, simbolo di scienza e di saggezza, rappresentati dal lato del taglio, quindi aperti e letti. La tecnica xilografica popolare e artigiana è un modo arcaico di comunicare attraverso l’immagine: sono evidenti le impronte del legno, l’immagine stessa esprime l’atto di forza dell’uomo-massone che sa che non può liberarsi della materia ma che deve imprimersi in essa con un’azione su se stesso. Il massone diviene dunque immagine dell’uomo plasmato dallo studio e dal lavoro, così come il legno sotto l’azione rude del ferro diviene immagine. Nella stampa è raffigurato il bel motto “Vivere per edificare”, lo scopo del massone che ha capito fino in fondo come utilizzare la propria pietra. L’apprendista dovrà levigare la pietra grezza del suo animo meditando, studiando, modellando gli angoli della propria coscienza che deve legarsi all’universale, utilizzando la squadra. Quest’utensile nasce da un concetto intellettuale di stabilità e di rettitudine. La sua forma non esiste in natura, e per questa caratteristica essa impone al massone di fare uno sforzo, nel portare pazienza di marciare con i piedi a squadra o mettersi all’ordine, condizioni necessarie per conformarsi alla regola e alla norma dell’angolo retto10. 9 A. Disertori A.M. Necchi Disertori, Ex Libris… cit., p. 84. 10 I. Mainguy, Simbolica degli utensili e glorifi-

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La squadra è anche il gioiello del Maestro Venerabile che regge la Loggia, e questa, a sua volta, simboleggia l’Universo, per cui il committente potrebbe essere stato un Maestro Venerabile ben conscio della pesantezza del suo lavoro morale, portato a termine con studio, intelligenza e volontà. Tranquillo Marangoni realizza anche un importante foglio xilografico in sanguigna 95x59 per il collezionista Sirio Cappelli, dove è rappresentato un uomo nudo nell’atto di arrampicarsi su di una scala-montagna fatta di libri e sovrastata da un occhio-Delta raggiante. Vi appare il motto “Per farci migliori”, al di sotto del quale quattro serpenti strisciano minacciosi. L’uomo nudo, spogliato dall’Iniziazione dai suoi metalli e dalla sua profanità, privo di preconcetti scala l’ardua montagna del sapere raffigurata con l’inconfondibile dinamismo compositivo di Marangoni. Viene rappresentata la possibilità che ci viene data con l’Iniziazione di compiere il lungo viaggio verso la Conoscenza che ci rende migliori e alla quale i serpenti sono di sprone spingendo l’uomo verso la cima della scala-montagna dove lo attende il Delta raggiante, simbolo del Grande Architetto dell’Universo. La simbologia inerente Tempio, scala e cazione del Mestiere, Roma 2008, p. 104.

montagna è simile. La scala è un simbolo ascensionale e ogni suo gradino corrisponde a una tappa dell’evoluzione spirituale e, come il Tempio, ha la funzione di raccogliere l’energia solare e di trasmetterla alla terra.11Rappresenta anche l’allegoria della nostra vita durante la quale, passo dopo passo, dobbiamo scalare il nostro cammino terreno attraverso sfide, dolori e speranze. Il serpente, animale-simbolo, è considerato in modo contraddittorio: in molte culture rappresenta il mondo degli inferi per la sua abitudine a ritirarsi in luoghi nascosti, ma anche rimanda alla vita per la sua apparente capacità di rigenerarsi attraverso la muta della pelle;
 simboleggia comunque l’elemento energetico che partecipa al processo perenne della vita e allo spirito divino che vi presiede. Innumerevoli, come è noto, sono le simbologie attribuite al serpente, ma in questo caso ritengo che ci si riferisca al significato Tradizionale che è quello della Conoscenza Suprema, obiettivo finale di tutte le scienze esoteriche.
 Ricordo la setta gnostica del II secolo, gli Ofiti, detti anche Naasseni, che veneravano il Serpente ritenuto elargitore agli uomini della Gnosis, la conoscenza illuminata del Bene e del Male preclusa dal Dio del Vecchio Testamento, creatore del mondo, ma, ritenuto dalla Gnosi, inferiore al Dio supremo. Nell’antica Grecia: …il ruolo d’ispiratore proprio del serpente appare in piena luce nel mito e nei riti relativi alla storia e al culto delle grandi divinità della poesia, della musica, della medicina e soprattutto della divinazione, che sono Apollo e Dioniso…12 Il simbolismo utilizzato da Marangoni ricorda il modo futurista di esprimere un’arte espressiva degli stati d’animo, anche se non sempre riesce ad accentuare il dinamismo emozionale della realtà. Credo però che suo scopo sia quello di ridare energia e tensione all’uomo per modificare il suo rapporto col mondo, trasformando il massone in eroe e demiurgo, portando l’energia elementare allo stato della forma e come tale renden11 M. Battistini, Simboli…cit., p. 157. 12 J. Chevalier A. Gheerbrant, Dizionario…cit., II v., p. 364.


dola comunicazione, utilizzando l’alchimia dell’arte, simbolizzata dai serpenti, che trasforma gli elementi rendendoli mezzo di contatto fra gli uomini. La materia, energia pura, caos indistinto viene attraverso la volontà, il pensiero e il sentimento plasmata, attraverso la pratica dell’arte, in comunicazione, dando forma ed energia alla pietra grezza trasformata in libro e quindi in lavoro. Nuovamente il libro è soggetto dell’Ex Libris di Edward L. Jacobson, uno dei fondatori il 21 marzo 1906 della “Whatcom Lodge n. 151” di Washington USA, con la bolla del Gran Maestro della Gran Loggia di Washington, Abraham L. Miller. Questa xilografia di artista non identificato rappresenta una bilancia a fulcro verticale e dalle braccia bilicate, da cui pendono le due coppe di confronto. La base della bilancia è il Libro, con il fulcro costituito da una spada. Al di sopra il Delta radioso. La bilancia è un noto “simbolo della giustizia, della misura, della prudenza, dell’equilibrio, perché serve a soppesare gli atti”.13 La Giustizia è Astrea, la vergine che regge la bilancia dell’equinozio d’autunno, quando luce e tenebre si equivalgono. Ma oltre a rappresentare il settimo segno zodiacale dove il sole entra a metà dell’anno astronomico, la Bilancia presiede alla legalità e alla giustizia, sociali e interiori, all’equilibrio fra tutte le cose; come il pavimento a scacchi bianco e nero del tempio rappresenta il contrasto fra gli estremi e l’esaltazione dei contrari, qui vediamo rappresentato il mondo della misura, del giusto mezzo, del bene che indica equilibrio, equità, moderazione e legge. Nel Libro dei Morti egiziano è raffigurata la psicostasia, la pesata delle anime, dove il cuore del morto, raffigurato da un vaso, ha come contrappeso una piuma di struzzo, che rappresenta la Giustizia. Con l’equinozio inizia l’autunno e il Sole perde la sua forza per lasciare alla terra cure e riposo dopo la primavera e l’estate che dopo il gran fruttificare l’hanno lasciata spossata. Mentre durante il segno della Vergine gli uomini hanno immagazzinato e conservato i raccolti, nel periodo della Bilancia saranno selezionati i 13 J. Chevalier A. Gheerbrant, Diz. cit., I v., p. 149.

Ex Libris

semi per preparare il raccolto futuro. Sarà sempre la Bilancia a occuparsi di distribuire equamente le risorse, evitando sprechi e ingiustizie. L’equilibrio che essa simboleggia indica il ritorno all’unità, cioè alla non manifestazione, perché tutto ciò che è manifestato è sottoposto al dualismo e alle opposizioni. È dal centro della bilancia e dall’immobilità dell’ago che le opposizioni possono esser pensate come complementari. La bilancia accompagnata da una spada è simbolo di Giustizia e Verità; nell’VIII

P.147: Il bibliotecario, dipinto da Giuseppe Arcimboldo, detto anche Arcimboldi, nel 1566, olio su tela 97x71 conservato a Stoccolma nel museo castello di Skoklosters; p.151: La biblioteca, olio su tela 126x102 fine ’600 dell’ambito del Nord Italia, trompe l’oeil con cornice a riquadri, collezione privata; Tutte le riproduzioni degli ex-libris sono di P.Del Freo e sono Copyright del Museo della Gran Loggia d’Italia.

tarocco la Giustizia è appunto raffigurata con in mano una bilancia e in un’altra una “spada formidabile, che è la spada della fatalità, poiché nessuna violazione della legge rimane impunita”14, non per vendetta, ma per il ristabilimento dell’equilibrio perduto. Questa spada è anche rappresentazione dell’ago dell’equilibrio fra i due piatti della Severità e della Clemenza, il tutto appoggiato sopra il Libro che in questo caso è quello degli Statuti Generali della Società dei Liberi Muratori che all’art. 448 recita: Straniero ad ogni profana influenza, l’Ordine dei Liberi Muratori è istituito per proteggere gli uomini che ne fan parte, e renderli perfetti, non per assecondare ciecamente le opinioni altrui e perderli. Senza fermezza di spirito e tenerezza di cuore non può esservi Libera Muratoria15. Annalisa Santini 14 O.Wirth, I Tarocchi, Roma 1973, p. 168. 15 Statuti Generali della Società dei Liberi Muratori, Roma 2003, p.64.

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La Massoneria rivelata. Storie, leggende e segreti

Luigi Pruneti e Marco Dolcetta, Mondadori, Milano 2013, pp. 216, illustrato, €. 24,90.

1.

La parola «potere», nel suo significato più generale, designa la capacità o possibilità di produrre effetti. Quello del potere è uno dei fenomeni più pervasivi della vita comunitaria, nel senso che non esiste rapporto sociale, nel quale non sia presente, in qualche misura, l’influenza volontaria di un individuo o di un gruppo sulla condotta di un altro individuo (padre-figlio) o gruppo (rapporti fra le classi sociali). Il campo, nel quale il potere acquista il ruolo più cruciale è, tuttavia, quello della politica. Il che è vero per la lunga tradizione della filosofia politica, ma pure per le scienze sociali contemporanee, a far data dall’analisi, ormai classica, che, del potere, ha fatto Max Weber (Economia e Società [1922], Comunità, Milano, 1980²). 2. Come fenomeno empiricamente osservabile, il potere, per sua natura, è conflittuale, perché, in quanto rapporto fra uomini, implica la causazione sociale, risolvendosi nella capacità di determinare i comportamenti altrui (per un approfondimento di questa suggestiva tematica, vds. la “Voce”: Potere, a firma di

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Mario Stoppino in Dizionario di politica, diretto da Norberto Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino, Volume 3, Utet, Torino, nell’ultima edizione risalente al 2004). 3. Il potere, proprio perché, per definizione, incidente sulla sfera altrui, è, altrettanto naturalmente, destinato a fronteggiarsi con altri poteri diffusi. Il confronto, fra il potere costituito e quello non costituito, non puó essere, all’evidenza, che dialettico. Più spesso è, peró, un rapporto conflittuale-antagonista, dal momento che il confronto si risolve in uno scontro frontale. Il potere, in ciascuna delle sue forme classiche (monarchia; oligarchia; democrazia), se vuole conservarsi e, perció, sopravvivere, deve difendersi, facendo ricorso a tecniche note, oltre che ampiamente collaudate. 4. Marco Dolcetta, esperto in materia, ricorda quella della «infiltrazione», metodologia inaugurata dalla famigerata polizia segreta russa – comunemente nota con la denominazione di Okhrana – particolarmente sofisticata che, qui, viene ricordata con le stesse parole dell’A.: «In caso di retate si evitava l’arresto di collaboratori, lasciando sfuggire anche qualche militante di minore importanza, ma in modo da non destare sospetti. Si facevano poi crescere d’importanza i propri agenti all’interno delle organizzazioni rivoluzionarie, aiutando la loro carriera con arresti selettivi di militanti con posizioni superiori alle loro nell’ordine gerarchico del movimento, in modo da creare posti liberi da poter fare occupare ai propri agenti. Con questo sistema, spesso agenti dell’Okhrana riuscivano a raggiungere i vertici dell’organizzazione da loro infiltrata» (pagg. 94-95). Dove la citazione, in un certo senso, era obbligata, a ragione che codesta metodica riporta alla mente quanto avvenuto all’interno delle “Brigate rosse”. Specie se, a quanto si dice, il suo ultimo capo indiscusso, nei sei mesi antecedenti al consolidamento del fenomeno terroristico, aveva dimorato negli Stati Uniti d’America. 5. Il volume che proponiamo alla lettura, contrariamente a quanto si potrebbe essere tentati di credere dall’accenno fatto, non è tuttavia un testo, che esplica le modalità, con le quali operano i servizi segreti (per chi fosse mai in-

teressato a questa pur interessante tematica, è sicuramente utile la lettura del saggio di Aldo Giannuli, Come funzionano i servizi segreti, Adriano Salani Editore S.p.a., Milano, 2009). Il saggio in commento, all’opposto, è un testo oltremodo sofisticato, perché si situa, e si dipana, su ben altri e più nobili piani, connotati dalla storia e dal mito, in un felice intreccio, solo in apparenza, inestricabile. 6. Nell’immaginario collettivo è sempre esistita una «realtà assoluta» opposta alla «non realtà della vasta distesa circostante» (pag. 37), un centro sacro fisso, dal quale si irraggiano luci di giustizia e di carità, che permettono di organizzare la società secondo l’ordine universale. In quest’ottica, «Il re del mondo, i trentasei giusti nascosti, i superiori incogniti, sono dunque una sorta di simbolo categoriale che risponde a una necessità dell’inconscio collettivo, quella che vi sia qualcuno che, anche nei momenti più buoi della storia, guidi l’umanità» (pag. 37 cit.). Accanto a questo mito, lo ribadisce, con forza, Pruneti, ne esiste, peró, anche un altro opposto e contrario al primo, secondo il quale «una cricca nascosta» tramerebbe per sradicare la tradizione e, cosí, riconsegnare il mondo al caos (pag. 38). Codesto «gruppo occulto e nefando» viene, poi, di volta in volta, identificato «con le streghe e gli adoratori del demonio, con gli ebrei» (pag. 38); ma, soprattutto, con i «massoni» (ivi). La parte centrale – e, sicuramente, più interessante ed istruttiva del saggio segnalato – è appunto quella dedicata a dissodare la tesi del «complotto planetario» come forma di difesa di un potere in forte difficoltà. 7. La tesi del complotto giudaico-massonico ha avuto il suo testo fondamentale di riferimento nel Protocollo dei Savi Anziani di Sion che, «a partire dal 1920, con la pubblicazione in Germania in gennaio e la loro traduzione inglese e francese in febbraio» (pag. 99), finí per avere «una risonanza internazionale» (ivi). Tanto che, «da quel momento, la loro diffusione sarà costante in tutto il mondo, con traduzioni in decine di lingue» (ivi). Nonostante che il testo sia un falso, noto e conclamato. A conferma che la manipolazione della opinione pubblica puó raggiungere vette incredibili. Anche se codesta manipolazione ha poi rag-


giunto picchi inimmaginabili quando il complotto viene ascritto alla massoneria. Come scrivono gli Autori nella Praefatio del testo, «Dietro ogni svolta epocale, guerra, rivoluzione, nuovi usi, costumi e tendenze è stata vista lei e solo lei: l’elusiva e onnipresente congrega dei Figli della Vedova» (pag. 8). Alla Massoneria e ai suoi presunti complotti, figura, pertanto, destinata l’analisi del profilo tematico svolto dal Pruneti, in materia, per certo, lo studioso più profondo ed accreditato. 8. Nell’immaginario collettivo, Massoneria e complotto sono termini, non solo appaiati – come il bianco e il nero del quadrangolo massonico – ma, fra loro, anche indisgiungibili, stante il rapporto fra loro costantemente causativo, in quanto l’una (Massoneria) sarebbe sempre la generatrice dell’altro (complotto). L’analisi di Pruneti, com’era logico e doveroso, investe il primo dei due termini, naturalmente dal profilo storico, in quanto proprio dell’Autore che, all’argomento, dedica due densi capitoli. 9. Nel primo, intitolato «L’ombra della Massoneria in Italia», si ricostruisce la storia della diffusione dell’Istituto latomistico nel nostro Paese. Nata in Inghilterra con un procedimento tanto noto da essere esonerati dall’obbligo di raccontarlo per l’ennesima volta, la Massoneria ebbe subito fortuna. Non solo sul suolo inglese, visto che la sua diffusione avvenne «a macchia d’olio anche sul continente» (pag. 11), perché, mentre «non faceva alcuna differenza fra cattolici, protestanti e giudei» (pag. 13), orientava, nel contempo, i suoi lavori nel «tentativo di rinnovare la ricerca scientifica e filosofica, seguendo gli insegnamenti di Galileo, Leibniz, Cartesio, Gassendi e Locke» (pag. 13 cit.). Deista e razionalista, il movimento non poteva che destare allarme e preoccupazione, sfociati nella bolla “In eminenti Apostolatus specula”, promulgata il 28 aprile 1738 da Clemente XII che, come noto, scomunicava, non solo gli iscritti alla Massoneria, ma pure quanti ne erano, agli stessi, di aiuto e supporto. E ció sulla scorta di motivi (messa in pericolo della fede cattolica, stante la compresenza all’interno della Associazione di persone di fedi religiose diverse; il giuramento del silenzio più assoluto sui lavori compiuti sotto comminatoria di pene gravi e truci; il carattere rivoluzionario dell’Istituto, tale da compromettere la pace fra gli Stati), che divennero poi tralasciati in tutte le successive scomuniche ormai quasi innumeri. Anche se un’ultima motivazione il Pontefice la tenne poi, invece, per sé («altri motivi noti al Pontefice»). Con la conseguenza che, di questi «altri motivi», nel prosieguo, non se ne seppe poi mai più nulla. L’evento, per quanto grave,

non bastó, tuttavia, ad arrestare il fenomeno. La Massoneria, infatti, si diffuse velocemente nella Penisola. Firenze (che conobbe, peró, la condanna all’esilio per eresia di Tommaso Crudeli, tornato a Firenze nel 1745, per quivi, poi, morire di tisi, dalla quale era affetto da tempo); Livorno; Napoli (dove, fra gli altri, furono Figli della Vedova Raimondo di Sangro; Francesco Maria Pagano; Francesco Caracciolo; Gaetano Filangeri; Vincenzo Cuoco; Colletta); la Lombardia (dove erano élite di spicco il giurista e patriota Giandomenico Romagnosi; l’economista Melchiorre Gioia; il poeta dialettale Carlo Porta e Ugo Foscolo, membro della Loggia Reale Amalia Augusta di Brescia, nella quale, nel 1807, entró, con il grado di Compagno, Vincenzo Monti); Venezia (dove portavano il grembiulino Nicoló Paganini; Giacomo Casanova; il commediografo Carlo Goldoni) divennero, infatti, altrettanti centri latomistici. Attivi e vitali. Nonostante le persecuzioni che comportarono la tragica fine di Cagliostro (al secolo, Giuseppe Balsamo), condita da leggende e dicerie (che possono leggersi alla pag. 23), e dei «presunti massoni» (pag. 22) Luigi Zanboni e Giuseppe de Rolandis. 10. Il successivo capitolo è incentrato sul «mistero dei Templari», ordine sciolto da Clemente V, «desideroso d’impedirne la condanna per eresia» (pag. 24), secondo quanto attestato da un documento, nel fondo di Castel Sant’Angelo dell’Archivio Segreto Vaticano, rinvenuto da Barbara Frale, puntualmente ricordata dal Nostro, sempre aggiornato su tutte le nuove fonti. La lectio magistralis dell’A. prosegue sullo sviluppo che il neotemplarismo ebbe sull’humus massonico. Anche se nato in Francia, fu, peró, in Germania che il neotemplarismo «trovó maggior fortuna» (pag. 27). In quest’ambito, Pruneti riserba poi analitica attenzione al nuovo ordine della «Stretta Osservanza Templare», fondato, «in virtù di una falsa patente» (pag. 28), dal barone Karl Gotthelf von Hund, autentico padre della Massoneria templare, che, verso il 1770, ebbe il momento del suo maggior splendore, in quanto presente, oltre che in Germania, pure in Italia, Svizzera e Francia. In questo sistema templare, viene, altresí, ricondotto l’Antico Rito di perfezione impostato su 25 gradi, siccome progenitore del Rito Scozzese Antico e Accettato, che ha poi inglobato molti gradi del primo (pag. 29). Anche il Rito scozzese primitivo, puntualmente ricordato (ivi), ha poi finito per confluire nel Rito scozzese Antico e Accettato, sorto a Charleston nel 1801, portato in Italia grazie alle patenti del conte Alessandro Augusto di Grasse-Tilly. A pag. 30 l’A. indica i gradi del Rito scozzese Antico e Accettato, nei

quali è possibile rinvenire la presenza templare, ricordando che il 30° grado è «il più tipico grado templare del Rito scozzese» (pag. 30). Le pagine successive sono dedicate ad un ulteriore lascito del templarismo, costituito dal mito dei “superiori incogniti”, che avrebbero controllato diversi altri ordini, compreso

Recensioni quello dei Rosacroce (pag. 32). Codesto mito, «troppo bello per sparire» (pag. 32), riaffioró «di volta in volta sotto vesti diverse» (ivi). I «superiori incogniti» ispirarono, infatti, anche gli aghartiani, signori occulti del pianeta (pagg. 33 e 34), via via, fino al “Re del Mondo” «che raccoglie in sé le caratteristiche del sovrano d’origine divina, del legislatore ancestrale e dell’eroe eponimo» (pag. 37). Figure, tutte, codeste, deputate, in funzione della rispettiva saggezza, a guidare l’umanità. Autentici centri di potere, molto più efficaci, proprio perché occulti. Nel che andrebbe poi colta l’origine della antimassoneria, intesa, appunto, come un movimento volto a contrastare, e soprattutto, a capovolgere, codesta pretesa di assoluto dominio. 11. Il più strenuo – e celebre – sostenitore del rapporto intercorrente tra Massoneria e rivoluzione fu, per certo, Augustin Barruel, nel quale l’A. ravvisa «il padre indiscusso della teoria del complotto» (pag. 41). La parabola umana del gesuita e della sua opera più celebre – le Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme – viene ripercorsa da Pruneti in tutti i suoi snodi salienti. Grazie all’enorme diffusione, le Mémories «riuscirono a convincere contemporanei e posteri che la Rivoluzione francese fosse opera della Massoneria» (pag. 42), presentata come un’associazione caratterizzata dalla progettualità sovversiva. La fortuna dell’opera dipese da molti fattori. Da ex massone (obtorto collo, visto che, a fronte del suo rifiuto, «presero partito di arruolarmi mio malgrado»), Barruel fu, infatti, innanzitutto, ritenuto «una fonte certa e sicura» (pag. 42). In secondo luogo, Barruel ebbe l’accortezza di distinguere l’errore dall’errante. Il che, mentre condannava la Massoneria, faceva, invece, nel contempo, salva la buona fede di quanti, ignorando la vera natura della congrega, vi arrivavano ignorandone la reale finalità. Sicchè, questi «poveri cristi» (pag. 42), anziché demonizzati, andavano, piuttosto, «aiutati e redenti» (ivi). Il merito maggiore dell’opera andava, peró, ascritto alla capacità di Barruel di legare fra loro, in un unico piano sovversivo, dati ed eventi estrapolati da diverse fonti, talune, perfino, inventate «di sana pianta» (pag.

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43), prospettati poi, invece, come comprovati ed avvalorati da fonti sicure, tali da attribuirgli «la dignità dello studioso (ivi). Il tutto in un quadro artificialmente costruito, la cui finalità era appunto quella di rappresentare la Massoneria come una congregazione segreta e sovversiva che coltivava il sogno «di distruggere la Chiesa cattolica» e di «abbattere i tro-

Recensioni ni, e ció allo scopo di vendicare il Gran Maestro dei templari, Giacomo de Molay» (pag. 45). C’est – à – dire, il regno delle tenebre, sorretto dallo scopo di eliminare i valori cristiani. Che era poi l’altra faccia della sua raggiunta credibilità come «uomo di chiesa». Nonostante la storia ne abbia dimostrato l’assoluta mancanza di fondamento, l’opera continuó, tuttavia, ugualmente ad avere uno strepitoso e duraturo successo, fino al punto da divenire la «Bibbia dell’antimassoneria», perché, a questa non disinteressata fonte, hanno poi attinto generazioni di antimassoni. Tanto che, dopo «aver attraversato l’Ottocento e il Novecento, l’idea del complotto planetario originato dal padre gesuita impera ancora oggi» (pag. 47) perché, quando la società si trova di fronte a fenomeni negativi, complessi e, ai più, di difficile comprensione, il ricorso alla tesi della regia occulta fa gioco. Specie se si suppone che «dietro a ogni umana sventura c’è sempre un unico volto che ghigna all’ombra della squadra e del compasso» (pag. 47). 12. Nella storia dell’anti-massoneria riveste un ruolo del tutto particolare il francese Leó Taxil, pseudonimo di Marie Joseph Gabriel Antoine Jogand-Pagès, al quale Pruneti dedica un intero capitolo. Non senza ragione, visto che questi è stato un grande mistificatore capace di burlare «mezza Europa che, felice», ha «preso le sue pittoresche panzane per oro colato» (pag. 83), facendo guadagnare, al suo fantasioso autore, «un sacco di soldi» (ivi). Entrato in Massoneria – presumibilmente perchè «se la passava male» (pag. 74) – posto che «di onore ne capiva poco, trovó il modo di farsi buttar fuori per indegnità» (ivi). Folgorato sulla via di Damasco, «ebbe un’improvvisa e spettacolare conversione. Con una lettera pubblica ritrattó [infatti] tutto il suo passato», dichiarandosi «pentito e desideroso di ritornare alla fede» (ivi). Inizió, cosí, a dar corso alle stampe una serie di opere – dal Pruneti puntualmente ricordate – che ebbero tutte uno straordinario successo. Mentre la Massoneria veniva descritta come una setta satanica specializzata in liturgie bestiali, che contemplavano orge, omicidi rituali e nefandezze di

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ogni sorta, i massoni venivano, invece, descritti come adoratori di Lucifero, esposti al pubblico ludibrio attraverso la pubblicazione di un «volume contenente circa seimila nomi di confratelli francesi, con tanto di professione e indirizzo» (pag. 80), in una successiva replica arricchita di «altri novemila nomi» (ivi). Col che, si inauguró un metodo divulgativo che, nel tempo, ha poi avuto diffusa e costante fortuna. Come è avvenuto all’epoca di Vichy e pure, da ultimo, ai giorni nostri. Definito da «Civiltà cattolica» come un «immondo pornografo di mestiere», a causa dei libelli scandalistici, «caratterizzati da una macroscopica volgarità che sovente sconfinava nella pornografia» (pag. 74), pubblicati in gioventù, Taxil divenne cosí la bandiera della anti-massoneria. Tanto da essere ricevuto, in una udienza particolare, dal pontefice Leone XIII, che aveva definito la Massoneria come una “sinagoga di Satana”. Quel che successe dopo – compresa un’applaudita conferenza tenuta da Taxil al congresso internazionale antimassonico di Trento, avvenuto nell’autunno del 1896, che segnó, peraltro, l’inizio della fine dalla sua meteora – è vicenda cosí affascinante e suggestiva che non merita di essere assolutamente rivelata. Se non con quest’ultima chiosa: che la creazione della figura di Diana Vaughan fu la causa – decisiva e determinante – della rovina di Taxil, costretto, dagli eventi, a confessare di «avere inventato tutto per scopi di lucro e per puro divertimento» (pag. 83). Diana, infatti, altro non era se non che la sua segretaria, «una giovane che gli aveva fornito un valido aiuto per inventare di sana pianta ció che aveva scritto» (pag. 83). Pure con riferimento alla fantasiosa figura del Dottor Bataille, che, invece, altri non era se non che un suo «vecchio amico d’infanzia con il quale si era trastullato a scrivere mille fandonie, che le gerarchie ecclesiastiche avevano prese per vere, tanto da scrivere commosse parole all’eterea Diana» (ivi). Pruneti, a fronte della improvvisa fortuna di Taxil, si interroga, infine, su “chi” lo ha etero condotto, lasciando intendere, una volta esclusa la Chiesa, che il mentore possa essere stato il Grande Oriente di Francia, interessato a «dare una mano alla Repubblica, impegnata a contrastare la concorrenza italiana in territori di caccia considerati esclusivi» (pag. 85). Dubbi; sospetti. Un’altra narrazione ancora del libro presentato, alimentato, appunto, da storie, leggende, segreti. 13. Fin dalle sue origini, la Massoneria fu dipinta come un’organizzazione criminale. Oltre al complotto economico-politico, come strumento per imporsi nel mondo, alla libera Muratoria fu, infatti, ascritta la pratica dell’o-

micidio. Tanto che, dietro tutti i delitti impuniti, fu ravvisata la Massoneria, o, quanto meno, la sua regia. A questa tematica viene dal Pruneti dedicato il capitolo intitolato «Massoneria rosso sangue», da leggersi con il più vivo interesse e … stupore! Non solo perché la Massoneria fu accusata di delitti e omicidi rituali, quando aveva già cessato di esistere per effetto ed in conseguenza della nota legislazione liberticida fascista (pag. 149). Ma anche, e soprattutto, perché, nell’era repubblicana, al ricostituito Istituto massonico sono state attribuite le morti di Luigi Tenco, di Alighiero Noschese, di Marco Pantani e pure di Rino Gaetano, fino a spingere poi il complotto alla morte di Albino Luciani, divenuto Papa da pochi giorni con il nome di Giovanni Paolo I, defunto nel trentatreesimo giorno del suo pontificato! … per non ricordare ancora Michele Sindona, Roberto Calvi, l’omicidio di Moro e … il “mostro di Firenze”! Dove la palese assurdità di simili teorie non puó, in termini irrecuperabili, che screditare ulteriormente, tanto la tesi del complotto, quanto la pratica abituale del delitto, rituale o no. Leggende, tuttavia, dure a morire perché i pregiudizi, come l’erba gramigna, caparbiamente resistono a tutti i tentativi di sradicamento. 14. Con scrupolosa acribia e convincente argomentazione, Pruneti ha, dunque, dimostrato quanto priva di fondamento sia l’equazione Massoneria = complotto. Con profondo senso di realismo, l’A. dà, comunque, mostra di non illudersi soverchiamente in ordine alla efficacia della prova storica, pure rigorosamente addotta, a ragione che, agli occhi dei «dormienti», l’effettiva vicenda fattuale è destinata pur sempre a rimanere un dato inessenziale, per essere la fantasia sempre pronta ad assorbire il vero, ogniqualvolta è posta al servizio degli interessi di parte. Com’è fatale, posto che la manipolazione non è mai disinteressata. Il ricorso alla macchinazione, infatti, nasconde sempre le colpe di chi ricorre a questa metodica, che presenta, non solo il vantaggio di trasferire le proprie insufficienze su altri, ma pure il profitto di traslarle su di una inafferrabile evanescenza, posto che non esiste una Massoneria universale, ma una pluralità di massonerie. Sicchè, è dato capire che, al Pruneti, interessi, soprattutto, comprendere il fenomeno dell’anti-massoneria e i meccanismi, che lo determinano e lo regolano, al precipuo fine di contrastarlo. Specie nel nostro Paese, dove l’anti-massoneria è fenomeno sempre latente. Atteggiamento – codesto – che non puó non riportare alla mente l’insegnamento spinoziano, secondo il quale occorre «non ridere; non piangere; ma pensare». 15. La parte del volume svolta dal Pruneti è


ricca, tuttavia, di altri risvolti, che, per certo, meritano di essere ricordati, quanto meno, nei punti, dall’estensore di queste note, stimati come salienti. Il primo richiamo viene dedicato al capitolo «Misteri e segreti del fratello Giuseppe Garibaldi», nel quale l’A. ricostruisce minuziosamente, e gli uni, e gli altri, con dovizia di notizie, che lo storico sottopone, peró, sempre a vaglio rigoroso. Spesso, per escluderne ogni fondamento. Per limitarsi ad un esempio significativo, viene cosí respinta la tesi, secondo la quale «sarebbero stati i massoni a far intervenire (…) la flotta britannica per facilitare lo sbarco» (pag. 63), a motivo che «A Marsala l’intervento inglese fu abbastanza casuale» (ivi). Secondo il Nostro, «ció che invece facilitó i piroscafi garibaldini fu la dissennata strategia della flotta borbonica nel presidiare le coste siciliane. La Massoneria non c’entra: quella inglese era avulsa da ogni contaminazione politica, quella italiana, rinata da meno di un anno, era priva di ogni capacità organizzativa e decisionale» (ivi). Tesi che trovo, oggi, confermata nello studio Unità a Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo assieme i pezzi, Bologna, 2012, di Paolo Macry – Professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Napoli “Federico II” – che, disattendendo il mito ottocentesco di un Risorgimento propiziato dalle logge massoniche europee in funzione antipapale, conclude, appunto, il suo saggio, sostenendo che il regime dei Borboni fu «destrutturato dagli errori della sua stessa élite dirigente, con una operazione che assomiglia molto al suicidio politico» (op. cit., pag. 42). Il più grave dei quali (errori) sarebbe costituito dall’Atto Sovrano del 25 giugno 1860, che, come noto, rimise in vigore lo Statuto del 1848. Con questa concessione, comunque tardiva, il Sovrano finí, infatti, per eliminare l’aristocrazia e il clero meridionale, ossia la classe politica che, fino a quel momento, aveva costituito l’ossatura dello Stato borbonico. Quanto poi alla figura di Garibaldi come Gran Maestro, Pruneti osserva che, sebbene letteralmente deificato come massone, l’Eroe dei due Mondi fallí clamorosamente nel progetto di unificare la Massoneria italiana, essendosi rivelata quest’ultima impresa «assai più ardua di quella dei Mille» (pag. 65). Nella ricostruzione di una vita ineguagliabilmente avventurosa, quale ebbe Garibaldi, non mancano anche le vicende che muovono al sorriso. Anche se legate ad un evento, sicuramente, non lieto. Garibaldi «spiró, alle 18,20 del 2 giugno 1882» (pag. 71). Sebbene avesse impartito precise disposizioni in merito alla sorte del suo corpo – secondo l’uso massonico, da cremarsi, per essere le ceneri poi tumulate «nel muro del sarcofago delle nostre bam-

bine» sotto l’acacia, l’albero sacro a Hiram, segno di rinascita iniziatica –«ragioni di stato imposero altrimenti» (ivi). Le esequie solenni furono, infatti, celebrate sei giorni più tardi (8 giugno), sotto un furioso temporale che, per alcuni, «fu una sorta di vendetta postuma» del generale, «offeso per il mancato rispetto della sua volontà», mentre, per i clericali, altro non fu che il «segno tangibile» dell’«ira» dell’Onnipotente! A riprova che di Garibaldi – nel bene e nel male – non si è mai potuto «fare a meno di parlare» (pag. 73). Che è, sicuramente, chiusa felice dell’intero capitolo, di gustosissima lettura! 16. Particolarmente felici sono poi le pagine che il Pruneti dedica alla influenza che la Massoneria ha avuto, rispettivamente, sulla letteratura e sui fumetti (pag. 176 e ss.). Per quanto attiene alla prima, ci sono parse particolarmente riuscite quelle che l’A. dedica a Pinocchio: una favola interpretata da diversi angoli prospettici, compreso l’immancabile profilo psicoanalitico, suscettibile, peró, di una ermeneusi in chiave squisitamente massonica, giustificata e illustrata dall’A. in termini assolutamente corretti e persuasivi (da pag. 179 e ss.). Né, per quanto attiene ai fumetti, viene dimenticato Topolino: «un personaggio spesso tacciato di massonismo, soprattutto a causa di suo padre: Walt Disney» (pag. 138), che dichiaró: «Avverto un particolare senso di riconoscenza verso l’ordine di de Molay, per il ruolo importante ch’esso ha svolto per modellare la mia vita» (ivi). Gratitudine poi trasfusa nei suoi film di animazione e, segnatamente, nella pellicola Fantasia, su alcuni episodi della quale Pruneti si sofferma per metterne in luce la matrice sicuramente latomistica. Rinvenibile, perfino, ictu oculi, nella iniziazione da Mago Merlino impartita a “Semola”, futuro Re Artù, nel magnifico film La spada nella roccia, prodotto dai continuatori dell’opera di Disney, pure «oggetto di un certo numero di leggende volte a mettere in evidenza aspetti misteriosi della sua produzione» (pag. 183 cit.). Inaspettatamente, alla matrice massonica sono stati, poi, ascritti anche i Puffi, «la fortunata creazione di Peyo, poi trasformata in cartoni animati da Hanna & Barbera» (pag. 184). Secondo Antonio Soro, il cui punto di vista viene da Pruneti puntualmente riferito, nei simpatici folletti, andrebbe, infatti, ravvisata l’allegoria di una loggia massonica (pag. 185). Tesi che viene argomentata con un richiamo al colore blu – «che è il colore pneumatico per eccellenza» (ivi) – degli esserini e a quello bianco – «simbolo della purezza originale alla quale ambiscono» (ivi) – del loro copricapo, oltre che al loro elementare linguaggio, «che si avvale di un unico verbo, puffare,

in grado di compendiare un unico significato» (ivi): comunicazione verbale «di un primordiale mitico, preesistente alla caduta di sophia, che implicó il caos e la babelica differenziazione degli idiomi» (ivi). Nel Grande puffo – bianco di barba, con copricapo e pantaloni rossi, «cromia tipica del rito dell’Arco Reale» (ivi) – secondo la prospettazione qui rife-

Recensioni rita, andrebbe poi colta la figura del «Maestro Venerabile, capo indiscusso della comunità» (ivi). Mentre Puffetta «potrebbe rappresentare la ripulsa di una certa Massoneria alla iniziazione della donna» (pag. 186). Anche se, per altri (Soro), Puffetta indicherebbe, invece, «la meta perduta che la loggia massonica deve riconquistare» (pag. 186 cit.). Riconosciuta, con Massimo Introvigne, «l’improbabile origine latomistica» di Zorro, Pruneti, con assoluto fondamento, dedica due intense pagine a Hugo Pratt, iniziato il 19 novembre 1976 nella loggia veneziana Hermes, appartenente . . . . alla Gran Loggia d’Italia degli A. .L. .A. .M. . È, infatti, certo che la militanza massonica influenzó, in modo tangibile, molte delle storie raccontata da Pratt, da Pruneti ricordate e commentate con particolare attenzione alla più significativa di tutte – la Favola di Venezia – posto che, fin dal suo incipit, tutta la storia ivi narrata si svolge in un contesto autenticamente massonico. Non solo per quanto attiene ai luoghi; ma anche per quanto concerne i massoni, presenti nella favola. I nomi accennano, infatti, in modo preciso ed esplicito, ad alcuni suoi confratelli (pag. 189). 17. Il capitolo, che conclude l’opera, è dedicato all’importanza che la Massoneria ha avuto nella formazione degli Stati Uniti d’America. Che i padri della grande repubblica d’oltreoceano fossero in gran parte massoni è noto. Meno nota è, invece, la ragione per la quale fu deciso di costruire la capitale federale in Virginia lungo le sponde del fiume Potomac. Parimenti meno noto è il motivo per il quale il terreno destinato alla capitale avrebbe dovuto essere – cosí come poi è stato – un quadrato con il lato lungo dieci miglia. Interrogativi entrambi – codesti – che (a pag. 192) rinvengono puntuali risposte. Ricorda ancora Pruneti che la stessa città di Washington altro non è che «una sorta di libro di simboli massonici» (pag. 193), tutti, puntualmente, chiariti, per quanto possa essere delucidato un simbolo. Una particolare attenzione, dal Nostro, è stata inoltre dedicata alla carta moneta di un dollaro, contrassegnata da una ricchissima simbologia decisamente massonica, alla quale Pruneti dedica una pagina (194) ricca di no-

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tizie esplicative, che squadernano approdi inaspettati. La simbologia massonica emerge pure nel simbolo delle Nazioni Unite. Non v’ha poi dubbio alcuno che tutta codesta simbologia lascia trasparire il desiderio, peraltro concretamente perseguito, di realizzare un mondo nuovo impostato sul tri-

Recensioni nomio libertà, uguaglianza, fratellanza: un linguaggio che, non lascia, in verità, peró, affatto trasparire alcuna volontà di controllare il pianeta, quanto, semmai, piuttosto, un servizio all’Uomo. In sintesi. Un contributo alla crescita dell’umanità essenzialmente spirituale, posto che solo questo tipo di crescita integra l’autentico progresso. L’A. mette, da ultimo, in guardia sul rischio – invero diffuso – di vedere «simboli massonici ovunque» (pag. 197). Quando è vero, invece, che la maggior parte dei simboli più noti – quali, ad esempio, quelli di luce – sono archetipi comunemente diffusi. Accolti – quali, ad esempio, il sole e l’occhio iscritto in un triangolo equilatero – anche dalla Massoneria, che «peró in molti casi è arrivata per ultima» (ivi). 18. Prima di riassumere, in chiave valutativa, le fila di queste note, il suo estensore si permette di richiamare la cortese attenzione del lettore sul titolo del volume. Massoneria rivelata puó, infatti, intendersi, tanto come Massoneria svelata, quanto, invece, come Massoneria nuovamente celata (ri-velata) all’occhio dei profani. Dove l’ambiguità è, peró, solo apparente, a ragione che, come insegna la Tradizione, il Vero coincide con la coniunctio oppositorum. Il che autorizza ad affermare che il titolo attribuito al volume è davvero molto felice, proprio perché dotto. Sempre che il lettore sia in grado di raccoglierne la finezza. 19. Il saggio recensito è straordinariamente ricco di notizie. Anche nelle parti svolte da Dolcetta. Tanto che l’estensore di queste note non puó esimersi dal raccomandare vivamente la lettura, in particolare, dei capitoli curati da questo A., rispettivamente intitolati «Bolscevichi e Massoneria» (pag. 100 e ss.); «Il caso Racovski» (pag. 106 e ss.) e «Svastica e compasso» (pag. 117 e ss.). Saggio, quest’ultimo, che segna l’ennesimo esempio di anti-massoneria («nella Germania nazionalsocialista non c’è posto per la Massoneria», cosí, nel 1933, Hermann Göring, nella sua veste di presidente del Reichstag), condotta poi fino all’estremo, costituito, fra l’atro, dalla esposizione antimassonica nel 1941, dopo 156

l’occupazione tedesca del Belgio, realizzata a Bruxelles nel palazzo della Brouckère (pag. 123). Quanto alla parte uscita dalla penna di Pruneti già si è detto, sia pure succintamente, avuto riguardo alla natura della presente segnalazione. Qui, per completezza di quadro, non rimane, pertanto, che aggiungere che la sezione dedicata alla Massoneria è impreziosita da un apparato iconografico significativo, in diverse immagini anche molto rare, oltre che da un Glossario molto utile per il lettore che, per la prima volta, si accosta alla tematica latomistica. Le singole voci, che lo compongono, pur nella loro pregevole sinteticità, sono, infatti, tutte sommamente esplicative dei ventisei termini prescelti dall’A. al fine di favorire la comprensione dei propri testi. Il volume è corredato, infine, da una ricchissima Bibliografia che, mentre dà conto della accurata ricerca compiuta da Pruneti, offre, nel contempo, al lettore, che lo desideri, un prezioso ausilio nel reperimento delle fonti utili all’approfondimento dei singoli argomenti trattati. Un cosí variegato volume, caratterizzato da pagine densissime, avvincenti e pure coraggiose, invoglia, dunque, alla lettura di un testo sicuramente molto interessante e stimolante. Anche perché scritto con stile chiaro ed elegante, nel suo contenuto, mai superficiale, proprio perché condotto sempre con rigore metodologico, oltre che con un’analisi scrupolosa delle fonti. In estrema sintesi. Quello segnalato è un lavoro serio; un volume solido nei contenuti, aperto alla curiosità, per questo, sotto molti aspetti, assolutamente originale perché, dalle penne incrociate dei due Autori, risultano affrontate, con serietà e competenza, tematiche complesse, fino ad offrire, dell’argomento trattato, un panorama esaustivo. 20. Una volta terminata la sua lettura, il libro ci mette di fronte a due possibilità. O rinchiuderlo, restando ancorati ai vecchi pregiudizi. Oppure – quanto meno – iniziare a riflettere. Si vuol dire, in conclusione, che il libro aiuta a ragionare a capire. È sommessa, ma convinta opinione del recensore che maggior merito e valore non possa, dunque, essere attribuito al volume. Dalla lettura proficua per tutti. Imprescindibile per quanti abitualmente frequentino questa Rivista, veicolo previliegiato delle tematiche culturali dibattute all’interno dell’Obbedienza. Specie se, come nel caso, che ci ha occupati, suscitate, con rara competenza, da uno storico insigne come Luigi Pruneti, Fratello autorevole, oltre che Guida prestigiosa della nostra amatissima Comunione. Antonio Binni

Un libro forgiato all’inferno. Lo scandaloso Trattato di Spinoza e la nascita della secolarizzazione

Steven Nadler, Einaudi, Torino 2013, pp. 242, €. 30,00.

1.

Pessimo ebreo sefardita; espulso, a causa delle sue «abominevoli eresie», dalla comunità ebraico-portoghese di Amsterdam con il più severo bando di herem mai promulgato contro un membro di quella comunità; mediocre mercante, perché privo della scaltrezza del vero commerciante; buon tagliatore di lenti; immenso filosofo: Bento (o Baruch [= Santo], come veniva chiamato nella Sinagoga) de Spinoza (Amsterdam 1632 – L’Aia 1677): un gigante del pensiero che, dagli albori dell’Illuminismo, acceso dai roghi, con le sue idee filosofiche, religiose e politiche, pose le fondamenta di buona parte di ció che, oggi, definiamo «modernità». Nella prima Età postmedioevale Spinoza, senza alcun dubbio, è stato, infatti, il più forte ed eloquente fautore di una società laica, in quanto libera dall’influenza della Chiesa, governata dalla libertà di pensiero e di espressione («sia consentito a ogni cittadino non solo pensare ció che vuole, ma anche dire quello che pensa» parole di Spinoza; anche nel prosieguo le si trascriverà non in corsivo, per distinguerle dalle citazioni dello scritto di Nadler), retta dalla tolleranza e da virtù civiche. 2. «La vita di un filosofo è irta di Spinoza». Cosí Ceronetti. Non solo per celebrare la vicenda umana e intellettuale di Spinoza. Ma


anche, e soprattutto, per rimarcare la necessità, per ogni filosofo che aspiri ad essere autenticamente tale, di misurarsi con un pensiero, dal quale non puó prescindersi proprio perché nato e sviluppatosi come assolutamente libero, in quanto del tutto svincolatosi da qualunque credo o istituzione. Celebre, infatti, è rimasto il rifiuto di Spinoza all’onesta proposta dell’elettore del Palatinato di ricoprire la cattedra di filosofia alla università di Heidelberg, ancora prestigiosa, nonostante i danni subiti dalla città durante la Guerra dei Trent’anni. Autentico libero pensatore, Spinoza rivendicó, infatti, per sé, unicamente la libertà di trattare senza pregiudizi ogni ambito della natura e della conoscenza secondo la massima – divenuta celebre – «Né ridere, né piangere, ma capire», presente proprio nel «Tractatus theologico-politicus», al quale Steven Nadler, per certo fra i più autorevoli studiosi dell’opera spinoziana, ha dedicato il volume qui segnalato. Peraltro, doverosamente, trattandosi di un saggio denso, profondo, coinvolgente, oltremodo documentato. Non solo per quanto attiene al contenuto del Trattato disaminato anche alla luce dell’Etica. Nadler, correttamente, sostiene, infatti, che le due opere siano fra loro complementari. Ma anche per quanto concerne la storia dell’opera – affascinante in sé – in quanto ricostruita alla luce delle aspre reazioni che determinó. Sulle quali ultime conviene, da subito, soffermarsi, a ragione del profondo scandalo che suscitó il Trattato, fin dal suo primo apparire, nonostante, considerata l’epoca, l’insolito grado di libertà religiosa esistente in Olanda e nelle altre province. Tanto che Spinoza stesso se ne dichiaró l’autore nella corrispondenza con Leibniz. 3. La prima a risentirsi contro il libro, che infirmava gli stessi principi religiosi, fu, ovviamente, la gerarchia della Chiesa riformata. A lanciare l’allarme contro la diffusione di un «libro profano e blasfemo» fu, infatti, il concistoro di Utrecht. Codesto fu, peró, il primo soltanto di una lunga serie di interventi compiuti dalle istituzioni della Chiesa riformata. Contro il Trattato, infatti, subito dopo, prese partito anche il Sinodo distrettuale dell’Aia, che lo qualificó come «libro osceno e blasfemo, quale, a nostra conoscenza, il mondo non ha mai conosciuto». Né fu meno tenero il sinodo distrettuale di Amsterdam, che bolló il libro come «blasfemo e pernicioso» a causa del suo contenuto «mostruoso e abominevole». La reazione contro quest’opera, nella quale «Dio è assente più di ogni altra», fu massiccia e determinata. Tanto che, nel luglio del 1674, il Trattato fu messo definitivamente al bando

nella Repubblica delle Sette Province Unite. Dopo di avere, in precedenza, subíto sequestri e, quando l’opera, nelle città olandesi, era ormai divenuta introvabile, per lo meno sugli scaffali delle librerie del luogo, per essere definitivamente entrata nel regno della letteratura clandestina. 4. Più che la reazione delle istituzioni ecclesiastiche olandesi, che probabilmente si aspettava, per Spinoza erano nondimeno allarmanti gli attacchi che gli venivano mossi dagli intellettuali, sia in patria, sia all’estero. Nadler, nell’opera qui segnalata (a pagina 234 e ss.), ne dà conto analiticamente, citando i critici e le fonti. Qui valga, ad esempio, ricordare Hobbes. Il Trattato, disse il filosofo inglese, «lo aveva colpito profondamente, poiché egli non si sarebbe mai permesso di scrivere simili insolenze». Anche De Witt, il grande uomo politico liberale, che, in Spinoza, ravvisava una sorta di alleato, non trovó nulla da dire. Anche se, in un libello anonimo pubblicato da uno dei suoi nemici, in un catalogo di libri, che si diceva appartenessero alla biblioteca del grande uomo politico liberale, accanto al titolo del libro n. 33, Tractatus, theologico-politicus, compare la seguente annotazione: «Forgiato all’inferno dall’ebreo apostata a quattro mani col diavolo». 5. Vasta fu, dunque, la reazione, posto che, contro il Trattato, presero posizione ambienti del mondo filosofico, politico e religioso seicentesco. A tutte codeste critiche, Spinoza «non sprecó molto tempo a scrivere risposte, mantenendo in generale un atteggiamento sprezzante verso i tanti libri e opuscoli scritti contro di lui e considerando i rispettivi autori persone disinformate e rancorose» (pag. 239). Se fosse sopravvissuto, è verosimile che non avrebbe mutato atteggiamento neppure di fronte alla messa all’Index prohibitorum di tutta la sua opera compiuta dalla Chiesa nel 1679, due anni dopo la sua morte. 6. Rimane ora a chiedersi se una cosí dura e diffusa reazione – secondo Nadler «al vetriolo» (pag. 238) – fosse motivamente fondata. La risposta non puó essere che del tutto positiva. Avuto riguardo al periodo storico, nel quale vide la luce, l’opera era, infatti, davvero scandalosa in considerazione del suo contenuto sovversivo, siccome ampiamente anticipatore di un’era, della quale lasciava intravedere l’aurora. 7. Il primo – e profondo – motivo di turbamento era costituito dal fatto che Spinoza fu il precursore nel negare recisamente l’origine divina della Scrittura: tema all’approfondimento del quale Nadler dedica l’intero Capitolo sesto (da pag. 106 a pag. 140). Inaugurando lo studio moderno delle fonti bibliche,

Spinoza sostenne, infatti, che la Bibbia, anziché essere il Verbo di Dio, un messaggio divino inviato dal cielo alla umanità, altro non era che il frutto letterario dell’ingegno umano. Pertanto, come lo scienziato naturale, quando opera, non procede mai al di fuori della natura stessa, per esempio, verso principi

Recensioni teologici, cosí l’interprete della Scrittura non doveva uscire dalla Scrittura stessa. La conoscenza della Scrittura doveva, infatti, essere ricavata esclusivamente dalla Scrittura stessa (ab ipsa Scriptura sola). In quest’ottica, la Scrittura doveva essere, pertanto, interpretata come una qualsiasi altra opera letteraria. Quello proposto era, dunque, un approccio all’interpretazione di tipo razionalista, posto che il lume razionale finiva per essere mezzo e strumento per delucidare l’autentico significato delle Sacre Scritture, che, dunque, nulla insegnavano in contraddizione della ragione. Donde il rifiuto della ermeneusi propugnata dai teologi, che, inosservanti di un qualsiasi metodo oggettivo, cercavano di far passare, come insegnamenti divini, umane elucubrazioni, o, per essere ancora più precisi, i loro pregiudizi e le loro superstizioni (pag. 129). Con l’inevitabile conseguenza di causare faide religiose e, con esse, la distruzione della pace sociale. Come la Storia aveva dimostrato a più riprese (ivi). La vera autorità della Scrittura – ossia la sua divinità – secondo Spinoza, risiedeva unicamente nel suo contenuto morale, perché gli insegnamenti, che da essa era possibile trarre, spingevano gli esseri umani a agire secondo giustizia e carità (pag. 139). Donde l’ardita conclusione (vedi pag. 139 cit.) che «possiamo dire che la Scrittura è la parola di Dio solo perché essa insegna l’autentica virtù». Dal che due corollari audaci, se non addirittura temerari. In primis. Se la Scrittura non avesse avuto il potere di avvicinare le persone alla devozione di Dio e all’amore del prossimo, allora sarebbe stata, come qualsiasi libro, «nient’altro che un mucchio di carta e inchiostro» (cit. da Spinoza: pag. 139). In secundis. Per Spinoza, poteva essere definito divino qualsiasi libro, che avesse insegnato ad amare Dio e il prossimo come se stessi. Nell’ottica, qui riferita, come osserva l’A., non v’era, infatti, ragione alcuna per riserbare il monopolio dell’insegnamento della «vera religione» ad una particolare opera di letteratura umana, scritta dagli Ebrei diversi millenni fa (pag. 140). 8. Motivo di ulteriore scandalo, forse ancor più grave della veduta espressa in tema di Sa-

157


cre Scritture, fu la teoria elaborata da Spinoza in merito a quella che avrebbe dovuto essere la «vera religione». Secondo Spinoza, la «vera religione» è, infatti, costituita da una semplice regola morale – ama il prossimo tuo – e non anche, invece, dalle numerose leggi cerimoniali, particolarmente rigide, che costituisco-

Recensioni no l’essenza del giudaismo, «atti che di per sé non hanno alcun significato e sono chiamati buoni solo per l’abito della tradizione» (cit. a pag. 155). I comandamenti, che riguardano i riti, secondo Spinoza, «non contribuiscono né alla beatitudine né alla virtù» (cit. a pag. 156). Che anzi sono proprio gli «ornamenti della superstizione» che sottraggono «splendore» alla religione (pag. 156 cit.). Donde il corollario che non è importante attenersi alle cerimonie rituali e ai riti devozionali, quanto, invece, osservare scrupolosamente l’imperativo morale. Il che, come era inevitabile, ha aperto un acceso contenzioso con l’ebraismo, del quale, avuto riguardo al carattere proprio di queste note, puó farsi solo un accenno, ripetendo, innanzitutto, il giudizio valutativo complessivo dato all’argomento da Nadler, secondo il quale «Il rapporto di Spinoza con l’ebraismo fu a dir poco complicato» (pag. 156). Degne di nota sono, comunque, le pagine dedicate dall’A. al pensiero manifestato da Spinoza in merito alla conclamata superiorità del popolo ebraico. Da Spinoza negata, invece, in radice, non solo perché quella contrastata è tesi pericolosa, laddove crea una separazione tra i popoli, impedendo, cosí, loro di operare insieme per il bene comune, ma anche, e soprattutto, perché idea irrazionale. In natura, secondo Spinoza, vige, infatti, il principio di uguaglianza, che assicura la distribuzione della virtù in modo uguale fra tutti i singoli esseri umani. Il che esclude qualsiasi superiorità di qualsiasi popolo su di un altro (vds. amplius pag. 160). Quanto poi alla rivendicata «elezione divina» del popolo ebraico, Spinoza la riconduce «all’adempimento di altre funzioni» (cit. a pag. 160) – secondo Nadler, che, sul punto, si rende corretto interprete del pensiero del filosofo – dettate unicamente da «una serie di rivendicazioni puramente storiche, prive di qualsiasi valore morale o teologico e senza alcun atto consapevole e deliberato da parte di una divinità provvidenziale» (pag. 161). Secondo Spinoza, l’antisemitismo è poi servito a mantenere viva l’identità ebraica («Che sia l’odio delle genti quello che appunto li sostiene è noto 158

ormai per esperienza», cit. a pag. 165). Nella parte finale del capitolo Settimo «Ebraismo, cristianesimo e vera religione», l’A. affronta poi il tema, ampiamente discusso fra i cultori dello spinozismo, se possa sostenersi la tesi, secondo la quale Spinoza sarebbe stato «il primo ebreo laico» (pag. 164 e ss.). Assunto non condiviso da Nadler. «Semmai egli rappresentó il principale modello di uomo laico della prima Età moderna, un uomo nell’identità del quale l’affiliazione o l’eredità religiosa non ebbero parte alcuna» (pag. 165). Conclusione, quest’ultima, totalmente condivisa dal recensore. Spinoza, infatti, nutriva sicuramente un profondo disprezzo verso tutte le religioni istituzionalizzate e, in particolare, nei confronti della religione cristiana che, in quanto confessione più diffusa, dotata di un’enorme influenza sul potere secolare, costituiva, ai suoi occhi, la minaccia più grave alla pace sociale e al benessere individuale. Pur riconoscendo in Gesù un maestro di etica (pag. 173), per quanto eccezionale, contrariamente a quanto pur si è sostenuto, ció non lo indusse peró, mai, a farsi cristiano (pag. 173 cit.). Il suo impegno era, infatti, indirizzato alla costituzione di una religione razionale universale, la cui pietra angolare era costituita dal precetto «ama il prossimo tuo come te stesso»: una religione, in quanto tale, priva di riti e superstizioni, alla cui critica, com’è doveroso ricordare, è dedicato il Trattato. Un messaggio di speranza, se non andiamo errati, anche per quelli che furono poi chiamati chrétiens sans Eglise. 9. Nel Trattato sicuramente numerose erano le affermazioni di Spinoza che ferivano la sensibilità religiosa del tempo. Ció che maggiormente offese i contemporanei, determinandone poi lo sdegno risentito, fu, peró, l’identificazione fra la «divina provvidenza» e l’insieme delle leggi di natura, con la conseguente negazione dei miracoli. La scolastica aristotelica medioevale aveva spiegato i fenomeni naturali facendo ricorso a proprietà immateriali che avrebbero popolato e animato i corpi. Lo stesso Cartesio, che pure era stato un severo critico della scolastica, per spiegare il loro movimento, aveva fatto ricorso a «piccole menti», proprio come l’anima dell’uomo induceva al movimento il corpo. La nuova filosofia aveva, peró, rifuggito da simili vedute, sostanzialmente di comodo, previlegiando, invece, la tesi, secondo la quale la natura si muoveva in termini meccanistici, ossia secondo catene causali, di cui ogni anello altro non era che materia in movimento o in quiete. Su questa linea di pensiero – che ha inaugurato il primo meccanicismo moderno – si situano i filosofi del Seicento di fede pro-

gressista, quali Galileo, Boyle, Newton ed altri. I quali, non riconoscendo alla natura, né fini, nè causalità, ma solo parti del mondo materiale che si scontrano e si agglomerano fra loro e pure si separano, sempre, peró, secondo leggi fisse, ebbero l’ardire di formulare teorie dei fenomeni naturali dotate di autentico potere esplicativo o di concreta facoltà di previsione. Per quanto ossequienti della tesi, secondo la quale la natura era governata da leggi e necessità causali, tanto i filosofi ebraici, quanto quelli di ambiente arabo e latino, avevano, peró, sempre considerato come «gravemente lacunosa qualsiasi filosofia della natura che presentasse i miracoli come impossibili» (pag. 81). Anche se si erano poi trovati in grave difficoltà a darne una spiegazione razionalmente accettabile, in quanto costretti a sostenere che i miracoli sarebbero stati concepiti all’inizio del tempo. Con la conseguenza di doverli considerare poi come “eventi naturali”, proprio perché eccezioni derivanti dalle stesse leggi di natura. Tanto Maimonide, quanto Hobbes, avevano, comunque, riconosciuto il ruolo provvidenziale che la Scrittura aveva attribuito ai miracoli. Con audacia, Spinoza si è spinto, invece, ben oltre. Per Spinoza, Dio altro non è che la Natura (Deus sive natura), ordine fisso ed immutabile, le cui leggi implicano «necessità e vita eterna» (cit. a pag. 85). In quanto tali, dunque, inviolabili, perché qualunque cosa accada, in questa prospettiva, accade sempre per necessità (ivi). In questo regno, dove la potenza di Dio coincide con la potenza della natura, perché la divina provvidenza si manifesta esclusivamente nell’ordine naturale in sé, il miracolo, sia esso inteso come un fatto contrario o come un fatto superiore alla natura, secondo Hume, cosí inverosimile, da rasentare l’incredibile, secondo Spinoza, sarebbe, addirittura una «assurdità» e pura «follia» prestar loro fede (cit. a pag. 83). Infatti, se operasse un miracolo soprannaturale, Dio agirebbe in opposizione a se stesso. Il che sarebbe «un’assurdità senza pari» (cit. a pag. 85), posto che equivarrebbe ad affermare che Dio agisce contro la propria natura (ivi). Una concezione diffusa aveva sostenuto che l’evento straordinario – e non quello ordinario – offriva la prova migliore e più sbalorditiva della potenza di Dio. Spinoza contraddice l’argomento, capovolgendolo. Infatti, se i miracoli avvenissero, anziché testimoniare il potere infinito ed eterno di Dio, al contrario – come scrive l’A., che, sul punto, si limita ad esplicitare il pensiero del filosofo – proverebbero proprio i Suoi limiti e «perfino la sua impotenza, giacchè un sistema che richieda interventi dall’esterno deve essere un si-


stema alquanto imperfetto e quindi riflettere l’incapacità o la mancanza di preveggenza del suo creatore» (pag. 85). Anche quando vada realmente al di là della umana comprensione, il miracolo, dunque, non puó essere altro che un evento, del quale rimane sconosciuta la spiegazione naturale-causale («La parola miracolo non puó essere intesa se non relativamente alle opinioni degli uomini e … non significa altro se non un fatto di cui non possiamo spiegare la causa» (cit. a pag. 88). Dove – come si lascia intendere – la causa sconosciuta puó divenire nel tempo conosciuta. La concezione deterministica, addirittura necessaristica (pag. 86) dei fenomeni naturali – ampiamente presente e discussa nell’Etica – nel Trattato rimane, invece, soltanto nello sfondo. Forse è per questo che Nadler non accenna a quella linea di pensiero, affermatasi, invece, nell’ottocento, con Schopenhauer, che accomunava Bruno e Spinoza, come precursori delle moderne concezioni materialistiche. O forse perché, come sommessamente ritiene anche il recensore, è, invero, assai poco probabile che gli “eroici furori”, che hanno spinto il domenicano sul rogo una trentina d’anni prima che Spinoza nascesse, abbiano potuto influenzare il filosofo olandese, che esplicitamente tenta di rifarsi a Cartesio. Il cui pensiero, all’epoca, era oggetto di dibattito in tutti gli atenei europei. Tanto più perché non sembra che Spinoza abbia mai avuto la concreta possibilità di leggere le opere di Bruno. 10. Secondo Nadler, non risponde al vero che la Chiesa cattolica e quella riformata fossero ostili alla scienza (pag. 180). Il mito negativo sarebbe, infatti, storicamente, da tempo smentito. Come proverebbe anche la circostanza che «Nel medioevo e all’inizio dell’età moderna, una notevole attività scientifica – nei campi della fisica, dell’astronomia, della meccanica, della chimica e di altre discipline – si svolse proprio nel contesto di istituzioni religiose» (pag. 180). Secondo l’A., la Chiesa cattolica e quella riformata, in qualità di guardiani della fede, si sarebbero, invece, limitate unicamente a pretendere che i risultati ottenuti dai filosofi e dagli scienziati dovessero essere coerenti con le rispettive dottrine teologiche, «presumendo di avere voce in capitolo non solo in materia di devozione ma anche di verità assolute» (pag. 181). In presenza di un clima culturale cosí opprimente, che aveva già fatto una vittima illustre – Giordano Bruno – e causato non poche apprensioni, tanto in Galileo, quanto in Descartes, si erano sviluppati due indirizzi di pensiero di segno antitetico fra loro. V’era, infatti, chi, sostenendo che la verità fosse una sola, concludeva che la fede dovesse adattarsi alla ragione (tesi dog-

matica) e chi, all’opposto, affermava che la ragione avrebbe dovuto invece sottomettersi alla fede, ogniqualvolta le sue scoperte non si fossero rivelate conformi alle verità rivelate da Dio (tesi scettica). Com’era il caso del modello copernicano di un sole fisso, da respingersi, a motivo che la Bibbia affermava che, in un giorno di battaglia, il sole aveva sospeso il suo moto nel cielo. Spinoza, nel Trattato, rifiuta, sia il dogmatismo della prima veduta, sia lo scetticismo della seconda, sforzandosi di dimostrare che la filosofia e la religione sono dottrine fra loro intrinsecamente diverse, oltre che incomparabili, posto che la prima (filosofia) è ricerca della conoscenza, mentre la seconda (religione) riguarda l’obbedienza e l’agire umano. Per dirla con lo stesso Spinoza: «La fede non esige tanto dogmi di verità, quanto dogmi di pietà (…) non esige espressamente dogmi veri, ma quelli che sono necessari all’obbedienza e cioè a confermare l’animo nell’amore del prossimo» ( la citazione è a pag. 184). Quanto dire, altrimenti, che, per Spinoza, le proposizioni filosofiche sono espresse in base al loro valore di verità; mentre quelle della religione debbono, invece, valutarsi in base alla devozione e al loro valore motivazionale. Per dirla in altri termini ancora, che il valore nelle verità di fede, secondo il filosofo, non si fonda sulle loro intrinseche verità, quanto, invece, piuttosto nella loro efficacia pragmatica e, dunque, sulla loro capacità di farsi obbedire e, comunque, di orientare i destinatari dei precetti verso l’amore nei confronti del prossimo, seguendo, in particolare, la regola aurea dell’«ama il prossimo tuo come te stesso». Sulla scorta di questa distinzione di sfere di operatività, Spinoza rivendica la «libertà di filosofare», che è il tema stesso del Trattato. Ne segue che la fede deve, dunque, tacere, ogniqualvolta «si tratta della fisica celeste o della struttura dei corpi terrestri» (pag. 185), lasciando, nel contempo, ogni individuo libero di concepire la natura di Dio come meglio crede, «fuoco o spirito o luce o pensiero», perché «tutto questo non interessa la fede» (citazione a pag. 185), dovendo alla fede interessare soltanto che, chi crede, creda sinceramente. Dalla – con forza – rivendicata «Libertas philosophandi», Spinoza desume che le «autorità vanno ben oltre il loro legittimo mandato quando lottano per esercitare un controllo sulla ricerca della conoscenza e per decidere ció che deve essere accettato come vero». Come chiosa l’A., deducendo il corollario dalla citazione del passo di Spinoza, trascritto al fondo della pagina 187. Per chiarezza ancora maggiore, trattandosi dell’architrave di una tesi originalissima, citiamo, alla lettera, il pen-

siero del filosofo: «Tra la fede, o la teologia, e la filosofia non esiste alcun rapporto né alcuna affinità» (citazione a pag. 188). Ne segue che, come la filosofia (e tutto quello che è vero) non stabilisce ció che appartiene alla fede, cosí la fede, che promuove l’obbedienza a Dio, non ha alcun diritto di porre limiti

Recensioni al filosofare anche su Dio. Posizione già abbracciata da Galileo con la famosa frase: «l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo» (in Lettera a Cristina di Lorena: sull’uso della Bibbia nelle argomentazioni scientifiche, 1615, oggi, Marietti, Milano, 2000, pag. 45). Non occorre poi molta fantasia per comprendere lo scandalo provocato da questa posizione, dal valore dirompente, nel dibattito fra fede e ragione, ancor oggi, vigorosamente vivo e, spesso, anche aspro. Forse, perfino irrisolvibile, perché la fede è costitutivamente irriducibile all’accertamento razionale. A ulteriore conferma della attualità di un pensiero davvero imprescindibile per chi voglia seriamente investigare il Vero. 11. Il Trattato teologico-politico, nel 1670, fu pubblicato anonimo, senza il nome dell’editore e con un luogo di edizione falso (Amburgo). Questa scelta fu la diretta conseguenza di una misura prudenziale dettata dalla situazione politica in atto (pag. 223). Verso la metà del Seicento, le guerre di religione, che avevano devastato l’Europa, dopo la Riforma, sembravano ormai concluse, stando almeno ai trattati di pace e ai vari accordi sociopolitici raggiunti (ivi). Le loro ripercussioni si sarebbero, peró, sentite ancora per molti decenni, perché le differenze religiose continuavano a dilaniare le grandi potenze (ivi). Anche perché i primi governanti della età moderna si industriavano di usare la religione, sotto forma di una Chiesa ufficiale, per sostenere i rispettivi regimi, sul presupposto che una fede condivisa potesse cementare il vincolo fra i sudditi e governanti, sotto la protezione divina (pag. 27). La situazione dei Paesi Bassi, nel 1665, era caratterizzata, in politica estera, dalla guerra contro l’Inghilterra (di cui si hanno echi nell’epistolario spinoziano) e, nella politica interna, da un vivace conflitto religioso fra la Chiesa calvinista, paladina intransigente e intollerante dell’ortodossia, e le numerose altre sette cristiane liberali ereticali. Considerata l’epoca, in Olanda e nelle altre province, continuava, peró, ancora a sussistere un insolito grado di libertà religiosa. Agli occhi – at-

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tenti – dell’acuto filosofo non erano, tuttavia, sfuggiti inquietanti segni di deterioramento dei principi fondamentali sui quali si fondava la Repubblica delle Sette province unite. Il Trattato nasce, dunque, come reazione ad un clima politico in corso di degenerazione. Considerato che le profonde differenze po-

Recensioni litiche – e di principio – che gravavano sulla Repubblica, coinvolgevano la dimensione religiosa, Spinoza affronta anche la questione teologica-politica, muovendo dai risultati in precedenza raggiunti, per approdare, cosí, in termini coerenti, ad una tesi che costituisce uno dei cardini dello Stato moderno. Sicchè si puó pienamente condividere il giudizio conclusivo dell’A., quando scrive che «noi siamo gli eredi dello scandaloso Trattato teologicopolitico di Spinoza» (pag. 242). Appurato che la ragione non deve essere l’ancella della teologia, e viceversa, Spinoza affronta il corretto rapporto tra Stato e religione, sostenendo che primaria e principale preoccupazione dell’autorità civile deve essere la tutela del benessere della comunità politica. Messa, invece, in serio pericolo, dalla divisione che, in essa, introduce la religione settaria, posto che le religioni istituzionalizzate mettono i cittadini gli uni contro gli altri – cristiani contro ebrei; protestanti contro cattolici; protestanti contro altri protestanti – e, cosa ben più importante, contro lo Stato stesso. Dove il rischio segnalato diventa ancor più grave quando gli ecclesiastici invadono il potere civile e lottano per avere la supremazia. Posto, allora, che, al potere civile, competono tutte le questioni relative al pubblico benessere, ne consegue che il potere sovrano deve estendersi, non solo alla promulgazione delle leggi civili, ma anche alla emanazione di quelle religiose, almeno nella misura in cui queste ultime sono collegate a manifestazioni devozionali in forma pubblica. Liberi, dunque, i singoli cittadini di credere (o non credere) quelle che vogliono. In una democrazia, peró, è l’assemblea che governa a decidere in che modo la legge di Dio vada tradotta in pratica, dal momento che detiene l’esclusivo potere di stabilire quali attività siano compatibili con il benessere pubblico (la citazione di Spinoza esplicitata con questo asserto trovasi a pag. 205). Col che, Spinoza, di fatto, ha completamente tolto il controllo della religione alle gerarchie ecclesiastiche settarie, consegnandolo saldamente al potere civile. Per completezza di quadro va precisato che la tesi del controllo civile degli affari religiosi aveva avuto già au160

torevoli precedenti, in Olanda, con Grotius e Pieter de La Court, e, in Inghilterra, con Hobbes, che aveva sostenuto la supremazia assoluta del potere civile sulla religione. Non solo sulla organizzazione e il contenuto della predicazione pubblica. Ma anche sulla stessa interpretazione della Scrittura, dalla quale aveva direttamente attinto il principio secondo il quale «Nessun uomo puó servire due padroni» (Mt 6.24), mettendo, cosí, in luce la natura esiziale delle fonti di potere alternative all’autorità sovrana, considerato che, quando ció accade, la lealtà dei cittadini si frammenta. Come se esistessero altri stati all’interno dello Stato. Alla luce di questo punto di vista, l’A., con fondamento, nega che Spinoza sia stato un sostenitore ante litteram della separazione fra Stato e Chiesa nel duplice significato che il governo non deve contribuire alla promozione di un qualsiasi culto religioso, né puó impedire alla gente di osservare i riti e le cerimonie religiose che desidera. Il Trattato nasce, infatti, come una meditata e argomentata risposta teorica a diffuse esigenze storiche del momento. Anche se non gli si puó poi negare grande attualità in un punto fulcrale, in quanto tale doverosamente meritevole di attenzione. 12. Spinoza, nella prima età moderna, è stato, sicuramente, il più forte sostenitore della «libertà di filosofare» che, secondo quanto espresso, tanto nel sottotitolo del Trattato, quanto nel suo capitolo conclusivo, non soltanto puó essere concessa, salve restando la pietà e la pace dello Stato, ma piuttosto non puó essere negata, se non distruggendo insieme la pietà e la pace dello Stato. «Nessuno, infatti, puó, né puó essere costretto a trasferire ad altri il proprio naturale diritto, e cioè la propria facoltà di ragionare liberamente e di esprimere il proprio giudizio intorno a qualunque cosa» (cit. a pag. 210). Oltre ad essere un diritto «inalienabile», la libertà di opinione, per Spinoza – proprio come è sancito dalle moderne Costituzioni – si configura, pertanto, come un diritto pre e super statuale. In quanto tale, insuscettibile non solo di essere eliminato, ma anche di essere soltanto compresso. Le leggi intolleranti, del resto, secondo Spinoza, sono pure inutili, oltre che pericolose. Inutili, perché «In verità (…) è tutt’altro che facile obbligare gli uomini a parlare soltanto in un determinato modo» (cit. a pag. 211). Pericolose, perché, producendo rabbia, incitano alla sedizione. La libertà di esprimere le proprie idee all’interno dello Stato, secondo Spinoza, è inoltre «sommamente necessaria all’incremento delle scienze e delle arti; queste, infatti, possono essere coltivate con successo soltanto da coloro che hanno il

giudizio libero e per nulla prevenuto» (cit. a pag. 211 e 212). Stante la riconosciuta libertà dei cittadini di dare espressione verbale o scritta alle proprie opinioni-credenze, la tolleranza è ritenuta, dunque, come imprescindibilmente necessaria. Sotto questo aspetto, Spinoza si spinge più lontano di qualsiasi altro pensatore seicentesco, a ragione che non nega a nessuno la libertà di dire e di insegnare quello che pensa. Anche se, poi, non sostiene l’assoluta libertà di parola, visto che non riconosce alcuna protezione, tanto a chi trama per rovesciare il governo, quanto a chi incita alla disobbedienza delle sue leggi, o arrechi danno ai suoi concittadini. Dunque, «Il popolo è libero di sostenere l’abrogazione di leggi che considera irragionevoli e opprimenti, ma è tenuto a farlo in modo pacifico, con argomenti razionali» (cit. a pag. 213). Il che costituisce, tuttavia, una demarcazione alquanto vaga fra chi dissente e protesta ragionevolmente e, dunque, in modo legittimo, e chi, invece, opera come un ribelle. Dove un simile rischio, nella prospettiva di Spinoza, è, tuttavia, inevitabile. Pertanto, in quanto tale, da accettarsi. Tanto da riconoscere che «ció che non puó essere vietato deve essere necessariamente permesso, per quanto danno ne derivi» (cit. a pag. 215). Fermo rimanendo, peró, la facoltà, sempre concessa al sovrano, di censurare le idee in nome della pace sociale e della stabilità politica. Nel che Spinoza non è tanto distante da Hobbes, che aveva, invece, esplicitamente negato la libertà di parola, insistendo sul fatto che il sovrano dovrebbe esercitare un attento controllo (anche) sulle idee espresse all’interno del suo Stato (cosí nel Laviathan II, XVIII, nella traduzione di Gianni Micheli, Rizzoli, Milano, 2011, a pag. 189). L’affermazione fatta da Spinoza, in linea di principio, secondo la quale non vanno criminalizzate, né le idee, né le credenze religiose, è forse il retaggio più prezioso del Trattato, un’opera ingiustamente negletta dai teorici della politica. L’opera, nella prima Età moderna, ha, infatti, modellato una società laica e democratica, fondata sulla libertà e sulla tolleranza. 13. Si è detto, com’era del resto fatale, più del pensiero di Spinoza, che del libro segnalato. Per rimediare al torto, si ha, perció, l’obbligo di sottolineare che il saggio proposto all’attenzione dei lettori è uno studio serio ed approfondito, dall’impianto culturale vasto e solido, di agevole lettura, scritto con uno stile piano e colorito. Mai sciatto, né superficiale. Com’era, del resto, logico attendersi dal suo Autore, per certo, fra i più profondi ed acuti conoscitori della intera opera di Spinoza. Fra i numerosi pregi, che l’opera presenta, particolarmen-


te degno di nota sembra il metodo seguito dall’A., che fa sempre emergere la novità rivoluzionaria costituita dal pensiero di Spinoza dal confronto con i pensatori che lo hanno preceduto. Anche se il merito maggiore dello studio – almeno per l’estensore di queste note – è costituito dall’avere Nadler riportato, all’attenzione degli studiosi, il pensiero di un filosofo oltremodo impegnativo, ma, sicuramente, imprescindibile nello sviluppo della filosofia. Infatti, come ha lasciato scritto Hegel, «essere spinoziani è l’inizio stesso del filosofare». Né asserto fu mai più vero, perché la formula spinoziana Deus sive natura ha finito, alla prova del tempo, per assumere sempre nuovi significati. Oggi arricchiti alla luce delle recenti scoperte della microbiologia che, come noto, hanno messo in luce l’insufficienza della teoria darwiniana sulla selezione naturale – inspiegabile del resto pure statisticamente – e, nel contempo, provato che l’evoluzione dei primi organismi è da ascrivere ad una reciproca influenza culminante in una fusione. Quello di Spinoza è pensiero possente che ha influito in campi inaspettati. Compreso quello della poesia. Anche nell’Infinito leopardiano è, infatti, quasi impossibile non scorgere l’unica potenza spinoziana, le cui singole creature altro non sono che suoi semplici modi. Antonio Binni

nulla, perché ogni parola scritta avrebbe tradito lo spirito originario. Conoscitore di numerose lingue moderne e antiche e dei geroglifici, nei suoi discorsi Sofo diffondeva un mare di sapere, sul mito della caverna, sui culti solari e lunari, sulla Tradizione. Per lui ogni Verità possiede un’Origine arcaica, espressa dal Mito e tramite l’interpretazione corretta del medesimo l’uomo può riconquistare la conoscenza. Frequentatore dello scrittore imperiese Giovanni Boine (1887- 1917), Sofo fu la figura più rappresentativa del cosiddetto “Cenacolo di Porto Maurizio”, gruppo d’intellettuali che si riuniva attorno alla figura dello scrittore imperiese, rappresentante del movimento “vociano”. Come dice lo stesso Ruscigni: “Sofo è uno di quei misteriosi personaggi, come Ietro, Melchisedec che, pur apparendo pochissimo

“Con Sofo, cose notabili” Mito - Visioni - Misteri

Ito Ruscigni, Edizioni Giuseppe LaterzaBari. Maggio 2013

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ocrate diffidava della parola scritta giacché il discente, fidandosi della parola scritta, “cesserà di esercitare la memoria richiamando gli argomenti non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, tramite segni estranei”. Tutti i veri Maestri spirituali hanno preferito esclusivamente l’insegnamento da bocca a orecchio. Sono stati, in seguito, alcuni loro discepoli diligenti a trascrivere quanto credevano di avere appreso dall’insegnamento orale del Maestro. Ito Ruscigni, l’autore di questo libro, ebbe in gioventù il grande privilegio di incontrare uno di questi Maestri, di cui ha raccolto e trasmesso l’insegnamento. Questo Maestro era Angelo Saglietto, detto “Sofo”, nato e vissuto a Imperia (1888-1978). Costui nella vita profana era capitano marittimo e apparteneva a una famiglia di piccoli armatori, ma nel suo privato assunse un ruolo di maestro di pensiero d’impostazione gnostica e di esperto di esoterismo. Anche Sofo aveva preferito affidarsi all’insegnamento orale, senza voler pubblicare mai

nella storia, in realtà sono destinati a condizionarla, poiché essi emanano dall’Invariabile Mezzo, dal Polo celeste, dall’Asse del mondo… Sofo è vissuto oltre novant’anni tra la gente: gentile, riservato, amabile e rispettoso. Ogni mezzogiorno, dalla sua casa, circondata da un boschetto di susini in via delle Valli, dove viveva da asceta con un pugno di olive, scendeva con la sacca della spesa a Porto Maurizio, e qui incontrava gli amici”. Per Ruscigni la frequentazione con Sofo fu un’esperienza fondamentale, che indirizzò tutto il suo percorso culturale. Il giovane allievo è divenuto un fine letterato, autore di testi poetici e di argomento storico-religioso, un promotore culturale, che ha fondato e diretto per trent’anni i “Martedì Letterari” al Casinò di Sanremo. Fedele discepolo del Maestro, Ruscigni ne ha mantenuta la memoria, per più di quarant’anni, conservando appunti, disegni, lettere personali. Con-

sapevole che taluni concetti sono quasi intraducibili col linguaggio della prosa quotidiana, Ruscigni, negli anni passati, ha tratto ispirazione dal dettato del Maestro utilizzando la poesia (Il giardino del Lepre, 1999; Laminette orfiche, 2006; Eis. Tu sei.2009; Stella del Nord, 2011). Solo la poesia può cogliere la realtà nel-

Recensioni la sua essenza e può esprimere compiutamente il simbolo che ci rimanda a un’origine trascendente. Adesso, con questo nuovo libro Con Sofo cose notabili. Mito – Visioni – Mistero edito da Giuseppe Laterza, Ruscigni ha finalmente cercato di sistematizzare il ridondante pensiero di Sofo con le sue ampie tematiche. Queste comprendono il problema della Conoscenza, la differenza tra Intelletto Intuitivo e Intelletto Discorsivo, la critica al Criticismo, la definizione di Logos, Lagos e Tao, l’Inconscio quale Entità super-individuale, l’analisi del Mito e il suo linguaggio. Le vastità degli argomenti e l’originalità delle interpretazioni di Sofo avrebbero fatto tremare le vene ai polsi a chiunque si fosse prefisso questo compito. L’intento di Sofo era, difatti, quello di definire, nella loro essenza, i valori alla base della nostra civiltà. In particolare l’interpretazione del Mito come derivazione da una primigenia origine anteriore e la visione dello sviluppo della storia umana come processo involutivo che, per il venir meno della presenza divina, si frantuma in una molteplicità di contingenze. Questo pensiero, che, nonostante le numerose sfaccettature, mantiene sempre una perfetta coerenza, punta a un obiettivo molto ambizioso; in altre parole: vorrebbe rifondare un’intera civiltà tradizionale. La complessità della materia rende questo volume una vera e propria sfida all’intelligenza e alla cultura del lettore, spingendolo a un ribaltamento completo di una visione meccanicistica del mondo. Accanto alla parte dottrinale assume un ulteriore dato di originalità la seconda parte del libro, che tratta della parte onirica e visionaria. Difatti, sono presentate anche le analisi dei sogni premonitori e di alcune visioni di Sofo, che dimostra così di possedere, accanto alle qualità di pensatore, anche delle doti di visionario. Viene, difatti, riferito anche un sogno premonitore della Prima guerra mondiale, così come avvenne a C. G. Jung. Il messaggio spirituale che deriva non contrasta per nulla con la prima parte del libro, anzi ne costituisce un elemento di compensazione, poiché dimostra come il pensiero scientifico possa coesistere con quello poetico. Ruscigni è ancora in possesso di altro materiale e ha già promesso che in seguito

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curerà la completa opera di Sofo. Sarà questa la maniera migliore per trasmettere il pensiero del proprio Maestro a chi avrà orecchie per intendere e non disperdere un patrimonio culturale ancora sconosciuto e inestimabile. Renato Ariano

Recensioni Il vento è un’autostrada per pollini

Renato Ariano, Edizioni Leucotea, (edizioni. leucotea@yahoo.it) Brossura fresata, 12,90 €, 168 pagine, anche in formato ebook.

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a letteratura italiana ha una forte tradizione di medici scrittori: tra i primi nomi che vengono in mente, Giulio Bedeschi, autore di Centomila gavette di ghiaccio, lo psichiatra Mario Tobino, il cardiologo Giuseppe Bonaviri, il chirurgo Luigi Rainero Fassati, Andrea Vitali, narratore di un microco-

smo di provincia “alla Piero Chiara”. Non a caso da più di mezzo secolo esiste una Associazione dei Medici Scrittori (Amsi), suggerita nel 1951 dal chirurgo Achille Mario Dogliotti. Con questo libro Renato Ariano, primario di Medicina già noto per 200 lavori scientifici e alcuni libri attinenti alla sua specializzazione di allergologo, si aggiunge a pieno titolo al drappello dei narratori. Il vento è un’autostrada per pollini, come fa intendere il sottotitolo Viaggio avventuroso di un polline inquieto, è un testo molto originale. Attinge alle conoscenze mediche dell’autore, perché è la storia di un granello di polline e i pollini sono una diffusissima causa di allergie. Inoltre il polline protagonista del racconto appartiene al cipresso e ciò ha anche 162

un nesso autobiografico: Renato Ariano è un pioniere nello studio di questo particolare polline allergenico che fa sentire i suoi effetti “fuori stagione” perché la fioritura delle cupressacee è invernale. Fin qui potremmo essere nel territorio del racconto didascalico, di una scrittura narrativa a fini divulgativi. In effetti è anche così: la storia narrata è tutta costruita intorno a dati scientifici, è avvincente come una fiaba anche per un ragazzo, e ricca di informazioni per chiunque soffra di allergie ai pollini. Ma esistono altri piani di lettura. Il vento è un’autostrada per pollini ha valenza simbolica, contiene messaggi filosofici, estetici ed etici. In più, nasconde tre piccoli enigmi che conferiscono al testo echi esoterici. Attenti, dunque, alle lettere delle prime parole della prima e ultima frase dei vari capitoli. Dagli acrostici così generati emergerà un viatico esistenziale. Leggendo Il vento è un’autostrada per pollini si penetra in un microcosmo della natura che ha come unità di misura le dimensioni di un granello di polline di cipresso, cioè 25-30 millesimi di millimetro. Basterebbe questo salto di scala a portarci in uno scenario fiabesco, insolito, esotico. Perché l’estremamente piccolo è di per sé un mondo pieno di sorprese. E poiché tra i medici scrittori grande attenzione alla natura, anche nei suoi risvolti atomici e molecolari, ha dimostrato Giuseppe Bonaviri, tanto che Vittorini lo definì un Lucrezio del Novecento, è a lui che potremmo accostare Renato Ariano. Ma procedendo nella lettura, il pensiero corre soprattutto a un certo Primo Levi e precisamente al racconto Carbonio che conclude Il Sistema Periodico, affascinante autobiografia del chimico-scrittore torinese. Nato nel cuore di una stella, l’atomo di carbonio di cui Primo Levi ricostruisce la storia è all’inizio prigioniero di una roccia calcarea. Un colpo di piccone lo libera e la scheggia di pietra che lo contiene viene calcinata in un forno, l’atomo di carbonio si unisce a due atomi di ossigeno e vola via nell’aria sotto forma di anidride carbonica. Seguiranno molte vicissitudini che non elencheremo. In sintesi, complici la clorofilla e la fotosintesi, l’atomo di carbonio, passando vicino a una foglia, verrà trafitto da un raggio di sole, staccato dall’ossigeno e fissato in una molecola di glucosio. La pianta è una vite, il glucosio finirà in un acino d’uva, l’acino in vino e il vino nel fegato di un bevitore. Poi tornerà ad essere anidride carbonica, nel vento che soffia su mari e montagne, e di nuovo lo catturerà la fotosintesi per incatenarlo nella cellulosa di un tronco di cedro. Qui un tarlo se lo mangia. Alla morte del tarlo, qualche batterio becchino rimette

un’altra volta in circolazione il nostro atomo di carbonio, finché finisce in un bicchiere di latte da dove – facendo parte di una molecola di zucchero – passa nella cellula nervosa di un uomo che ha bevuto il latte. L’uomo è Primo Levi e nel suo cervello l’energia della molecola di zucchero servirà a fargli mettere il punto finale del racconto e del libro. Benché più concentrato nello spazio e nel tempo (poco meno di un anno, non ere cosmiche e geologiche), altrettanto avventuroso è il viaggio del granello di polline di cipresso. Nato tardivamente in aprile sotto una Luna crescente, il polline Zeffirino si tuffa nella luce e nelle fresche correnti d’aria primaverili. È felice, ma anche sprovveduto. A rassicurarlo arriva un polline di graminacea, molto più grosso ed esperto di lui. Si chiama Eudosso (nomen omen, se si guarda all’etimologia greca) e sarà il suo Virgilio. Con la sua guida Zeffirino affronta una serie di esperienze che alla fine appariranno come un percorso formativo. C’è l’incontro con una falena grigia, farfalla notturna attratta da una luce lontana, tentazione mortale. Poi l’incontro con le lucciole e con un’ape. Dell’ape Zeffirino rimane prigioniero, impigliato in peli collosi. Per altri tipi di polline sarebbe stato un colpo di fortuna, ma non per lui, polline di cipresso. Riesce a liberarsi, ma solo per cascare nella trappola che un agricoltore ha predisposto per raccogliere pollini da vendere ad aziende di prodotti dietetici. Seguono incontri con acari, spore, formiche, gabbiani. Ogni incontro porta un messaggio morale. L’apparenza è ingannevole: immagine di purezza e libertà, i gabbiani vivono da spazzini in una discarica maleodorante. Gli acari sono sgarbati e volgari. Le formiche gentili ma anche spietate combattenti. Una rosa affascina Zeffirino e poi si rivela in tutta la sua vanità. Un ragno della specie Araneus diadematus si presenta come rigoroso custode della legge ma agisce da traditore. Il pipistrello, a modo suo mostruoso, è invece creatura utile e gentile. Tra i nemici del polline c’è anche l’uomo. Zeffirino se ne rende conto quando finisce invischiato nel campionatore di pollini di un medico allergologo. Le cose vanno meglio quando la sorte lo porta sulla sua cravatta: è immobilizzato dalle fibre del tessuto ma di lì può guardare il mondo con la stessa prospettiva dell’allergologo. Peggio vanno le cose quando, durante la visita a un malato di asma, viene aspirato nei bronchi del paziente. Inizia allora un tortuoso viaggio nel corpo umano, una navigazione in laghi e fiumi di catarro, fino alla fortunosa fuoruscita attraverso il naso dell’asmatico. Due stagioni so-


no passate e Zeffirino sente che l’ora segnata dal destino è vicina. Sarà un destino felice: il “giardino segreto”, scoprirà, è il giardino della vita. Solo un allergologo che sia anche un biologo molto competente poteva scrivere una storia così precisa nei dati scientifici e così complessa nel cogliere gli equilibri della natura e dei suoi ecosistemi, trasformandoli in messaggi filosofici. D’altra parte, benché causa di allergie talvolta gravi, abbiamo verso i pollini un debito di gratitudine per il contributo che essi hanno dato non solo alla comprensione della vita vegetale ma anche della materia inerte. È una vicenda che accennerò come piccola nota a margine del racconto di Renato Ariano. Nel 1827 Robert Brown, botanico scozzese, osservava al microscopio polline estratto da fiori di Clarkia pulchella che aveva messo in sospensione in una goccia d’acqua. All’epoca si era già capito che il polline ha a che vedere con la riproduzione delle piante ma non se ne conosceva ancora il meccanismo. Ciò che il botanico vide al microscopio era meraviglioso: i granelli di polline si agitavano, muovendosi a caso nella goccia d’acqua. Come se nuotassero, come se fossero animati. Robert Brown ne parlò come degli “atomi della vita”. Sbagliava, ma, come spesso succede nella scienza, il suo fu un errore che portò a inattese conoscenze. Il botanico scozzese, che aveva studiato medicina senza arrivare alla laurea e aveva compiuto dal 1801 al 1805 un viaggio di esplorazione fino all’Australia tornandone con 3200 specie di piante sconosciute, non poteva immaginare che la cosa interessante non erano i ben visibili moti casuali dei granelli di polline, ma i moti invisibili di cui essi erano i “traccianti”: quelli delle ancora più invisibili molecole d’acqua. Ciò che il botanico scozzese aveva osservato entrò nella letteratura scientifica come “moto browniano”. Per ottant’anni la danza disordinata dei pollini fu un enigma. Il moto browniano sembrava persino violare il secondo principio della termodinamica, un dogma assoluto della fisica. Ludwig Boltzmann, grandissimo fisico teorico, ci si arrovellò invano. In quegli anni si dibatteva sulla teoria atomistica. Boltzmann era un tenace sostenitore della realtà oggettiva degli atomi. Ernst Mach non credeva alla loro esistenza. Fu Albert Einstein, nel 1905, con un saggio sul “moto browniano” a dimostrare che i pollini in acqua svelavano l’esistenza delle molecole e quindi degli atomi in perenne agitazione termica (senza violare il famoso secondo principio). Mach subì un duro colpo. Boltzmann, che avrebbe potuto gioirne, nel 1906 si uccise per impiccagione in un

albergo di Duino. Jean-Baptiste Perrin, chimico e fisico francese, completò l’opera calcolando in modo preciso il numero di atomi contenuto in una data quantità di materia. Il primo a immaginare quel numero era stato, nel 1811, Amedeo Avogadro. Il polline feconda le piante. Ma ha fecondato anche la storia della scienza. Robert Brown credeva di aver visto gli atomi della vita e invece senza saperlo stava guardando gli atomi della materia. Un secolo dopo si scoprirà che nel liquido cellulare il moto browniano è il motore che rimescola le molecole promuovendo i processi biochimici. Materia che tiene accesa la vita. Nota: All’inizio del libro vi è una dedica: “Dedicato a tutti i pazienti allergici perché, malgrado tutto, scoprano che anche i pollini hanno un’anima…” In coerenza con questa dedica l’Autore destinerà parte dei diritti d’autore all’Associazione Federasma Onlus che sostiene da tempo, in Italia, la lotta all’asma e alle allergie.

guida (e non solo quella del Secondo Sorvegliante) è preziosa. Com’è noto i libri apparsi in Italia sul Primo Grado della Massoneria sono stati molteplici, da quelli di Wirth e Reghini a quelli di Troisi e della Manguy. In tale ambito il recente testo di Gianmichele Galassi Apprendista Libero Muratore si pone

Recensioni dunque ultimo ma non certo per importanza, come un efficace ‘manuale’ per i neofiti e così pure quale valida guida per quanti aspirino ad ascendere concretamente nella scala della perfezione della esperienza liberomuratoria. La maturazione iniziatica dell’autore e il sincero desiderio di condividere con altri il proprio percorso sono alla base dell’iter indicato al lettore, cui viene giustamente sottolineato come la condizione di Appren-

Piero Bianucci

Apprendista Libero Muratore. Vol. I - Manuale o avviamento ad uso degli iniziati al Grado di Apprendista

G. Galassi, Edizioni Secreta, Monteriggioni (SI), 2013, pp. 112, illustrato, €. 9,90. Disponibile anche in versione PDF (€ 6,99) ed ePub (€ 8,90).

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l profondo anelito dell’uomo all’illuminazione interiore costituisce la ragion d’essere di movimenti religiosi e filosofici come pure, dal 1717, dei contenuti della Massoneria speculativa. E il Primo Grado della Libera Muratoria costituisce indiscutibilmente la porta di accesso ad un mondo iniziatico ed esoterico significativamente oggi sempre più avvertito dai giovani, spesso in profonda crisi di valori perchè delusi da chiese e ideologie non sempre coerenti e pertanto alla ricerca di nuove dimensioni del sacro e dell’interiorità. E che bussano in numero crescente alla porta del Tempio. Un’esperienza, quella di Loggia, indubbiamente sconcertante per i più, proiettati di colpo in un ambiente nuovo ed insolito, denso di simboli, espressioni e ritualità non certo metabolizzabili di primo acchito. Un’esperienza dominata da una atmosfera di silenzio non sempre percepita positivamente, almeno all’inizio. E in cui una

dista abbia sostanzialmente a dover implicare quella profonda umiltà d’animo e quella assoluta purezza di cuore indispensabili per l’ascesa intellettiva e esoterica del singolo, destinato a trasformarsi dal suo bozzolo in una farfalla atta ad elevarsi sempre di più nella scala della propria interiorità. L’Autore rimarca poi al lettore come l’apprendistato massonico costituisca in realtà una condizione di fatto permanente, ed anzi un sentiero che in effetti non avrà mai fine, ma in cui il costante tendere trasformerà l’Apprendista in iniziato. Naturalmente il percorso di elevazione ottenuto non potrà che essere assolutamente e totalmente personale ed individuale, anche se l’emulazione in Loggia aiuterà indiscutibilmente il singolo in tale processo di crescita interiore. Si capisce quindi come per l’Ap-

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prendista le valenze esoteriche siano in effetti non traducibili più di tanto con le parole ma piuttosto percepibili nell’animo dell’iniziato grazie alla graduale e progressiva interiorizzazione dei vari simboli presenti nel Tempio. L’iter presentato nel suo libro da Galassi costituisce un illuminante viatico verso l’ascesa

Recensioni del singolo e la ricerca dell’Assoluto, ben oltre gli stereotipi di una certa letteratura massonica non sempre fedele alla realtà dei contenuti di fondo della Libera Muratoria. Ne risulta un fedele compagno di viaggio nel tendere del massone alla luce iniziatica, che non può non essere segnalato per la serietà e chiarezza che caratterizzano il volume. Roberto Pinotti

ses des XVII et XVIII siècles, Université Paris IV Sorbonne). I due curatori si sono avvalsi della collaborazione di centoventi ricercatori, fra i quali, per l’Italia, Francesca Fedi (Parma), Aude Labrit (Trieste), Luigi Pruneti (Firenze), Antonio Trampus (Venezia), Simona Variara (Torino). Il dizionario illustra la vita e l’opera dei Liberi Muratori nell’età dei Lumi e le circa 1200 biografie presenti pongono in evidenza l’importanza che la Massoneria ebbe nei contesti sociali, culturali e politici del XVIII secolo. Questa pubblicazione, che ha necessitato anni di lavoro e la consultazione di migliaia di fonti, è un’opera unica al mondo, indispensabile per chi voglia conoscere e approfondire le complesse relazioni fra Massoneria e Illuminismo. La Redazione

UFO: oltre il contatto

Roberto Pinotti , Oscar Mondadori, Milano 2013, pp. 458, €. 12,00

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erfino il Reparto Generale Sicurezza dell’Aeronautica Militare italiana ha agli atti circa 400 dossier ufficiali sugli “Oggetti Volanti Non Identificati”. Dopo quasi sette decenni e un milione di casi documentati, di cui circa 200.000 raccolti in un database internazionale, ufficiale e schiacciante, molti governi europei, latinoamericani ed asiatici non escludono oggi la realtà tecnologica ed estranea degli ufo, mentre sia la Chiesa che la Scienza contemplano l’esistenza di civiltà aliene avanzate. Nel suo recentissimo ufo: oltre il contatto (Oscar Mondadori, Milano 2013, Euro 12) Roberto Pinotti affronta da sociologo e da studioso di livello mondiale (sul tema ha di recente rappresentato l’Italia a Washington su invito di una commissione parlamentare USA) gli scenari con-

Le Monde maçonnique des Lumières (Europe-Amériques & Colonies) Dictionnaire prosopographique

a.c. di C. Porset et C. Revauger, vol. 3, Editions Honoré Champion, Paris 2013, (www. honorechampion.com), pp. 2873.

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e Monde maçonnique del Lumières (EuropeAmériques & Colonies) Dictionnaire prosopographique, è un’opera colossale in tre volumi per un totale di 2873 pagine, diretta e curata da Cécile Revauger e dal compianto Charles Porset. La prima è professore all’Università di Bordeaux, il secondo, scomparso nel 2011, fu ricercatore del CNRS e membro del CELFF (Centre d’Etude de la Langue et la Littérature Françai-

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seguenti, che coinvolgono politica, economia e finanza, difesa, intelligence, tecnologia, religione, ricerca storico-archeologica, fenomeni psichici e rapporti psicosociali. La sua attenta e approfondita analisi gli consente di mettere a fuoco cosa potrebbe in effetti avvenire in seguito ad un possibile contatto extraterrestre, che spazzerebbe via i poteri costituiti disegnando nuovi equilibri globali. E non solo. Pinotti individua anche nei potentati occulti più o meno noti (dal Gruppo di Bilderberg alla Commissione Trilaterale), che contrariamente a certi deliri complottisti nulla hanno a che vedere con la Massoneria pur avendone assunto alcune connotazioni apparentemente similari e che da tempo controllano economicamente il mondo al di là dei Governi legittimamente eletti, le forze che maggiormente avversano ogni divulgazione sulla realtà del problema, timorose come sono e restano di vedere alterato lo status quo da esse generato e controllato. Il volume, raccomandato da Roberto Giacobbo, è costituito da un corposo rapporto di oltre 450 pagine che nondimeno si leggono tutte d’un fiato come un romanzo. Solo che si tratta di un rapporto documentatissimo, ben scritto e corredato da fonti, dati, immagini e un prezioso glossario. Un saggio affascinante, esaustivo e inquietante. Ma anche ottimista. Per l’autore, infatti, non solo non dovremmo avere nulla da temere da alieni avanzati giunti fino a noi (che se fossero ostili a quest’ora ci avrebbero già spazzati via), e in fondo – anche se tutto ciò, come qualsiasi cambiamento epocale, un costo lo avrebbe certamente - avremmo tutto un vecchio mondo da perdere ma anche un nuovo mondo da guadagnare… Lidia Parentelli


Sicilia Mysterica. Luoghi insoliti, culti e riti antichissimi. Un ponte di civiltà tra Oriente e Occidente

obiettiva del complesso concetto di Esoterismo, lasciando da parte facili suggestioni e banalizzazioni, per proporre una definizione scevra da ogni romanticismo e da interpretazioni alimentate dai miti moderni”. All’interno del saggio i cui singoli capitoli potrebbero diventare le fondamenta per altrettanti lavori, gli autori accompagnano il lettore nella storia delle religioni,

S. Spoto, Tipheret, Arcireale – Roma 2010, pp. 202, €. 15,00.

Recensioni

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iaggiare nel passato, attraverso i miti e le leggende, alla ricerca delle radici della società europea. È questo il senso del libro che, rivisitando centri e personaggi, giunge a dimostrare come la Sicilia sia stata il ponte di passaggio della civiltà orientale nel Vecchio Continente. L’autore ricorda personaggi storici, come Caronda, al quale va riconosciuto il merito delle prime leggi sociali, o racconta le primitive versioni dei miti, come quello di Arci e Galatea […]. Nel viaggio virtuale fra passato e presente, Salvatore Spoto ci guida nella visita dei luoghi di cui narra, per riscoprire le arcaiche radici costituite dagli embrioni di lontanissime forme sociali e rituali, veri capisaldi della genuinità dello spirito e della fratellanza cosmica tra gli uomini. Le pagine ci aiutano anche a scoprire un aspetto dimenticato della Trinacria, quello di essere custode di un inestimabile patrimonio di storia e di civiltà” [Dalla quarta di copertina]. La Redazione

La massoneria settecentesca nel Regno di Napoli

E. E. Stolper, a. c. di M. Bonanno, Tipheret, Arcireale – Roma 2013, pp. 135, €. 12,00.

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a casa editrice Tipheret propone un’opera fondamentale per comprendere le origini della Massoneria in Italia. Si tratta de La massoneria settecentesca nel Regno di Napoli di Edward Eugene Stolper, ricercatore serio e appassionato scomparso nel 2003, dopo aver dedicato una vita allo studio della Massoneria italiana. “Attraverso una ricerca effettuata, soprattutto, presso gli archivi del Grande Oriente d’Olanda, della Gran Loggia Unita d’Inghilterra e presso altre fonti … Stolper ci mette in condizioni di riempire molte lacune e di ricostruire, seguendone passo per passo le fasi, i movimentati avvenimenti succedutisi nella formazione e nella crescita, nel XVIII secolo, della Massoneria napoletana. Un libro che ha aperto la via a tanti studiosi della Libera Muratoria partenopea. Quasi un classico.” [dalla quarta di copertina]. La Redazione

Il linguaggio simbolico dell’esoterismo Massimo Centini e Michele Leone ebook, Mondi Velati Editore

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l linguaggio simbolico dell’esoterismo, scritto a quattro mani da Massimo Centini e Michele Leone è un saggio che si legge come un romanzo. Il tentativo degli autori è quello di esplorare l’esoterismo ed i suoi simboli partendo dal significato della parola/concetto di esoterismo e sviluppando un percorso che dall’antichità arriva ai giorni nostri. Per dirla con le parole degli autori: “Troppo spesso l’esoterismo è stato ed è oggetto delle più assurde illazioni, vittima di quella “voglia di mistero” che ancora oggi caratterizza l’uomo contemporaneo, apparentemente figlio della ragione e della razionalità. Cercheremo di offrire al lettore una visione quantomeno

alla scoperta dell’alchimia, ad una riflessione sul Graal, alla ricerca del significato dei simboli della massoneria e altro ancora. Accanto al fantasy Mondi Velati si occupa anche di ermetismo, molto spesso erroneamente considerato un genere eccessivamente aulico. Il termine derivante da Ermete, il Dio delle scienze occulte, in qualche modo ci rimanda al mistero che avvolge anche il genere fantasy e che attraverso le sue analogie si presta a più piani di lettura. Ed è proprio il fascino di questi diversi piani e la possibilità di un’interpretazione personale che ha avvicinato l’interesse della casa editrice verso questo genere letterario. Mondi Velati attraverso le sue scelte editoriali uniche vuole essere essa stessa un nuovo piano di lettura per offrire un orizzonte diverso da tutti gli altri.

Italia arcana. Itinerari tra passato e presente

S. Spoto, Tipheret, Arcireale – Roma 2011, pp. 185, €, 14,00.

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n viaggio tra magie, misteri e luoghi del benessere aperti a tutti. Italia arcana è un itinerario, una terra da scoprire palmo per palmo alla ricerca di simboli misteriosi nelle

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abbazie, di antiche località rupestri e di luoghi di guarigione secondo sistemi antichi con pietre miracolose. È un’Italia invisibile, quasi sconosciuta, ma ricca di scorci e di aspetti insoliti, talvolta strabilianti, spesso magici” [Dalla quarta di copertina]. La Redazione

Recensioni

Il settimo templare

Eric Giacometti, Jacques Ravenne, Newton Compton – Roma 2013, pp. 480, €. 9,90.

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uesta volta è la Newton Compton Editori a pubblicare in italiano il nuovo gustosissimo romanzo di Eric Giacometti e Jacques Ravenne, due fra i migliori autori di thriller a sfondo massonico ed esoterico che esistano al mondo. Il settimo templare è infatti il quinto romanzo del duo francese pubblicato in Italia dopo Il rituale dell’ombra, Fratelli oscuri, La congiura Casanova e La setta del Kaos. Il pubblico italiano si attendeva anche gli altri due libri di Giacometti e Ravenne, già pubblicati in Francia dalla Fleuve Noia (Lux Tenebrae e Apocalypse), ma probabilmente dovremo ancora attendere. La trilogia del commissario Antoine Marcas in Francia è diventata un vero culto, al punto che ne stanno anche realizzando un ottimo fumetto. Antoine Marcas, commissario di polizia francese del dipartimento Beni Culturali, è un massone dichiarato appartenente al Grande Oriente di Francia. È lui l’avventuroso protagonista dei romanzi di Giacometti (noto per aver condotto diverse inchieste giornalistiche sulla Massoneria) e Ravenne (Maestro massone di Rito Francese) che, attraverso la sua cultura esoterica, riuscirà a risolvere intricati enigmi. Ne Il settimo templare 166

Marcas si troverà a dover risolvere l’enigma relavito alla decapitazione del Fratello massone Jean Balmont, peraltro stranamente appartenente all’Ordine dei Gesuiti (da sempre in lotta contro la Massoneria) e fondatore della Loggia di derivazione templare Secreti Templum, composta da sette templari massoni legati alla Chiesa cattolica, i quali si dice custodiscano il segreto relativo alla vendetta dei Cavalieri Templari nei confronti di Re Filippo Il Bello e di Papa Clemente V, rei nel 1307 di aver fatto arrestare e condannare a morte i Cavalieri del Tempio per meri intrighi di potere e di ricchezza. Che cosa si cela dietro al motto della Loggia Secreti Templum, ovvero “Sette Templari, tre porte, un’unica Verità”? Come mai il Vaticano ha assoldato dei pericolosi terroristi dell’Est allo scopo di conoscere il segreto di tale Loggia? Dove si trova il mitico tesoro che i Templari fuggiti alla persecuzione si dice siano riusciti a occultare? Come sempre i romanzi di Giacometti e Ravenne sono scritti su due livelli narrativi: uno storico e l’altro ambientato ai giorni nostri. La terribile persecuzione ai danni dei Templari e la loro conseguente vendetta si mescolano agli avvenimenti odierni. Così come i rituali dei Templari, che secoli dopo saranno mutuati dalle Logge massoniche, sono perfettamente descritti tanto quanto i rituali della moderna Massoneria. Al lettore, dunque, più che in un romanzo qualsiasi, sembra di vivere la Storia. Una Storia che si tramanda – nel secretum – anche ai giorni nostri. La spiritualità templare e massonica contrapposta alla religione cattolica, fondata sul potere e sulla ricchezza, piuttosto che su solide basi gnostiche e spirituali. I romanzi di Giacometti e Ravenne si soffermano molto su che cos’è la Massoneria e sul suo ruolo storico e moderno. Per questo possono essere di assoluto interesse, sia per l’Iniziato che per il profano che di Massoneria ed esoterismo serio mastica poco o ne ha solo sentito lontanamente parlare. Oggi, in particolare nei Paesi mediterranei quali Francia e Italia, i massoni sono spesso e anche a ragione, ritenuti anticlericali. Ma anticamente poteva dirsi così? Si pensi che i massoni del XV secolo erano profondamente credenti in Cristo che si dice essere stato anch’egli un Libero Muratore. Fu poi l’ortodossìa cattolica a renderli anticericali, in quanto questa si discostò profondamente dal messaggio cristiano di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza che ancora oggi è alla base della moderna Massoneria. Ne Il settimo templare vedremo come nel 1314 i Cavalieri Templari – per sfuggire all’Inquisizione cattolica - divennero muratori operativi e portarono nelle Logge le conoscenze provenienti da Oriente. E scopriremo come mai nella Chiesa di Saint-Merri, costruita a Parigi nel XVI secolo, sia ben visibile una statua raffigurante il Bafometto dei Templari, ovvero una sorta di “demone an-

drogino”, che, secondo molti occultisti, potrebbe simboleggiare il “Padre della Conoscenza”. Scopriremo anche il significato del grado massonico praticato nel Rito Scozzese Antico ed Accettato, ovvero il grado di Cavaliere Kadosh, simbolo della vendetta templare ai danni di Trono (potere statuale) e altare (potere temporale), ovvero i due poteri che negarono da sempre le conoscenze gnostiche dell’Antichità portate avanti dai cosiddetti “eretici”, fossero questi Bogomili, Catari, Templari, Alchimisti o Liberi Muratori. Antonie Marcas in quest’avventura si avvarrà inoltre della collaborazione di Gabrielle, una Sorella massona della Gran Loggia Femminile di Francia e anche tale particolare elemento non può che essere di sicuro interesse per il lettore che desidera addentrarsi nella conoscenze delle Obbedienze massoniche femminili che, benché ritenute minoritarie, sono invece, sia in Francia che nella nostra Italia, molto attive. Luca Bagatin

Continuità ed infinito

Virginio De Luca, Edizioni Giuseppe Laterza – Bari 2013.

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copo del libro è dimostrare come in una cellula possa essere conte­nuta tutta la realtà dell’universo, rappresentando la sua evoluzione e il suo sviluppo e quello stesso della conoscenza ricostruito da quella matematica che del mondo biologico rappresenta la proiezione storica costruttiva. Tutto ciò è reso possibile da una revisione dei concetti di tempo e spazio che si costituiscono e crescono dimensionalmente, uno referente l’altro, con la realtà biologica; questo comporta una cre­ scita contemporanea e indissolubile fra l’organizzazione della sostanza e la dimensione della forma, essendo una la storia formativa dell’altra. La Redazione


R.L. Epidamnus (Albania) Oriente di Durazzo

R.L. Aletheia Oriente di Roma

to, Unità, Universalità, sormontati dal precetto Onore, che incontriamo nuovamente sul verso della medaglia con il motto “ante virtus, sed honor ultra”. La scritta intende fare riferimento valoriale a uno status etico che pone come valore fondante il concetto di onore che non potrà mai però essere scisso dalla forza morale.

R.L. Filistor Oriente di San Severo

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l Sigillo di Loggia reca al centro l’Aquila bicefala simbolo dell’Albania, usata già dall’Imperatore Costantino, fondatore di Costantinopoli, che aveva origini Albanesi. Il nome della Loggia è l’antico nome della Città di Durazzo fondata nel 627 a.C. L’Aquila campeggia sopra il Compasso e la Squadra, con al centro la lettera G; ai due lati il Sole e la Luna a completare la simbologia Massonica Universale. Al centro del Compasso è stato inserito un occhio aperto, simbolo del G.A.D.U. che protegge e sovraintende i lavori di Loggia.

R.L. F. Nullo (Polonia) Oriente di Varsavia

l sigillo, di forma circolare, sul recto sotto la scritta αλήθεια aletheia (dal greco a-lànthanō, non nascondo e quindi rendo palese) presenta sul basso un pavimento a scacchi su cui si stagliano due colonne in mezzo alle quali è raffigurata Atena con la lancia e l’egida, decorata con squadra e compasso. La colonna di destra presenta un serpente attorcigliato lungo il fusto e al vertice un triangolo, mentre alla base è raffigurata la Sfinge; il tutto a simboleggiare la conoscenza scientifica che in prima istanza cerca di dare ragione al noto. La colonna di sinistra reca invece al vertice una civetta simbolo della saggezza (prudenza, silenzio, vittoria) e alla base la figura di un uomo in atto di riflettere, simbolo di colui che, a partire dalla conoscenza empirica, con il pensiero e la parola scioglie l’enigma e si prepara alla via della verità. Sul verso il sigillo reca il motto “Veritas valde valet”, ovvero “La verità è ciò che più conta”, a ribadire che compito dell’uomo è ricercare la verità, ovvero continuare a ri-velare ciò che è velato.

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l sigillo è costituito in alto da un sole stilizzato con all’interno un uroboro. I due simboli rappresentano la natura ciclica delle cose, la continuità della natura e dell’essere umano, la dualità che si esprime nell’avvicendamento degli opposti. Al centro vi è rappresentato un messaggio costituito da due gladi che, intrecciandosi a mo’ di compasso, proiettano sul fondo una squadra significante che la Loggia ha giurato la propria obbedienza alla Gran Loggia D’italia e che si pone sotto la sua protezione.

R.L. Verum Quaerere R.L. Ferdinando Palasciano Oriente di Prato Oriente di Roma

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itico essere metà donna e metà pesce, la Sirena è un termine di transizione fra Terra e Acqua. Alchemicamente rappresenta la separazione dell’Aqua Mercurialis dalla materia prima, da cui origina la Putrefazione, l’Opera al Nero, presupposto indispensabile per la rigenerazione che porta al compimento della Grande Opera. È la morte iniziatica che precede la rinascita, che porta il profano dal Gabinetto di Meditazione al Tempio, dove diverrà Libero Muratore. Ciò si collega perfettamente con l’immagine della Sirena come simbolo di Varsavia. La Sirena, un essere apotropaico che, armato di spada e di scudo, difende la città. Solo chi è risvegliato, chi ha superato i legami della materia, può ergersi a difensore dei valori che sono alla base dell’esistenza umana.

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a R.L.Ferdinando Palasciano, Loggia Nazionale di Solidarietà all’Oriente di Roma, intitolata al medico considerato uno dei precursori della Croce Rossa, presenta sul recto del suo sigillo ottagono una croce rossa patente a otto punte bordata d’oro in campo bianco, accantonata da gigli d’oro concessa nel 1562 da papa Pio IV all’Ordine di Santo Stefano papa e martire, ordine di collazione della casa granducale di Toscana. Su ciascuno degli otto lati è inciso in francese uno dei sette principi fondamentali della Croce Rossa: Umanità, Imparzialità, Neutralità, Indipendenza, Volontaria-

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ercare la verità grazie al metodo iniziatico adottato dalla Libera Muratoria e tendere alla conoscenza del vero illuminati dalla ragione, nel rispetto delle opinioni di ciascuno e nella più assoluta libertà di pensiero e di coscienza, è l’idea a cui i fondatori si sono ispirati nel dar vita a questa officina. Al centro campeggiano la squadra ed il compasso - intrecciati in grado di Maestro - strumenti massonici per eccellenza al di sopra di un pavimento a scacchi. Il Massone deve con impegno migliorare se stesso e staccarsi dall’egoismo e dalle passioni materiali per elevarsi verso la Verità - il cielo stellato - che occupa la parte alta del fregio.

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R.L. Giordano Bruno Oriente di Bari

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a R. L. “Giordano Bruno” all’Oriente di Bari celebra il trionfo della libertà di pensiero, della vittoria della ragione, dell’espansione della coscienza; pertanto ha voluto, nella raffigurazione del sigillo di Loggia, il volto di Giordano Bruno, ripreso dalla statua a lui dedicata a Campo de’ Fiori in Roma, espressione plastica di una mente libera e che opera per la conoscenza, e che, nel sigillo, sormonta il fregio. Nel sigillo, una molteplicità di si-

gnificati attribuibili ai simboli presenti, quali ad esempio: la Catena che, fungendo da corona, pur suscitando l’idea della Catena d’Unione, assume anche il significato di una catena che lega gli uomini nell’ignoranza e che viene “spezzata” dalla forza e dalla luce della ragione; e Squadra e Compasso, che sono il significato della rettitudine e dell’apertura mentale. Campeggia, al centro, una fiamma, lingue di fuoco, strumento che “barbari” hanno inteso usare come elemento di distruzione e come momento di tortura, ma che i Liberi Muratori riconoscono, invece, unicamente come quella scintilla divina che infiamma i cuori di amore per i propri simili.

La sequenza dei Fregi è in ordine alfabetico per denominazione di Loggia e successivamente per Oriente.

R∴L∴ 14 Juillet Or∴di Savona R∴L∴ 4 Giugno 1270 R.G. Or∴di Viterbo R∴L∴ Ab Initio Or∴di Portoferraio R∴L∴ Ad Justitiam Or∴di Lucca R∴L∴ Aetruria Nova Or∴di Versilia R∴L∴ Alef Or∴di Viareggio R∴L∴ Aleph Or∴di Lecce R∴L∴ Aletheia Or∴di Roma R∴L∴ Alma Mater Or∴di Arezzo R∴L∴ Anita Garibaldi Or∴di Firenze R∴L∴ A.Garibaldi/A.Giulie Or∴di Livorno R∴L∴ Antares Or∴di Firenze R∴L∴ A.Toscano Or∴di Corigliano Calabro R∴L∴ Antropos Or∴di Forlì R∴L∴ Archita Or∴di Taranto R∴L∴ Aristotele II Or∴di Bologna R∴L∴ Astrolabio Or∴di Grosseto R∴L∴ Athanor Or∴di Brescia R∴L∴ Athanor Or∴di Cosenza R∴L∴ Athanor Or∴di Pinerolo R∴L∴ Athanor Or∴di Rovigo R∴L∴ Athena Or∴di Pinerolo R∴L∴ Atlantide Or∴di Pinerolo R∴L∴ Audere Semper Or∴di Firenze R∴L∴ Augusta Or∴di Torino R∴L∴ Aurora Or∴di Genova R∴L∴ Ausonia Or∴di Siena R∴L∴ Ausonia Or∴di Torino R∴L∴ Bereshit Or∴di Sanremo R∴L∴ C. B.Conte di Cavour Or∴di Arezzo R∴L∴ C. Rosen Kreutz Or∴di Siena R∴L∴ Carlo Fajani Or∴di Ancona R∴L∴ Cartesio Or∴di Firenze R∴L∴ Cattaneo Or∴di Firenze R∴L∴ Cavour Or∴di Prato R∴L∴ Cavour Or∴di Vercelli R∴L∴ Chevaliers d’Orient Or∴di Beirut R∴L∴ Cidnea Or∴di Brescia R∴L∴ Clara Vallis Or∴di Como R∴L∴ Concordia Or∴di Asti R∴L∴ Corona Ferrea Or∴di Monza R∴L∴ Cosmo Or∴di Argentario Albinia R∴L∴ Costantino Nigra Or∴di Torino R∴L∴ D.Di Marco Or∴di Piedim.Matese R∴L∴ Dei Trecento Or∴di Treviso R∴L∴ Delta Or∴di Bologna R∴L∴ Eleuteria Or∴di Catania R∴L∴ Eleuteria Or∴di Pietra Ligure R∴L∴ Emanuele De Deo Or∴di Bari R∴L∴ Enrico Fermi Or∴di Milano R∴L∴ EOS Or∴di Bari

R∴L∴ Epidamnus Or∴di Durazzo R∴L∴ Erasmo Or∴di Torino R∴L∴ Ermete Or∴di Bologna R∴L∴ Etruria Or∴di Siena R∴L∴ Excalibur Or∴di Trieste R∴L∴ Falesia Or∴di Piombino R∴L∴ Fargnoli Or∴di Viterbo R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Torino R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Vicenza R∴L∴ Federico II Or∴di Catania R∴L∴ Federico II Or∴di Firenze R∴L∴ Federico II Or∴di Jesi R∴L∴ Fenice Or∴di Massa Marittima R∴L∴ Fenice Or∴di Spotorno R∴L∴ Ferdinando Palasciano Or∴di Roma R∴L∴ Francesco Nullo Or∴di Varsavia R∴L∴ F.Rodriguez y Baena Or∴di Milano R∴L∴ Fidelitas Or∴di Firenze R∴L∴ Filistor Or∴di San Severo R∴L∴ Fra Pantaleo Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Fratelli Cairoli Or∴di Pavia R∴L∴ Fratelli d’Italia Or∴di Piombino R∴L∴ Galahad Or∴di Roma R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Roma R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Livorno R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Parma R∴L∴ G.Biancheri Or∴di Ventimiglia R∴L∴ G.Bruno - S.La Torre Or∴di Roma R∴L∴ G.Papini Or∴di Roma R∴L∴ Garibaldi Or∴di Castiglione R∴L∴ Garibaldi Or∴di Cosenza R∴L∴ Garibaldi Or∴di Mazara del Vallo R∴L∴ Garibaldi Or∴di Toronto R∴L∴ Gaspare Spontini Or∴di Jesi R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Catanzaro R∴L∴ Gianni Cazzani Or∴di Pavia R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Bari R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Firenze R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di R.Calabria R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Follonica R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Partanna R∴L∴ Giovanni Bovio Or∴di Bari R∴L∴ Giovanni Pascoli Or∴di Forlì R∴L∴ Giovanni Risi Or∴di Firenze R∴L∴ Giustizia e Libertà Or∴di Roma R∴L∴ Goldoni Or∴di Londra R∴L∴ Graal Or∴di Livorno R∴L∴ Herdonea Or∴di Foggia R∴L∴ Heredom Or∴di Torino R∴L∴ Hiram Or∴di Bologna R∴L∴ Hiram Or∴di Sanremo

R∴L∴ Hispaniola Or∴di Santo Domingo R∴L∴ Horus Or∴di Padova R∴L∴ Horus Or∴di Pinerolo R∴L∴ Horus Or∴di R.Calabria R∴L∴ Humanitas Or∴di Pistoia R∴L∴ Humanitas Or∴di Treviso R∴L∴ Ibis Or∴di Torino R∴L∴ Il Cenacolo Or∴di Pescara R∴L∴ Il Nuovo Pensiero Or∴di Catanzaro R∴L∴ Internazionale Or∴di Sanremo R∴L∴ Iter Virtutis Or∴di Pisa R∴L∴ Jakin e Boaz Or∴di Milano R∴L∴ Kipling Or∴di Firenze R∴L∴ La Fenice Or∴di Bari R∴L∴ La Fenice Or∴di Chieti R∴L∴ La Fenice Or∴di Forlì R∴L∴ La Fenice Or∴di Livorno R∴L∴ La Fenice Or∴di Pieve a Nievole R∴L∴ La Fenice Or∴di Rovato R∴L∴ La Prealpina Or∴di Biella R∴L∴ La Silenceuse Or∴di Cuneo R∴L∴ Le Melagrane Or∴di Padova R∴L∴ Leonardo da Vinci Or∴di Taranto R∴L∴ Les 9 Soeurs Or∴di Pinerolo R∴L∴ Libertà e Progresso Or∴di Livorno R∴L∴ Liguria Or∴di Orspedaletti R∴L∴ Logos Or∴di Milano R∴L∴ Luce e Libertà Or∴di Potenza R∴L∴ Luigi Alberotanza Or∴di Bari R∴L∴ Luigi Spadini Or∴di Macerata R∴L∴ Lux Or∴di Firenze R∴L∴ Lux Solis Or∴di Cosenza R∴L∴ M’’aat Or∴di Barletta R∴L∴ Magistri Comacini Or∴di Como R∴L∴ Manfredi Or∴di Taranto R∴L∴ Melagrana Or∴di Cosenza R∴L∴ Melagrana Or∴di Torino R∴L∴ Minerva Or∴di Cosenza R∴L∴ Minerva Or∴di Torino R∴L∴ Monviso Or∴di Torino R∴L∴ Mozart Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Mozart Or∴di Genova R∴L∴ Mozart Or∴di Roma R∴L∴ Mozart Or∴di Torino R∴L∴ Navenna Or∴di Ravenna R∴L∴ Nazario Sauro Or∴di Piombino R∴L∴ Nigredo Or∴di Torino R∴L∴ Nino Bixio Or∴di Trieste R∴L∴ Oltre il Cielo Or∴di Lecco R∴L∴ Omnium Matrix Or∴di Milano R∴L∴ Orione Or∴di Torino

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